Romano, Cunizza da
Sorella del più famoso dei da R., Ezzelino III (v.), e di Alberico, signore di Treviso.
È ricordata nel cielo di Venere (Pd IX 13-66; cfr. v. 33) fra le anime di coloro che in terra ricevettero impronta da quel pianeta e vissero prima nel turbine dei piaceri mondani, poi nello slancio d'amore per il vero bene. L'episodio - in cui Cunizza condanna le colpe e predice i lutti delle genti che Tagliamento e Adice richiude (v. 44) - si lega al precedente (di Carlo Martello) e al successivo (di Folco da Marsiglia) sulla linea di quei prevalenti interessi e giudizi di ordine storico-politico che caratterizzano l'ispirazione di questo momento del Paradiso: doloroso sguardo di D. sulle miserie dell'umanità, che acquistano più drammatico rilievo nel ripetuto contrasto con la visione dell'estatica beatitudine del Paradiso. Ne nasce, come in un trittico, il quadro del disordine e della decadenza di tutta una società: la mala segnoria del regno meridionale (VIII 73-84), le sanguinose fazioni della Marca, per essere al dover le genti crude (IX 43-60), la cupidigia della Chiesa e di Firenze (vv. 127-142).
Poco esauerienti e di non sempre sicura interpretazione le notizie relative a Cunizza; esse testimoniano comunque la grande risonanza che il suo nome e i casi della sua vita ebbero fra i contemporanei. Una sommaria biografia ne traccia il padovano Rolandino nella sua Cronica in factis et circa facta Marchiae Trivixanae (I 3, in Rer. Ital. Script. VIII), scritta intorno al 1260. Agli avventurosi amori di lei alludono, in tono scherzoso e satirico, alcuni trovatori provenzali nelle loro tenzoni (Refozat, Uc de Saint Circ, Joanet d'Albusson), mentre altri le si fanno paladini (Peire Guilhem de Luserna) e ne lodano il " nobile e raro pregio " (Sordello); riferimenti alla sua clamorosa vicenda con Sordello sono infine nelle due biografie provenzali del poeta mantovano. Altro hanno poi aggiunto e congetturato i primi commentatori danteschi, sì che non è agevole distinguere fra storia e leggenda, tra figura reale e immagine di fantasia, ricostruita anche attraverso la suggestione di questo passo del Paradiso.
Ultimogenita di Ezzelino II il Monaco, signore di Onara e Romano nella Marca Trevigiana, e di una Adelaide dei conti toscani Alberti di Mangona, Cunizza nacque alla fine del sec. XII, forse nel 1198. Non se ne hanno notizie anteriori al 1222, quando andò sposa a Rizzardo di San Bonifacio, signore di Verona: un matrimonio politico che, insieme con l'altro contemporaneo di Zilia, sorella di Rizzardo, con Ezzelino III, avrebbe dovuto suggellare la ristabilita concordia dei da R. con i San Bonifacio, e fu invece coinvolto nella subito rinnovata ostilità tra le due famiglie per il possesso di Verona. In questo quadro va collocato l'avvenimento che sollevò allora grande clamore e lasciò tanta eco intorno ai suoi due protagonisti: il ratto di Cunizza a opera di Sordello.
Narra una Vida di quest'ultimo che mentre egli era alla corte dei San Bonifacio, " el s'enamoret de la moiller del comte a forma de solatz, et ella de lui ", e avvenne che il conte fosse in cattivi rapporti con i fratelli di lei, sì che questi " la feirent envolar al comte a sier Sordel: e s'en venc estar con lor en gran benanansa ". Da tale versione - che in ciò concorda con quelle di Rolandino e della seconda Vida del trovatore - appare come l'iniziativa del ratto non fosse di Sordello ma degli stessi da R., forse per recare oltraggio al rivale o per sottrarre Cunizza a eventuali pericoli in un momento di accresciuta tensione tra le due famiglie. Ipotesi che induce a stabilire la data della vicenda intorno al 1226 (cfr. l'introduzione di M. Boni a Sordello, Le poesie, Bologna 1954).
Quanto ai rapporti tra Cunizza e Sordello prima del ratto, dalle espressioni delle due Vidas sembra che essi rientrassero nel novero dei consueti vagheggiamenti trovadorici, sul piano dell'amor cortese e platonico. (Non ostacola tale interpretazione il contrario noto aneddoto riportato da Benvenuto, per il suo evidente sapore fantasioso e novellistico). Incerto è invece se dopo la fuga, rifugiatisi Sordello e Cunizza presso Ezzelino, sia intercorsa fra i due una diversa, più concreta relazione amorosa: lo afferma Rolandino, sia pure in forma dubitativa (" cum qua in patris curia permanente dictum fuit ipsum Sordellum concubuisse "), mentre discordi sono le opinioni dei critici moderni. La cosa deve tuttavia considerarsi probabile, e ne sarebbero testimonianza le già ricordate allusioni trovadoriche, le quali dicono come Cunizza avesse fama di donna avventurosa e incline alla passione d'amore. Tra queste, la risposta di Joanet d'Albusson a Sordello in una tenzone forse immediatamente successiva al ratto: " Ditemi se è vero ciò che si proclama, Sordello, che voi prendete in dono la roba altrui... Sordello, voi trovate moglie troppo alla svelta, e non so punto come ciò avvenga "; e quella di Uc de Saint Circ a Peire Guilhem de Luserna: " ... diteci invece come lo splendore dei meriti [di Cunizza] diminuisce. Ché io so che donna Cunizza ha fatto quest'anno una tale terna per cui ha perduto la vita eterna... ", forse con riferimento alla sua fuga da Verona e alla relazione con Sordello, nonché a un ulteriore amore di Cunizza.
Anche di quest'ultimo, seguíto all'allontanamento di Sordello dalla corte dei da R., si hanno scarse e malsicure notizie. Narra Rolandino che " miles quidam nomine Bonius de Tarvisio dompnam ipsam amavit eandemque a patris curia separavit occulte et ipsa, nimium amorata in eum, cum ipso mundi partes plurimas circuivit, multa habendo solacia et maximas faciendo expensas ". E a questa nuova avventura di Cunizza alludono quasi certamente i versi di Joanet d'Albusson in cui, ai viaggi e successi amorosi di Sordello, enumerati con scherzosa iperbole, sono contrapposti sullo stesso tono quelli della sua donna: " La donna vostra si diresse al territorio opposto per conquistare l'impero di Manuele, Ungheria e Cumania la grande, e conquistò senza difficoltà la Russia e andò perfino al di là dal mare per conquistare l'Impero che è colà; e così finirete per conquistare tutto il mondo, se conquistate voi all'ingiù ed ella all'insù ". L'inizio della vicenda può essere forse stabilito intorno al 1227-1228, e il " miles Bonius " individuato, secondo le ricerche di G. Biscaro, in un trevigiano Enrico da Bonio, giudice e procuratore del comune, uomo di largo censo e già coniugato.
Per il seguito dell'episodio e per la restante biografia di Cunizza dobbiamo affidarci alla testimonianza di Rolandino: dopo il lungo vagabondaggio, i due amanti sarebbero ritornati a Treviso, quando, " contra voluntatem Ecelini ", vi signoreggiava il fratello Alberico (non prima dunque del 1239), e qui avrebbero convissuto finché Bonio " occisus est gladio... cum Ecelinus contra fratrem Tarvisium impugnaret " (1241-1242 circa): tragica conclusione di quello che alcuni ritengono essere stato il solo vero amore di Cunizza. Secondo il cronista padovano, ella si riaccostò poi a Ezzelino, passando quindi a nuove regolari nozze con un Naimerio o Narnerio, della potente famiglia vicentina dei Breganze, e ancora ad altre con un veronese. Verosimile il secondo matrimonio, probabilmente posteriore al 1253, anno della morte di Rizzardo di San Bonifacio, e forse anch'esso motivato da interessi politici dei da Romano. Meno credibile invece il terzo, che Rolandino dice avvenuto " post mortem fratris sui Ecelini " e quindi dopo il 1259, quando la donna aveva ormai oltrepassato i sessant'anni di età.
La morte di Ezzelino, sconfitto a Cassano d'Adda nel tentativo d'impadronirsi di Milano, e quella di Alberico, assediato dai Trevigiani nel castello di San Zenone e trucidato con tutta la famiglia (1260), segnano il crollo delle fortune dei da R.: non sappiamo come tali circostanze abbiano inciso sulla vita di Cunizza, ma è da ritenersi che, superstite di tanta rovina, ella abbia dovuto abbandonare la Marca, rifugiandosi forse in Toscana, presso i parenti materni. Qui, in ogni modo, ce la mostrano i due soli diretti documenti che di lei si conoscano. Con uno, stilato a Firenze il 1º aprile 1265, in casa di Cavalcante Cavalcanti, Cunizza concede libertà agli uomini di masnada che erano stati della sua famiglia; con l'altro, del 10 giugno 1279, forse l'ultimo anno di sua vita, ella compie testamento a favore dei nipoti Alberti, che la ospitano nel castello di Cerbaia in Val Bisenzio. Questi due atti, e specie il primo, sono stati interpretati da qualche studioso come una conferma di quei nuovi sentimenti di pietà religiosa cui si vuole Cunizza informasse i suoi anni estremi (cfr. in particolare lo studio di F. Zamboni [ediz. definitiva]). Successive e più documentate analisi (A. Guasti, E. Simioni) inducono però a dar loro soprattutto significato di gesto di fierezza e di protesta contro i trionfanti avversari, da parte dell'ultima dei da R., e di solenne rivendicazione dei diritti usurpati alla sua famiglia. Ciò perché Cunizza non avrebbe potuto disporre dei poteri e dei beni che nei due istrumenti ella si attribuiva, in quanto già nel 1258 una bolla di papa Alessandro IV aveva liberato da ogni schiavitù, " pienamente e per sempre ", i servi e gli uomini di masnada dei da R., e già nel 1260 tutti i beni della famiglia erano stati divisi tra Padova, Vicenza, Verona e Treviso.
Nulla aggiungono, per una più precisa individuazione del personaggio, le chiose degli antichi commentatori di D.; le quali, nella loro genericità, sembrano in larga parte desunte dallo stesso testo dantesco, variamente interpretato: e qui refulgo / perché mi vinse il lume d'esta stella (Pd IX 32-33). Così è probabile che il Lana abbia inteso attribuire a Cunizza amori soltanto cortesi e poetici affermando che ella " fo in omne etade innamorada, e era de tanta largheça in lo so amore ch'averava tignù grande villania a porsi a negarlo a chi cortesemente gliel'avesse demandà ". Ed esplicitamente l'Ottimo: " Visse amorosamente in vestire, canto e giuoco, ma non in alcuna disonestade o inlicito atto consentì ". I più, invece, accreditano le colpe amorose di Cunizza, ma ne sottolineano il finale ravvedimento per giustificare la salvezza di questa donna che " multum exarsit in amore carnali " (Pietro) e addirittura ebbe fama di " magna meretrix " (Postille Cassinesi). Scrive di lei Benvenuto: " Recte filia Veneris, semper amorosa, vaga... et cum hoc simul erat pia, benigna, misericors, compatiens miseris quos frater crudeliter affligebat ", con acuto accenno a un esuberante temperamento affettivo come presupposto del trapasso dall'amore sensuale a quello divino. E l'anonimo delle Chiose Cassinesi: " Matura aetate... amorem talem suum ferventem post diu circa mundana accesius revolvit in Deum, sicut fecit Madalena ".
Al di là di ogni possibile sua legittimazione teologica e morale, la critica moderna si è posta il problema della presenza di Cunizza in Paradiso in ordine alle più intime ragioni strutturali e poetiche della Commedia: si è chiesta cioè se l'episodio nasca in funzione del personaggio o non piuttosto questo in funzione di quello. Così il Foscolo (Discorso sul testo della Commedia, CLXIII), giudicando che " la ragione poetica sconfortavalo dal riporvela ", immagina che D. non vi s'induca " se non per fare ch'esulti dei Guelfi battuti più volte... e de' trionfi imminenti de' difensori dell'Impero ", e ritiene addirittura non essere " inverosimile che introducesse la sorella d'Ezzelino in via d'espediente, e fino a tanto che gli sovvenisse d'alcun'altra ombra alla quale stesse meglio di predire " e condannare le sanguinose colpe della Marca Trevigiana.
Il Bartoli (Storia della Letteratura italiana, Firenze 1889), dubitando delle giustificazioni morali della salvezza di Cunizza, vede nell'episodio una conferma all'asserito soggettivismo storico-politico cui, nella Commedia, sarebbero improntati i giudizi e le scelte di D., più attento ai propri fini artistici e politici che non alle ragioni dell'obbiettiva giustizia. Singolare e, diremmo, non adeguata a un'esatta considerazione delle sempre coerenti e profonde radici dell'ispirazione dantesca, l'ipotesi del Croce che qui D. volesse soltanto allegrarsi " alla idea bizzarra... di rendere un gaio omaggio alla cordiale, alla esuberante Cunizza, le cui gesta amorose aveva piacevolmente udito raccontare dai vecchi ". Più stringente, e forse risolutiva, la tesi di quanti (Simioni, Porena) suppongono che, attraverso Cunizza, D. abbia voluto in qualche modo onorare i fieri ghibellini da R. e quasi rivendicare la politica di Ezzelino, alleato e vicario di Federico II e precursore di Cangrande, e colpire i guelfi veneti. " Era il Veneto, soprattutto con Padova, un covo di guelfismo " segnalatosi negli ultimi tempi per l'opposizione a Enrico VII e poi al grande Scaligero, all'azione politica del quale è possibile D. fosse particolarmente attento e vicino quando scriveva questo canto. " Col suo sistema di affidare le condanne d'una regione a persone di quella regione, Cunizza poté parergli persona assai adatta ". Se i fratelli di Cunizza non avessero avuto a quel tempo larga fama di tirannica ferocia e anche di eresia, forse la parte di giustizieri della loro regione sarebbe toccata a essi: " la loro malvagità fece a D. beatificare la sorella " (Porena).
In effetti, queste interpretazioni (cfr. anche Secrétant, Cosmo, Momigliano) hanno un comune fondamento nel rilievo di come la Cunizza dantesca non appaia veramente realizzata sul piano della poesia, mancando a essa un segno, un tratto proprio che la caratterizzi e le dia autonoma esistenza. Il canto della sua luminosa felicità, nel completo abbandono all'armonia celeste, pur alto e intenso in alcuni versi (del suo profondo, ond'ella pria cantava, Pd IX 23), è motivo comune alle anime del Paradiso. Ma nessun tratto di lei, nonché fisico, morale, appare d'entro la sua luce ed essa dilegua senza lasciare neppure " una linea, pur fosse, della sua figura, ancorché ella abbia dichiarato la sua grande passione d'amore " (Secrétant). La sua concreta vicenda terrestre, con le sue lunghe procelle e il finale rasserenamento sembra restare muta al sentimento e alla fantasia di Dante. Può ben darsi che, nella sua prima adolescenza, egli abbia intravisto a Firenze l'ormai stanca e pia superstite degli Ezzelini, o meglio ne abbia udite rievocate le molte turbinose vicende; ma tutto ciò ora appare lontano ed estraneo al suo vero interesse, che non è volto al personaggio di Cunizza ma alla terra ond'ella fu, e a quanto egli attraverso di lei può dirne. Si spiega meglio così, più come espediente costruttivo che svolgimento poetico, quello stacco improvviso che è nel discorso di Cunizza: non appena detto il suo nome e la sua beatitudine, ella infatti interrompe bruscamente la narrazione di sé e si volge a indicare un'altra luce di quel cielo, rivelando che in essa è racchiusa un'anima (Folco da Marsiglia) di cui grande fama rimase (v. 39) nel mondo, e rimarrà sino alla fine dei secoli: esempio di come l'uomo debba farsi eccellente per vivere oltre l'esistenza terrena. E appunto quest'ultima considerazione permette, per contrasto (E ciò non pensa la turba presente / che Tagliamento e Adice richiude, vv. 43-44), la ripresa del discorso che più urge a D.: quello sulla Marca Trevigiana e sulla nequizia delle sue genti. Giunto così al suo vero centro ispiratore, l'episodio trova i più genuini accenti in una poesia che s'incupisce nel dire le colpe e i drammatici contrasti della terra, si accende di sdegno e di sarcasmo, si suggella infine nelle solenni cadenze di un'irrevocabile sentenza divina.
Già nel Purgatorio (XVI 115-126), con alto sospir (v. 64) Marco Lombardo aveva parlato a D. della decadenza del paese ch'Adice e Po riga (la Lombardia, l'Emilia e il Veneto, a un dipresso), ove solea valore e cortesia trovarsi / prima che Federigo avesse briga (vv. 115-117): ora il quadro si restringe e si precisa nella visione dei lutti che presto insaguineranno la Marca, discorde e battuta (Pd IX 45) perché ribelle all'Impero. I tragici eventi profetizzati da Cunizza riguardano Padova, Treviso e Feltre, con particolare riferimento a questi fatti. I Padovani, sottomessi a Enrico VII nel 1311 e poi subito sollevatisi contro di lui, assalirono la ghibellina Vicenza (settembre 1314) ma furono duramente sconfitti presso le paludi del Bacchiglione dai Vicentini stessi, guidati da Cangrande. Così tutti i commentatori antichi e la maggior parte dei moderni interpretano i versi danteschi. Una diversa ipotesi, raccolta dal Flamini, ha avanzato A. Gloria (Disquisizione intorno al passo della D.C. " Ma tosto fia ecc. ", Padova 1869, e Ulteriori considerazioni intorno alla terzina 16 del canto IX del Paradiso, ibid. 1871), secondo il quale il passo alluderebbe a un'opera idraulica architettata, nello stesso anno, dai Padovani: questi, per controbattere l'espediente bellico dei Vicentini che avevano prosciugato il Bacchiglione, v'immisero l'acqua del Brenta, deviata al palude di Brusegana. A Treviso (dove Sile e Cagnan s'accompagna, Pd IX 49), Rizzardo da Camino, figlio del buon Gherardo (Pg XVI 124) e signore della città dal 1306, nel 1311 lasciò il titolo di capitano del comune per assumere quello di vicario imperiale, iniziando una politica di personale dominio che provocò il malcontento del popolo e dei nobili: questi ordirono la congiura in cui il Caminese fu colpito a morte dalla roncola di un villano mentre giocava a scacchi con alcuni di loro nella loggia del suo palazzo (5 aprile 1312).
Nel preciso riferimento ai due fiumi che a Treviso si uniscono ma per un tratto sembrano accompagnarsi ancora distinti, verde e limpido il Sile, giallo e torbido il Cagnano, e nella vivezza dell'immagine di Rizzardo, colto nel suo andare spavaldo, la terzina è sembrata ad alcuni dare un senso di cose vedute e riproporre così l'ipotesi di una dimora o visita di D. a Treviso, circostanza possibile e fors'anche probabile, da collocarsi eventualmente fra il 1306 e il 1312 (cfr. lo studio di A. Serena, ma anche quello di G. Petrocchi). A Feltre il vescovo Alessandro Novello, trevigiano, aveva dato rifugio ad alcuni membri della famiglia ferrarese dei dalla Fontana che, con altri complici, erano fuggiti dalla loro città in seguito a una fallita congiura. Ma li consegnò poi al vicario angioino di Ferrara, Pino della Tosa, cedendo alle sollecitazioni di questo e del comune di Treviso e dando occasione a una sanguinosa strage (cfr. A. Serena, Il comune di Treviso alla " diffalta " del 1314, Treviso s.d.).
Per quanto riguarda il valore poetico dell'episodio è da rilevare la forte progressione di sentimento nelle tre profezie di Cunizza, progressione che si risolve in una crescente evidenza d'immagini e in una sempre maggiore aderenza a esse del ritmo e della parola. Così, se la strage dei Padovani ha espressione un po' generica in quel mutar l'acqua che Vincenza bagna (Pd IX 47), rilevata si scorcia la figura di Rizzardo e fulminea pare chiudersi su di lui la trappola, nello scattare del verso che già per lui carpir si fa la ragna (v. 51), tutto spezzato di monosillabi che isolano e accentuano lo stridulo balenìo di carpir e la beffarda inflessione di ragna. E il sangue ferrarese sembra sgorgare a fiotti nel rallentato ritmo della terzina e addensarsi pesante nella locuzione a oncia a oncia cui contrasta, con più forza di sarcasmo, la gentile e sonora levità di prete cortese (vv. 55-58). Tagliente violenza di accenti, estrema tensione di sdegno che le ultime parole di Cunizza, più solenni nella loro staccata cadenza, sembrano voler placare, riequilibrandola in una sfera di superiori certezze con il richiamo all'immutabile ordine dei cieli che giudica e corregge il colpevole disordine della terra.
Bibl.-Notizie intorno a Cunizza, oltre che in G. Verci, Storia degli Ecelini, V, Bassano 1779 (dov'è riportata anche una copia trecentesca, esistente a Treviso, del documento di emancipazione del 1265), si trovano in: F. Zamboni, Gli Ezzelini, D. e gli schiavi, Vienna 1865 (ediz. definitiva, Roma-Torino 1906; nel volume è riportato in miglior lezione il testo del documento di emancipazione del 1265); A. Guasti, Cunizza da R. nel cielo dantesco, in " Rass. Nazionale " VIII (1886); A. Serena, D. a Treviso?, in " Nuovo Arch. Veneto " XLI (1921) 81-105; G. Biscaro, La dimora opitergina di Zilia di San Bonifacio e di Cunizza da R., in " Arch. Veneto " II (1927); E. Simioni, Cunizza da R. nella storia e nella poesia di D., in " Giorn. d. " XXXV (1932) 111-136; G. Petrocchi, La vicenda biografica di D. nel Veneto, in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 13-27 (rist. in Itinerari danteschi, Bari 1969, 119-141). Il testamento di Cunizza è pubblicato da C. Milanesi in " Giorn. Stor. Archivi Toscani " II (1858).
Si vedano poi, oltre a U. Cosmo, L'ultima ascesa, Bari 1936, e a B. Croce, Ancora della lettura poetica di D., in " Quaderni della Critica " X (1948), le principali ‛ lecturae ' di Pd IX, tra cui quelle di F. Flamini (in Varia, Livorno 1905), G. Secrétant (Firenze 1911), G. Bertoni (in Cinque letture dantesche, Modena 1933), G. Grana (Roma 1956), T. Bergin (ibid. 1959), R. Roedel (in Lett. Dant. 1507-1531), F. Coletti (in Lect. Scaligera 297-344).