Curie ed uffici
È sicuramente impossibile, allo stato delle conoscenze attuali, tentare di ricostruire la rete complessa delle minori magistrature che innervarono l'organizzazione dello stato veneziano dalla seconda metà del sec. XII alla fine del XIII. Molti ostacoli si frappongono al conseguimento di tale obiettivo. In primo luogo la loro consistenza quantitativa, davvero esorbitante: "già numerosissimi nel Duecento [scrive, degli officia, Giorgio Zordan (1)> assommarono a più di un centinaio (solamente quelli de intus) nei secoli seguenti". A differenza dei consilia, gli uffici sono privi di potestà legislativa riunendo in sé, pur con estensione di volta in volta diversa, poteri amministrativi e giurisdizionali.
Si può facilmente intuire che in una così estesa frantumazione di competenze molti organismi ritagliassero la propria sfera di attribuzioni a danno di altri da cui non è sempre facile distinguerli. Si pensi, tanto per fare pochi esempi, agli officiali del Lido, magistratura di nobili istituita prima del 1292, ed ai soprastanti al Lido, menzionati per la prima volta nel 1281, che avevano la funzione di sorvegliare i lavori del Lido e di condannare coloro che danneggiavano la proprietà pubblica. Oltre ad essi si trovano pure, in una delibera del maggior consiglio in data 28 febbraio 1293, capita de XX super Litore cui toccava imporre liberamente pene a quanti asportavano sabbia dal Lido (2). Ancor più caotica era la selva di competenze concorrenti in materia di contrabbando, sul quale vegliarono inizialmente il doge e il minor consiglio e poi la quarantia cui s'aggiunse, da metà del '200, il maggior consiglio. Tutti costoro si avvalsero, in via subordinata, dell'aiuto prestato dai tre super mercimoniis que furtive intrant Venetiis, capitanai postarum, officiales de catavere, domini super mercationibus Levantis, domini salis maris, consules, visdomini de mare e de ternaria, domini super frumento e molti altri ancora. Dal 1281 tali officia furono soppiantati dai giudici del contrabbando, tre nobili dotati di potestà inquisitoriali con facoltà di punire dietro giuramento. Tuttavia, fino al 1297, le cause per contrabbando del sale venivano ancora discusse innanzi agli avogadori (3).
Ad accrescere ulteriormente il senso di smarrimento che coglie lo storico moderno innanzi a questa prodigiosa efflorescenza di incarichi s'aggiunge la serie di accorpamenti, scissioni e ricomposizioni subiti da piccole e grandi magistrature. Giusto per restare in tema di contrabbando, basti pensare che i giudici, undici anni dopo la loro costituzione, furono uniti al cattavere nel 1295 si videro aggregati per poco tempo all'officium mercationis de Levante (4). Se, nel procedere a queste integrazioni, il maggior consiglio s'era attenuto ad una indiscutibile omogeneità di competenze tra curie ed uffici, non altrettanto si può dire intorno al processo storico che, verso il 1290, condusse alla nascita del piovego. Esso, infatti, riuniva in un solo corpo organi diversi destinati a sorvegliare l'attività degli eretici, l'esercizio dell'usura, la conservazione di rive e canali (5).
Un'ultima serie di difficoltà che si oppongono alla desiderabile ricomposizione dell'assetto istituzionale veneziano è costituita dalla impossibilità di determinare la data di fondazione e lo statuto giuridico originario di molte curie.
Nella maggior parte dei casi ciò dipende da un difetto di documentazione, particolarmente avvertibile mano a mano che si procede a ritroso nel tempo. Nei confronti di altre magistrature, viceversa, le nostre conoscenze lacunose sono la risultante di uno spoglio ancora incompleto di carte pubbliche e private, per la massima parte inedite. Si può tuttavia sperare che, grazie all'impegno profuso dal "Comitato per la pubblicazione delle fonti relative alla storia di Venezia" e da altri studiosi questo ostacolo possa essere progressivamente rimosso.
Il gran numero di magistrature tra le quali si ripartirono le funzioni dello stato e l'eccentrica spartizione delle competenze fra di loro costituì una caratteristica durevole dell'assetto costituzionale veneziano. Su di esso, pertanto, si fissò l'attenzione di storici e polemisti a partire dal sec. XVI. Per Donato Giannotti e gli altri repubblicani fiorentini la città rappresenta un modello accessibile di equilibrata spartizione dei poteri: "Venezia ha saputo conciliare gli interessi contrastanti e 'temperare' i magistrati gli uni con gli altri" (6). La molteplicità dei munera realizza felicemente la consonantia sulla quale poggia il governo misto. Nella concorrenza delle attribuzioni, nella sorveglianza reciproca tra magistratura e magistratura nessun organo può pretendere ad un assoluto dominio: sicché l'ombra della tirannia non s'è stesa su questa parte d'Italia (7).
Un elogio non dissimile si leggerà nelle pagine del Botero: "In tutta questa disposizione di Magistrati e de' Consigli si vede una mirabile temperatura per la quale l'uno dipende scambievolmente e non può nulla senza l'altro [...>. Anzi, tutti li Magistrati sono ordinati in modo che l'uno cede all'altro in alcuna cosa e questo medesimo è a quello in alcuna cosa superiore" (8). Nobile esempio di costituzione politica imitatrice della natura "nella cui disposizione ogni cosa bilanciata con contraposti e sostenuta con oppositioni si vede e l'arte di contrapesarsi l'un l'altro" (9).
Il Paruta vede realizzata a Venezia una "repubblica fioritissima di buone leggi e di santi instituti" proponendo un abusato confronto con le istituzioni romane (10); per il Giustinian la Serenissima "risplende di ferma e stabile libertà, cosa che le succede per il meraviglioso concerto delle leggi, per la diritta giustizia et perfettissimi instituti" (11).
Inutile rincorrere citazioni nella letteratura cinque-seicentesca: gli elogi della "perfetta macchina costituzionale" veneziana costituiranno una sorta di luogo comune fino a che, nel '700, l'attenzione degli scrittori politici non verrà assorbita dall'esempio inglese (12). Pure allora, nel secolo consacrato alla celebrazione degli ideali libertari e democratici, si alzò la voce del Sandi - autore del più documentato profilo di storia costituzionale veneta - a magnificare i meriti del "Governo Aristocratico", capace di fondere "la copia de' magistrati" in una "architettonica direzion superiore che mantiene lo spirito di unità". Principio di polizia civile, questo, che scaturì non da "meditazione di allora" ma da istintivo amore di libertà e di sicurezza sociale (13). Dall'appassionata apologia d'un sistema politico ormai collabente alle pagine della Costituzione di Venezia del Maranini (1927) il giudizio non muta: "Abbiamo studiata una delle più grandi costituzioni politiche che la storia abbia generata [...> mirabile edificio logico e giuridico, armonioso, simmetrico, perfetto quanto può essere perfetta un cosa umana, quanto può essere perfetta una creatura vivente" (14).
Opposta al coro ben compatto degli ammiratori si schiera una esigua minoranza di detrattori che, nel '500, fa capo al circolo fiorentino filo-mediceo. Di lì uscì, com'è noto, la pseudo-lettera dantesca a Guido da Polenta: "Misera e mal condotta plebe; da che tanto insolentemente oppressa, tanto vilmente signoreggiata e tanto crudelmente vessata sei da questi uomini nuovi, destruttori delle leggi antiche ed auttori d'ingiustissime corruttele" (15). Il senso della polemica è chiaro: la distruzione delle leggi antiche è conseguenza della scelta che, da alcuni secoli ormai, ha compiuto la classe dirigente veneta con l'abbandono del sistema di diritto comune (o romano-canonico) (16). Anche in questo la Serenissima s'è isolata dal resto d'Italia.
Il colpo più duro, però, lo porta Jean Bodin nella sua Methodus del 1566. In poche pagine percorse da una vena aspra e tagliente il giurista francese mira a demolire il mito veneziano. Che la città si regga su una forma di governo misto è un falso; che la sua costituzione possa paragonarsi ad antiche e moderne, sia per solidità che per splendore, una esagerazione. Di Venezia, egli sostiene, si può affermare ciò che Platone disse, ai suoi tempi, di Atene: troppi medici e, soprattutto, troppe magistrature. "Questa moltitudine si spiega o con la cupidigia d'onore e di comando o col bisogno di reprimere frodi e delitti: oppure con l'uno e con l'altro motivo insieme". In realtà "questa moltitudine di magistrati non portò ad altro che a furti, meschinità, corruzioni, lusso, impulso di dominio ed incoercibile litigiosità. Certo, non s'è mai avuta maggior impunità nei delitti e nei vizi. Basta dunque che i magistrati siano pochi perché si abbia di mira le virtù [...>" (17). Per l'umanista non si tratta - come, verosimilmente, per i Fiorentini - di evidenziare l'eccezionalità dell'esperimento veneziano rispetto agli ordinamenti italiani; la distruzione delle leggi antiche non ha peso alcuno per il Bodin, ormai libero dal clima di soggezione al diritto comune in cui si muovono, viceversa, gli Italiani. Il punto è un altro: si vuol rinvenire, nell'ampio spettro offerto dalla conoscenza storica, un modello di razionalità ed efficienza nella pubblica amministrazione. Come, per l'appunto, si tenta di proporre, in quegli anni, alla monarchia francese.
La violenza verbale di cui fece mostra il Bodin suscitò, com'è noto, la risentita opposizione del Crasso. Nelle sue note al Giannotti egli ha effettivamente buon gioco nel respingere le contumelie del francese: ma quando si tratta di affrontare il nodo problematico più complesso la moltiplicazione delle curie non trova di meglio che appoggiarsi ad una lapidaria quanto semplicistica enunciazione di principio: "perché le questioni si sbrigano molto più celermente, efficacemente ed anche meglio quanto più numerosi sono coloro che vi pongono mano e vi danno aiuto". Anziché limitarsi ad osservare le cose dall'esterno, il Bodin avrebbe dovuto considerarle nel loro legame funzionale: "come fossero adatte allo scopo e connesse fra di loro; come fossero distribuite ad una ad una ordinatamente e simmetricamente" (18). Quest'ultima sottolineatura fa davvero sorridere: come poteva il Crasso attendersi che un francese - ormai imbevuto delle dottrine che postulavano un ordine semplice, rigoroso, strettamente razionale tra le norme giuridiche e gli ordinamenti dello stato (19) - potesse apprezzare le istituzioni veneziane che così apertamente rivelavano il loro accrescimento per stratificazioni ed aggiustamenti successivi? La stessa carenza di ordine sistematico rilevabile negli statuti tiepoleschi non aveva trovato rimedio nemmeno nel sec. XVI, quando molte altre città italiane provvidero a riplasmare le antiche deliberazioni statutarie sia per comodità di consultazione, sia per influsso della giurisprudenza di diritto comune (20). L'insensibilità mostrata sotto questo profilo è un segno rivelatore, tra molti altri, degli atteggiamenti mentali, delle inclinazioni e dei modelli culturali diffusi tra i giuristi attivi nella laguna.
A ben vedere, l'argomento di maggior peso che il Grasso poteva gettare sulla bilancia si riduceva ad una osservazione di natura pragmatica: l'ordinamento pubblico veneziano era buono perché, alla fin dei conti, dimostrava di funzionare. Constatazione, questa, ripetuta anche dagli storici moderni, magari con l'aggiunta di qualche espressione elogiativa che tradisce, più che ammirazione, sorpresa e stupore. Sentimenti comprensibili che, tuttavia, non debbono impedire la formulazione di quesiti veramente fondamentali.
Al di sopra delle diversità osservabili tra curia e curia è possibile individuare caratteristiche o attributi capaci di ordinare un insieme apparentemente caotico di procedure e competenze? Non si tratta, qui, di appagare una incoercibile vocazione alle astratte classificazioni quanto, piuttosto, di trarre alla luce le ragioni di politica legislativa che orientarono scelte davvero singolari in una materia delicatissima. E poi ancora: quali furono i vantaggi offerti da un ordinamento così elaborato? Quale il prezzo pagato alla sua conservazione?
Ancora una volta, come accade spesso nelle ricerche storiche, le domande superano, in larghezza e profondità, le risorse di cui si dispone per la risposta.
Potere d'" arbitrium" e "discretio"
La più recente storiografia ha ritenuto di potere introdurre tra le magistrature giudiziarie venete una sorta di summa divisio tra curie habentes rationem tantum ed altre habentes rationem et iustitiam. Le prime sarebbero state caratterizzate da un esercizio dei poteri giurisdizionali ispirato allo stretto diritto (ratio o strictum ius); solo in un secondo tempo, con la istituzione della curia di petizion (1244), sarebbe emerso un nuovo concetto di giustizia inteso quale "attività amministrativa e nello stesso tempo equitativa" (21). Il nuovo procedimento è contrassegnato dal "ricorso a criteri non formalistici, che consentono di raccogliere prove che non sono previste dalla lex" con possibilità di "andare, insomma, oltre la forma, alla sostanza del rapporto in ragione della quale sorge la lite" (22). Lo strumento di cui il magistrato dispone per addentrarsi in una tale valutazione della causa è l'arbitrium: "illimitata facoltà concessa al giudice di formulare direttamente il diritto da applicare al caso concreto" rispetto al quale può intervenire con gli stessi poteri che si riconoscono al legislatore (23). Tale potestà, una volta concessa, nel corso del '200, alle altre curie ordinarie, avrebbe modificato, anzi sovvertito, i lineamenti del diritto veneto costituendone la caratteristica peculiare, il principio motore nella amministrazione della giustizia (24).
Per giudicare dell'esattezza di questa ricostruzione occorrerà analizzare, in primo luogo, l'atto istitutivo della curia di petizion. S'è detto, a questo riguardo, che per esso si perseguì un primo ridimensionamento dei poteri di Jacopo Tiepolo. Il prologo, che istituisce un parallelo tra Jacopo e Mosè - cui Ietro, suo cognato, suggerì di delegare ai capi del popolo la conoscenza delle cause minori trattenendo per sé le più importanti (Es., 18, 13-27) - si pone in continuità con quello degli statuti (1242). Torna, in particolare, l'immagine di un grande condottiero e legislatore investito direttamente da Dio della sua carica. Per parte sua il doge tende a sminuire l'importanza dei poteri delegati (loco nostro [...> audiant) nel confronto con quelli che trattiene in ordine alla conduzione dei maxima negotia publica. Ora, la istituzione di un tribunale che mirava a facilitare il recupero dei crediti o dei beni attraverso un procedimento definito volta per volta dai giudici sicut eis bonum videbitur - con facoltà di interdire la causa che si svolgeva innanzi alla curia ducale - poteva davvero sembrare così rivoluzionaria com'è apparsa ai nostri storici, informati del suo successivo allargamento di competenze? C'è da dubitarne. A Jacopo Tiepolo la curia di petizion non doveva costituire, certo, motivo di apprensioni o di timori: in origine si trattava di un ingranaggio ben modesto nella macchina giudiziaria veneziana e potenzialmente controllabile. Il laudum cui poneva capo (25) e la speditezza del rito (quam cicius) richiamano l'attività degli arbitri di diritto comune; né restava astrattamente escluso, per tal via, il ricorso ad un ordo romano-canonico (26). Quanto poi all'arbitrium, esso era termine che designava - al pari della sentencia la decisione delle romane actiones arbitrales notoriamente vicine alle azioni di buona fede cui competeva la liquidazione di rapporti vari e complessi intercorsi tra le sfere patrimoniali di due soggetti (taxatio) . Vicine e per sedes materiae (Inst. 4.6.28-32) e per le "larghe briglie" che erano accordate al giudice nella guida di entrambi i procedimenti (27). La bona fides regolatrice, per statuto, dei poteri accordati ai magistrati di petizion si poteva ben riportare, così, alla facoltà concessa dal diritto romano di stimare ex bono et aequo il rapporto di debito/credito dedotto in giudizio "anche nel caso in cui la domanda non mirasse ad una prestazione determinata nella quantità" (28).
Il doge ed i circoli a lui legati potevano dunque sperare che la terminologia romanistica, stesa come una patina sulla nuova costruzione, potesse . efficacemente contribuire a raffrenare le ambizioni della controparte politica esorcizzandone la potenziale carica eversiva. Carica eversiva la quale non trovava certo la sua forza - come s'è fino ad oggi ritenuto - dal preteso arbitrium di cui si sarebbero rivestiti i giudici di petizion. È vero che Andrea Dandolo, ricordando gli avvenimenti del 1244, scrive: "il doge [...> creò i nuovi giudici di petizion ed affidò loro [le petizioni, le lagnanze e gli interdetti> e i giudizi sui fuggitivi e i pegni con pienezza d'arbitrio" (29), ma, a ben vedere, la parola arbitrium nell'atto costitutivo ricorre solo una volta a indicare non già la illimitata estensione dei poteri d'interdetto attribuiti all'organo giudicante quanto, piuttosto, la natura di un provvedimento col quale porre fine alla lite sottoposta. Che, in progresso di tempo, essa abbia ricevuto altro significato, nulla toglie al valore semantico deducibile dal preciso tenore della fonte documentaria.
Più insidioso, semmai - e ancora una volta rivelatore dell'ambiguo compromesso su cui si reggeva l'atto del 1244 - era il richiamo alla discrezionalità dei giudici nell'apprezzamento del giusto assetto degli interessi dedotti in causa che, appunto, si evocava nel termine discretio. Esso, in quel torno d'anni, allude principalmente ai poteri del magistrato che, in materia criminale, deve scegliere tra pene ugualmente contemplate dalla promissione ducale (30) o nella loro assenza (31): poteri, questi sì, già in qualche modo prossimi a quelli di un legislatore. Anche in questo caso, come in quello che attiene alla nozione di iustitia (lo vedremo tra breve), si coglie una irruzione di concetti di origine penalistica nel dominio del diritto processuale civile. Un tentativo analogo era già stato sventato dallo stesso Tiepolo nel prologo II degli statuti; ora mascherato, ma non meno pericoloso, si riaffacciava: segno che la lotta tra opposte visioni del diritto non conosceva tregua e costringeva il doge a qualche compromesso (32).
L'analisi dei poteri originariamente riconosciuti al tribunale di petizion potrà essere approfondita più avanti. Al momento occorre studiare il valore semantico di iustitia che, a giudizio della prevalente storiografia, avrebbe caratterizzato le procedure adottate da quella curia.
Va detto, innanzitutto, che il termine non ricorre esplicitamente nell'atto costitutivo della curia (33); settant'anni più tardi, tuttavia, il Bertaldo la descrive come "curia di più ampia giustizia" rispetto al proprio (34). Quale significato dobbiamo attribuire a questa espressione?
Un dato mi pare certo: che, cioè, la parola iustitia viene testimoniata dalle fonti veneziane anteriori al 1244 in una frequente endiadi che la riconnette a ratio. Ratio et iustitia compaiono già nella promissione di Enrico Dandolo (1192) e poi, via via, in quella dei successori nel dogado così come in qualche atto legislativo (35). Non è improbabile che in tale contesto si voglia alludere alla totalità della giurisdizione, civile e penale, che aveva nel doge la sua fonte primaria. Così, nel proemio alla promissione criminale, Jacopo Tiepolo accenna al rigor iusticie e nelle promissioni ducali iust ficari allude (36) all'esercizio repressivo delle attività criminali: in sintonia, d'altronde, con numerosi passi ove la iusticia viene invocata nel medesimo senso (37). In tale accezione il termine valeva, secondo la lingua volgare, vindicta publica (38).
Non poteva ovviamente mancare, accanto a questo significato, un altro di valore civilistico per il quale giustizia è - secondo l'antico insegnamento di Inst. 1.1.pr. - "volontà costante e perpetua di attribuire a ciascuno il suo diritto". Così intesa, la parola ricorre talvolta negli statuti tiepoleschi (39). Se essa però alludeva alla volontà di attuare il ius ciò poteva intendersi, con ulteriore sforzo interpretativo, anche contra ius, contro il rigore dell'astratta volontà normativa incapace, talvolta, di soddisfare [e più profonde esigenze del diritto e dell'equità. Sotto questo aspetto andrebbe inteso, se non m'inganno, Stat. I, 23: "poiché sembra che assai si contravvenga alle esigenze della giustizia se per difetto di testimoni perisce il diritto di alcuno e non gli si faccia in alcun modo ragione, stabiliamo che - quando sorga una lite tra veneti - tutti i giudici della nostra curia debbano convocare i testimoni perché rendano innanzi a loro testimonianza" sottoponendoli a giuramento affinché dicano il vero. Tra le righe dello statuto si annida già una nuova e diversa intelligenza del binomio ratio/iustitia in forza della quale il doge si fa tutore del diritto dei cittadini per qualunque tramite esso possa trovare attuazione: la stretta osservanza della legge (ratio) o la ricerca dei meccanismi, consentiti dall'ordinamento giuridico, in forza dei quali può, della prima, esser superato il formalismo o il difetto (iustitia).
non reciprocamente esclusivi
Premesse queste considerazioni occorre domandarsi quale evoluzione semantica contrassegnò, lungo l'arco del sec. XIII, l'uso dei termini sopra indicati in relazione alle varie funzioni esplicate - nell'ambito giurisdizionale - dalle magistrature veneziane.
Per un verso, non pare dubbio che iustitia mantenesse vivo, ancora ai primi del '300, il suo legame concettuale originario rispetto al giudizio ed alla repressione dei crimini (40). Nell'ambito civilistico la connessione da stabilirsi tra la glossa bertaldiana iudices (Stat. I, 6, nr. 57) e la lettera di Stat. I, 45 contribuisce a chiarire la differenza tra le procedure di una corte di iustitia ed altra rationum. In quest'ultima, infatti, la sentenza viene pronunciata sulla scorta di prove testimoniali o documentali (41). Ove, viceversa, tali sostegni manchino si farà ricorso al giuramento nei modi previsti da Stat. I, 45 e ss.: nel caso spetterà ai giudici valutare la probabilem tresumptionem secondo che loro parrà, "considerata la bontà e l'onestà" delle parti (Stat. I, 48). Tale è la "forma" di un procedimento concepito per venire incontro alla "buona fede degli uomini". È incerto se esso fosse battezzato "di giustizia" già nel 1242 - come si potrebbe arguire dal testo di Stat. I, 23 -: certo è, però, che appariva tale al Bertaldo. Comunque stessero le cose al riguardo non si potrà non avvertire, a questo punto, che l'ordinamento veneto provvide alla tutela di situazioni giuridiche carenti sotto il profilo della forma iuris ben prima che fosse
creata la curia di petizion. Questa nacque - lo dimostra l'atto istitutivo - orientata anche alla soddisfazione di crediti insufficientemente documentati. Il rigore che sostiene l'agire per rationem viene superato già, negli statuti del 1242, da una procedura speciale che si svolge innanzi ai tribunali dell'esaminador e del proprio cui si riferiscono, appunto, le norme fin qui esaminate. Per il proprio, anzi, si dovrà ricordare ancora la facoltà di giudicare de transmissis et rogadiis secundum arbitrium per aliquam presumptionem onde supplire ai difetti di probazione (42): un potere, questo, già concesso discreta novitate ai tempi dello statuto tiepolesco (Stat. I, 48). Non risponde dunque a verità l'affermazione, comunemente ripetuta, che vuole la iustitia introdotta a Venezia con il tribunale di petizion e le curie ad esso precedenti giudicanti per sola rationem. Che esse sentenziassero sempre e comunque;ulta base di un rigoroso formalismo cui faceva difetto ogni potere discrezionale è un'evidente esagerazione. Largo, viceversa, è l'apprezzamento delle testimonianze (iudices inde faciant quod eis iustum videbitur) (43) soprattutto a tutela della buona fede (44), delle garanzie (sint in discretione iudicum utrum sint recipiende) (45), dei giuramenti comunque prestati (46).
Da quanto esposto si può presumere che ai procedimenti di iustitia corrisponda la cognizione di casi per i quali non era richiesto che la curia fosse in ordine bastando, al riguardo, la presenza dei giudici con un notaio e talvolta con un cancelliere. Il Liber clericus et civicus (47), infatti, attribuisce chiaramente la discussione dei precetti non in ordine ai tribunali aventi giustizia. Tale speciale cognizione dovrebbe reggere, se male non intendo il richiamo del Bertaldo (48), i placiti sui quali i giudici del proprio sentenziano come a loro sembrà iustum et licitum (49).
La iustitia, dunque, vince il rigore dell'ordo; lo vince e lo supera anche quando esso postula la presenza di entrambe le parti in causa, sicché il giudizio avrà corso nonostante l'assenza di una di esse. Tutto questo era già stato ammesso per cause di scarso valore innanzi alla curia del forestier: ma quel ch'è più interessante notare, ora, è la fonte che legittima il ricorso alla iustitia. "Nonostante l'assenza di una parte [si legge nello Splendor (50)> i giudici procederanno mediante iusticia [...> secondo l'uso come da statuto, libro terzo, cap. VII". Riferendosi a questa disposizione Jacopo scrive: "altrimenti [...> nonostante la tua assenza i nostri giudici procederanno tanto alla sentenza quanto alle altre operazioni così come s'ha da procedere per diritto (de iure) secondo l'uso e la forma del nostro statuto" (51) a richiesta dell'interessato secondo le disposizioni di legge. Il Bertaldo, insomma, vede la iustitia disciplinata dall'uso e dallo statuto, non scaturente da un arbitrium senza legge a disposizione del magistrato.
degli organi giudicanti
Che così dovesse essere è già stato dimostrato quando, per l'appunto, s'è visto il procedimento di iustitia già delineato, in sostanza, da alcune disposizioni dello statuto tiepolesco. Il vincolo organico che lega la iustitia alle norme dell'ordinamento è d'altronde sottolineato dalla definizione di giudizio: "pronuncia di sentenza [...> promulgata con giustizia" "per quel diritto dal quale siamo tenuti, lo scritto e il non scritto" (52).
Questa configurazione dei rapporti tra giustizia da un lato, uso e statuto dall'altro, non si mantenne ferma. A tale proposito va segnalato l'allargamento progressivo dello spazio semantico attribuito ad arbitrium. Che esso alludesse per tempo alla latitudine dei poteri attribuiti ai magistrati nel giudizio penale ove mancasse la norma sostanziale o procedurale s'avrà occasione di rilevare analizzando il testo del prologo II(53). In questo senso l'uso della parola corrispondeva a quello diffuso dalle scuole di diritto (54). Nelle fonti veneziane del tardo '200 l'accezione si propone equivalente a quella di discretio: "condannerò [dichiara il giudice del piovego (55)> e sentenzierò secondo il mio arbitrio e discrezione".
Per altro verso arbitrium si richiama alla valutazione del rapporto dedotto innanzi ad arbitri, sia che essi adottino il rigore dell'ordo iuris, sia che giudichino secondo altre norme. Ho già sostenuto, come si ricorderà, che proprio in questo significato il termine fu usato per definire gli ambiti originari di competenza assegnati alla curia di petizion. Ma non si tratta solo di questa: anche ai giudici dei procuratori di S. Marco i litiganti potevano chiedere - per capitolare (56) - di procedere, a scelta, secondo ratio o iustitia. Lo statuto del piovego, riassumendo le facoltà di cui è dotata la corte, può dunque scrivere: per rationem, per iustitiam, per laudum et per arbitrium (57). Allo stesso modo gli amministratori testamentari attivavano, in un caso determinato, l'arbitrium dei giudici del proprio (58).
È assai probabile che l'accezione penalistica del termine si trasfondesse nell'ambito civilistico contribuendo a plasmare un nuovo e sintetico concetto: quello, appunto, di attività sostanzialmente libera da vincoli di legge. Gli arbitri, d'altronde, quando non fossero tenuti, per delega, all'osservanza dello statuto, potevano giudicare anche secondo un privato sentimento d'equità, dilatando, all'occorrenza, le già snelle procedure di iustitia. Si spiega così, forse, che atti del 1330 e 1333 relativi al proprio, al mobile ed alla corte di petizion associno iustitia e libertas con un nesso preciso e costante. Lo scopo a cui si tende è che a "ciascuno sia attribuito il proprio diritto in maniera più spedita e piena" senza trovare ostacolo nell'osservanza della forma iuris per la quale perivano, talvolta, i diritti della parti (59) .
La iustitia, che per tutto il '200 aveva trovato la sua fonte e la sua disciplina nelle norme dell'ordinamento, tese quindi a svincolarsene in corrispondenza all'ampliarsi della nozione di arbitrium: concetto, questo, che non tarderà a divenire centrale all'interno dell'esperienza giuridica veneta in conseguenza di determinate scelte di politica legislativa. Non opporrei dunque cosi rigidamente corti habentes rationem tantum da un lato ed habentes rationem et iustitiam dall'altro (60). In primo luogo perché ratio e iustitia sono parte integrante di un medesimo ordinamento che le contempla e le ammette in concorrenza. Poi perché curie ritenute soltanto di ragione hanno rivelato, come mi pare, poteri sostanzialmente di giustizia fin da tempi remoti, comunque ben precedenti il 1279, anno in cui si volle conferire la iustitia a tutti i giudici ordinati dal maggior consiglio (61) . La stessa corte di petizion non fu connotata esclusivamente dalla adozione di procedimenti cognitivi di sola giustizia. Non si è fino ad oggi rilevato, infatti, che una volta accordato l'interdetto mirante a bloccare una causa discussa innanzi alla curia ducale, i giudici convocavano i litiganti per decidere sulle loro rationes e quindi deliberare sul mantenimento dell'interdetto. Il giudizio, in questa prima parte, almeno, è de iure: come confermerà poi il provvedimento col quale si concessero al mobile, nel 1333, poteri analoghi a quelli già riconosciuti al tribunale di petizion. Aveva dunque ragione il Bertaldo a descrivere quest'ultima come curia amplioris iusticie: amplioris, appunto, non di sola giustizia. Così come le altre curie maggiori non erano di sola ratio ma partecipavano - anche se in misura più ristretta - di altre e più snelle procedure.
Queste osservazioni non vogliono sminuire in nulla l'importanza, sotto il profilo storico-costituzionale, del tribunale di petizion: anzi l'accrescono, perché contribuiscono a cogliere la profonda trasformazione dei suoi poteri nel superamento delle ambigue limitazioni imposte dalla carta di fondazione. Preceduto da altre corti nell'adozione di procedimenti esenti dal rigore delle rationes, esso si appropriò di quei riti riplasmandoli in un complesso unitario secondo l'indirizzo che si veniva liberamente proponendo. Le stesse forze politiche che ne assecondarono lo sviluppo proposero poi questa corte a modello delle altre. Anche se la riforma mancò - per vari motivi, strutturali, principalmente - l'obiettivo di una piena assimilazione (62), il solo fatto d'averla voluta rivela, a mio avviso, l'intenzione delle classi dirigenti venete di adeguare l'insieme delle maggiori corti giudicanti a nuove concezioni. Il superamento del tecnicismo e dei formalismi giuridici cui esse si ispiravano - sebbenepresentato come una vittoria dell'equità - aprì in realtà la strada alla irruzione del giudizio politico nell'amministrazione della giustizia.
Vorrei credere che la lunga digressione intorno ai poteri della curia di petizion e l'analisi di molti concetti riferiti all'attività giurisdizionale non siano stati fatica inutile. Al di sopra delle conclusioni proposte si concorderà, almeno, nel riconoscimento dell'innegabile livello qualitativo raggiunto dalla scienza giuridica duecentesca. Le incertezze, le variazioni riscontrabili in un lungo travaglio dottrinale - sensibile alle indicazioni muoventi insieme dalla prassi e dalla direzione politica non sminuiscono il valore dei risultati che si raggiunsero. La elaborazione scientifica compiuta intorno alle nozioni fondamentali dell'esperienza giuridica procedette eminentemente al di fuori di un visibile apporto di scuola, civilistica o canonistica. Questa constatazione procede di pari passo con l'altra che scopre, nell'ordinamento complessivo delle magistrature veneziane, nella ripartizione delle relative competenze, nel loro funzionamento, una grande distanza rispetto ai modelli romano-canonici. Entrambe evidenziano un medesimo disegno politico che mira ad escludere progressivamente - trascorsa l'età dei Tiepolo - il retaggio del diritto comune dalle isole della laguna (63).
Non si vuol negare, qui, che qualche istituto del diritto processuale veneto riecheggiasse, in maniera più o meno aperta, determinate disposizioni giustinianee o canonistiche. Il punto è un altro. Nella moltiplicazione delle corti giudiziarie, nella definizione dei poteri di cognizione loro attribuiti, nella composizione dei collegi giudicanti, Venezia mostrò di rifiutare, teoricamente e praticamente, i principi del giudice unico, della connessione (od organicità) di competenza, della gradualità di giurisdizione che nelle altre città italiane erano ormai accettati sulla scorta del diritto comune.
Tutte le magistrature, dalle maggiori alle minori, erano rette, nella laguna, da una pluralità di giudici. Quando, di conseguenza, non vi fosse accordo tra di loro intorno alla sentenza, la decisione veniva rimessa al doge (64).
Per comprendere ciò che intendo per violazione del principio che postula la connessione di competenza bastino alcuni esempi. A Venezia le assicurazioni delle doti e le liti che le riguardavano erano decise dai giudici dei procuratori, ma la ripetizione della dote, sciolto il matrimonio, era affare del proprio; questo, ancora, conosceva delle servitù urbane ma non delle prediali, decise dagli avogadori; le successioni intestate toccavano al proprio, le testamentarie alla curia di petizion: tuttavia, se nelle ultime volontà si trattava di beni immobili si invocava il proprio, se di mobili il mobile, se l'ereditando era un forestiero giudicava il forestier; quest'ultimo era ancora competente per le disdette sui fondi nel Dogado ma non in terraferma, ove ci si rivolgeva ai giudici dei procuratori. Quanto ai pegni, si distingueva ulteriormente: se si trattava di mobili fruttiferi, infruttiferi o immobili erano rispettivamente interpellati il piovego, l'esaminador e il forestier(65). La separazione personale dei coniugi poteva interessare - in maniera non ben definita sia il proprio, sia l'esaminador, sia la curia di petizion (66).
Nulla di tutto ciò può rinvenirsi nell'organizzazione giudiziaria del resto d'Italia, ove normalmente il podestà ed i pochi giudici della sua comitiva si spartivano la conoscenza delle cause penali e civili in tribunali distinti. Anche laddove esistettero parecchie curie - in numero, comunque, di gran lunga inferiore rispetto a Venezia - le competenze restarono precisamente distinte per materia, per valore o per il diritto che vi si applicava (consuetudini o statuto). Nella Serenissima, come s'è appena mostrato, accadde addirittura che rapporti giuridici attinenti ad un medesimo istituto rientrassero nella sfera di attribuzioni riservate a corti diverse. Analoghe considerazioni potrebbero farsi per il penale.
Per altro verso, poi, occorre rilevare l'assenza di un ordinamento gerarchico tra i vari tribunali veneziani: conseguentemente manca, per tutto il sec. XIII, il rimedio dell'appello alla sentenza pronunciata da qualunque giudice (67).
Quanto s'è appena accennato in queste pagine si presterebbe a molte riflessioni: mi limiterò a raccoglierne alcune. A Venezia fece difetto una legge fondamentale che distinguesse precisamente le competenze assegnate alle varie magistrature. La materia venne disciplinata in via di pratica consuetudine; d'altronde, anche nei casi in cui la nascita di un organismo fu accompagnata da un atto costitutivo che ne regolava le attribuzioni, la lettera delle disposizioni venne superata dalla prassi(68). Questa lacuna produsse un gran numero di lagnanze e ricorsi sui quali si pronunciò la signoria e, nei casi più intricati, il maggior consiglio. Il numero dei provvedimenti adottati, al riguardo, è talmente alto da indurre a credere che i conflitti di competenza costituissero un frequente ostacolo all'amministrazione della giustizia e all'ordinato funzionamento degli apparati costituzionali.
La polverizzazione dei poteri giudicanti ed il conseguente intrico di tribunali garantiva, però, il controllo della macchina giudiziaria da parte della cancelleria ducale. L'atto introduttivo di una lite doveva essere presentato al doge il quale avrebbe poi provveduto alla nomina della curia investita della cognizione del caso. La disposizione aveva le sue lontane radici nell'originale competenza giurisdizionale del più alto magistrato su tutte le cause: durante il sec. XIII, tuttavia, essa pare motivata anche dalla reale impossibilità, per il privato, di districarsi nella fitta selva delle corti veneziane (69). In tal modo, tutta la vita di una città passa al vaglio preventivo di una vigile burocrazia, mentre al cittadino non è sempre data la possibilità di prevedere in anticipo le concrete modalità attraverso le quali si svolgerà la sua richiesta di giustizia. Non si può dimenticare, infatti, che i giudici veneziani erano astretti in primo luogo e principalmente al loro capitolare; la legge particolare prevale dunque sulla generale (lo statuto e le promissioni) sicché il magistrato "prima di applicare la disposizione di diritto sostanziale è tenuto all'osservanza delle norme procedurali" (70) date alla corte cui appartiene.
Le conseguenze che si possono trarre riguardo alla certezza del diritto mi paiono evidenti; allo stesso tempo, il giudice si vede limitato ad una iperspecializzazione di funzioni che ne inibiscono i poteri di interpretazione. Il caso sottoposto alla sua cognizione ben difficilmente può essere inquadrato alla luce delle norme che reggono nel loro insieme l'ordinamento giuridico cittadino: l'accesso alle problematiche costituzionali viene in tal modo impedito.
Su questi aspetti dell'esperienza normativa ed istituzionale veneziana future ricerche dovranno gettare luce; non mi pare azzardato, tuttavia, indicare fin d'ora un significativo parallelismo di indirizzi tra produzione legislativa e strutture giuspubblicistiche dal tardo '200 in poi. In entrambe è sottesa una puntigliosa e minuta definizione di ambiti operativi che paralizzano, di fatto, l'analisi tecnica del giurista privilegiando la scelta empirica o pragmatica.
In questo mutamento si poteva percepire già, astrattamente, il segnale di un grave scadimento della cultura e dell'esperienza giuridica veneta; il rischio prese corpo non appena i Grandi presero a riempire le curie di uomini a loro fedeli. A quel punto, davvero, l'arbitrium divenne lo strumento di un invincibile potere politico (71).
1. Giorgio Zordan, L'ordinamento giuridico veneziano. Lezioni di storia del diritto veneziano con una nota bibliografica, Padova 1980, p. 103.
2. Lamberto Pansolli, La gerarchia delle fonti di diritto nella legislazione medievale veneziana, Milano 1970, p. 170 n. 25. Ma si v. le avvertenze di Giorgio Zordan, I Visdomini di Venezia nel sec. XIII (Ricerche su un'antica magistratura finanziaria), Padova 1971, p. 541.
3. Per questa e altre notizie si v. Melchiorre Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane e i loro capitolari fino al 1300, I-III, Padova - Venezia 1906-1911: III, pp. 197 e ss.
4. Ibid., p. 203.
5. Cf. Andrea Padovani, L'inquisizione del podestà. Disposizioni antiereticali negli statuti cittadini dell'Italia centro-settentrionale nel secolo XIII, "Clio", 21, nr. 3, 1985, pp. 381 e s. con bibliografia (pp. 345-394).
6. Rudolf von Albertini, Firenze dalla repubblica al principato. Storia e coscienza politica, con Prefazione di Federico Chabod, Torino 1970, pp. 146 e s.
7. Ibid., p. 147; cf. Gaspare Contarini, De Magistratibus et Republica Venetorum libri quinque cum notis Nicolai Crassi [...>, in Johann Graeve, Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, regionum et urbium juris veneti [...>, V/1, Lugduni Batavorum 1722, coll. 29 e 41.
8. Giovanni Botero, Relatione della Repubblica Venetiana [...>, Venetia 1605, fol. 38r-v.
9. Ibid., fol. 8.
10. Paolo Paruta, Istorie veneziane volgarmente scritte [...>, Venezia 1718 (Degl'istorici di cose veneziane i quali hanno scritto per pubblico decreto, III), p. 2; l'accostamento tra Venezia e Roma torna in molte opere: dall'Alberti al Soacio, dal Sansovino al Caimo. Cf. L. Pansolli, La gerarchia, p. 233 n. 8; Oliver Logan, Venezia. Cultura e società. 1470-1790, Roma 198o; Barbara Marx, Venedig-'altera Roma'. Transformationen eines Mythos, "Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken", 60, 1980, pp. 325-373.
11. Pietro Giustiniani, Dell'historie veneziane [...>, Venetia 1671, p. 3.
12. Franco Gaeta, Alcune considerazioni sul mito di Venezia, "Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance", 23, 1961, pp. 58-75.
13. Vettore Sandi, Principi di storia civile della Repubblica di Venezia dalla sua fondazione sino all'anno di N.S. 1700 [...>. Volume secondo dall'anno l000 al 1300, Venezia 1755, p. 523.
14. Giuseppe Maranini, La costituzione di Venezia, I, Dalle origini alla serrata del Maggior Consiglio, Firenze 1974, pp. 361 e s.
15. Le opere di Dante [...>, a cura di Michele Barbi-Ernesto Giacomo Parodi-Francesco Pellegrini-Ermenegildo Pistelli-Pio Rajna-Enrico Rostagno-Giuseppe Vandelli, Firenze 1921, pp. 450 e s.
16. Per questo si v. il mio saggio su La politica del diritto contenuto in questo medesimo volume.
17. Jean Bodin, Methodus ad facilem historiarum cognitionem [...>, Parisiis 1572, pp. 293, 303, 433, 437 e ss.
18. Donato Giannotti, Reipublicae Florentinae a secretis Dialogus de republica Venetorum, in Johann Graeve, Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, regionum et urbium juris veneti [...>, V/1, Lugduni Batavorum 1722, coll. 11 e ss.
19. Vincenzo Piano Mortari, Gli inizi del diritto moderno in Europa, Napoli 1980, pp. 307 e ss. con bibliografia.
20. Per la verità, qualche passo contenuto nel libro I degli statuti sembra accennare all'esistenza di un piano preordinato (cf. Gli statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242 e le loro glosse, a cura di Roberto Cessi, "Memorie del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 30, nr. 2, 1938 [d'ora in poi Stat.>, p. 79, LI e p. 95, LXIV). Essi però scompaiono del tutto nei libri seguenti.
21. Giovanni I. Cassandro, La curia di Petizion, "Archivio Veneto", ser. V, 19, 1936, p. 72 (pp. 72-144).
22. Id., Concetto, caratteri e struttura dello stato veneziano, "Rivista di Storia del Diritto Italiano", 36, 1963, pp. 23-49.
23. L. Pansolli, La gerarchia, pp. 114, 117, 120 e s., 129, 187.
24. Gaetano Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, p. 46; Angelo Ventura, Politica del diritto e amministrazione della giustizia nella Repubblica Veneta, "Rivista Storica Italiana", 94, 1982, p. 597 (pp. 589-608).
25. "Quorum sentencias, laudum et arbitrium debeamus [nos dux> executioni mandare". Cf. pure M. Roberti, Le magistrature, III, p. 108, c. 12.
26. Luciano Martone, Arbiter-arbitrator. Forme di giustizia privata nell'età del diritto comune, Napoli 1984, pp. 98 e s.
27. Secondo una corrente di pensiero minoritaria se non insignificante: cf. il casus premesso ad Inst., 4.6.31 (largas habenas); non diversamente la glossa accursiana arbitrarias ad l.c.
28. Inst., 4.6.32.
29. Andrea Dandolo, Chronica per extensum descripta a. 46-1280 d.C., a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, I, 1938-1958, p. 300.
30. Carta di Promissione del Doge Orio Mastropiero, MCLXXXI, a cura di Emilio Teza, Bologna 1863, p. 11 I.; Promissione di Jacopo Tiepolo (1232), in Volumen Statutorum, Legum ac Iurium tam civilium quam criminalium DD. Venetorum cum correctionibus Serenissimorum Principum pro tempore et practica summaria [...>, Venetiis 1709, IV, XVII.
31. Promissione di Jacopo Tiepolo, IX, XI, XII, XXVIII, XXIX.
32. L'osmosi riscontrabile tra i due livelli di giurisdizione ed il conseguente fluire di concetti dall'uno all'altro si affacciano già nello statuto di Pietro Ziani: Gli statuti civili di Venezia anteriori al 1242, a cura di Enrico Besta-Riccardo Predelli (qui di seguito come Stat. ant.), "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 1, 1901, pp. 256 n. 11, 263 n. 9 (pp. 5-117, 205-300) poi accolti in Stat. I, 22 e 62.
33. Vi si trovano solo generici richiami ad un iustum iudicium o al iustum ispiratore della discrezionalità del magistrato. Ma di ciò si v. oltre nel testo.
34. Jacobi Bertaldi Splendor Venetorum Civitatis Consuetudinum [...>, a cura di Francesco Schupfer, in Bibliotheca juridica Medii Aevi, III, Bononiae 1901, p. 105 B.
35. Ad es. nel prologo di Pietro Ziani, Stat. ant., pp. 205 e s. Ma cf. ancora Le promissioni del doge di Venezia dalle origini alla fine del Duecento, a cura di Gisella Graziato, Venezia 1986, p. 25.
36. Le promissioni, pp. 31, 49, 70, 115, 126, 143, 154.
37. Ibid., pp. 3, 12, 25, 27, 44, 86 sempre "secundum Usum". Per ratio, giustizia civile, v. Benvenuto Pitzorno, Le consuetudini giudiziarie veneziane anteriori al 1229. La giurisprudenza di Venezia nella prima metà del secolo decimoterzo e la sua efficacia sulla formazione degli Statuti, "Miscellanea di storia veneta edita per cura della R. Deputazione Veneta di Storia Patria", ser. III, 2, 1910, p. 325, I (pp. 293-348).
38. Alberici de Rosate, [...> Dictionarum Iuris tam Civilis, quam canonici [...>, Venetiis 1573, p. 413 B. Numerosi esempi coevi in Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, VI, Torino 1972, S.V.
39. Stat., prol. I, p. 5 e ibid., prol. II, p. 8, ove si dice definizione ripresa a Philosopho. Cf. Stephan G. Kuttner, A Forgotten Definition of Justice, "Studia Gratiana", 20, 1976 ("Mélanges G. Fransen", II), pp. 73-109 (ora in Id., The History of Ideas and Doctrines of Canon Lari in the Middle Ages, London 1980, pp. 75 e ss.). Ma si v. anche Stat. ant., p. 205 e Stat. I, 23; II, 2; IV, 32; I, 67 = Stat. ant., p. 221 n. 29.
40. J. Bertaldi Splendor, p. 104 A.
41. Cf. Stat. I, 41. Ma altri esempi potrebbero essere addotti: cf. Stat. III, 44: "carta [...> vel carte sive rationes".
42. J. Bertaldi Splendor, p. 119 B n. 21; p. 153 A-B.
43. Così Stat. I, 13, ma cf. anche 22, 23, 30.
44. Ibid., 62; III, 30, 44, 49, 55.
45. Ibid., I, 20.
46. Ibid., 48, 56; gl. 3 ad Stat. IV, I, p. 175; J. Bertal di Splendor, p. 152 B.
47. G.I. Cassandro, La curia di Petizion, nr. XIII, 11.9.1317.
48. J. Bertaldi Splendor, p. 106 B: "ut inferius in fine huius capituli describere intendo".
49. Ibid., p. 118 A.
50. Ibid., p. 113 B; cf. p. 115 B.
51. Ibid., p. 116 B.
52. Ibid., pp. 104 A e 102 A.
53. V. sopra n. 16.
54. Gl. arbitrium ad X 5.1.16: "È generalmente ammesso che, dove non sia espressa una pena certa dal diritto, essa sia rimessa all'arbitrio del giudice".
55. M. Roberti, Le magistrature, 11, pp. 272, 22 [4>.
56. Ibid., p. 178 n. 4.
57. Ibid., pp. 281 e s., 60 [1>.
58. J. Bertaldi Splendor, p. 147 A.
59. Stat. VI, 59, 61, 62.
60. La distinzione, d'altronde, appare solo - se non mi sbaglio - nel Liber clericus et civicus (vedi sopra, n. 47).
61. G.I. Cassandro, Concetto, carattere, p. 43.
62. Per le tappe di questo cammino si v. M. Roberti, Le magistrature, II, p. 210; III, p. 116; Stat. VI, 60.
63. Cf. anche sopra, n. 16.
64. Stat. ant., pp. 241 e s. n. 73; Stat. I, 25. Per il resto della penisola basti il rinvio a Pasquale Del Giudice, Storia della procedura, Torino-Napoli 1900 (Antonio Pertile, Storia del Diritto Italiano dalla caduta dell'Impero Romano alla Codificazione I-IV, Padova 1873-1887: IV, 1), p. 215.
65. P. Del Giudice, Storia, p. 74.
66. M. Roberti, Le magistrature, I, p. 221.
67. Ibid., p. 226.
68. G. Zordan, I Visdomini, p. 86; cf. p. 112.
69. M. Roberti, Le magistrature, III, p. 124 n. I; I,
pp. 166 e s.; Stat. ant., p. 209 n. 7; Stat. I, 6; J.
Bertaldi Splendor, p. 107 A.
70. G. Zordan, L'ordinamento, p. 207.
71. Giorgio Cracco, La cultura giuridico-politica nella
Venezia della "Serrata", in AA.VV., Storia della cultura veneta, II, Il Trecento, Vicenza 1976, pp.
238-271.