CURTI, Girolamo, detto il Dentone
Nacque a Bologna il 7 apr. 1575 da Antonio Maria, originario di Reggio Emilia e da una Orsolina bolognese (Bologna, Archivio arcivescovile, S. Niccolò di S. Felice, Registri dei battesimi, ad annum).
Secondo il Malvasia (1678) non compi un regolare apprendistato artistico, ma si accostò alla pittura all'età di venticinque anni dopo aver trascorso la giovinezza come lavorante in una filanda. Lasciata tale occupazione, prese a frequentare il pittore L. Spada, suo coetaneo, e ad esercitarsi con questo nel disegno; approdò quindi, per interessamento di V. Grimaldi, che in seguito sarebbe stato suo committente, alla bottega di C. Baglione, dedito in prevalenza a una pittura decorativa di impronta manieristica. Presso la bottega del Baglione, il C. "altrettanto si affezionò alla quadratura quanto alle figure prendesse avversione" (ibid., p. 106) e intraprese lo studio della prospettiva e degli ordini architettonici sui testi del Serlio e del Vignola, le cui regole applicava rigorosamente, in ciò disapprovato dallo stesso maestro "che gli ebbe a dir talvolta altro volervi che tanto rigore e stitichezze, e bisognarsi oprar più con un certo giudicio e pratica che con tante sottigliezze di una severa teorica" (ibid.).
Sottrattosi così alla tutela del Baglione per operare autonomamente, il C. si venne to sto affermando come pittore di prospettive e quadrature. Risale al 1603 la prima registrazione di pagamento a un "Ms. Girolamo pitore", identificabile col C. in via congetturale, per un fregio, presto scomparso, nel catino absidale della cappella dell'Arca nella chiesa bolognese di S. Domenico; occorre tuttavia attendere il 1615 per avere la prima opera sicuramente documentata: gli ornati alla cupola e ai finestroni della medesima cappella, in gran parte ridipinti nei restauri ottocenteschi (Alce, 1958, p. 394).
Nessuna delle opere superstiti consente una datazione meno avanzata, forse con la sola eccezione dei dipinti della sala e della controloggia del casino Malvasia al Trebbo, che la Feinblatt (1975, p. 349n. 25) colloca intorno al 1610a causa della presenza nell'équipe del C., ricordata dal Malvasia (1678), di Francesco Brizio, Gianluigi Valesio, Francesco e specialmente Antonio Carracci; mentre la presenza al Trebbo del Colonna, pure asserita dal Malvasia e ovviamente impossibile a questa data, starebbe ad indicare che la decorazione, eseguita in due tempi, non sia stata portata a termine che nel 1621-22 circa.
La perdita di tutta la produzione del primo periodo non consente di giudicare il grado di attendibilità delle notizie biografiche del Malvasia relative agli esordi del pittore e alla sua formazione artistica; il racconto romanzato dei modesti e tardi inizi non sembra però interamente convenire alla rilevanza acquistata dal C. nell'ambiente artistico del capoluogo emiliano, per il rinnovamento che seppe imprimere alla pittura prospettica, sul quale si basarono le successive fortune del quadraturismo e della scenografia bolognese.
Nel soffitto della sala del casino Malvasia il C. dipinse a tempera "per certa sua bizzarria e prova ... su un tavolato di asse di abeto egregiamente commesse" (Malvasia, 1678, p. 107) un cassettonato con apertura centrale quadrilobata sostenuto da una loggia di ordine dorico dalla struttura chiusa e solida: un concetto architettonico di carattere vignolesco (Feinblatt, 1975, p. 349) che nulla lascia trapelare del funambolismo del Baglione, essendo sviluppato con esatta tecnica prospettica, correttezza formale e rispetto dei canoni. L'aspirazione alla fondatezza del "naturale" dimostra precisa coscienza da parte del C. delle contemporanee tendenze della pittura bolognese che egli trasferì nel campo della quadratura operandovi una riforma parallela a quella carraccesca. È lecito perciò supporre che attraverso la vitale mediazione della Accademia carraccesca il C. si sia potuto ricollegare con le precedenti esperienze nel campo dell'architettura illusiva maturate tra Bologna e Roma ad opera del Vignola, di O. Mascherino e di T. Laureti, descritte e apprezzate da Ignazio Danti nell'edizione del trattato del Vignola del 1583.
Appunto il motivo prospettico dipinto dal Laureti nel bolognese palazzo Vizzani, celebrato quale opera "rarissima" e riprodotto nei commentari del Danti ad esemplificazione del corretto modo di intendere le architetture illusive "nelle soffitte", venne in parte ripreso dal C. nella controloggia della Paleotta, a San Marino di Bentivoglio. Minore importanza ebbero invece nella formazione del C. alcuni cosiddetti antesignani quali E. Pio, P. Zagnonì, G. B. Cremonini, tutti quadraturisti di modesta levatura, mentre non è stato ancora chiarito il contributo, forse non trascurabile, dei quadraturisti bresciani.
Nel 1618il C. fu chiamato a Parma in occasione dell'allestimento del teatro Farnese; è probabile che qui abbia collaborato con lo Spada alle architetture prospettiche del vasto soffitto e progettato gli archi trionfali che inquadrano le statue equestri di Luca Reti, anche se i numerosi documenti epistolari esistenti nell'Archivio di Stato di Ferrara (Lombardi, 1909, p. 36) lo ricordano esclusivamente come pittore di scene, fra le quali Il tempio della Discordia per il torneo Difesa della Bellezza composto dal conte Alfonso Pozzo. A Parma ebbe certamente contatti con G. B. Aleotti e con E. Bentivoglio, direttori dei lavori per le feste farnesiane ed esponenti di punta dei nuovi indirizzi dello spettacolo che dischiusero, con l'introduzione delle quinte scorrevoli, possibilità di arditi effetti scenografici ai quali anche il C. offrirà un rilevante contributo.
Sospese le feste farnesiane in seguito alle difficoltà politiche intervenute nella riconciliazione con la casa medicea, oggetto dei festeggiamenti, occorse al C. un intenso periodo di attività in Bologna e nelle immediate vicinanze. Ne restano le decorazioni di palazzo Paleotti in città, dell'oratorio di S. Rocco e della Paleotta (1619-21 c.), dove iniziò la stretta collaborazione, accanto al maestro, come figurista, del giovane allievo Angelo Michele Colonna.
In questa villa aveva lavorato nei suoi ultimi anni il Baglione (Matteucci, 1969, p. 103); riprendendone l'opera interrotta, il C. dà prova di fedele adesione ai dettami del classicismo con una scrupolosa ricerca di verità e naturalezza, non limitata al partito architettonico ma estesa alla sobria scelta delle tinte: "tolse i colori dal macigno, da' travertini, dai mattoni da' marmi" (Malvasia, 1678, p. 115) in evidente antitesi con le preziosità dei manieristi.
Nel 1623il cardinale Ludovico Ludovisi, nipote di papa Gregorio XV, chiamò il C. a Roma per affrescare il suo palazzo in piazza SS. Apostoli (oggi palazzo Odescalchi).
Non si sa se il rapido cambiamento di proprietà dell'edificio, rivenduto ai Colonna dopo qualche mese, abbia permesso al pittore di compiervi l'opera commissionatagli (Feinblatt, 1975, p. 350); è tuttavia probabile che eventuali suoi dipinti siano spariti nel rimaneggiamento dell'edificio effettuato nel 1664 dal Bernini, poiché non si possono in alcun modo riconoscere pertinenti allo stile e al repertorio del C. le decorazioni non architettoniche qui attribuitegli (Encicl. universale d. arte, XI, tav. 94; Mussa, 1969, p. 80, tav. 8).
È certo che le scarse opportunità offertegli dall'incipiente stagione barocca ne affrettarono il ritorno in patria. Unico lavoro rivelatore di influenze romane, anche se ciò è forse imputabile alla scomparsa, con questa sola eccezione, delle numerosissime opere del periodo 1623-29, resta lo "sfondato" sulla volta del ripiano dello scalone nel convento di S. Francesco a Bologna (1625 c.).
Esso appare ispirato alle cupole ottagone dipinte in villa Lante a Bagnaia da Agostino Tassi, che il C. conobbe nel cantiere di palazzo Ludovisi (J. Hibbard, Carlo Maderno ..., London 1971, p. 214, pubblica una nota spese in cui i nomi dei due pittori compaiono accanto), ma il linguaggio architettonico, nonostante l'adozione di un punto di fuga eccentrico, è serrato e ortodosso. Elemento nuovo, nelle prospettive illusionistiche del C., è l'intensificato contrasto di luce e ombra di possibile matrice guercinesca: alla luminosità diffusa della Paleotta subentra un "dramatic ligliting" (Sjöström, 1978, p. 53) ottenuto dall'insinuarsi di forti luci radenti dal valore altamente scenografico.Dopo aver dipinto con L. Massari la cappella maggiore di S. Domenico, il C. riprese la collaborazione con il Colonna, interrottasi all'epoca del viaggio a Roma, e decorò con questo una galleria nel convento di S. Michele in Bosco. Verso la fine del 1626 vennero entrambi invitati a Ferrara dal marchese Enzo Bentivoglio ad eseguire le scene degli spettacoli per le nozze della figlia Beatrice col noto autore di intermezzi Ascanio Pio di Savoia, celebrate nei primi mesi del 1627.
I brani di architettura delle scene, "caricati d'ombre e di lumi fierissimi, che ben poi filuminati mostravano un rilievo mirabile" (Malvasia, 1678, p. 108), ottennero un successo tanto più notevole essendo Ferrara centro importantissimo di elaborazione dei nuovi orientamenti nel campo della scenotecnica e dell'architettura teatrale. Li accompagnava il diciassettenne Agostino Mitelli il cui talento richiamò l'attenzione dell'Aleotti.
Nel 1627, a Bologna, il C. e il Colonna dipinsero in casa Rizzardi, in palazzo Grimaldi e fecero una prospettiva in capo alla strada di S. Michele in Bosco, ora testimoniata soltanto da un'incisione di Pio Panfili (P. Zanotti, Il claustro di S. Michele in Bosco, Bologna 1776, p. 78). Sempre nel 1627 il C. si recò a decorare il palazzo arcivescovile di Ravenna e fu poi richiesto a Parma per le scenografle degli spettacoli da rappresentarsi nelle grandiose feste del 1628, in occasione del matrimonio di Odoardo Farnese con Margherita de' Medici, che contemplavano l'apertura del teatro della Pilotta a dieci anni dalla costruzione.
Accompagnato dal Colonna, da A. Mitelli, da A. Seghizzi, già dal settembre 1627era all'opera e in stretto contatto con F. Guitti e il Chenda che gli fornivano progetti e bozzetti per le scene, come risulta da una lettera scritta il 15settembre dal Guitti ad Enzo Bentivoglio, che sovrintendeva ai lavori da Ferrara: "I bolognesi sono arrivati questa mattina, gli ho consegnato lo schizzo ... et è loro piaciuto; e domattina lavorano" (la corrispondenza da Parma col Bentivoglio, conservata presso la Bibl. comunale di Ferrara, Fondo Antonelli, ms. 660, è pubbl. da I. Lavin, Lettres de Parme 1618, 1627-28, et débuts du théâtre baroque, in J. Jacquot, Le lieu théâtral à la Renaissance, Paris 1964, pp. 118-151).
Nel teatro della Pilotta, probabilmente già corredato di un sipario dipinto dal C. e dallo Spada, venne rappresentato, il 21dic. 1628, il torneo Mercurio e Marte, su testo di C. Achillini e con musiche di Monteverdi, per il quale furono utilizzate in parte scene dipinte nel 1618e scene nuove. Fra queste risaltava La città di Tebe, opera del C., in cui "all'armonioso invito della cetra di Anfione andavansi insieme accostando i sassi e compaginando le mura" (Malvasia, 1678, p. 110). Nel teatro in legno eretto nel cortile di S. Pietro Martire su progetto di F. Guitti, si rappresentò il 13 dicembre l'Aminta delTasso con cinque "intermedii" di Ascanio Pio di Savoia. Agli intermezzi si riferiscono le scene del C. aventi per soggetto La città di Cartagine e La città celeste, come si evince da altre lettere del Guitti e di Francesco Mazzi da cui appare altresì quanto fossero stimate le opinioni della équipe bolognese in materia scenografica: "... Li Bolognesi havranno fornito la cità di Cartaggine a meza questa settimana e principiaranno la celeste. Ma insomma risolvono che sia mal partitto per la Belezza dell'architet tura che si debono vedere li musici su i Palazzi poi che impedisse loro una quantità di belissimi pensieri e sarebbe bene che li detti musici fossero nella cita mentre calla ma sì udissero e non si vedessero" (lett. del Guitti in data 24 ott. 1627, in Lavin, cit., 1964, pp. 124 s.).
Non è stato finora possibile rintracciare disegni o stampe riguardanti l'attività scenografica del C., e in partitolar modo la "rara" edizione delle scene per le feste farnesiane incisa a Parma nel 1629presso Seth ed Erasmo Viotti, vista a Firenze dal Donati (Donati, 1817, p. 75); quale sia stato il suo contributo in questo campo è pertanto ipotizzabile unicamente in base alle opere pittoriche ancora esistenti e ai documenti pubblicati dal Lavin. Egli promosse indubbiamente un più largo uso della scena architettonica, con accorgimenti che abolivano i fattori di disturbo prospettico e integravano illuminazione reale e chiaroscuro pittorico aumentando il grado di illusione teatrale; elaborò contemporaneamente i metodi per dipingere le quinte diagonali, codificati più tardi da Giulio Troili nei Paradossi per praticare la prospettiva (Bologna 1672). Caratteristiche delle prospettive parietali del C., trasferite con ogni probabilità alla scena, sono le limitazioni imposte allo spazio illusorio mediante una quinta architettonica di fondo e l'assenza di Ogni elemento di virtuosismo gratuito. Azzardata risulta invece l'affermazione della Povoledo (1957, col. 484) che il C. abbia applicato e insegnato la libertà dei fuochi prospettici, poiché nelle poche prospettive note prevale una rigorosa impostazione ad asse centrale.
Nel 1629 il C. alternò la propria attività tra Parma, dove, con il Colonna, decorò due sale (non più esistenti) nel palazzo del Giardino, e Bologna, dove condusse a termine l'ornamentazione della libreria del convento di S. Martino in collaborazione con L. Massari che dipinse la parte figurale con un'affollata Disputa di s. Cirillo.
A somiglianza di quanto.si può ancora vedere nella loggia dell'Aurelio, palazzina del complesso Malvezzi a Bagnarola (Budrio), di incerta paternità, alternativamente assegnata allo stesso C. e a Domenico Ambrogi (Matteucci, 1969, p. 249; Feinblatt, 1975, p. 345), le decorazioni della libreria si estendevano dalle pareti fino al soffitto, fornendo un esempio di decorazione totale coordinata, della quale attualmente resta unicamente una grande prospettiva parietale, concepita come un loggiato aperto scompartito in tre spazi da colonne, a guisa di boccascena, a conferma delle numerose corrispondenze tra quadráturismo e scenografia esistenti nell'opera del Curti.
Dopo l'importante commissione dello sfondato della cosiddetta sala Urbana, per l'appartamento del cardinal legato nel palazzo comunale di Bologna, dipinto assieme al Colonna (1630; un altro soffitto del palazzo comunale a lui attribuito nelle guide è stato identificato con quello della galleria dipinta per il legato Santa Croce da Colonna e Mitelli nel 1632 [Feinblatt, 1979, p. 622], ma sembra ipotizzabile un intervento del C. almeno a livello progettuale), il C. nel 1631-32 lavorò a Modena al servizio di Francesco I d'Este nel palazzo ducale (decorazioni di una cappella, di una stanza, di una galleria, ed anche scene per un torneo) oltre che nelle chiese di S. Vincenzo, S. Biagio del Carmine, S. Carlo rotondo.
Ammalatosi mentre era intento agli affreschi della cupola di S. Carlo, morì a Bologna il 18 dic. 1632 senza averli compiuti. L'unica delle opere modenesi ancora conservata è la quadratura nella volta della sagrestia di S. Biagio con al centro il Carro diElia del Colonna.
Oltre a quanto sopra ricordato, sono da porre in relazione con l'attività del C. le decorazioni di vari ambienti nella villa Beccadelli (anticamente Grimaldi) di Casalecchio di Reno (Matteucci, 1969, p. 334). La prospettiva del secondo chiostro dei Servi, tradizionalmente attribuitagli, spetta invece al Mitelli (Archivio di Stato di Bologna, Campione …, c. 35r). Sono completamente infondate le ascrizioni al C. di progetti architettonici, di prospettive da cavalletto o di trattati di propedeutica artistica (R. Buscaroli, La storiogr. artist. bolognese dal Lamo all'Orlandi, in L'Archiginnasio, XXXI [1936], 4-6, p. 201), sintomatiche però della fama che il C. si era acquistata, oltre che con le proprie opere, con l'impostazione di un modus operandii caratteristico della scuola bolognese, in cui il ruolo del quadraturista non sarà mai subordinato a quello del pittore di figura, e con l'avvio di una scuola fiorente i cui principali esponenti, Colonna, Mitelli, Sighizzi, esportarono, elaborandole, le idee del maestro e arricchirono di contributi autonomi le specialità della quadratura, della scenografia, e della stessa architettura teatrale. L'arte del C., mentre il tempo ne andava affievolendo i precisi connotati, fu perciò un ideale riferimento per quanti, nel sec. XVIII e oltre, aspirarono a rivitalizzare la tradizione quadraturistica bolognese.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Modena, Pittori, b. 14 (contiene documenti epistolari riguardanti il C., pubblicati in parte dal Venturi, 1917, e dalla Feinblatt, 1975); Arch. di Stato di Bologna, Sez. Serviti, Campione universale dei convento dei Servi, cc. 35r, 296; Bologna, Bibl. comunale dell'Archiginnasio, ms. B 996: P. A. Orlandi, Ecclesiae et conventusPP. carmelitarum S. Martini Maioris civit. Bononiae monum. [1723], cc. 61, 111; Ibid., ms. B 127: M. Oretti, Notizie de' professori del disegno..., cc. 21 ss.; Ibid., ms. B 911: V. Carrati, Limorti e sepeliti in varie chiese di Bologna, p. 402; O. Montalbani (Bumaldo), Minervalia Bononiensia, Bononiae 1641, f. 262; A. Masini, Bologna perlustrata, Bologna 1650, pp. 114, 168; F. Scannelli, Microcosmo della pittura, Cesena 1657, pp. 366, 369; L. Scaramuccia, Le finezze dei pennelli ital., Pavia 1674, f. 66; C. C. Malvasia, Felsina pittrice [1678], Bologna 1841, II, pp. 105-16; G. Fabri, Ravenna ricercata, Bologna 1678, p. 51; C. C. Malvasia, Le pitture di Bologna [1686], a cura di A. Emiliani, Bologna 1969, ad Indicem; P. A. Orlandi, Abecedario pittorico, Bologna 1704, p. 229; G. P. Zanotti, Storia dell'Accad. Clementina, Bologna 1739, I, pp. 29, 182, 282; L. Crespi, Vite de' pittori bolognesi, Roma 1769, pp. 32-37, 51, 52; P. Donati, Descrizione del gran teatro farnesiano di Parma, Parma 1817, pp. 36, 55, 60; G. G. Bottari-S. Ticozzi, Raccolta di lettere sulla pittura ..., VII, Milano 1822, p. 456; F. Algarotti, Opere scelte, Milano 1823, III pp. 185, 203, 231; A. Bolognini Amorini, Le vite di G. C. detto il Dentone..., Bologna 1833; G. Campori, Gli artisti ital. e stranieri negli Stati Estensi, Modena 1855, pp. 160-63, 175, 176; G. Lombardi, Documenti che riguardano la costruzione e lo spettacolo d'apertura del teatro Farnese, in Arch. stor. per le prov. parmensi, n.s., VI (1909), pp. 32, 33, 36; A. Venturi, Affreschi nella delizia estense di Sassuolo, in L'Arte, XX (1917), pp. 69 s.; H. Posse, Das Deckenfresco des Pietro da Cortona im Palazzo Barberini und die Deckenmalerei in Rom, in Jahrbuch der Preussischen Kunstsammlungen, XI, (1919), p. 138; S. De Vito Battaglia, Note su A. M. Colonna, in L'Arte, XXXI (1928), pp. 13, 16; F. Malaguzzi Valeri, Palazzi e ville bolognesi, in Cronache d'arte, V (1928), p. 57; R. Longhi, Momenti della pittura bolognese [1934], in Paragone, XIII (1962), 155, p. 51; E. Veggetti, M. A. Colonna, celebre frescante del sec. XVII, in Atti e mem. d. R. Deputaz. di storia patria per le prov. di Romagna, s. 4, XXIV (1934), pp. 192 ss., 200, 203, 205; G. Zucchini, Un affresco di L. Massari, in Il Comune di Bologna, XXI (1934), 9, p. 14; V. Golzio, Docum. artistici sul Seicento nell'Archivio Chigi, Roma 1939, pp. 19 s.; G. Zucchini, S. Michele in Bosco di Bologna, in L'Archiginnasio, XXXVIII (1943), pp. 49, 60; A. Schiavo, La Fontana di Trevi e le altre opere di Nicola Salvi, Roma 1956, p. 254; E. Povoledo, Dentone..., in Encicl. d. Spettacolo, IV, Roma 1957, coll. 483-85; V. Alce, Cronologia d. opere d'arte della cappella di S. Domenico in Bologna dal 1597 al 1619, in Arte antica e moderna, 1958, 3-4, pp. 292, 394; I. Sverisson, Disegni ined. di A. M. Colonna, ibid., 1965, 31-32, pp. 368, 370; A. M. Matteucci, Pittura e decorazione nelle ville bolognesi dal sec. XV al sec. XIX, in Ville del Bolognese, Bologna 1969, ad Indicem; I. Mussa, L'architettura illusionistica nelle decoraz. romane, in Capitolium, XLIV (1969), 8-9, pp. 47, 80; R. Roli, Quattro secoli dipittura, in S. Michele in Bosco, Bologna 1971, pp. 227 s.; I. Adamoli, Origini e vicende del convento di S. Maria dei Servi in Bologna, in Strenna storica bolognese, XXIV (1974), pp. 29 s.; G. Soli, Chiese di Modena, Modena 1974, I, pp. 182, 224; III, p. 362; E. Feinblatt, Contributions to G. C., in The Burlington Magazine, CXVII (1975), pp. 342-53; M. Heimbürger Ravalli, Arch. scult. e arti minori nel barocco ital., Firenze 1977, pp. 80, 120; R. Roli, Pittura bolognese 1650-1800..., Bologna 1977, ad Indicem; I. Sjöström, Quadratura. Studies in Italian Ceiling Painting [1974], Stockholm 1978, pp. 53 s.; P. Cassoli, Genesi e sviluppo del quadraturismo bolognese, tesi di laurea univ. di Bologna, anno acc. 1977-78; E. Feinblatt: Angelo Michele Colonna: a Profile, in The Burlington Magazine, CXXI (1979), pp. 618, 621, 625; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, VIII, pp. 212 s.; Encicl. univ. dell'arte, XI, col. 107 (s. v., Prospettici e quadraturisti, di F. Negri Arnoldi).