CURVE
. Nell'uso comune della parola, "curva" significa linea non retta e non composta di linee rette. Già Parmenide d'Elea, secondo Proclo nel Commento all'Euclide, distingueva le linee in rette, curve e miste. Ma nell'evoluzione del linguaggio matematico, che tende sempre ad eliminare le eccezioni affermando una veduta di continuità, la parola "curva" è divenuta sinonimo di "linea" ritenendosi dunque la retta come caso particolare della curva. Gli antichi Greci hanno conosciuto diverse specie di curve notevoli, oltre il cerchio: in primo luogo le coniche, e poi le curve d'ordine superiore usate per la soluzione del problema della trisezione dell'angolo o della duplicazione del cubo, cissoide di Diocle e concoide di Nicomede, e poi ancora la quadratrice di Ippia e Dinostrato, la spirale d'Archimede, ecc. Queste curve hanno offerto occasione a trattare diversi problemi (concernenti le tangenti, i massimi e minimi), che la geometria moderna ha risoluto in una maniera generale, e che stanno alla base del calcolo differenziale.
1. Sulla definizione di curva. - Nell'antica scuola di Pitagora (fondata il 540 a. C.) la linea si pensava costituita di punti-monadi, corpiccioli elementari di piccola estensione: da questa veduta, che risponde ad una conoscenza empirica non ancora razionalizzata, traevano i Pitagorici diverse conseguenze importanti, e in primo incontro ad una crisi in seguito alla scoperta degl'incommensurabili, fatta nella stessa scuola.
Si approfondì allora dagli Eleati (Parmenide e Zenone d'Elea) l'analisi del concetto degli enti geometrici, e si riuscì a capire che essi hanno un significato puramente ideale: il punto è senza estensione, la linea non si ottiene sommando dei punti ed è pura lunghezza senza larghezza, la superficie non ha spessore, ecc.
La discussione intorno all'esistenza di tali figure matematiche era viva in Grecia nella seconda metà del sec. V a. C. Sofisti, come Protagora d'Abdera, sostenevano che le vere linee hanno una certa larghezza e differiscono perciò dal concetto dei matematici; così il cerchio deve avere, non un punto, ma un piccolo tratto a comune con la tangente. Si trova qui una veduta empirica, cui consente Aristotele, e che sarà conservata dalla tradizione degli scettici, raccolta più tardi nel libro Adversus geometras di Sesto Empirico. Frattanto i filosofi razionalisti, ispirati dalle matematiche - Democrito e Platone - sostenevano, contro gli empirici, la realtà degl'Intelligibili o delle Idee: idea = ἰδέα significa originariamente schema o figura matematica.
I tentativi per chiarire il concetto generale della linea, nel secolo IV a. C., conducono ad alcune definizioni che ci sono riportate da Platone e Aristotele: definizione genetica della linea come luogo d'un punto che si muove, e definizione delle linee come termini delle superficie. La prima si ritrova in Proclo (ed. Friedlein 1873, p. 97) e in Pappo (ed. Hutltsch, 1877, II, p. 662). La seconda figura negli Elementi di Euclide (I, 6) come complemento alla I, 2 (le linee sono lunghezze senza larghezza) che, nella sua forma negativa, sta a ricordare e riassumere il risultato della già accennata polemica eleatico-pitagorica.
Le anzidette definizioni sono passate nell'insegnamento tradizionale della geometria; ma anche prima di arrivare alla critica contemporanea, il pensiero matematico doveva riconoscerne l'imprecisione e l'insufficienza. Così nell'Encyclopédie (nuova ed., IX, Ginevra 1777, p. 758), D'Alembert dice che la linea è un concetto fondamentale non ulteriormente spiegabile: per chiarire questo concetto generale conviene assumere come data la nozione di linee e superficie particolari, cioè della retta, del piano, ecc.
L'intero sviluppo delle matematiche moderne conduce a tale chiarimento. Ed in questo figura come essenziale il metodo della geometria analitica di Fermat e Descartes (La géometrie, 1637).
Riferiamoci per semplicità alla geometria del piano, e assumiamo in questo un sistema di assi cartesiani x, y (v. coordinate). La generazione meccanica della curva porta ad esprimere le coordinate d'un suo punto variabile come funzioni d'un parametro t (tempo):
Se, come accade di solito per tratti convenientemente limitati, la curva sega in un sol punto le parallele all'asse delle y, essa si può anche rappresentare ponendo y funzione di x:
Nei casi più consueti le funzioni di cui si discorre ammettono un'espressione analitica per mezzo delle operazioni elementari dell'analisi: operazioni razionali, radicali, esponenziali e logaritmi, seni e coseni, ecc. E la costruzione delle rette tangenti o delle curve osculatrici nei punti della curva, porta alle derivate successive di codeste funzioni (cfr. n. 2).
Sulla base d'un ragionamento induttivo si è condotti a ritenere che le curve descritte secondo una legge geometrica o meccanica si possano rappresentare per mezzo di funzioni definite come espressioni analitiche. Viceversa sembra anche evidente che le funzioni definite per mezzo d'un'espressione analitica qualsiasi vengano rappresentate per mezzo di curve; la stessa legge analitica della funzione sembra doversi tradurre, in qualche modo, in una legge di generazione geometrica o meccanica.
Sebbene questi enunciati siano evidentemente imprecisi, poiché vi figura la nozione non bene determinata della "legge geometrica o meccanica" nonché quella di "espressione analitica" essi non cessano di avere un significato, sia pure erroneo. Ne deriva, in particolare, che il concetto della curva viene pensato come assai più generale di quello della funzione: infatti accanto alle curve geometriche descritte secondo una legge, sembra naturale di considerare curve arbitrarie, descritte da un punto che si muova senza legge, e perciò non suscettibili di rappresentazione analitica.
Un tentativo di precisare le vedute sopra accennate è stato fatto da J. L. Lagrange col concetto della funzione analitica. Egli ammetteva che una funzione qualsiasi, cioè un'espressione di calcolo, in cui la variabile entri in modo qualsivoglia, sia sviluppabile in una serie di potenze di Taylor, fatta eccezione al più per alcuni punti singolari ove s'introdurrebbero sviluppi in serie di potenze fratte (cfr. Fonctions analytiques, 1798). La funzione analitica, così definita, esprime di fatto una legge estensibile a tutto il campo di variabilità, che esclude il mutamento arbitrario del moto generatore della curva. Ma si è riconosciuto più tardi che il concetto del Lagrange è troppo ristretto: le sue funzioni analitiche sono definite dalla proprietà di estendersi al campo della variabile complessa, ma altre funzioni, date p. es. come integrali di equazioni differenziali e pur rappresentabili con le note operazioni dell'analisi, escono da codesta classe. Le erronee vedute dei matematici a cui abbiamo accennato, dovevano essere corrette dagli studî sul problema delle corde vibranti e sulla teoria del calore, che hanno suscitato il problema della rappresentazione d'una funzione mediante serie trigonometriche. Ricordiamo brevemente questa interessante storia.
Nel 1747, D'Alembert diede la soluzione generale dell'equazione a derivate parziali del second'ordine che rappresenta le vibrazioni d'una corda elastica: l'integrale si presenta come somma di due funzioni
dove f è una funzione arbitraria periodica, di periodo eguale al doppio della lunghezza l della corda. Nel 1753, Daniele Bernoulli diede dello stesso problema una soluzione diversa: fra le vibrazioni possibili vi sono quelle rispondenti a certi suoni semplici, che si esprimono (con Taylor) mediante seni e coseni:
Bernoulli scopriva che anche le somme di questi integrali particolari debbono dare suoni composti, corrispondenti a possibili vibrazioni della corda, e ne deduceva che la soluzione generale del problema si può esprimere con una serie progrediente per seni e coseni di archi multipli. Ma questa deduzione veniva contestata da Eulero e da D'Alembert. L'integrale di Bernoulli, dicevano, non può essere l'integrale generale, altrimenti una curva arbitraria (corrispondente alla posizione iniziale della corda) si dovrebbe rappresentare con una serie trigonometrica. La serie trigonometrica esprime una legge analitica, perciò sembra a priori assurdo che ad essa possa rispondere, per es., una curva composta di più tratti di retta, in cui non si ravvisa l'unità d'una legge di descrizione.
Così ragionavano i nostri matematici. Ma a correggere tali vedute vennero le scoperte di J.-B. Fourier nella teoria del calore (anno 1807 e seguenti). Una linea composta di tratti paralleli e distinti si può rappresentare con una serie trigonometrica. Quindi il problema di esprimere una funzione arbitraria mediante una serie trigonometrica non sembra più assurdo. Anzi Fourier tenta di risolverlo riprendendo a tal uopo un metodo già escogitato da Eulero (1777), mediante il quale calcola i coefficienti della serie cercata. Sebbene questo calcolo non dimostri a rigore l'assunto, le larghe applicazioni delle serie di Fourier riescono a modificare profondamente i concetti di funzione e di curva. Dirichlet, che per primo ha dato condizioni rigorose per lo sviluppo di Fourier (1829), introduce la nuova definizione: una quantità y è funzione della variabile x in un dato intervallo, se, per ogni x dato in questo, resta definito un corrispondente valore di y (v. funzione). Una tale funzione y (x) può essere comunque discontinua, e quindi è chiaro che non rappresenterà in generale una curva, nel senso intuitivo della parola. Si ha dunque che il concetto di funzione secondo Dirichlet è più generale del nostro concetto di curva.
Bisogna almeno introdurre la restrizione della continuità. Ma, sarà lecito dire che ogni funzione continua y = f (x) rappresenti una curva? Per qualche tempo i matematici l'hanno creduto. Anzi deducevano di qui che la funzione continua f (x) deve possedere la derivata, in corrispondenza alla tangente che l'intuizione riconosce alla curva. Deduzione affatto arbitraria, che è stata demolita dalla critica di R. Weierstrass, U. Dini, ecc.: perché non è detto a priori che un luogo definito da condizioni matematiche astratte (funzione di Dirichlet continua) risponda ad attributi intuitivi. E del resto gli esempî di funzioni continue prive di derivata rispondono esaurientemente a ogni dubbio.
Qui giova ricordare un celebre teorema di Weierstrass: ogni funzione continua ammette un'espressione analitica come serie di polinomî. In conseguenza si deve dire che, non solo la funzione di Dirichlet, ma anche la funzione rappresentabile con un'espressione analitica, risponde ad un concetto più generale della curva. La tesi dei matematici del secolo XVIII si trova esattamente invertita.
Ma lo studio delle curve rappresentate parametricamente da funzioni continue riservava altre sorprese. Assumendo una (cosiddetta) linea rappresentata da due funzioni continue x = ϕ (t), y = ψ (t), traduciamo la proprietà adombrata nella definizione tradizionale della curva come traiettoria d'un punto mobile. Si può ricercare se in conseguenza venga soddisfatta anche la proprietà adombrata nell'altra definizione della curva come termine di superficie, cioè se la detta linea sia suscettibile di dividere una superficie piana in due parti. Orbene, G. Peano (Sur une courbe qui remplit toute un'aire plane, in Math. Annalen, 1890) ha costruito l'esempio d'una linea, rappresentata da due funzioni continue, e che pur tuttavia riempie un intero quadrato.
Affinché una linea, rappresentata parametricamente da due funzioni continue x = ϕ (t), y = ψ (t), divida una superficie piana in due parti, occorre postulare che i suoi punti corrispondano biunivocamente ai valori del parametro t, riuscendo dunque t funzione continua di x e y, cioè che la curva sia descritta semplicemente da un suo punto mobile (teorema di C. Jordan in Cours d'analyse, 2ª ediz., Parigi 1897, I, pp. 90-100).
D'altra parte si può cercare di conferire un senso preciso alla definizione delle linee come lunghezze senza larghezza, e ciò in rapporto alla teoria degli insiemi di G. Cantor (v. insieme): si è condotti allora a considerare, nel piano, degli insiemi G di punti, continui - cioè perfetti e ben concatenati - e pur privi di punti interni; tali cioè che mai nessun intorno d'un punto P di G appartenga a G. Ma si trovano in tal guisa delle figure che non sono suscettibili di esser poste in corrispondenza biunivoca e continua con un segmento rettilineo. Ora le curve di Jordan, rappresentabili per mezzo di funzioni continue invertibili d'un parametro, soddisfano ai primi attributi elementari delle curve intuitive, ma non a tutti. Bisogna sottoporre ulteriormente le funzioni rappresentative ad altre condizioni restrittive perché la curva possegga in ciascun punto la tangente, il cerchio osculatore, ecc.
Per tentare un'analisi esauriente del concetto della curva, sembra naturale di rivolgersi all'esperienza fisica. Per esempio, cercheremo di trarre le proprietà della curva da quelle del filo. La considerazione del filo ci suggerirà, in effetto, alcune semplici nozioni: saremo anzitutto indotti a postulare che l'arco possegga una lunghezza finita, ossia che la curva sia rettificabile; per una curva continua ciò richiede soltanto l'esistenza di un limite superiore alla lunghezza delle poligonali iscritte (L. Scheeffer, 1884-85). Sorgerà quindi la domanda fino a che punto tale condizione porti l'esistenza delle tangenti, ecc. Un teorema di H. Lebesgue (1904) risponde al problema insegnandoci che "una curva rettificabile possiede la tangente quasi in ogni punto, cioè in tutti i punti, fatta eccezione per i punti d'un insieme di misura nulla".
Comunque, l'esperienza sul filo non può servire a caratterizzare la curva matematica intuitiva; e qualsiasi esperienza riesce inadeguata allo scopo. Una linea fisica non è mai una vera linea (pura lunghezza senza larghezza né spessore), sia che si pensi realizzata da un filo (corpo tubiforme di piccolo diametro), sia che venga data da una striscia, quale è, p. es., una strada. Risorgono qui le difficoltà degli antichi empiristi, di cui F. Klein ha ripreso le vedute.
Quando si vuole sostituire ad una striscia la figura limite della curva, andiamo incontro a un processo d'idealizzazione che ha in sé qualcosa d'arbitrario. Per es., si potrebbe idealizzare una striscia sostituendovi una curva a zig-zag, con infinite piccole oscillazioni; l'intuizione non segue questa via complicata: la tangente ad una striscia si può definire, come ha indicato lo stesso Klein, mediante un'altra striscia parallela, che ne segna, in qualche modo, la direzione. Ma, in ultima analisi, quando tentiamo di derivare dall'esperienza fisica i postulati della linea, dobbiamo tener conto, non tanto dei dati di fatto dell'esperienza stessa, quanto delle esigenze semplificatrici della nostra mente, che in essi si rispecchiano.
F. Enriques ha cercato di formulare tali esigenze postulando che "due linee piane, interamente rappresentate nella nostra intuizione, abbiano a comune un numero finito di punti". Da questa ipotesi egli deduce condizioni, a cui deve soddisfare una curva intuitiva, rispetto ad altri luoghi già riconosciuti come curve. Così, paragonando una curva qualsiasi alle linee rette e alle parabole d'ordine 2, 3..., ne trae l'esistenza in ogni punto della curva d'una tangente a destra e d'una tangente a sinistra, e parimente di parabole osculatrici di tutti gli ordini.
Si potrà considerare la curva data (per un tratto a destra o a sinistra d'ogni puuto) come limite di tali parabole osculatrici, e più precisamente come una curva analitica, cioè definita da funzioni analitiche nel senso di Lagrange?
Per saggiare il postulato, a cui si è condotti in tal guisa, osserviamo: la curva analitica risponde ad una legge che la definisce in tutta la sua estensione quando ne sia dato un arco comunque piccolo. Parrebbe dunque che il prolungamento di una curva arbitraria dovesse essere definito da un arco qualsiasi della curva. Ma, a sciogliere questo paradosso, rispondiamo: le osservazioni precedenti non ci suggerivano di dire che "ogni curva intuitiva sia una curva analitica", ma tutt'al più che "una curva intuitiva arbitraria si compone di un numero finito di curve analitiche, raccordate in punti angolari, dove la tangente (o una parabola osculatrice) a destra differisce dalla tangente (o parabola osculatrice) a sinistra". Secondo questa veduta il pensiero matematico sarebbe capace d'immaginare infinite leggi (analitiche) di descrizione d'una curva, e la curva arbitraria risulterebbe determinata nella nostra intuizione, non soltanto dalla scelta d'una legge, ma anche da un numero finito di interventi volontarî, che si traducono in successivi cambiamenti della detta legge, corrispondenti ai punti angolari.
Se ora si chieda di trarre una conclusione da tutto ciò che precede, diremo che la difficoltà di definire in modo esauriente il concetto generale della curva sembra derivare da ciò, che la mente nostra è capace d'immaginare infinite specie di linee, dotate di certe proprietà intuitive, senza che sia segnato a tale immaginazione un limite esatto. A seconda degli scopi che si hanno in vista, converrà dunque riferirsi a famiglie di curve particolari ulteriormente estensibili (come le curve algebriche o le più semplici trascendenti), ovvero ad enti più generali caratterizzati da alcuni dei postulati che l'intuizione attribuisce alle linee. La topologia, la geometria differenziale, ecc., procedono appunto in tal guisa, quando assumono come curve le linee di Jordan, ovvero quelle corrispondenti a funzioni dotate di alcune derivate successive, ecc. In ogni caso le linee analitiche (rappresentate da serie di potenze) sembrano rispondere nel miglior modo agli attributi delle curve intuitive.
2. Proprietà differenziali delle curve piane. - Riassumiamo brevemente le proprietà differenziali delle curve, cioè le proprietà che loro spettano in generale nell'intorno d'un punto (non singolare), riferendoci dapprima al caso delle curve piane.
Se la curva è rappresentata dalla funzione, continua e derivabile, y = f (x), la tangente nel punto (x, y) ha come coefficiente angolare la derivata y′ = dy/dx = f (x); questa è dunque la tangente trigonometrica dell'angolo che la retta tangente fa con l'asse delle x. L'equazione della retta tangente è data, in coordinate correnti X, Y, da
Ove la curva sia rappresentata dall'equazione f (x, y)=0, l'equazione della tangente sarà:
L'equazione della normale sarà quindi
In generale la tangente ad una curva lascia, per un certo tratto, la curva tutta da una parte (verso cui la curva volge la sua concavità). Fanno eccezione i punti d'inflessione o di flesso, in cui la tangente traversa la curva e dove la derivata seconda (nell'ipotesi della continuità) risulta nulla o infinita. Ivi la derivata seconda cambia di segno, e la curva viene a volgere la sua convessità a quella parte di piano cui prima volgeva la concavità.
La lunghezza dell'arco di curva contato a partire da un punto origine (x0, y0) è espressa da
L'area compresa fra la curva, limitata fra i punti (x0, y0), (x1, y1), le perpendicolari per questi estremi all'asse delle x, e questo asse vale
Le derivate successive della funzione y = f (x) permettono di scrivere le equazioni delle curve osculatrici, in particolare delle parabole. La parabola osculatrice del second'ordine, cioè la parabola limite d'una parabola tangente che incontri la curva in un punto ulteriore avvicinantesi ad (x0, y0) è data da
In modo analogo si hanno tutte le parabole osculatrici d'ordine n = 3, 4, ecc., le cui equazioni si ottengono prendendo i primi n + 1 termini dello sviluppo di Taylor della funzione f (x):
Fra le curve osculatrici ha speciale importanza il cerchio: cerchio osculatore è il limite d'un cerchio tangente che passi per un punto ulteriore avvicinantesi al punto di contatto (v. curvatura). Il suo raggio si dice raggio di curvatura della linea data; esso è più o meno grande, secondoché la curva è meno o più incurvata, cioè discosta dalla retta. L'espressione del raggio di curvatura è data da
3. Punti singolari delle curve piane. - A una curva possono appartenere dei punti singolari. Per una curva arbitraria un punto singolare può corrispondere a un brusco volontario cambiamento della legge con cui la curva stessa viene generata. Ma, se si tratta di curve algebriche o analitiche, si presentano per così dire dei punti singolari naturali, definiti dalla legge stessa di generazione della curva. Così, per es., la curva composta di due archi di cerchio aventi in un estremo la stessa tangente e curvatura in senso opposto, collegati in maniera da attraversare la tangente, ci dà un punto di flesso (fig. 1) o una cuspide (fig. 2) artificiale, dove viene meno la continuità della curvatura (che cambia bruscamente di segno). Invece un flesso naturale si ha - come già abbiamo accennato - dove la curvatura diventa nulla o infinita; e in corrispondenza a queste due ipotesi s'incontrano due tipi di flessi (di prima e di seconda specie) che si può tentare di rappresentare rispettivamente con due figure, nell'una delle quali si collegano due curve di curvatura opposta che vanno avvicinandosi alla retta loro comune tangente, nell'altra invece si collegano analogamente due curve che presentano l'aspetto dei due semiarchi costituenti una punta (il cerchio osculatore tende a divenire piccolissimo, teoricamente ad un punto). Similmente si ha una cuspide naturale in cui si collegano due archi con curvatura infinita o nulla: il primo caso - la cuspide ordinaria che si presenta, p. es., per la curva y2 = x3 nel punto (0, 0) - si ottiene dal flesso di seconda specie sostituendo a uno dei due archi il simmetrico rispetto alla normale alla curva; e in modo analogo si deduce il secondo caso (la cuspide acuminata) dal flesso di prima specie. Una variante della cuspide è offerta dal cosiddetto becco (fig. 3), dove i due archi stanno dalla medesima parte della tangente. In tutti i casi la singolarità della cuspide, nel campo reale, si può caratterizzare dicendo che la curva viene descritta dal moto d'un punto, che in essa viene invertito (invertendosi, con continuità, anche la curvatura). Vi sono punti singolari di specie diversa e si possono, in primo luogo, caratterizzare i punti singolari algebrici, che appartengono alle curve algebriche (n. 5) o alle trascendenti a comportamento algebrico (algebroidi).
All'infuori del caso dei più semplici flessi, un punto singolare della curva algebrica piana f (x, y) = 0 è un punto multiplo secondo un certo intero r, caratterizzato dall'annullarsi di tutte le derivate parziali di f, fino all'ordine r escluso: un tal punto è definito geometricamente dalla proprietà che le rette per esso hanno ivi con la curva r intersezioni riunite.
Per r = 2 si ha un punto doppio, che, dal punto di vista della realtà, dà luogo a tre tipi (fig. 4): nodo, cuspide e punto isolato. In quest'ultimo caso si può dire che la curva passante per il punto si riduce ad un cerchietto infinitesimo, come accade per la sezione d'una superficie col piano tangente in un punto ellittico.
Per r qualsiasi, l'aspetto del punto r-plo O - sempre nel campo reale - dipende dalla realità o meno delle rette che ivi osculano la curva (avendo almeno, in generale, con essa r + 1 intersezioni riunite in O, anziché r). Se codeste rette osculatrici sono tutte reali e distinte, la curva nell'intorno di O è costituita di r archi o rami lineari, che dal punto di vista differenziale sono r linee passanti semplicemente per O e intersecantisi in esso. Ma, indipendentemente dalla realità, se le nominate rette osculatrici sono distinte, si può sempre scindere la curva - o la corrispondente funzione y (x) - nell'intorno di O in r rami lineari (curve o funzioni elementari che solo a distanza da O si ricollegano, prolungandosi l'una nell'altra). Una complicazione sorge invece quando alcune delle rette menzionate vengono a coincidere. Allora, generalmente, i rami si fondono in rami cuspidali o superlineari. Così accade già nel punto doppio O = (o,0) della curva y2 = x3, che - come si è detto - è una cuspide. Qui si sarebbe tratti a distinguere i due archi corrispondenti a y = + √x3 e y = − √x3 ; ma le due funzioni così distinte nel campo reale (e quindi anche le due curve da esse rappresentate) non si lasciano più distinguere nel campo complesso, pur restando nell'intorno del punto O, anzi si scambiano e prolungano l'una nell'altra: non si può parlare (in questo campo) di due rami (della funzione o della curva) ma di un solo ramo di second'ordine, cioè di una funzione irreducibile a due valori.
Il problema di distinguere, in tutti i casi, i rami lineari o superlineari di una curva in un punto singolare algebrico, prende origine nella scuola di Newton, ma il resultato è stato precisato da V. Puiseux (1850). Il quale, studiando la funzione algebrica implicita y(x) definita dall'equazione f(x, y) = 0, come funzione della variabile complessa x, ha dimostrato che la curva nell'intorno del punto singolare si lascia separare in più curve o rami, ciascuno dei quali si rappresenta con sviluppi in serie di potenze d'un parametro t, o più semplicemente con una serie di potenze fratte
D'altra parte M. Nöther (1871) ha riconosciuto che ogni singolarità algebrica si può ritenere come riunione (o limite) di punti multipli ordinarî che sono divenuti infinitamente vicini, e che si possono separare mediante successive trasformazioni quadratiche del piano. I punti multipli infinitamente vicini si lasciano definire mediante condizioni differenziali, sviluppate da F. Enriques (1916), e in questo senso si conferisce loro una reale esistenza. La singolarità viene definita, non soltanto dalla molteplicità, ma anche dalla posizione di tali punti (punti liberi e punti satelliti) determinata mediante derivate-coordinate.
L'introduzione dei punti multipli infinitamente vicini permette con Nöther di risolvere il problema delle intersezioni di due curve, trattato da A. Cayley, G. Halphen, ecc.; il numero delle intersezioni di due curve assorbite in un punto singolare è dato dalla somma Σrs, dove r e s (≥ 1) sono le molteplicità rispettive delle curve stesse in tutti i punti infinitamente vicini che confluiscono a formare la singolarità.
Si aggiunga che i punti multipli infinitamente vicini contano come i punti proprî rispetto alle condizioni di passaggio per una curva algebrica d'ordine assai elevato: cioè ogni punto che debba avere la molteplicità r impone alla curva r(r + 1)/2 condizioni lineari.
La forma di una curva, o meglio d'un ramo reale di curva, nell'intorno di un punto singolare algebrico, dà luogo a diversi casi, che sono, oltre ai tipi di flesso e di cuspide descritti innanzi, anche la curva a punta e la curva appiattita, quali si ottengono dai due tipi di flesso collocando i due archi dalla medesima parte della tangente, e dalla parte opposta della normale: la curva a punta nasce in tal guisa dal flesso di seconda specie, quella appiattita dal flesso di prima specie (con curvatura nulla). L'analisi di tutte queste forme si trova completamente svolta da G. Cramer, in Introduction à l'analyse des lignes courbes algébriques, Ginevra 1750, cap. XII.
I punti all'infinito d'una curva, e le singolarità che in essi la curva può presentare, si riconducono per proiezione a punti proprî. Tuttavia quanto alla forma giova avvertire che in un punto ordinario all'infinito, la tangente (asintoto) traversa la curva, che appare dunque costituita da due rami accostantisi nelle due direzioni all'asintoto da bande opposte (fig. 5), come si osserva, p. es., per i due rami dell'iperbole (v. coniche). Invece se si ha all'infinito un flesso (cioè un punto la cui proiezione dia un flesso), la curva viene costituita da due rami che si accostano nelle due direzioni opposte all'asintoto dalla stessa parte di piano (fig. 6), ecc.
I punti singolari del tipo algebrico non sono i soli che si presentino nelle curve trascendenti. Anzi diversi esempî si offrono a noi, già in casi ordinarî. Si pensi, per es., alla singolarità della sinusoide y = sen x, nel punto all'infinito dell'asse x: se si proietta questo punto in un punto proprio O, si ottiene una curva che si accosta e tende ad O oscillando indefinitamente, in guisa che nel punto limite O non si può definire la tangente.
Un altro esempio noto è offerto da una spirale che si avvolga accostandosi asintoticamente a un punto O (fuoco).
Una singolarità grafica di questo tipo si può presentare nei punti singolari delle equazioni differenziali del prim'ordine e del primo grado, analizzati da H. Poincaré e da I. O. Bendixson (classificazione delle tre specie di punti singolari: nodi, selle o colli e fuochi).
4. Proprietà differenziali delle curve gobbe. - Si dice gobba una curva dello spazio che non giaccia in un piano, e generalmente si esclude che essa sia composta di tratti piani o comprenda qualche tratto di curva piana. Alcune curve gobbe vennero considerate fino dall'antichità: così Archita ha studiato l'intersezione d'una sfera e d'un toro, e in Pappo si trovano varie proprietà della curva che si presenta sulla sfera come analoga della spirale d'Archimede. Nell'epoca moderna le intersezioni di sfere, coni e cilindri sono state studiate fin dal sec. XVII, nel trattato del p. De Courcier (1662). Ma lo studio metodico delle curve gobbe, con lo strumento della geometria analitica, comincia con A. C. Clairaut (1731).
Per rappresentare una curva gobba si possono assumere le coordinate x, y, z, del punto variabile su essa come funzioni d'un parametro t : x = x (t), y = y (t), z = z (t), aggiungendo per siffatte funzioni le condizioni di continuità e di derivabilità fino a quell'ordine che, caso per caso, occorre.
L'arco s della curva - a contare da una certa origine - si ottiene integrando l'elemento lineare
I coseni direttori della tangente nel punto (x, y, z), orientata nel verso delle s crescenti, sono dati da
Il piano normale (a codesta tangente) ha per per equazione
I piani che contengono la tangente alla curva in M e la segano ulteriormente in un punto vicino M′, definiscono generalmente un piano limite, quando M′ tende a M, che si dice piano osculatore e che si può anche definire come la posizione limite del piano passante per M e per altri due punti generici M′, M″ della curva, quando, tenuto fisso M, si fanno tendere M′ e M″, lungo la curva, a M. L'equazione del piano osculatore è data da
Per una curva piana il piano osculatore coincide in ogni punto col piano della curva; invece per una curva gobba esso varia col punto M d'osculazione.
In un generico punto M di una curva sghemba il piano osculatore e il piano normale si segano secondo una retta, che si dice normale principale della curva in M, mentre si chiama binormale la perpendicolare in M al piano osculaiore. La tangente, la normale principale e la binormale costituiscono un triedro trirettangolo: il triedro principale (o satellite), relativo alla curva in M.
Quando M descrive la curva, variano, pure mantenendosi a due a due ortogonali, le direzioni, rispetto agli assi, dei tre spigoli del triedro principale, e la considerazione della varia rapidità di deviazione di codeste tre direzioni, in rapporto agli archi percorsi da M sulla curva, conduce a un metodo elegante e fecondo per lo studio delle proprietà differenziali delle curve, che è noto sotto il nome di "metodo del triedro mobile" (cfr. G. Darboux, Leçons sur la théorie générale des surfaces, I, 2ª ediz., Parigi 1914, I, 1, 11) e che è stato esteso alle superficie e, più in generale, alle varietà a quante si vogliono dimensioni dallo stesso Darboux, da A. Demoulin, da E. Cotton e, più specialmente, da E. Cartan. È già stato rilevato altrove (v. curvatura) che la varia rapidità di deviazione della tangente, in relazione al cammino di M sulla curva, si valuta punto per punto mediante la flessione o prima curvatura 1/r (dove r è il raggio di flessione) e che l'analoga deviazione della binormale - o, ciò che è lo stesso, del piano osculatore - si valuta mediante la torsione o seconda curvatura 1/ρ (dove ρ è il corrispondente raggio). Sono fondamentali in quest'ordine di questioni le cosiddette formule di Frenet-Serret, le quali permettono di esprimere le derivate, rispetto all'arco s, dei nove coseni direttori dei tre spigoli del triedro principale per mezzo dei coseni stessi e dei raggi di curvatura r e ρ. Ma per dare a codeste espressioni una forma non ambigua, bisogna attribuire convenzionalmente un segno alla torsione e quindi al corrispondente raggio (mentre la flessione si considera sempre in valore assoluto). Per chiarire le convenzioni, che s'introducono a tale scopo, importa tener conto del fatto che una curva sghemba, mentre in un suo generico punto M attraversa il piano osculatore, giace tutta (in prossimità di M) da una medesima banda del piano (chiamato rettificante) della tangente e della binormale. In base a questo fatto si fa la convenzione, di natura intrinseca, di orientare sempre la normale principale da M verso quella parte da cui, rispetto al piano rettificante, giace, intorno a M, la curva; e poi s'immagina un osservatore che stando ritto su una qualsiasi delle due facce del piano osculatore, coi piedi in M, guardi nella direzione orientata della normale principale. La curva si dice, in M, destrorsa o sinistrorsa, secondo che codesto osservatore la vede salire (traverso il piano osculatore) da sinistra verso destra o nel senso opposto; e questa distinzione è intrinseca, perché non dipende dalla scelta della faccia del piano osculatore, su cui si pensa ritto l'osservatore. Ciò premesso, alla torsione della curva in M si attribuisce il segno + se la terna (ortogonale) di assi cartesiani adottati e la curva in M sono entrambe destrorse o sinistrorse, il segno − in caso contrario. Si aggiunga infine, la convenzione di orientare la binormale in modo che la terna trirettangola "tangente (orientata ad arbitrio, p. es. nel verso delle s crescenti), normale principale (orientata nel verso dianzi precisato) e binormale" risulti di orientazione concorde alla terna cartesiana di riferimento e si designino i coseni direttori di codeste tre rette coi simboli indicati nella seguente tabelletta:
Le formule di Frenet-Serret sono:
Se s'introducono i tre versori, o vettori unitarî, t (tangenziale, di componenti α, β, γ), n (normale principale, di componenti ξ, η, ζ), n′ (binormale, di componenti λ, μ, ν), le formule precedenti si possono scrivere sotto la forma vettoriale, che non solo è in sé stessa espressiva, ma risulta spesso assai comoda (v., p. es., cinematica)
Le tangenti a una curva gobba formano una superficie rigata che si può definire anche come inviluppo della serie semplicemente infinita dei piani osculatori alla curva: una tale rigata si dice sviluppabile, perché a essa, o almeno a regioni di essa convenientemente limitate, spetta la proprietà di potersi adattare, per semplice flessione senza estensione né duplicature, sopra una superficie piana.
Non c'indugeremo a parlare dei punti singolari delle curve gobbe. Basterà menzionare i punti stazionarî, in cui il piano osculatore ha un contatto d'ordine dispari con la curva, che nell'intorno del punto viene lasciata tutta da una parte. E aggiungeremo che si possono studiare i punti singolari delle curve gobbe, riferendosi alle singolarità delle curve piane che se ne deducono per proiezione. Così si possono definire le singolarità algebriche costituite da punti doppî o multipli d'ordine i (ove la curva ha i intersezioni riunite con un piano qualsiasi); in particolare si possono distinguere i punti doppî a tangenti distinte o nodi e le cuspidi, ecc.
5. Curve algebriche piane: storia. - Fra le curve si presentano come analiticamente semplici e nettamente definite nella loro integrità, le curve algebriche. Nel piano esse si definiscono mediante un'equazione algebrica fra le coordinate cartesiane: f (x, y) = 0. La distinzione fra curve algebriche e trascendenti appartiene a Descartes (1637). Il quale concepì anche una classificazione delle curve algebriche; ma la classificazione oggi in uso, secondo l'ordine (grado complessivo di f rispetto a x e y, ovvero numero delle intersezioni della curva con una retta generica) è dovuta a Newton (1676).
Le curve di second'ordine - coniche - furono studiate nella scuola francese da Descartes, Desargues, Pascal e De La Hire, che sembra avere esercitato un'influenza sopra Newton. Questi è passato alla Enumeratio linearum tertii ordinis (1704), distinguendo le varie forme delle cubiche e riducendole per proiezione alle parabole campaniformi (genesis per umbras).
Lo sviluppo ulteriore della teoria delle curve algebriche, nelle scuole newtoniana e cartesiana, conduce verso la metà del sec. XVIII alla composizione di alcuni trattati: Mac Laurin (1720-1748), De Gua Malves (1740), Eulero (1748), Cramer (1780), nonché un anonimo francese (1756). In tali trattati si studiano ed espongono le proprietà di forma, in piccolo e in grande: in piccolo, cioè nell'intorno d'un punto - sia ordinario, sia singolare - si applicano e svolgono concetti e metodi del calcolo differenziale; in grande, cioè riguardando la curva reale nella sua interezza, si estendono alle curve d'ordine superiore le proprietà diametrali delle coniche e si analizzano le proprietà asintotiche (ricondotte più tardi allo studio dei punti singolari proprî).
Si trovano, in codesti trattati, problemi approfonditi con una analisi esauriente, e pensieri e metodi che diverranno il germe di nuovi problemi e sviluppi; tali i metodi sintetici di Mac Laurin, le considerazioni sui gruppi di punti capaci di determinare una curva d'ordine n e sul cosiddetto paradosso di Eulero-Cramer.
Un radicale progresso si compie attraverso l'elaborazione della geometria positiva proiettiva nella scuola di G. Monge (Poncelet, Gergonne e poi Chasles e De Jonquières in Francia, Möbius, Steiner, Staudt, Plücker in Germania): verso la metà del secolo scorso la rinnovata teoria delle curve algebriche si disegna nei trattati di Plücker (1839), Salmon (1892) e Cremona (1861). L'interesse metrico cede di fronte all'interesse per le proprietà proiettive, e perciò accanto alla curva luogo di punti viene presa in considerazione la curva duale inviluppo di tangenti. A questa considerazione si legano il problema delle tangenti condotte per un punto e delle singolarità duali (formule di Poncelet-Plücker), la teoria delle polari, le curve covarianti. Inoltre il principio di continuità domina ora la veduta degli enti algebrici, la quale si estende dal campo reale al campo complesso. La nuova geometria contempla egualmente figure reali e immaginarie, fondendosi quindi più completamente con l'analisi algebrica: la quale, a sua volta, si piega allo spirito della geometria proiettiva con la nuova teoria delle forme, che, nelle lezioni di Clebsch-Lindemann del 1875-76, domina la trattazione delle curve.
Ma anche il secondo periodo (proiettivo) nella scienza delle curve algebriche doveva essere presto superato. Una nuova influenza, che viene dalla teoria delle funzioni di Riemann, si fa sentire nell'opera di Clebsch e di Brill e Nöther: le curve non sono più considerate per le loro proprietà invarianti di fronte alle trasformazioni proiettive, bensì di fronte alle trasformazioni birazionali. Il nuovo spirito è accolto (prima del 1900) in Italia, nella scuola di L. Cremona, che legò appunto il suo nome alle trasformazioni birazionali del piano (dette cremoniane); e qui la teoria invariantiva delle curve (e poi delle superficie) è coltivata e spinta innanzi da Segre, Bertini, Castelnuovo, Enriques, Severi.
Dopo avere così disegnato, nelle sue linee essenziali, l'evoluzione della dottrina delle curve algebriche, esporremo i principali problemi e risultati generali che vi si riferiscono, rimandando per maggiori sviluppi ai più recenti trattati.
6. Teoria proiettiva delle curve algebriche piane. - Una curva algebrica d'ordine n è determinata da n (n+3)/2 punti generici dati nel piano, il passaggio per un punto traducendosi in una condizione lineare fra i coefficienti dell'equazione della curva. Lo studio dei gruppi di punti per cui tali condizioni lineari non risultano indipendenti conduce Eulero e Cramer alla teoria generale dei sistemi d'equazioni lineari, oggi sviluppata con l'utile simbolismo dei "determinanti".
In particolare Eulero e Cramer discutono e spiegano il paradosso, che era stato già incontrato da Mac Laurin: due curve d'ordine n hanno n2 punti a comune; ma n (n+3)/2, presi fra questi, non bastano più a determinare una curva. Il paradosso di Cramer appare nel suo vero significato al lume del cosiddetto principio di Lamé (1818), per cui una curva d'ordine n passante per le n2 intersezioni di due altre f e ϕ si esprime come una combinazione lineare λf + μϕ = 0. In particolare risulta qui che le cubiche piane passanti per 8 fra le 9 intersezioni di due cubiche passano di conseguenza anche per la nona.
Un'estensione del teorema che precede è il seguente: due curve d'ordine n e m si segano in mn punti; se, fra questi, nr (con r 〈 m) appartengono a una curva d'ordine r, i rimanenti stanno sopra una curva d'ordine s = m − r.
Tutti i teoremi di questo genere (di Gergonne, Jacobi, ecc.) restano inclusi e riassunti nel teorema fondamentale di Nöther (1872): se una curva F = 0, d'un certo ordine N, passa con la molteplicità r + s − 1 per ogni punto comune a due curve f e ϕ degli ordini n e m, che sia r-plo per l'una e s-plo per l'altra, la F si esprime come una combinazione lineare, dove A e B sono due polinomî rispettivamente d'ordine N − n e N − m
Un secondo ordine d'idee nella teoria delle curve algebriche prende origine dalla considerazione della curva inviluppo, secondo il principio di dualità della geometria proiettiva. Una curva d'ordine n, considerata come inviluppo delle sue tangenti, viene rappresentata, anziché da un'equazione di grado n nelle coordinate di punti, da un'equazione d'un certo grado m nelle coordinate di rette. Il numero m si dice classe della curva e risponde al numero delle tangenti alla curva passanti per un punto generico del piano. Quante sono queste tangenti? Poncelet, riducendosi per proiezione alla ricerca delle tangenti parallele a una certa direzione, ha trovato che in generale m = n (n − 1). Ma qui nasce un paradosso. Se la curva d'ordine n ha la classe m = n (n − 1), dualmente la curva di classe m avrà l'ordine m (m − 1); donde sembra risultare la conseguenza che la curva d'ordine n debba essere anche d'ordine m (m − 1) = n (n − 1) {n (n − 1) − 1}.
La soluzione del paradosso di Poncelet sta in ciò: che la curva generale d'ordine n non è la più generale curva di classe n (n − 1), ma soltanto una curva particolare di questa classe. La particolarità consiste nel possesso di un certo numero τ di tangenti doppie (a contatti distinti) e di un certo numero ι di tangenti di flesso.
Queste osservazioni conducono a cercare le relazioni fra le singolarità duali d'una curva. Riferendoci al caso delle singolarità elementari, supponiamo che una curva d'ordine n e di classe m possegga d punti doppî (nodi) a tangenti distinte, e k cuspidi ordinarie, τ tangenti doppie e ι flessi. Si avrà:
La prima formula (da cui la seconda si deduce per dualità) è stata scoperta da Poncelet; la terza da Plücker. Nondimeno si usa di solito designare col nome di Plücker, non solo tutte e tre le relazioni sopra scritte, ma anche le relazioni analoghe che se ne deducono come conseguenze. Fra queste è specialmente notevole l'equazione del genere: designando come genere p il numero
si ha pure
Questo carattere p acquista poi una particolare importanza nello studio delle curve, perché si riconosce invariante nelle trasformazioni birazionali. Esso è pure suscettibile di una definizione topologica in rapporto alla superficie di Riemann corrispondente alla curva f. Si dice superficie di Riemann di f, la superficie, definita topologicamente, che offre la rappresentazione reale dei punti complessi della f. Di questa superficie appunto si dimostra che ha un ordine di connessione 2p, possedendo dunque 2p cicli linearmente indipendenti, ovvero 2p tagli irriducibili, che non la spezzano (v. analysis situs).
Ritornando alla teoria proiettiva delle curve, diciamo che, per la soluzione del problema della classe, e anche per lo studio delle singolarità d'una curva, s'introduce naturalmente la polarità, che generalizza la polarità rispetto a una conica.
Giova usare coordinate proiettive omogenee (v. coordinate), rappresentando la curva con un'equazione omogenea f (x1, x2, x3) = 0; allora la polare d'un punto (y1 : y2 : y3) è definita da
(Una definizione sintetica di essa è sviluppata dal Cremona).
S'introducono quindi le polari successive, e si ha il teorema di permutabilità di Plücker espresso da
Con le polari si definiscono agevolmente alcune curve covarianti di una data, cioè legate a essa da una relazione invariabile di fronte alle proiettività (o sostituzioni lineari delle coordinate).
Per una rete di curve λ1f1 + λ2f2 + λ3f3 = 0 si definisce la curva jacobiana (da Jacobi), luogo dei punti doppî delle curve della rete:
Dopo ciò si definisce la curva hessiana (da Hesse) d'una data f(x1, x2, x3) = 0, come la jacobiana della rete delle sue polari:
La hessiana è, evidentemente, covariante della curva f, e sega la f nei suoi flessi. Di qui - o anche dal teorema sopra ricordato intorno alle cubiche per 9 punti - si possono dedurre le proprietà della configurazione dei flessi della cubica, priva di punti doppî (Mac Laurin, Plücker): proprietà analoghe per la configurazione dei 24 flessi d'una quartica sono state ricercate invano. Per contro si conoscono le proprietà della configurazione delle 28 tangenti doppie della quartica e dei loro 56 punti di contatto: questi appartengono, 8 a 8, a 315 coniche per modo che i quattro punti di contatto di due bitangenti sono comuni a 5 coniche (Steiner, 1852). Altre belle proprietà della configurazione sono state messe in luce da Hesse e da Cayley (1853 e segg.).
La teoria proiettiva delle curve, di cui abbiamo parlato, si riferisce egualmente a punti reali e complessi. Ma le questioni di forma delle curve reali hanno pur fatto dei progressi, che vogliamo almeno ricordare. Citiamo gli studî di Möbius sulle cubiche, quelli più recenti di Zeuthen sulla forma delle quartiche e il teorema di Harnack, che una curva di genere p possiede al massimo p + 1 rami reali, ecc.
In tali studî s'adopera il principio di continuità, specialmente sotto la forma di "metodo di piccola variazione". In Italia questo ordine di ricerche è particolarmente coltivato da L. Brusotti.
7. Geometria sopra la curva. - Passiamo ora a indicare brevemente i nuovi sviluppi sulle curve algebriche, in rapporto alle trasformazioni birazionali. Essi costituiscono la cosiddetta geometria sopra la curva, o teoria delle serie lineari di gruppi di punti.
Si dice serie lineare gnr di gruppi di n punti sopra la curva f, la serie dei gruppi di livello per un sistema lineare r volte infinito di funzioni razionali dei punti di f, aventi a comune uno stesso gruppo di poli, ossia la serie dei gruppi di punti segati su f dalle curve d'un sistema lineare
che non contiene la f come parte: i punti fissi, cioè i punti-base di questo sistema appartenenti a f, possono, a volontà, computarsi o no in ciascun gruppo della gnr.
Una serie lineare si dice completa, se non è contenuta in altra più ampia dello stesso ordine. Si dimostra che: un gruppo di n punti arbitrariamente dato sopra f, determina una serie completa gnr di dimensione r, a cui appartiene.
Per le curve razionali, che ammettono una rappresentazione parametrica dei punti per mezzo di funzioni razionali d'un parametro in guisa da trasformarsi in rette, la dimensione della serie completa eguaglia l'ordine: r = n. Ma, fuori di questo caso (e cioè quando il genere p > 0) si ha sempre r 〈 n. Due gruppi di n punti, presi a caso sulla curva f, non appartengono a una medesima serie lineare; l'appartenenza a una tal serie costituisce una relazione fra i due gruppi, che può considerarsi come un'equivalenza (godendo delle proprietà riflessiva, simmetrica e transitiva, caratteristiche delle relazioni egualiformi). Anzi si può tradurre tale relazione nell'eguaglianza di certi numeri. Ciò in virtù d'un celebre teorema di Abel.
Si considerino gl'integrali di funzioni razionali sopra la curva f, o sopra la superficie di Riemann che offre la rappresentazione reale dei suoi punti complessi. Questi integrali, detti abeliani, posseggono, in generale, punti singolari, che sono poli o punti logaritmici. Sono, in ogni caso per p > 0, funzioni polidrome, accrescendosi d'un periodo per ciascuno dei 2p cicli indipendenti descritti sopra la superficie di Riemann (cfr. n. 6). Ora fra codesti integrali ve ne sono p linearmente indipendenti, che restano ovunque finiti (e regolari) sopra la superficie o curva, e si dicono di prima specie. Per il teorema d'Abel le somme dei valori degli integrali di prima specie nei gruppi d'una gnr restano costanti. Viceversa due gruppi di n punti su f per cui le somme degli integrali di prima specie siano eguali (o congruenti rispetto ai periodi) appartengono a una medesima serie lineare, cioè sono equivalenti.
Date due serie lineari complete ∣a∣ = gnr, ∣b∣ = gms, si definisce la serie somma ∣a + b∣, che è la serie lineare completa contenente i gruppi di n + m punti composti d'un gruppo Gn della prima e d'un gruppo Gm della seconda.
Similmente si definisce la serie differenza: se ∣a∣ contiene un gruppo di ∣b∣ esiste una determiuata serie completa ∣c∣ = ∣a − b∣, tale che ∣a∣ = ∣b + c∣; ogni gruppo di ∣b∣ fa parte di qualche gruppo di ∣a∣ e i gruppi di n − m punti residui formano la stessa serie residua ∣c∣.
Questi teoremi diventano espressivi in forza del seguente teorema (che si deduce dall'Af + Bϕ di Nöther citato innanzi, n. 6): Sopra una curva piana, le curve di dato ordine aggiunte, cioè passanti con la molteplicità i−1 per ogni suo punto i-plo, segano una serie completa. La serie completa a cui appartiene un gruppo di punti Gn sopra una curva f, si ottiene mandando per Gn una curva d'ordine abbastanza elevato, e considerando poi il sistema lineare di tutte le curve dello stesso ordine che passano per il gruppo residuo G′. Dunque la serie gn ottenuta non dipende dalla scelta della curva aggiunta mandata per Gn o da G′ (teorema del resto).
Fra le serie appartenenti a una curva piana f, ve n'è una invariante rispetto a trasformazioni birazionali, cioè la serie segata sulla curva d'ordine m dalle curve aggiunte d'ordine m − 3 (tolte le intersezioni assorbite dai punti multipli). Questa serie è una
d'ordine 2p − 2 e di dimensione p − 1, designando p il genere della curva, già innanzi definito (n. 6).
L'invarianza di tale serie, a cui si dà il nome di canonica, è stata riconosciuta anzitutto per via trascendente, sulla base della teoria di Riemann degl'integrali abeliani.
Le curve ϕm-3 aggiunte d'ordine m−3 forniscono gli integrandi di prima specie, per cui l'integrale
risulta ovunque finito sopra la curva.
Brill e Nöther hanno dimostrato poi che la detta serie è invariante, facendo vedere che essa è sopra f l'unica serie completa d'ordine 2p − 2 e di dimensione p − 1. Enriques ha dato del teorema una dimostrazione diretta.
Per una qualsiasi serie a = gnr si definisce la serie jacobiana ∣aj∣, che è la serie completa contenente tutti i gruppi di 2n + 2p−2 punti doppî delle gn1 contenute in essa; quindi si stabilisce la relazione fondamentale che lega le jacobiane di due serie ∣a∣ e ∣b∣:
risulta di qui (quando la sottrazione sia possibile, cioè per p >0)
e la ∣c∣ - che riesce così definita indipendentemente dalla serie ∣a∣ - si può costruire partendo dalla serie segata dalle rette e risulta quindi essere la serie canonica, segata su f dalle aggiunte d'ordine m−3.
Il problema di determinare la dimensione della serie lineare completa gnr a cui appartiene un gruppo Gn, viene risoluto dal teorema di Riemann-Roch: la dimensione vale r = n − p + i, dove i designa il numero dei gruppi canonici linearmente indipendenti che contengono il Gn.
Riemann (completato da Roch, 1864) è giunto a questo teorema in base a un'espressione delle funzioni razionali mediante gl'integrali abeliani di seconda specie (aventi su f un solo polo).
Di poi si sono date diverse dimostrazioni algebrico-geometriche (Brill e Nöther, 1873, con l'Af + Bϕ; Castelnuovo, per via numerativa, 1889, ecc.).
Il teorema fondamentale dell'invarianza della serie canonica mette in evidenza che le proprietà delle curve, nella geometria delle trasformazioni birazionali, dipendono essenzialmente dal genere.
L'annullarsi di questo carattere numerico, p = 0, esprime le condizioni perché la curva sia razionale; per p = 1 si hanno le curve trasformabili in cubiche piane senza punti doppî (teoremi di Clebsch). Curve birazionalmente identiche hanno sempre lo stesso genere. Ma non è vera la proposizione inversa. Già per p = 1 le condizioni d'identità birazionale di due curve richiedono l'eguaglianza di un'invariante suscettibile di variare in modo continuo: il modulo. Il modulo d'una cubica viene espresso dal birapporto delle quattro tangenti altrove alla curva, condotte per un suo punto; birapporto costante secondo un teorema di Salmon.
In generale la famiglia delle curve di genere p > 1, contiene infinite classi di curve birazionalmente distinte, che dipendono da 3p − 3 moduli. La circostanza che per p = 0,1 si abbiano più che 3p = 3 moduli, dipende dal fatto che: le curve di genere zero ammettono ∞3 trasformazioni razionali in sé stesse e le curve di genere 1 ne ammettono ∞1. Anzi questi gruppi di trasformazioni caratterizzano le curve di genere 0 e 1. Le curve di genere p > 1 non possono ammettere che un numero finito di trasformazioni (teorema di Schwarz). Alla determinazione dei moduli delle curve di genere p, si accompagna il teorema d'esistenza di Riemann: si può costruire una funzione algebrica a n rami (o in linguaggio geometrico una curva contenente una gn1, mediante la quale viene rappresentata sopra una retta n-pla) dando ad arbitrio i 2n + 2p − 2 punti di diramazione (cui rispondono i punti doppî della gn1): la curva riesce determinata a meno di trasformazioni birazionali, quando si fissino le sostituzioni prodotte sui rami per un giro della variabile complessa attorno ai punti di diramazione. Questo teorema ha ricevuto semplici dimostrazioni algebrico-geometriche da Enriques e Severi.
8. Curve algebriche gobbe. - Gli antichi hanno già incontrato alcune curve gobbe algebriche, come per es. le intersezioni della sfera e del cono o della sfera e del toro, usate da Archita di Taranto per la soluzione del problema delle due medie proporzionali. Ma in generale la considerazione delle curve algebriche gobbe, comincia soltanto con la geometria proiettiva nel sec. XIX.
Il primo problema che qui s'incontra è quello della definizione che fu posto da Cayley (1847). Due superficie algebriche, di dati ordini n e m, s'intersecano secondo una curva algebrica, che viene così rappresentata dal sistema delle due equazioni:
e che per essere incontrata dai piani in nm punti, dovrà ritenersi d'ordine nm. Ma può dirsi, reciprocamente, che ogni curva algebrica venga rappresentata in tal modo? Si vede facilmente che l'intersezione di due superficie può risultare riducibile; per es. l'intersezione di due quadriche può contenere come parte una retta: allora la parte residua, curva gobba d'ordine 3, non può essere intersezione completa di due superficie. Anche fra le curve del 4° ordine se ne trovano che non sono intersezioni complete: accanto alla quartica di prima specie, intersezione di due quadriche, c'è la quartica di seconda specie scoperta da Salmon (1850), che si ottiene come intersezione parziale di una quadrica con una superficie cubica passante per due generatrici dello stesso sistema di essa e diversi sono i caratteri delle due curve: la prima possiede due corde per ogni punto dello spazio, cioè due punti doppî apparenti, la seconda ne possiede tre, sicché la proiezione della prima ha il genere uno e la seconda ha il genere zero, ecc. (Le proprietà più importanti della quartica di seconda specie sono state ulteriomente studiate dal Cremona e dal Bertini).
Ora volendo definire, in generale, le curve algebriche gobbe convien dire che esse sono rappresentate parametricamente da funzioni algebriche d'un parametro, cioè che una curva gobba è definita ponendo le coordinate x, y, z funzioni razionali di u, v, legate da una relazione algebrica:
Si può anche definire una curva algebrica gobba come intersezione di più superficie passanti per essa, cioè mediante un sistema di più equazioni in tre variabili, aventi infinite soluzioni comuni. Ma - in accordo con la teoria generale dei sistemi d'equazioni algebriche di Kronecker (1882) - non basterà, in generale, considerare tre superficie passanti per la curva giacché queste avranno fuori della curva anche un numero finito di punti comuni e può darsi che, per qualunque terna di superficie contenenti la curva, codesto numero non si riduca mai a zero. Per rappresentare perfettamente una curva gobba algebrica occorre dunque, in generale, un sistema di quattro equazioni.
Fra le rappresentazioni analitiche più notevoli d'una curva gobba citiamo:
1. la rappresentazione monoidale di Cayley (1862):
che si deduce dalla rappresentazione parametrica indicata, eliminando u e v. La curva appare qui come intersezione della superficie (monoide) ψz − ϕ = 0, avente un certo ordine m e un punto (m-1) -plo all'infinito sull'asse z, col cilindro f (x, y) = 0, parallelo a codesto asse, all'infuori d'un gruppo di generatrici comuni (Halphen e Valentiner, 1882-83);
2. la rappresentazione, pure indicata da Cayley (1856), in cui la curva viene rappresentata dall'equazione unica che definisce, in coordinate di rette, il complesso delle rette incidenti: i complessi di rette siffatti soddisfano a due equazioni differenziali caratteristiche (Klein, 1872).
Alle curve algebriche gobbe si estendono, col metodo delle proiezioni, le formule di Plücker.
Si considerino per una curva gobba le seguenti coppie di caratteri duali: l'ordine n e la classe n′, cioè il numero dei piani osculatori per un punto dello spazio; il numero d dei punti doppî apparenti, cioè il numero delle corde per un punto, e il numero d′ delle rette intersezioni di due piani osculatori che appartengono a un piano generico; il numero D dei nodi e il numero D′ dei piani biosculatori; il numero k delle cuspidi e il numero k′ dei piani stazionarî con contatto quadripunto; il numero t dei piani bitangenti alla curva per un punto generico, e l'ordine t′ della curva nodale della rigata sviluppabile formata dalle tangenti. Inoltre si considerino anche i tre caratteri autoduali della rigata sviluppabile anzidetta: il rango r della curva, cioè il numero delle tangenti che incontrano una retta generica, che è il grado della rigata; il numero T delle tangenti doppie della curva, generatrici doppie della rigata; e il numero N delle tangenti di flesso, generatrici cuspidali della rigata medesima. Si hanno allora le sei relazioni (indipendenti) di Cayley:
Ai caratteri indicati si può aggiungere il genere p della curva gobba (genere delle proiezioni piane) che vale
Allora dalle formule precedenti si deduce r = 2n + 2p − 2 − k, che, per curve prive di cuspidi, si riduce a r = 2 n + 2 p − 2.
(L'estensione delle formule di Cayley alle curve iperspaziali è stata fatta da Veronese). Altre formule importanti dànno il grado della rigata delle trisecanti d'una curva gobba, e il numero delle sue quadrisecanti (Cayley 1863, Zeuthen 1869).
La definizione parametrica delle curve gobbe data innanzi presenta la curva come trasformata razionale d'una curva piana. Si capisce perciò che lo studio delle curve algebriche gobbe riceva luce dalla geometria sopra la curva, cioè dalla teoria delle serie lineari. Di fatto ogni curva gobba d'ordine si può far nascere da una curva piana in cui venga data una gn3. Più in generale una curva, su cui si consideri una gnr (con r ≥ 2) dà origine a una curva trasformata dell'ordine n, appartenente a uno spazio di r dimensioni: soltanto in un caso particolare questa curva si può ridurre a una curva multipla. La proprietà di determinazione delle serie complete si traduce quindi nel teorema: ogni curva, del piano o d'uno spazio a tre o più dimensioni, è normale - cioè non proiezione d'una curva dello stesso ordine - ovvero può ottenersi come proiezione da una curva normale, proiettivamente definita, d'uno spazio superiore.
Riferendoci alle curve gobbe dello spazio ordinario (r = 3), ricordiamo ora i principali problemi e risultati che vi si riferiscono.
Un teorema di H. Valentiner (1879), invertito da Halphen (1882) permette di caratterizzare le curve d'ordine mn che sono intersezioni complete di due superficie degli ordini m e n: si hanno per un punto generico dello spazio m (m − 1) n (n − 1) corde della curva, i cui punti d'appoggio appartengono a un cono d'ordine (m − 1) (n − 1).
D'altra parte Nother (1874) ha insegnato a costruire su tali curve Cmn intersezioni complete, la serie canonica
essa viene segata dalle superficie ϕ d'ordine m + n − 4. Di qui si deduce anche la costruzione della serie canonica sopra una curva C intersezione parziale di due superficie d'ordine m e n, aventi un'ulteriore intersezione K: essa viene segata dalle ϕ d'ordine m + n − 4, che passano per i punti comuni a C e K.
Se per una curva gobba C d'ordine n e genere p si conducono tre superficie degli ordini m1, m2, m3, quante saranno le intersezioni loro fuori di C? O, in altre parole, a quante fra le m1 m2 m3 intersezioni equivale la curva comune alle tre superficie?
Tale equivalenza è
Il problema è stato risolto, anche nel caso più generale di superficie passanti per la curva comune con certe molteplicità, da Salmon (1847, 1849, 1866), Cayley (1869), Nöther (1871).
Un altro problema, in qualche modo analogo, è di determinare quante sono le condizioni lineari indipendenti imposte a una superficie d'ordine m dal passaggio per una curva d'ordine n e genere p; ovvero per quanti punti della curva occorre far passare la superficie perché contenga la curva stessa. Questo numero P è chiamato, da Cayley, postulazione. Esso supera d'una unità la dimensione della serie gnr segata su C dal sistema di tutte le superficie d'ordine n, e quindi, nell'ipotesi che tale serie riesca completa e non speciale, risulta per il teorema di Riemann-Roch
Si dimostra che questa formula vale effettivamente per i valori di m assai elevati e almeno per m ≥ (n − 3)/2. Le formule di postulazione, anche in condizioni più generali, sono state date da Cayley e Nöther (1871), e più recentemente da Castelnuovo (1893).
Il genere d'una curva gobba d'ordine n non può superare il massimo intero contenuto nella frazione (n − 2)2/4, che si designa con [(n − 2)2/4]; le curve del massimo genere appartengono a una superficie di 2° ordine: teorema di Halphen. (La ricerca delle curve di genere massimo negli iperspazî è stata proseguita da Castelnuovo, 1889, e da G. Fano, 1893).
Anche per valori di p inferiori al massimo, finché p > (n − 1) (n − 2)/6, le curve gobbe Cn,p d'ordine n e genere p appartengono sempre a una quadrica (Halphen). E quindi, mediante la nota rappresentazione di questa, si possono determinare tutte le famiglie di Cn,p con caratteri compresi fra i detti limiti: per un dato n vi sono delle lacune nei valori di p fra:
Che dire ora delle Cn,p, per cui
Halphen ha dimostrato che esistono sempre curve con tali caratteri, fra quelle tracciate sopra una superficie cubica; anzi per
ogni Cn,p appartiene a una superficie cubica (irriducibile o no).
Ma il problema della classificazione generale delle Cn,p offre gravi difficoltà. Anzitutto si ha: per
le curve Cn,p formano una famiglia di curve a moduli generali, dipendente da 4n parametri; e questa è irriducibile almeno per p ≤ n − 3 (curve non speciali). Invece per
le curve gobbe Cn,p sono sempre, nella famiglia delle curve di genere p, curve a moduli singolari, e possono costituire diverse famiglie irriducibili, che soltanto fino a un certo punto (cioè per valori non troppo alti dell'ordine) sappiamo distinguere con noti caratteri numerici. Già per n = 9 E. Weyr e Halphen (1873-74) hanno scoperto due famiglie diverse di curve del genere 10, dipendenti ciascuna da 36 parametri, le quali si distinguono dall'ordine minimo ν del cono che ne contiene le corde per un punto dello spazio (ν = 4 per una famiglia e ν = 5 per l'altra). Però i caratteri n, p, ν non bastano più a distinguere le famiglie di curve d'ordine n = 15 e genere p = 28. E così, salendo con l'ordine, cresce la complicazione.
Il problema classificatorio di cui si tratta è stato oggetto delle ricerche di Halphen, Nöther e Valentiner (1882, 1883). Citiamo fra i risultati di Nöther questo bel teorema: le curve di genere massimo fra quelle di dato ordine che appartengono a una superficie senza linee singolari, sono intersezioni di questa con superficie passanti per una curva piana, intersezione completa o parziale del piano stesso.
I risultati conseguiti dai geometri suddetti, che pur son lungi dall'esaurire la questione, non sono stati sostanzialmente superati. Tuttavia una nuova posizione di problemi scaturisce dallo studio dei sistemi di curve tracciate sopra una superficie algebrica, particolarmente nell'indirizzo della scuola geometrica italiana.
Bibl.: Per il concetto generale della curva si vedano gli articoli di F. Enriques e H. v. Mangoldt, in Encyklopädie der mathematischen Wissenschaften, III, 1 e 2, ed anche: L. Tonelli, Serie trigonometriche, Bologna 1928; F. Klein, Anwendung der Differential- und Integralrechnung auf Geometrie, eine Revision der Prinzipien (Gottinga 1901), Lipsia 1902; F. Severi, Le curve intuitive, in Rendiconti del Circolo mat. di Palermo, LIV (1930), pp. 51-66. - Per le proprietà differenziali delle curve, oltre i trattati di calcolo infinitesimale: L. Bianchi, Lezioni di geometria differenziale, voll. 2, 3ª ed., Pisa-Bologna 1922-24; rist. I in 2 parti, Bologna 1927. Per le curve algebriche: F. Enriques e O. Chisini, Lezioni sulla teoria geometrica dele equazioni e delle funzioni algebriche, voll. 3, Bologna 1915-1924; id.-id., Courbes et fonctions algébriques, Parigi 1926; F. Severi, Vorlesungen über algebraische Geometrie, Lipsia 1921: id., Trattato di geometria algebrica, I, i, Bologna 1926.