Precolombiane, culture
Sebbene ancora impegnata in alcune tematiche che storicamente ne hanno caratterizzato il percorso epistemologico, l'archeologia americanistica è andata ampliando progressivamente i suoi campi di interesse, fino a ricomprendervi anche fasi cronologiche successive alla conquista spagnola. Alcuni temi sono debordati dai tradizionali confini disciplinari, conferendo una dimensione etica alla ricerca, stimolata anche dal confronto con le problematiche indigeniste e la rivalutazione dei passati autoctoni, e in alcuni casi chiamandola nella prassi ad assecondare possenti spinte trasformative. Ciò ha prodotto come correlato l'apertura di nuovi orizzonti disciplinari e l'avvento di diversificate metodologie di indagine; il ricorso a fonti storiche ed etnostoriche si va facendo più intenso e si registra inoltre l'emergere di impellenti tematiche connesse con il consolidamento delle identità nazionali e l'affermazione di radici ancestrali in quanto strategie politiche di resistenza alla globalizzazione.
Pur in un movimento ancora fluido e assecondando vocazioni localistiche, tali tendenze si vanno aprendo la strada nel più tradizionale e saldo quadro scientifico all'interno del quale l'archeologia americanistica sta affinando cronologie, ridefinendo modelli di sviluppo ed elaborando paradigmi interpretativi su temi che ne costituiscono l'usuale campo di analisi; ciò alla luce della presa di coscienza che tale affinamento, pur non mutando sostanzialmente il quadro già delineato della parabola storica delle aree interessate, potrà consentire l'emergere di nuovi dati su aspetti a oggi ritenuti marginali o di ardua comprensione. Basti qui citare la vistosa retrodatazione dell'urbanesimo andino al iii millennio a.C., come sembrano attestare gli scavi nel sito di Caral (valle del Supe, costa centrale del Perù), o le scoperte di arte scultorea maya effettuate nel sito di Cancuén (Petén guatemalteco).
Almeno a parziale giustificazione dell'eterogeneità del panorama qui sommariamente delineato, occorre segnalare trasversalmente che l'archeologia americanistica, in quanto risultato di specifici sviluppi nazionali e regionali all'interno dei quali sono confluiti in vario grado apporti di organismi di ricerca esteri, non può in alcun modo essere considerata come complesso omogeneo e coerente di concetti e teorie, divergendo anzi sostanzialmente su basi areali e sociopolitiche nei suoi sviluppi storici.
Il popolamento del doppio continente
La correlazione tra dati geologici, oceanografici e linguistici ed evidenze archeologiche ha prodotto un riacutizzarsi delle controversie tra due correnti di pensiero distinte, rispettivamente quella che postula un passaggio dei primi gruppi dall'Asia attraverso lo Stretto di Bering intorno a 12.000 anni dal presente e, per contro, quella di un popolamento in epoca molto più remota, intorno a 40.000-30.000 anni dal presente (di cui costituirebbero prova alcuni reperti litici, non unanimemente interpretati come manufatti). Se i dati geologici consentono di collocare solo a 11.500 anni dal presente l'apertura di un corridoio interglaciale che collegava lo Yukon all'Alberta e che avrebbe permesso l'avanzata dell'uomo, in America Meridionale la presenza di industrie litiche risalenti almeno a 12.500 anni dal presente (Monte Verde, Cile) e i rinvenimenti nel subcontinente settentrionale di resti pre Clovis (Topper, Carolina del Sud; Cactus Hill, Virginia; Copper's Ferry, Idaho) hanno spinto addirittura a riesumare alcune vecchie teorie su un possibile popolamento dell'America dall'Europa attraverso l'Atlantico. Il dibattito è stato reso più complesso dal rinvenimento, realizzato nel 1996 nel sito di Kennewick (Stato di Washington), di resti scheletrici umani datati a 9500 anni dal presente che non condividono i tratti mongolidi dei gruppi amerindiani. Ciò ha spinto a riconsiderare un'altra antica ipotesi che era stata dismessa, quella dell'esistenza - in epoca precedente all'arrivo dei primi gruppi mongolidi - di una o più ondate di popolamento di individui non mongolidi: i reperti ossei di Kennewick presentano tratti morfologici affini a quelli degli Ainu di Hokkaido e a gruppi del Pacifico meridionale e potrebbero documentare un'origine dei primi abitanti delle Americhe da una stessa, arcaica popolazione asiatica premongolide, presente in Asia Orientale oltre 35.000 anni dal presente. Occorre inoltre segnalare che mentre perde credibilità l'ipotesi, a lungo prevalsa, di un passaggio attraverso il corridoio interglaciale Yukon-Alberta, un numero crescente di evidenze geologiche e anche archeologiche sembra confermare quella di un progressivo avanzamento lungo la costa nord-occidentale dell'America Settentrionale, verificatosi certamente prima di 12.000 anni dal presente.
Il dibattito sui Maya
Una densa riflessione critica sta movimentando i paradigmi dell'archeologia americanistica e stimolando in area mesoamericana una sostanziale revisione dei modelli teorici sui meccanismi di formazione delle culture complesse. Appare oggi del tutto labile lo spartiacque convenzionale - tracciato nei decenni scorsi secondo un approccio evoluzionista - tra una fase gestativa (Preclassico) e una fase d'acme (Classico) della cultura maya: in tale direzione appuntano i dati acquisiti sulle fasi cosiddette preclassiche di alcuni centri maya (Nakbé, Río Azul ed El Mirador nel Petén guatemalteco, o Cerros in Belize), che documentano un accelerato processo di evoluzione dal 1000 a.C., con esiti già pienamente urbani intorno ai primi secoli dell'era cristiana. Sta parimenti perdendo validità il modello di un'economia maya come sistema non elaborato di produzione agricola per debbio, che avrebbe fortemente condizionato le strategie adattative limitando i livelli demografici e le modalità di gestione del territorio: modificazioni del terreno compatibili con l'esistenza di sistemi irrigui sono state identificate in Messico (Edzná) e in Belize (Pulltrouser Swamp), mentre provengono dal Petén guatemalteco evidenze di un'accorta gestione delle risorse che consentì il precoce emergere di una élite e di strutture ideologico-religiose che ne giustificassero su basi extraumane il potere.
Ricerche interdisciplinari con l'ausilio delle scienze 'dure' stanno tentando di gettare luce anche sul cosiddetto collasso maya, un brusco cedimento avvenuto verso il x sec. d.C. della salda rete strutturale che aveva sostenuto la crescita urbana e sostanziato le sue espressioni materiali. Le cause esplicative cui si è fatto ricorso nei decenni passati per dare conto di tale fenomeno hanno enfatizzato, anche su suggestione dei paradigmi ecologico-culturali, i fattori di stress ambientale cui i Maya avrebbero sottoposto i già fragili ecosistemi implicati nelle attività produttive - massimizzate al raggiungimento di una fase di acme demografico - o l'impatto di fenomeni naturali estremi quali terremoti o uragani; oggi si fa ricorso in forma più cauta a una serie interrelata di eventi che pertengono più propriamente alla sfera politico-sociale, quali processi a lungo termine di mutamento ideologico e di gestione della leadership, che avrebbero in ultima istanza portato a consistenti riallocazioni spaziali più che a un effettivo crollo.
L'Amazzonia: nuovi dati
Inaspettata protagonista dell'archeologia americanistica dagli anni Ottanta del 20° sec., la controversa area amazzonica va consolidando il suo nuovo ruolo attraverso importanti studi che ne stanno ricostruendo la complessa configurazione culturale. Terra ostile alla conservazione di ogni evidenza materiale, e per tale ragione ancora fortemente connotata da amplissime lacune nella documentazione archeologica, l'Amazzonia è coinvolta in un annoso dibattito sulla sua presunta natura di luogo inospite alla presenza umana e sfavorevole all'evoluzione sociale. Di fatto ne è stata chiarita la precoce occupazione (Monte Alegre, circa 12.000 anni dal presente) a opera di gruppi di cacciatori-raccoglitori non specializzati, le principali vestigia dei quali sono costituite da un'evoluta industria litica e da pitture rupestri, che intorno a 8000 anni dal presente, in un processo del tutto autonomo rispetto all'evoluzione di altre aree del subcontinente meridionale, iniziarono le prime sperimentazioni fittili (Taperinha, basso Rio delle Amazzoni) e verso il 3500 a.C. avevano raggiunto piena sedentarietà. La presenza di complessi chiefdoms è documentata nell'isola di Marajó nel corso del i millennio d.C., anch'essa come evoluzione del tutto scevra da stimoli foranei ma forse anzi in grado di assolvere la funzione di propellente culturale per aree, quali la regione andina, tradizionalmente considerate come nuclei di 'alta cultura'. A latere di queste traiettorie generali di sviluppo, gli archeologi segnalano la necessità di prendere in esame anche le più limitate sequenze culturali su scala regionale, che in alcuni casi presentano modelli di sviluppo non omologhi, come prodotto di una grande varietà ecosistemica che incoraggiò le sperimentazioni locali e dunque non si tradusse mai in una uniformità di tratti culturali condivisi.
Le "nuove archeologie"
A margine di quanto fin qui sommariamente enucleato, occorre segnalare una serie di nuovi indirizzi che stanno sostanziando alcuni studi in ambito più spiccatamente locale; in primo luogo l'archeologia storica, intesa come studio della diffusione della cultura europea e del suo impatto sulle società native.
Se in certi casi la presenza europea si sovrappone al 'precolombiano' al punto che l'archeologia azteca (v. Tenochtitlan) diviene senza soluzione di continuità archeologia urbana e le ricerche sul campo devono fare fisicamente i conti con il costruito coloniale, nei settori marginali del subcontinente meridionale la prassi scientifica si è tradotta in un fiorire di archeologie delle missioni gesuitiche, dei forti militari (Argentina, Uruguay) e della presenza afroamericana (Brasile, Cuba). Tale archeologia dei sincretismi culturali ha per altri versi offerto a quella tradizionale nuovi stimoli analitici in merito alle correlazioni tra cultura materiale, identità culturale ed etnicità. In questo senso sembrano muoversi le ricerche che hanno interessato settori di importanti città statunitensi, prima fra tutte New York, consentendo il riemergere di un'antica identità afroamericana alla quale gli studi di archeologia della schiavitù stanno via via restituendo spessore e complessità.
Se i correlati etici della ricerca archeologica sono stati chiamati a essere valutati solo in questi anni, soprattutto per la richiesta di alcuni gruppi nativi - essenzialmente negli Stati Uniti, ma anche nel caso di sepolture Inca o di oggetti archeologici - di vedere restituiti i beni mobiliari presenti nelle collezioni museali europee o le ossa dei defunti rinvenute negli scavi, è interessante qui accennare anche alle problematiche connesse con la nascente 'archeologia applicata', impegnata, per es., in Argentina e in Cile sul fronte dell'antropologia forense per la riesumazione e l'identificazione dei resti di desaparecidos o in Bolivia per la scoperta dei resti dei guerriglieri compagni di E. Guevara; al trasferimento e alla 'riabilitazione' di specifiche tecnologie preispaniche per lo sviluppo delle comunità rurali e alle delicate relazioni tra la gestione dei siti archeologici, l'impatto del turismo e le implicazioni socioeconomiche di tali fenomeni sulle popolazioni locali (v. Machu Picchu).
bibliografia
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