Cultura
Dal latino cultura, derivato di colere, "coltivare", il termine ha acquisito, oltre all'accezione di 'coltivazione' (rispetto alla quale però prevale in italiano la forma coltura), quella metaforica di 'cura, attenzione, coltivazione di un sapere, educazione'. Della matrice etimologica, condivisa con la parola culto, il termine cultura conserva l'idea della 'trasformazione', da intendersi tanto come perfezionamento della persona quanto come intervento sulla natura e sull'ambiente sociale. In quest'ultima accezione, per influenza del tedesco Kultur, il vocabolo designa in etnologia, in sociologia e, infine, in antropologia culturale, l'insieme dei valori, dei simboli, delle concezioni, delle credenze, dei modelli di comportamento e anche delle attività materiali che caratterizzano i modi di vita dei gruppi sociali. L'ornamento del corpo ‒ 'naturalmente' nudo ‒ è una componente sostanziale della cultura.
L'impiego del concetto di cultura riflette spesso la tendenza a ricorrere a entità macroscopiche per porre termine a un processo analitico o esplicativo: comportamenti, atteggiamenti, istituzioni, costumi sono spiegati oppure giustificati addebitandoli a una realtà alla quale si dà il nome di cultura. Questo uso del termine è senz'altro di origine antropologica, poiché è stata l'antropologia culturale a imprimergli quei significati e quelle modalità che ritroviamo attualmente sulle pagine dei giornali, nei discorsi dei politici, nelle analisi degli scienziati sociali. È ormai un luogo comune rispolverare la definizione che E.B. Tylor aveva fornito nel 1871, giacché essa si presenta come una formulazione riassuntiva (rispetto a usi precedenti) e fondativa (in rapporto alla costituzione del nuovo campo di sapere): "Cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume o qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo in quanto membro di una società" (Tylor 1871, trad. it., p. 1).
Si è detto che questa definizione è riassuntiva, in quanto non costituisce una novità assoluta. Prima di Tylor, andando a ritroso, troviamo G. Klemm, autore di una Allgemeine Kulturgeschichte der Menschheit (1843-52), in dieci volumi, e di una Allgemeine Kulturwissenschaft in due volumi (1854). Siamo verso la metà dell'Ottocento, e Klemm individua come contenuti della cultura costumi, conoscenze e capacità, vita domestica e pubblica, religione, scienza, arte. L'elenco è molto simile a quello di Tylor, ma Klemm va considerato come un anello che congiunge la concezione tyloriana (e poi quella propriamente antropologica) di cultura a riflessioni filosofiche e, soprattutto, a ricostruzioni della storia dell'umanità che caratterizzano il pensiero tedesco (o di lingua tedesca) della seconda metà del Settecento: in autori come K.F. von Irwing, J.C. Adelung, C. Meiners, D. Jenisch, e specialmente in J.G. Herder, la parola cultura non solo assume sempre più un ruolo determinante e significativo, ma si presenta con contenuti di interesse tipicamente antropologico. Il nesso semantico più significativo è in questi autori quello che unisce l'uso della nozione di cultura a 'costumi' e 'tradizioni'.
Ma una concezione di cultura abbinata a 'costumi', 'abitudini', 'usanze' è del tutto evidente anche in Voltaire, il quale nella conclusione del suo Essai sur les moeurs (1756) opponeva 'natura umana' e 'costume', in quanto la prima è dominata dall'uniformità e il secondo dalla variabilità, e definiva esplicitamente come cultura il dominio del costume: "da una parte all'altra dell'universo [...] la natura ha diffuso l'unità; così il fondo è ovunque lo stesso, mentre la cultura vi produce frutti diversi" (Voltaire 1756; ed. 1821, 5° vol., p. 370). Nella formulazione di Voltaire, la cultura non soltanto si riempie di costumi, ma, così facendo, si trascina dietro l'idea della sua insopprimibile variabilità, determinando un nesso oppositivo con la natura.
Richiamando Voltaire da una parte e Herder dall'altra si è voluto sottolineare come l'antropologia culturale (disciplina che è sorta tra Ottocento e Novecento, quindi un secolo o un secolo e mezzo dopo) non abbia inventato il concetto di cultura che porrà a suo fondamento. Tuttavia, Voltaire e Herder possono essere utilizzati più precisamente come indicatori di due modi alternativi di intendere l'antropologia, di due 'opzioni' fondamentali che, a proposito di cultura (del suo ruolo epistemologico, della sua incidenza), caratterizzano in modo costante lo sviluppo del pensiero antropologico. Da un lato, è abbastanza facile individuare in Voltaire uno dei primi esponenti (o ispiratori) di un'antropologia che oppone natura e cultura come due livelli o strati sovrapposti, interpretando la prima come lo strato sottostante e l'appoggio inalterabile e solido della seconda. Per questa prospettiva, l'antropologia ha sì da addentrarsi nei costumi, ma lo scopo ultimo e decisivo consiste nel superare lo strato superficiale e appariscente dei costumi (i quali segnano le differenze tra i popoli e le nazioni) per cogliere infine i principi unitari o le strutture e i meccanismi fondamentali della natura umana. Dall'altro lato, Herder si presta invece molto bene a delineare una prospettiva antropologica che si focalizza quasi esclusivamente sulla cultura, in quanto questa, lungi dall'essere uno strato che si deposita sulla natura umana, vi si sostituisce, ne fa le veci. Secondo Herder, teorizzatore dell'uomo come animale biologicamente incompleto, incapace di garantirsi un'adeguata sopravvivenza se abbandonato alle risorse del suo organismo e dei suoi istinti, la cultura sopperisce alle manchevolezze, alle lacune e al vuoto che contraddistinguono la natura umana.
Sotto questo profilo la cultura non si oppone alla natura; al contrario vi si infiltra, facendo sì che l'uomo, animale incompleto, raggiunga il suo completamento e la sua realizzazione soltanto attraverso la cultura. Se è tipico di un'antropologia alla Voltaire abbandonare, prima o poi, il concetto di cultura (dopo comunque averne colto e indagato la variabilità), è altrettanto tipico di un'antropologia alla Herder insistere invece sul concetto di cultura, giacché al di là dei suoi confini si trova non già un terreno solido ma soltanto una natura incompleta. Tutto il senso dell'alternativa si gioca in fondo sul conferimento o meno di uno statuto di autonomia e di pienezza alla natura umana: là dove essa è considerata autonoma, la cultura si configura non come l'obiettivo finale, ma come un territorio da attraversare, una fase temporanea e in qualche modo strumentale, in vista della delineazione delle strutture naturali, che accomunano tutti gli uomini; là dove invece essa è ritenuta carente, obiettivo finale dell'antropologia rimane la stessa cultura, la quale definisce l'orizzonte ultimo dell'antropologia obbligandola a soffermarsi presso le differenze che la cultura produce. Nel primo caso, l'antropologia è un sapere che da ultimo concerne ciò che accomuna gli esseri umani, al di là delle loro differenze culturali; nel secondo caso, l'antropologia si configura invece come un sapere che esamina e approfondisce le particolarità culturali, ovvero ciò che rende gli uomini diversi. A prezzo di forti (e indubbiamente eccessive) semplificazioni possiamo individuare come esponenti prestigiosi e autorevoli di queste due prospettive nell'antropologia contemporanea, da un lato, C. Lévi-Strauss e, dall'altro, C. Geertz. A ciò possiamo pure aggiungere che queste due prospettive si presentano spesso, nel corso del pensiero antropologico, non solo come un'alternativa sempre attuale, ma anche come fasi in successione, nel senso che a periodi in cui prevale la ricerca di leggi generali o di universali culturali (o extraculturali), prendendo a modello di solito le scienze naturali e nomotetiche, fanno seguito periodi in cui invece si preferisce un atteggiamento più descrittivo e ricostruttivo delle particolarità culturali, ritenendo che il modello per l'antropologia debbano essere piuttosto le scienze storiche e idiografiche. A quanto è dato vedere dalla storia dell'antropologia, non si tratta di successione lineare e irreversibile, quanto piuttosto di oscillazione tra i due poli: una difficile e quasi sempre irrisolta pendolarità tra due tipi di esigenze difficilmente conciliabili, quali sono espresse dalle opposizioni universale/particolare, attraversamento teorico/priorità dei significati indigeni.
Sia che rappresenti lo strato che deve essere attraversato e infine trasceso per cogliere principi universali sia che rappresenti l'orizzonte costante e insuperabile entro il quale il sapere antropologico deve rimanere, in ogni caso la cultura per gli antropologi è strettamente connotata dalla particolarità e dalla variabilità. Vi è un concetto in antropologia che tenta la conciliazione tra cultura e universalità: si tratta degli 'universali culturali', cioè elementi (istituzioni, principi, forme, regole) che, pur non essendo di natura biologica, sono reperibili in ogni cultura. Così, per es., considerando problematiche tipiche dell'antropologia della prima metà del Novecento, la famiglia nucleare per un verso e la comunità per l'altro costituiscono per G.P. Murdock veri e propri universali culturali, in quanto si ritrovano in qualsiasi società umana, nonostante le forme ulteriori che in essa la famiglia e l'organizzazione sociale possono assumere. Un altro esempio di universale culturale è dato dalla proibizione dell'incesto, ovvero una norma (fatto di per sé eminentemente culturale) che - secondo quanto sostengono sia Lévi-Strauss sia Murdock - è posta alla base di ogni tipo di struttura familiare e sociale. Spesso i cosiddetti universali culturali si riducono ad aspetti formali, a un numero limitato di tratti, elementi o condizioni, e altrettanto spesso gli antropologi interessati a essi procedono a una loro reificazione, così da farne oggetti autonomi. Un esempio è rappresentato dal concetto di parentela, a lungo utilizzato in antropologia come se designasse un dominio o un settore universale della cultura, dotato di principi e caratteristiche ricorrenti, di criteri di organizzazione di per sé indipendenti dalle culture specifiche che di volta in volta li adottano e li applicano. Le critiche che negli ultimi decenni del 20° secolo si sono concentrate su questo concetto (E.R. Leach, R. Needham, D.M. Schneider ecc.) hanno posto in luce il carattere fittizio dei cosiddetti universali culturali e l'esigenza di cogliere piuttosto, al di là di forme e strutture, i significati culturali.
La discussione sugli universali culturali nell'antropologia della prima metà del Novecento e la pressoché totale scomparsa di questo tipo di problematica in quella attuale sono segni assai evidenti della difficoltà di coniugare cultura e universalità in una prospettiva antropologica. Proprio la plausibilità di questa connessione pare essere la discriminante tra il concetto antropologico di cultura e il concetto tradizionale, classico, qual è stato adottato e utilizzato dalla filosofia moderna. Se per l'antropologia cultura significa quasi inevitabilmente un insieme di processi e prodotti particolari, locali, per il pensiero filosofico, che dal 16°-17° secolo in avanti ha segnato la civiltà occidentale, la cultura si è configurata come un esercizio il cui obiettivo ultimo risulta essere il conseguimento dell'universalità. Nel De dignitate et augmentis scientiarum (1623), Francis Bacon elabora una doctrina de cultura animi, una 'georgica dell'anima', concepita come condizione imprescindibile per l'instaurazione di un sapere che, liberatosi dalle pastoie delle idee tradizionali trasmesse soprattutto dalla lingua comune, sia in grado di rispecchiare direttamente le forme e i meccanismi della natura. In modo simile, Cartesio delinea nel Discours de la méthode (1637) un percorso di uscita dai costumi, di liberazione dai condizionamenti sociali e storici (tradizionali) del pensiero, così da raggiungere una condizione intellettuale di purezza e di solidità, ovvero un pensiero che funzioni soltanto ispirato dalla ragione naturale: 'coltivare la mia ragione' significa in primo luogo la liberazione della ragione dai costumi, così che i suoi giudizi, fondati soltanto su criteri di ordine naturale, possano valere in modo universale. Anche per Kant la cultura della ragione persegue un obiettivo di universalità: si tratta infatti, come è chiarito nella Kritik der reinen Vernunft (1781), di garantire l'ordine e il benessere della comunità dei dotti, il progresso universale della repubblica delle scienze. La filosofia si propone soprattutto di dar luogo a questa 'georgica dell'anima', a questa 'coltivazione' o trasformazione, la cui finalità consiste nel produrre una forma di umanità razionale, liberata dai costumi e dai condizionamenti locali. "Cultura animi philosophia est" affermava Cicerone nel 1° secolo a.C. (Tusculanae disputationes 2, 5, 13), intendendo affermare che soltanto l'esercizio culturale della filosofia è in grado di far sì che "gli spiriti coltivati producano un raccolto".
Un po' come dire che la cultura della filosofia è qualcosa di più degli 'animi coltivati' (animi culti) in quanto tali. Infatti, vi è differenza tra gli animi coltivati, che come i 'campi coltivati' di per sé non generano frutti, e gli animi coltivati che invece sono produttivi: tra gli uni e gli altri interviene la filosofia, una sorta di supercultura (una cultura al quadrato), una condizione aggiuntiva e indispensabile per portare a compimento pieno la coltivazione dell'animo. Nelle prospettive dell'antropologia e della filosofia, la cultura è, quindi, qualcosa di assai diverso. A cominciare dalla tradizione classica la cultura si configura per la filosofia come una trasformazione dell''animo' individuale, tale da sottrarlo ai condizionamenti del contesto locale in cui contingentemente è destinato a vivere e immetterlo, invece, in una società più ampia e universale: la comunità dei dotti che attraversa tempi e paesi. Rispetto alla filosofia e alla sua aspirazione all'universalità, l'antropologia riconduce invece la cultura ai contesti locali: la nozione alta, verticale, superspecializzata e universalizzante è sostituita con una nozione bassa, orizzontale, onnicomprensiva e nello stesso tempo particolaristica. Ciò avviene quando il sogno filosofico della comunità dei dotti, così come l'idea di una repubblica delle scienze e delle lettere governata dalla filosofia, fondata sull'ordine e sul progresso, si infrangono contro il disordine, la molteplicità, il conflitto.
Per quanto diverse siano le concezioni di cultura da parte della filosofia (classica e moderna) e dell'antropologia, un aspetto almeno hanno in comune, ossia la componente trasformativa. Comunque venga concepita, la cultura implica infatti un intervento più o meno efficace, apportato su una realtà che è in qualche modo preesistente.
Per la cultura proposta dalla filosofia queste realtà sono, come già detto, gli animi culti che debbono subire un raffinamento e un perfezionamento, mentre per la cultura concepita dall'antropologia tali realtà sono, da un lato, gli esseri umani nella loro duplice dimensione fisica e psicologica e, dall'altro, il loro ambiente, anch'esso inteso in una duplice dimensione fisica e sociale. Questa componente della trasformazione o dell'intervento è del resto molto ben espressa dalla matrice etimologica da cui prendono spunto entrambe le concezioni di cultura qui esposte. 'Cultura' deriva infatti dal latino colere, e tutti i significati che questo verbo comporta traducono un'idea trasformativa. Colere è infatti "abitare" (un luogo, un territorio), "coltivare" (un campo), "ornare" (un corpo), "venerare" (una divinità), "esercitare" (una facoltà). Nella sua componente semantica fondamentale colere è l'azione degli esseri umani che intervengono su un territorio e lo modificano (lo disboscano, per es.) per poterlo abitare e coltivare, per insediarvi abitazioni, piante coltivate, animali domestici: segni tipici dell'intervento sulla natura e della sua domesticazione da parte dell'uomo.
L'idea dell'intervento modificatore e trasformatore non è però esclusiva del latino colere e delle sue derivazioni qui considerate (il concetto antropologico di cultura). Nel pensiero degli yoruba della Nigeria è possibile riscontrare, per es., un concetto assai simile a quello nostro di cultura: il termine ilàjù, che può essere reso globalmente come 'cultura' o 'civiltà', significa infatti in primo luogo 'volto segnato da linee'. Queste linee sono ferite, scarificazioni, cicatrici incise sul volto e sul corpo per 'segnare' l'appartenenza di un individuo al suo lignaggio, per determinarne lo status e così via.
Tuttavia, ilàjù rinvia anche al territorio e ai segni che gli uomini vi incidono al fine di trasformarlo e renderlo abitabile: luoghi disboscati, insediamenti, coltivazioni, sentieri, confini, linee dunque che - come quelle sul corpo - significano che lì è intervenuta la cultura, la cultura yoruba (ilàjù), con la sua capacità di trasformazione.
Non si tratta però soltanto di interventi su luoghi e su corpi; anche gli oggetti prodotti dagli uomini per i loro usi quotidiani recano spesso i segni di una cultura specifica. Gli oggetti hanno forme e funzioni, le quali contribuiscono a definirli come prodotti culturali (una punta di selce scheggiata non è una semplice pietra, una freccia non consiste soltanto in un pezzo di legno). Spesso, poi, gli oggetti recano anche segni aggiuntivi, i quali denotano una volontà di intervento, un'intenzionalità di significazione. I nande del Congo, coltivatori della regione del Kivu, da secoli impegnati nella distruzione della foresta per acquisire campi e impiantare villaggi e bananeti, non hanno mai sviluppato (per loro stessa ammissione) un'arte figurativa particolarmente significativa: gli stessi nande rinviano ad altre etnie (per es. i lega) coloro che fossero interessati a produzioni artistiche. In effetti, i vasi di terracotta prodotti dalle donne nande non colpiscono per un particolare gusto artistico o una spiccata ricercatezza estetica. Eppure, vi è un principio culturale riguardo alla loro fabbricazione e al loro uso che risulta particolarmente importante dal nostro punto di vista: i vasi di terracotta non sono considerati finiti (e quindi non possono essere usati, scambiati, posti in commercio) fino a quando sulla loro superficie non siano incisi segni particolari, molto simili e spesso identici ai segni che con la tecnica delle scarificazioni sono prodotti sui volti e sui corpi delle persone. Anche per i nande, contadini utilitaristi, occorre attendere il sigillo finale della cultura, affinché quegli oggetti, già di per sé culturali, possano circolare. Sotto questo profilo non è tanto importante chiedersi che cosa rappresentino i singoli segni: è infatti probabile che il loro significato più pregnante consista nel fatto stesso del segno, ovvero la 'segnificazione'. Segni su vasi, segni su oggetti (di osso, di legno, di pietra, di metallo), segni su corpi, segni su luoghi: ovunque e in qualsiasi epoca le culture umane manifestano questa propensione alla segnificazione. Verso il 35.000 a.C., nel Paleolitico europeo (intorno alla fine del Musteriano e nel periodo di Chatelperron) si infittiscono le tracce del primo grafismo umano. Significativamente - fa notare A. Leroi-Gourhan - queste tracce, consistenti in piccole incisioni, file di cupole o serie di tratti scalfiti nell'osso o nella pietra, "compaiono contemporaneamente ai coloranti (ocra e manganese) e agli oggetti ornamentali" (Leroi-Gourhan 1964, trad. it., 1° vol., p. 222).
Colere - si è detto - è anche ornare il corpo, curare, abbellire. Il coemergere di ornamenti, di coloranti e di incisioni fa riflettere sulla natura segnica (o 'segnificante') ed estetica della cultura. "In questi modestissimi documenti" del Paleolitico europeo (le incisioni di tacche su pietre e su ossi) "non si riesce più a decifrare alcun significato preciso" (ibidem). Ma neppure nei grafismi nande, che ancora oggi le donne incidono sui vasi affinché questi possano essere utilizzati, è possibile rintracciare un 'significato preciso'. La domanda forse allora non è che cosa ogni segno singolarmente significhi, quanto piuttosto se essi intendano significare la segnificazione, ovvero raffigurare - in modo modesto, umile, concreto, spesso indelebile - l''incisione' in quanto segno, simbolo, gesto elementare e costitutivo della cultura. Si è spesso portati ad abbinare le origini e l'essenza della cultura umana al linguaggio, spostando decisamente l'invenzione della scrittura a epoche molto più recenti. Le ricerche di Leroi-Gourhan sui grafismi preistorici, come quelle di M. Griaule e G. Dieterlen sui segni grafici dell'Africa occidentale, hanno invece indotto G.R. Cardona a proporre una concezione di scrittura (intesa come produzione sistematica di segni) quale "attività universale e continua" (Cardona 1990, p. 193), attraverso cui la cultura prende forma e si esprime. Come già Tylor nel 1871 per quanto riguarda la cultura, anche Cardona ha fatto subire alla scrittura una forte dilatazione etnografica. La scrittura, come la cultura, deve essere intesa nel suo più ampio senso etnografico: facendo in tal modo, la scrittura viene avvicinata alla cultura in senso antropologico, della quale, insieme alla lingua (e tuttavia in modo distinto, parallelo e, infine, complementare), rappresenta una dimensione imprescindibile. Ogni cultura in qualche modo scrive, produce e incide segni; in ogni cultura esiste una dimensione grafica. Non solo, ma ogni cultura con i suoi segni di per sé così poco significanti vuole molto probabilmente rappresentare la segnificazione come suo fatto o processo costitutivo.
Nel paragrafo precedente si è attribuita una sorta di consapevolezza e di intenzionalità alle culture (anche a quelle definite preistoriche e preletterate) per quanto concerne la loro funzione 'segnificante'. In un certo senso, questo equivale a riconoscere nelle varie culture un livello per così dire metaculturale, ad attribuire loro una capacità di riflessione sulla sostanza della cultura. Un po' come dire che fa parte di ogni cultura una teoria (o una concezione) della cultura. Queste teorie sono culturali in un duplice senso: sono teorie sulla cultura e teorie elaborate da culture. In esse spesso emerge con evidenza la dimensione ornamentale, riconosciuta come fondamentale e decisiva, più ancora del linguaggio. "Per i nuba del Sudan solo la capacità di decorarsi è il proprium specificamente umano, mentre nemmeno il linguaggio lo è (un tempo anche le scimmie lo possedevano); per i bafia del Camerun un uomo senza scarificazioni non è diverso dai maiali o dagli scimpanzé [...]" (Cardona 1981, p. 197). Cardona cita Lévi-Strauss a proposito dei caduveo del Sud del Brasile, i quali si ornano il viso con pitture facciali molto elaborate: "Nel pensiero indigeno [...] la decorazione è il volto, o piuttosto lo crea. Solo essa gli conferisce il suo essere sociale, la sua dignità umana, il suo significato spirituale" (Lévi-Strauss 1958, trad. it., p. 289). In effetti, la decorazione presso i caduveo esprime un pensiero che attiene direttamente all'incidenza della cultura e all'acquisizione di un'umanità che è ritenuta piena e autentica. Per nuba, bafia e caduveo - come peraltro per moltissime altre società - i segni che decorano e ornano il corpo stabiliscono una differenza incontrovertibile: un corpo che è privo di segni, un corpo su cui la cultura non è (o non è ancora) intervenuta con la sua capacità di segnificazione, è quello di un individuo biologico 'stupido' (come direbbero i caduveo); è simile a quello di altri animali, maiali o scimpanzé (come, invece, direbbero i bafia). Sono i segni, in particolare i segni sui corpi, i fattori che decidono, provocano oppure indicano l'appartenenza all'umanità. Secondo i caduveo "bisognava dipingersi per essere uomini; colui che restava allo stato naturale non si distingueva dal bruto" (p. 179).
Adornare un corpo - si è visto - è uno dei significati principali del latino colere, ed è interessante rilevare come questo elemento decorativo sia presente non soltanto nelle diramazioni semantiche della nozione latina di cultura, ma anche nelle concezioni indigene di moltissime società. Rispetto al corpo 'naturalmente' nudo degli esseri umani, la cultura (ogni cultura) si affretta a intervenire per ornarlo. L'ornamento - per quanto superficiale, effimero e superfluo possa sembrare - si propone come una componente sostanziale della cultura. In una teoria antropologica della cultura (come già in Nietzsche), l'apparenza è sostanza culturale.
Può essere significativo considerare, sotto questo profilo, la famiglia di termini che, in un modo o nell'altro, sono connessi a cultura e che quest'ultima ha in buona parte sostituito e inglobato nell'impiego scientifico. Se riprendiamo la definizione tyloriana, è facile osservare come 'costumi' e 'abitudini' appresi socialmente costituiscano i contenuti più forti e pregnanti del concetto di cultura: la cultura - per Tylor e per gli antropologi successivi - è fatta sostanzialmente di costumi, di abiti, di abitudini. Quando diciamo costumi, alludiamo il più delle volte a modi o fogge del comportamento che, essendo ricevuti dalla tradizione, tendono a essere ripetuti o imitati e, proprio per questo, godono di diffusione, consenso, riconoscibilità. Il termine è però ambiguo, perché 'costume' appartiene tanto alla sfera dell'abbigliamento, quanto alla sfera più generale del comportamento: i costumi sono 'abiti' sia in senso fisico, sia in senso morale (v. costume). Del resto, questa insistita (e perciò significativa) ambiguità semantica (tra abbigliamento e comportamento, tra corpo e animo) emerge a proposito anche di altre nozioni, le quali contribuiscono ad articolare il concetto di cultura. I costumi e gli abiti del corpo rinviano infatti alla 'moda', così come i costumi e gli abiti dell'animo o dello spirito rinviano ai 'modelli' di comportamento. Anche la mentalità, quale si esprime nel comportamento o, più fenomenologicamente, nelle azioni che lo compongono non è lasciata nella sua nuda naturalità: è, al contrario, rivestita, coperta, foggiata, modellata. Fa parte della cultura, come uno dei suoi prodotti primari, sviluppare un senso del decoro, dell'etichetta nonché del pudore. Gli uomini non si adornano o coprono il loro corpo come risposta a un originario e innato senso del pudore; al contrario, manifestano un senso del pudore, della decenza e della bellezza, in quanto effetto oppure dimensione intrinseca dei loro costumi, della loro cultura, sia del corpo sia della mente.
Adornare il corpo si traduce spesso in modalità di copertura totale o parziale. Più dei disegni sulla sua pelle, sono ovviamente gli abiti che sembrano voler celare il corpo o alcune sue parti.
Ma, ancor più degli abiti, sono le maschere che spesso accentuano questa funzione di nascondimento. Secondo R. Caillois (1958), la maschera è praticamente un universale culturale: accessorio enigmatico e privo di un'utilità evidente e immediata, essa risulta assai più diffusa di utensili come la leva, l'arco, l'aratro. La cultura nella sua quotidianità non copre in modo così perentorio: la maschera è riservata a occasioni speciali, giocose oppure drammatiche, di messa in discussione o sovvertimento temporaneo della cultura, del suo ordine 'naturale', delle sue gerarchie sociali. Esempi significativi possono essere rappresentati dai riti di carnevale nell'area europea come pure dai riti di iniziazione in moltissime società. Sono momenti in cui la 'crisi' della cultura e degli individui non consente di continuare a esibire - come se niente fosse - lo stesso volto di tutti i giorni, l'identità quotidiana che viene costruita mediante l'acquisizione di status e l'esercizio di ruoli ufficialmente riconosciuti nella società. Il volto è coperto, l'identità è nascosta, velata, quasi azzerata, allorché viene meno la rete di relazioni sociali in cui l'identità si forma normalmente. Forse, sarebbe più esatto dire che, attraverso la raffigurazione della maschera, è come se l'identità fosse bloccata in riferimento a un tipo, standardizzata, stereotipata. In diverse occasioni (specialmente nei momenti di 'passaggio'), le maschere si configurano anche come la 'presentificazione' degli antenati: la fonte primaria dell'identità; e ciò è tanto più significativo, se si considera che i momenti di transizione comportano una crisi dell'identità individuale e collettiva. Le maschere si mettono e si tolgono. Il loro valore culturale va individuato non soltanto in ciò che esse raffigurano, né soltanto nel fatto che coprono, nascondono l'identità individuale, ma anche in questa loro capacità di essere indossate e dismesse. Sotto questo profilo, le maschere esaltano una caratteristica già emersa nell'analisi dei costumi, ossia la loro sostituibilità.
Se le pitture corporali si adeguano e aderiscono alla forma del corpo e del viso, le maschere appaiono come una 'finzione' più pronunciata che si aggiunge e si toglie dal volto. Esse sono qualcosa di ancor più artificioso e costruito, il cui significato deve essere colto anche nel momento in cui si tolgono. Alcuni temi generali si intrecciano allora a proposito delle maschere: a) il loro carattere marcatamente 'finzionale' le colloca sopra e fuori del corpo, in uno spazio sociale, là dove si costruisce propriamente l'identità personale (come è noto, il termine latino persona significa "maschera"); b) questa loro esteriorità non è soltanto la traduzione o il fondamento della socialità della persona, ma si combina anche con il carattere effimero e precario della finzione; c) la finzionalità e la precarietà convergono poi verso l'idea della cultura come teatralità, della vita sociale come messa in scena in cui gli individui recitano normalmente diverse parti (a seconda dei ruoli che via via assumono); d) l'uso delle maschere (fatto sempre eccezionale e critico) può perciò essere interpretato come una riflessione, una dimostrazione, una teorizzazione della teatralità ‒ una sorta di messa in scena della messa in scena ‒, come l'espressione (ancora una volta) di una sorta di metacultura, il cui oggetto è la cultura nella sua radicale precarietà.
Abiti, costumi e maschere sono manifestazioni culturali che, rispetto al corpo, si configurano come un aggiungere e un coprire: ciò che vi si aggiunge rimane esterno e può essere tolto. Anche le pitture corporali dei caduveo, eseguite dalle donne con una spatola imbevuta in succhi di frutta e di foglie selvatiche, sono effimere: dopo pochi giorni "devono essere rinnovate" e le donne, anziché riprodurre stancamente lo stesso disegno, "improvvisano", sia pure "nei limiti di una tematica tradizionale e complessa" (Lévi-Strauss 1958, trad. it., pp. 281-82).
Ma i segni che una cultura imprime sul corpo non appartengono tutti alle categorie dell'effimero, dell'amovibilità, della sostituibilità: vi sono segni che la cultura incide sul corpo in modo assai meno precario. Per far sì che i segni sul corpo acquisiscano il carattere della durata e della permanenza, la cultura deve superare la barriera del derma: non limitarsi a stendere strati di colore sopra la pelle, ma penetrarvi incidendo; non limitarsi a posarsi fuori, sulla superficie dell'organismo, ma infiltrarsi dentro. Il tatuaggio - un tempo praticato dagli stessi caduveo - è la tecnica che consente di produrre segni e disegni sul corpo in maniera indelebile. Vi sono due tipi di tatuaggio: a puntura, nel caso in cui uno strumento appuntito fa penetrare una certa quantità di tintura colorata sotto la pelle, così da formare disegni anche molto raffinati; a cicatrici (scarificazioni), prodotte incidendo la pelle in maggiore profondità e inserendovi sostanze che ritardino la cicatrizzazione per ottenere disegni in rilievo (Cerulli 1977, pp. 122-23). Se la tecnica a puntura risulta diffusa soprattutto tra popolazioni dalla pelle più chiara (è riscontrabile in effetti nelle nostre società, oltre che in Polinesia, tra i maori ecc.), la tecnica a cicatrice è tipica invece delle popolazioni dalla pelle più scura (come in Africa e in Melanesia).
Le forme di tatuaggio fanno in un certo senso da ponte tra i segni deposti o sovraimposti alla pelle (come, per es., decorazioni pittoriche, ornamenti, acconciature, abiti ecc.) e i segni che invece implicano un intervento più sostanziale attraverso l'adozione di tecniche molto variegate di modificazione o procedure di alterazione permanente del corpo umano (v. anche decorazione). Sono impressionanti, sotto questo profilo, la diffusione generalizzata di tali tecniche, così come la loro varietà, e l'ingegnosità e la fantasia che gli uomini mettono nella loro invenzione. In tutti i continenti e in tutti i tempi, la cultura è sempre intervenuta in modo incisivo sul corpo umano, quasi che fosse impossibile lasciare che il corpo si sviluppasse e prendesse forma a suo modo, secondo principi e leggi meramente naturali. Ovunque la cultura ha fornito e imposto al corpo modelli e forme, che sono nello stesso tempo criteri di bellezza e di 'umanità'. In molti casi queste forme sono non semplicemente sovrapposte, ma incise e scolpite sul corpo. Considerando le varie tecniche di intervento e di modificazione del corpo, A. van Gennep sosteneva che "il corpo umano è stato trattato come un semplice pezzo di legno che ciascuno [ogni gruppo sociale] dispone e sistema a suo modo" (van Gennep 1909, trad. it., p. 63).
In diverse società della costa americana del Pacifico, così come in Oceania, nell'Egitto dell'epoca faraonica o nell'Africa più recente (per es., i mangbetu del Congo), si procede a una deformazione del cranio infantile mediante legature e tavolette.
Nelle civiltà del Messico e delle Ande, tra le tribù dell'Amazzonia, tra i melanesiani, si constata la perforazione del setto nasale così da inserirvi oggetti di ornamento. Presso gli eschimesi e in certe tribù dell'Amazzonia, oltre che tra varie etnie dell'Africa orientale, si assiste invece all'uso di piattelli labiali che distendono progressivamente le labbra, in certi casi fino a raggiungere 24 cm di diametro. "Avulsione, affilatura e limatura a punta" di denti "hanno diffusione praticamente universale" (Cerulli 1977, pp. 124-25). Perforazione del lobo e inserimento di oggetti che fanno pendere questa parte dell'orecchio fino alle spalle sono attestati in molte regioni del mondo e in epoche diverse (dai masai del Kenya alle tribù della Nuova Guinea, alle civiltà precolombiane).
Quasi sempre queste procedure procurano danni e dolore: per quanto riguarda piattelli labiali e rocchetti auricolari, "non sono rari i casi di rottura dei tessuti portanti" (Cerulli 1977, p. 125). La dimensione del dolore volutamente procurato o programmaticamente previsto deve essere tenuta presente, soprattutto quando si prendono in considerazione le mutilazioni dei genitali sia femminili sia maschili (v. circoncisione). Dall'Africa orientale al Mali, così come in alcuni gruppi dell'Amazzonia, le giovani vengono sottoposte all'escissione del clitoride; in Etiopia e nelle regioni del Medio Nilo si procede anche all'infibulazione (asportazione della faccia interna delle grandi labbra e loro cucitura, lasciando un piccolo orifizio per l'urina): ciò comporta che in vista del matrimonio si dovrà operare un'incisione per riaprire la vulva. La mutilazione sessuale più diffusa riguarda i maschi ed è la circoncisione, ossia l'asportazione totale o parziale del prepuzio. In Australia si riscontra la subincisione (spesso in aggiunta alla circoncisione, all'avulsione di un dente ecc.), pratica consistente nell'incisione del membro virile con un taglio longitudinale dal meato urinario allo scroto.
Questa carrellata di tagli e perforazioni, che mutilano in modo irreparabile il corpo umano, ha lo scopo di sottolineare come ovunque la cultura intervenga sul corpo umano per imporgli una forma. Difficilmente una cultura si limita a far 'indossare' al corpo i suoi segni; spesso li incide in maniera indelebile. Il problema è allora quello del significato di queste operazioni chirurgico-estetiche, almeno in termini generali, essendo un aspetto tutt'altro che trascurabile il dolore che esse comportano. Il dolore sembra essere direttamente proporzionale all'importanza dei segni e al loro contenuto culturale. In Australia, allorché diverse tribù furono indotte dagli europei ad abbandonare la subincisione perché troppo dolorosa, gli anziani disapprovarono questa rilassatezza dei costumi "ricordando ciò che essi stessi dovettero soffrire" e lamentando il fatto che in questo modo i 'segreti' della loro cultura fossero stati trasmessi "troppo a buon mercato" (Elkin 1938, trad. it., p. 168). In generale, si potrebbe affermare che vi sono due dimensioni di significato che i segni incisi sul corpo paiono implicare: a) la costruzione, o per meglio dire la scultura corporea di una 'forma', la quale istituisce visibilmente una qualche differenza (per es., la differenza tra maschi e femmine ribadita o reinventata dalle mutilazioni sessuali; oppure l'appartenenza a clan diversi segnata da scarificazioni; o ancora la distinzione di rango degli aristocratici nell'impero incaico rispetto al popolo, dimostrata dalle loro orecchie allungate); b) il rinvio da parte dei segni corporei (e delle operazioni mediante cui sono prodotti) a un 'contenuto' culturale che si trova al di là dei segni stessi (i 'segreti' di una cultura) e rispetto al quale essi rappresentano condizioni di accesso. La dimensione della forma è caratterizzata dalla visibilità, mentre quella del contenuto ha spesso la caratteristica dell'occulto, dell'invisibilità. Le incisioni dei segni corporali evocano, dunque, una dimensione che non si riduce alla fenomenicità del corpo e in genere alla sua visibilità: il corpo è coinvolto (manipolato, segnato), e tuttavia i segni così visibilmente incisi rammentano contenuti radicalmente invisibili.
Tra gli ndembu dello Zambia i ragazzi si sottopongono alla circoncisione e a un complesso rituale di iniziazione per accedere allo status di veri uomini. Come ha spiegato V.W. Turner, quando nei villaggi di un vicinato cominciano a esserci troppi ragazzi che "non sono stati tagliati e circoncisi", che "'ciondolano' nelle cucine delle donne", si crea una "situazione di disagio" e gli adulti pensano che sarebbe ora di organizzare un mukanda, "rituale difficile e pericoloso", che coinvolge quasi tutti gli abitanti del vicinato per diversi mesi, al termine del quale i ragazzi risultano "purificati e resi 'uomini'" (Turner 1967, trad. it., pp. 315-16). Il 'tagliare' del mukanda è ciò che produce l'essere uomini. La circoncisione del prepuzio, e in particolare l'operazione mediante cui il glande viene scoperto, è detta kusolola, "rendere visibile", e musoli è una medicina che nel rituale del mukanda ha la funzione di "rivelare ciò che è nascosto" (pp. 190, 232). Come tra gli aborigeni australiani, anche tra gli ndembu, il 'tagliare' il prepuzio non è una mera operazione chirurgica: essa segna un confine netto tra una condizione precedente di infanzia e di impurità e una condizione in cui la purezza e la chiarezza sono rese possibili dal contatto con gli aspetti ritenuti misteriosi e tenuti segreti dalla propria cultura. Ai giovani ndembu sono mostrati maschere, costumi, statuette: oggetti che sollecitano la riflessione degli iniziandi. Questa componente della riflessione pare essere fondamentale nella situazione di 'liminarità' in cui i giovani sono temporaneamente collocati: essi sono indotti ad abbandonare il loro "abituale e precedente modo di pensare" e nello stesso tempo sono "incoraggiati a meditare sulla loro società" (Turner 1967, trad. it., p. 137), e dunque anche sul tipo di umanità che il rituale della circoncisione farà loro assumere. Si tratta - secondo Turner - di una "fase di riflessione", in cui idee, sentimenti e valori, tipici della propria società, sono "scomposti" e poi rimontati nelle loro configurazioni tradizionali. La liminarità, intesa come esperienza di allontanamento, di isolamento, di sofferenza fisica e psichica, "spezza, per così dire, la crosta del costume e dà via libera alla speculazione" (p. 138). Queste considerazioni di Turner sui rituali di iniziazione gettano una nuova luce sulle connessioni tra cultura, corpo e modello di umanità. Gli ndembu ritengono che gli individui inghiottano i costumi tribali, così come il neonato succhia il latte materno. Essi paragonano esplicitamente l'assimilazione della cultura (della loro cultura, muchidi, che significa "costume", "categoria", "tipo", "specie", "tribù") all'alimentazione infantile. La cultura è assimilata (bevuta, mangiata, introiettata) fin dalla nascita.
Anche Montaigne, nella seconda metà del Cinquecento, riteneva il processo di inculturazione identico a quello dell'alimentazione: costumi, usi, principi della nostra società li 'succhiamo col latte' fin dalla nascita. Ma, se questa è l'opinione degli ndembu, oltre che di Montaigne, perché la sofferenza del mukanda, il dolore dell'incisione sul corpo, della mutilazione sessuale, perché l'esperienza traumatica della liminarità? Se, continuando ad abitare in una cultura, a vivere in una società, si finisce per fare proprio - con un'assimilazione lenta, sicura e inesorabile - il suo modello di umanità, perché interrompere bruscamente questo processo, rischiando di porne in forse il risultato?
Ciò che occorre rivedere è il significato generale delle incisioni culturali sul corpo. La tesi più largamente accolta (e già prima esposta) è che, quanto più la cultura incide i corpi, quanto più in profondità vi si addentra, tanto più essa cerca di imprimere i suoi segni, il suo marchio di fabbrica. Spesso dei rituali di iniziazione, che coinvolgono sia il corpo sia la mente, ci si fa l'idea che siano laboratori o fabbriche da cui verrebbero sfornati prodotti o tipi umani tutti uguali. R. Firth evoca, in effetti, l'immagine di comunità all'interno delle quali i giovani sarebbero davvero modellati come in una fabbrica: simili a una materia prima allorché esce da una fornace, i giovani "sono percossi, tagliati, fatti roteare, torti, riscaldati per farne un attrezzo adatto all'uso sociale". Tuttavia, la società - avverte Firth (1936, trad. it., p. 220) - "non è una catena di montaggio".
Obnubilati forse da una strana e inconscia proiezione di caratteristiche del nostro sistema industriale in un mondo che gli è del tutto estraneo, è possibile che abbiamo frainteso l'obiettivo primario dei rituali di iniziazione (con i loro marchi incisi sui corpi), il quale sarebbe non già di sfornare prodotti tutti perfettamente uguali e stupidamente identici (gli oggetti del sistema industriale), bensì di ottenere - attraverso l'esperienza del dolore - individui che siano in grado di riflettere e di raggiungere un grado soddisfacente di consapevolezza circa il modello di umanità che finiranno per assumere. Certo, non si tratta di una crisi irreparabile, di un allontanamento definitivo dell'individuo rispetto alla società: si tratta invece di un'assunzione meno naturale (più nettamente e consapevolmente culturale) di principi, valori, categorie, punti di vista. Del resto, non è forse significativo che la 'stupidità' sia attribuita a chi non è stato sottoposto (o non abbia voluto sottoporsi) al rischio della liminarità e all'incisione dolorosa del corpo e della mente? La liminarità - afferma Turner - è la fonte delle possibilità, è anzi "il campo della possibilità pura, dal quale possono sorgere configurazioni nuove di idee e di rapporti"; ed egli non esclude affatto che "le iniziazioni primitive" non "si limitassero a conservare la tradizione", bensì generassero anche "pensiero nuovo e costumi nuovi" (Turner 1967, trad. it., p. 127).
Il nesso cultura-corpo, proprio quando la prima risulta essere più incisiva sul secondo, potrebbe dunque apparire non più soltanto come una pressione ottusa, un soverchiamento, una repressione o una manipolazione compiuti in una prospettiva di ripetizione e di mera identità. Soprattutto quando il corpo è così profondamente coinvolto, ciò che emerge è un'articolazione suggestiva e aperta della cultura: non un blocco coerente, unitario, uniforme, ma al contrario una pluralità di piani di operatività, una dislocazione di consapevolezza. Se la riflessione è condizione che si persegue e che accompagna i processi di riproduzione culturale, ciò significa che la cultura contiene sempre almeno un livello di metacultura: come la lingua, che non si riduce mai a essere una serie di operazioni lineari, ma comporta sempre un livello metalinguistico. Coinvolgere il corpo, oltre che la mente, produrvi sopra segni spesso indelebili, significano l'attivazione di un livello di riflessività metaculturale. Conoscere, sapere, comprendere quali siano i contenuti della propria cultura (da cui dipende il tipo di umanità a cui si è tenuti ad aderire) richiede inevitabilmente che se ne individuino anche i limiti e che quanto meno si intuiscano possibilità ulteriori e alternative. È da questo senso di possibilità che scaturisce la fonte del mutamento.
Quali sono in genere i segreti di una cultura, quelli a cui si perviene con i rituali di iniziazione? Se si trattasse davvero dei valori e delle idee più solidamente fondanti, c'è da chiedersi perché occorra tenerli così pervicacemente segreti ed esclusivi. In linea con quanto detto sopra, si può suggerire che il 'segreto', ciò che va tenuto nascosto a causa della pericolosità della sua diffusione, è il senso (intimo, segreto) di contingenza, precarietà e arbitrarietà di una cultura. Riflessione, intuizione di possibilità alternative, ammissibilità di innovazioni e alterazioni sono i contenuti del senso della precarietà. La cultura incide e segna i corpi degli individui per garantirsi ancoraggio, permanenza, fedeltà; ma questi stessi tagli e incisioni (proprio perché non sono indolori e superflui) fanno intuire la plausibilità della frase: "Noi, tikopia; noi, ndembu, noi [...] siamo così, siamo stati fatti così: questa è l'umanità, la nostra umanità; ma lo stampo dell'umanità avrebbe potuto essere molto diverso".
Il contenuto più segreto che si può raggiungere mediante l'incisione culturale del corpo è forse questa consapevolezza o questo dubbio circa l'unicità del proprio modello di umanità. All'inizio del rituale di circoncisione di un'altra etnia africana, i nande del Kivu, i circoncisori rivolgono una preghiera alla divinità Katonda: "Dio dei nostri antenati, l'Ordinatore, in una casa, in una famiglia, in un villaggio, che cos'è un uomo? [...] Che il nostro viaggio [iniziatico] generi degli uomini. O Dio Katonda, l'Ordinatore, insegnaci ad abitare queste colline". Dietro l'apparente certezza dei precetti e dei valori trasmessi, è questa forse l'ammissione più problematica dell'ignoranza di ciò che si debba intendere per umanità, proprio da parte di chi sta per imprimere, sui corpi e sulle menti dei giovani, segni e forme di umanità particolari (Remotti et al. 1996). E ad accrescere l'inquietudine e il disagio che si intravedono nei gesti e nelle parole degli 'incisori di umanità', sarà sufficiente ricordare che in tutte le diverse versioni mitologiche elaborate dagli ndembu a proposito dell'origine del mukanda (del loro rituale di circoncisione) appare, invariabilmente, un fattore di innegabile e sconcertante accidentalità: 'accidentalmente' steli di erba tagliarono la pelle attorno al pene di un bambino che raccoglieva erba salata con la madre; 'accidentalmente' certi bambini furono circoncisi da un altro tipo di erbe mentre giocavano vicino a un fiume (Turner 1967, trad. it., p. 189).
In questo contesto di gravità culturale (forme di umanità incise sui corpi umani), la nota ndembu dell'accidentalità pare introdurre (come spesso accade nei miti africani) un elemento umoristico e fortemente desacralizzante. Il senso di precarietà della cultura non comporta soltanto disagio e inquietudine tormentosa: il riconoscimento della sua contingenza è segno di sapiente leggerezza. Il senso delle possibilità riguarda non solo altre forme (altrettanto imposte o incise) di umanità, ma si estende fino ad ammettere la possibilità di una vita (almeno nel passato) in cui non si incidevano segni culturali tanto profondi e dolorosi. A leggere i loro miti, sembra di poter dire che, per gli ndembu, anche quella era umanità: un'umanità accettabilmente normale e che conduceva una vita sufficientemente tranquilla (ancorché i ragazzi, per i quali non si conosceva ancora la circoncisione, si dimostrassero forse meno forti e virili). Una forma di umanità che dipende da fili d'erba: è forse l'ammissione più esplicita della sua radicale aleatorietà e persino della sua relativa inconsistenza. Contro le affermazioni della cultura ndembu, per cui solo il mukanda fa i veri uomini e solo incidendo si ottiene l'umanità autentica, valgono le precisazioni degli stessi ndembu nel ricordare l'origine umile e casuale della forma di umanità che hanno deciso di adottare. Anche questa è dimensione metaculturale, una dimensione che - presente in ogni cultura - contribuisce ad alleggerire il suo peso, a ridurne le radici, a farla apparire come una costruzione, una finzione, una maschera che, come si può indossare, così si può anche togliere.
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