Custodia cautelare e giurisprudenza di legittimità
Individuati nei giudici – poco inclini a dar conto delle ragioni del proprio provvedimento e adusi a ricorrere a “forme surrettizie di presunzioni giurisprudenziali” – i principali responsabili di un lamentato abuso della custodia cautelare, il legislatore della l. 16.4.2015, n. 47 ha operato coerentemente con la sua diagnosi. Nell’ambito di un disegno riformatore incidente ad ampio raggio sulla disciplina dedicata alla materia, vengono irrigiditi i presupposti applicativi della detenzione preventiva: puntualizzazione delle esigenze cautelari e ridefinizione del principio di adeguatezza perseguono l’obiettivo di accentuarne la natura di rimedio estremo e costituiscono premessa per l’osservanza dell’obbligo di motivare l’ordinanza restrittiva attraverso una trama argomentativa più puntuale. L’intervento normativo, soppesato da larga parte della dottrina alla stregua di un monito pedagogico, appare poco innovativo, offrendo nondimeno adito a rinnovati contrasti giurisprudenziali.
Nella recente convulsa stagione legislativa di stampo garantistico, la prospettiva ricorrentemente invocata della necessità di una ridefinizione dei limiti della custodia carceraria ha trovato un fertile humus nella contestuale tensione verso l’esigenza di una riduzione del sovraffollamento carcerario.
Ponendosi all’acme dell’allerta legislativa determinata dalle sollecitazioni delle istituzioni europee, la l. n. 47/2015 è intervenuta con lo scopo di ridurre il ricorso alla misura custodiale nel tentativo di scongiurare l’uso della detenzione preventiva in funzione di anticipazione della pena.
È sullo sfondo del sovraffollamento carcerario che la proposta sfociata nella legge in esame individua l’obiettivo da perseguirsi: «affrontare la parte del problema carcerario connessa all’uso della detenzione in chiave preventiva»1. Diagnosi e terapia vengono sinteticamente annunciate nella relazione di accompagnamento della proposta di legge ove si rinvengono le principali linee direttrici lungo le quali l’operazione verrà condotta (e che solo nelle successive fasi dell’iter parlamentare si aprirà verso un irrobustimento delle garanzie nelle fase di impugnazione).
In primo luogo, tenendo fermo «l’architrave della disciplina codicistica saldamente fondato sulla presunzione di innocenza e sul primato … della libertà», si trattava di incidere su alcuni punti critici dell’ordito normativo cruciali per «indirizzare più chiaramente l’azione giurisprudenziale nel segno di un uso residuale delle cautele, particolarmente delle cautele detentive all’insegna dei principi di extrema ratio e del favor libertatis». In secondo luogo, appariva necessario circoscrivere i presupposti per l’applicazione e per la permanenza della misura anche per «superare quelle forme surrettizie di presunzione giurisprudenziale che di fatto enucleano la sussistenza delle esigenze cautelari dalla sola gravità del reato commesso». Una terza direttrice, meno chiaramente esplicitata tra gli intenti legislativi, concerne l’attenuazione delle presunzioni di adeguatezza della sola custodia.
Alle tre sfere di intervento sopra indicate – e così sintetizzabili: a) puntualizzazione dei termini del giudizio prognostico imposto dall’art. 274; b) accentuazione della residualità della custodia cautelare; c) attenuazione delle presunzioni di adeguatezza della custodia cautelare – sono riconducibili molteplici modifiche legislative incidenti sui presupposti applicativi e sui criteri di scelta delle misure.
Più in particolare, quanto alla prima linea direttrice di riforma, essa mira a rendere più rigoroso il giudizio prognostico idoneo a giustificare la misura; l’obiettivo di porre un freno a interpretazioni giurisprudenziali troppo disinvolte è stato perseguito attraverso un duplice intervento pressoché simmetrico sulle lett. b e c dell’art. 274. Da un canto, si è operato su entrambe le lettere espressive delle due ragioni di cautela attraverso una analoga interpolazione: il pericolo di fuga o di reiterazione del reato per poter giustificare la misura deve essere non solo «concreto» ma anche «attuale». Dall’altro, al fine di scongiurare tecniche argomentative di taglio elusivo, si è precisato che le situazioni di concreto e attuale pericolo di fuga ex lett. b «non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede»; similmente, si è operato sulla lett. c, sul cui testo si è inciso (oltre che per ripristinare il coordinamento con l’art. 280 c.p.p.) per sottolineare che le situazioni di concreto e attuale pericolo di reiterazione di un reato «anche in relazione alla personalità dell’imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede».
Quanto alla seconda linea riformatrice: essa si esprime nel convogliare l’azione cautelare verso misure meno afflittive per segnare l’eccezionalità della leva detentiva: in questa prospettiva, accanto ad una modesta revisione delle misure interdittive, si registrano modifiche volte a rimodulare il principio di adeguatezza.
La terza linea di intervento incide sul regime delle presunzioni di adeguatezza della custodia: tanto su quelle stabilite dall’art. 275 c.p.p. quanto su quelle di cui agli artt. 276 e 284 c.p.p., ripristinando parzialmente la discrezionalità del giudice in punto di scelta della misura.
Mentre con riguardo al profilo da ultimo considerato il legislatore si è limitato a recepire gli approdi della giurisprudenza costituzionale, riempiendo le tessere vuote di un mosaico già ampiamente delineato dal giudice delle leggi2, rispetto alle prime due linee di intervento le novità legislative hanno sollevato opinioni divergenti presso dottrina e giurisprudenza. Nei successivi paragrafi ci si soffermerà sulle questioni rispetto alle quali si registrano le più notevoli oscillazioni giurisprudenziali.
Il più rilevante problema interpretativo posto dalla prima sfera di modifiche è quello di stabilire la portata del requisito della “attualità”. Si tratta di chiarire anzitutto se esso introduca elementi di novità e, in caso affermativo, che tipo di portata semantica debba essergli attribuita.
La dottrina, sostanzialmente concorde nell’apprezzare il tentativo del legislatore di porre un limite alle prassi eccessivamente disinvolte, sottolinea – più o meno altrettanto concordemente – la funzione pedagogica delle innovazioni, riconoscendo per lo più che alle medesime conclusioni si potesse pervenire alla luce di una lettura corretta del previgente testo normativo3.
Sennonché, la compattezza che si riscontra nelle opinioni dottrinali circa la funzione di normamonito espressa dall’art. 274 c.p.p., nella nuova versione, comincia a sfrangiarsi in vari, contrastanti, non comparabili approcci, allorché si passi a coglierne il significato e a definire i contorni nell’interpretazione “necessaria”. Tra le molte voci vi è chi, andando al fondo della questione, sottolinea lucidamente come l’azione legislativa si sia incamminata, al riguardo, su tradizionali quanto sterili percorsi: «il tentativo di imbrigliare in schemi valutativi precostituiti un giudizio prognostico è praticamente impossibile, soprattutto se lo stesso è funzionale a selezionare i presupposti operativi di un istituto che ha un orizzonte applicativo estremamente eterogeneo e non tipizzabile»4. Sulla scorta di tali premesse (e ricordando che la necessità di tener conto della attualità delle esigenze già era normativamente sancita, nei limiti della ragionevolezza, là dove l’art. 292, co. 2, lett. c), impone l’obbligo per il giudice di specificare le esigenze cautelari idonee a giustificare la misura: « … tenuto conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato»)5, si conclude che l’efficacia dell’intervento riformatore si giocherà ancora una volta sul rigore con cui verrà recepito, cioè sul senso che i giudici vorranno attribuire ad un concetto così fluido come quello di attualità.
Nel suo complesso la giurisprudenza sembra prendere atto di un quid novi apportato dalla novella in punto di esigenze cautelari, intravvedendo la ratio dell’intervento normativo nell’obbligo di una specifica valutazione dell’attualità. Nondimeno è sull’oggetto di quell’obbligo (o meglio sul significato del requisito “attuale”) che non casualmente, si riaffaccia il contrasto che vede contrapposti due indirizzi della giurisprudenza di legittimità.
Il primo che, muovendo da massime giurisprudenziali precedenti alla novella e ribaltandone l’assunto letterale, ritiene che l’accostamento alla concretezza della attualità del pericolo di reiterazione del reato, imponga al giudice di motivare sulla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, non meramente ipotetiche ed astratte, ma probabili nel loro vicino verificarsi6.
Il secondo, con varietà di accenti7, afferma che il requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, introdotto nell’art. 274 dalla l. n. 47/2015 – pur imponendo uno specifico apprezzamento della sopravvivenza del pericolo di recidivanza al momento di adozione della misura, in relazione al tempo trascorso dal fatto contestato e alle peculiarità della vicenda cautelare8 – non possa essere equiparato all’imminenza del pericolo di commissione di un ulteriore reato9, ma stia invece ad indicare la continuità del periculum libertatis nella sua dimensione temporale, che va apprezzata sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell’indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi recenti, idonei a dar conto della effettività del pericolo di concretizzazione dei rischi che la misura cautelare è chiamata a realizzare10.
Il solco tra gli opposti orientamenti sembra ormai piuttosto netto: lecito, dunque, attendersi una decisione delle Sezioni Unite che ricomponga il contrasto; auspicabile che essa confermi il secondo indirizzo che appare quello più ragionevolmente giustificabile anche alla luce del nuovo tenore normativo.
L’accentuazione della residualità della custodia cautelare è stata perseguita tramite una duplice linea di riforma che, da un lato, tenta di incanalare la risposta cautelare verso forme diverse da quelle custodiali e, dall’altro, impone sul punto espliciti oneri di motivazione.
In primo luogo, il legislatore ha rimodulato il principio di extrema ratio della custodia, già contenuto nel co. 3 dell’art. 275 c.p.p., al fine di precisare che la custodia cautelare può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, «anche se applicate cumulativamente», risultino inadeguate (analoga precisazione nell’art. 299, co. 4, c.p.p.). In secondo luogo, l’intervento si è realizzato attraverso l’introduzione di un nuovo co. 3 bis nell’art. 275 c.p.p. che impone un nuovo e autonomo onere di motivazione in capo al giudice il quale, nel disporre la custodia cautelare, «deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’art. 275 bis comma 1».
Per quanto riguarda il nuovo incipit del co. 3, e segnatamente la previsione di un regime cautelare fondato su un cumulo di misure, si tratta di una restitutio in integrum di ciò che doveva già considerarsi proprio della discrezionalità del giudice il quale – nonostante una opinabile decisione delle Sezioni Unite risalente al 200611 – ben avrebbe potuto/dovuto disporre cumulativamente più misure, purché il risultato non fosse uno squilibrio dal punto di vista delle esigenze cautelari del caso concreto12. Sennonché, la tecnica normativa con la quale la modifica in questione è stata operata ripropone nuovi dubbi interpretativi circa la sua effettiva portata13.
Facendo leva sul dato testuale (il quale appare, in verità, non così dirimente), alcune decisioni desumono poi dalla riformulazione, ad opera della l. n. 47/2015, del principio sancito nell’art. 275, co. 3, c.p.p., il superamento di quella giurisprudenza incline ad una nozione restrittiva della motivazione in punto di adeguatezza e, in particolare, di quell’orientamento volto a ritenere assolto l’onere di motivazione attraverso la dimostrazione dell’adeguatezza della sola custodia in carcere, essendo in tal modo, assorbita l’ulteriore dimostrazione dell’inidoneità delle altre misure coercitive14. Secondo detta giurisprudenza la nuova previsione normativa («La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate»), imporrebbe oggi al giudice della cautela sia esso il giudice dell’ordinanza genetica che quello del riesame se investito della relativa questione, di motivare in ordine alle ragioni per le quali risultino inadeguate le altre misure coercitive e interdittive anche se applicate cumulativamente15.
Anche su questo punto, peraltro, la giurisprudenza resta non univoca, sopravvivendo decisioni meno rigorose, secondo cui basterebbe la dizione “attesa la inadeguatezza di ogni altra misura”16. Per verità, lasciando sullo sfondo considerazioni di sistema sul corretto adempimento dell’obbligo motivazionale (e limitandosi ad affondare il dito in tutte le piaghe aperte dall’eterogenesi dei fini provocata dal piglio “casistico” di un legislatore troppo incline alla puntualizzazione), quest’ultimo indirizzo, sembrerebbe ora supportato da altra modifica apportata all’art. 275 c.p.p. dalla l. n. 47/2015: un argomento a contrario rispetto ad un obbligo di specifica motivazione sulla inadeguatezza delle misure diverse dalla custodia potrebbe essere colto nella dizione del nuovo comma 3 bis, là dove impone in capo al giudice che emetta una ordinanza custodiale un espresso obbligo di motivazione in ordine alle «specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’art. 275 bis, comma 1».
Passando ad analizzare l’ulteriore novità da ultimo evideziata, l’interpolazione di un comma 3 bis nell’art. 275 realizza la modifica potenzialmente più densa di problemi: così riguardata essa appare ictu oculi una interpolazione superflua (e come si è visto controproducente, finendo per fornire argomenti a pigrizie motivazionali, alla luce dell’ubi lex voluit), ennesima superfetazione normativa di un legislatore intensamente preoccupato dalla necessità di far fronte ad interpretazioni giurisprudenziali ritenute eccessivamente disinvolte. Anche in questo caso, dunque, nihil novi: ancora una volta si tratta di una risposta legislativa ad un preciso indirizzo giurisprudenziale il quale, muovendo dalla natura di mero strumento di controllo, accessorio alla misura degli arresti domiciliari, escludeva un onere specifico di motivazione sulla inadeguatezza del regime previsto nell’art. 275 bis c.p.p.17.
Con riguardo alle modalità attraverso le quali l’obbligo in esame deve essere adempiuto, esse sembrano ricevere in giurisprudenza diversa considerazione: accanto a decisioni più rigorose18, ci sono decisioni che sembrano ammettere che il requisito possa desumersi dal contesto motivazionale19 o negano la necessità di una motivazione autonoma, ammettendo che essa possa dedursi per implicito20.
La puntualizzazione calata nel co. 3 bis dell’art. 275
c.p.p. sembra peraltro incrociare il tema dei presupposti applicativi della misura degli arresti domiciliari assistiti dal controllo elettronico e, più in generale, della interpretazione dell’art. 275 bis c.p.p., in relazione alla strutturale indisponibilità dei meccanismi necessari per l’esecuzione della misura.
Vi è chi ha osservato che proprio dall’introduzione del nuovo obbligo di motivazione dovrebbero trarsi argomenti per dirimere il contrasto giurisprudenziale vertente sulle conseguenze della materiale indisponibilità degli strumenti di controllo21.
Chiamato ad adottare la misura custodiale, e dovendo assolvere l’obbligo di motivazione di cui all’art. 275, co. 3 bis, c.p.p. il giudice, ritenendo che la misura degli arresti con strumenti di controllo elettronico sia in astratto adeguata a tutelare le esigenze cautelari (ancorché inidonea, in concreto, per la carenza dei relativi strumenti di controllo), si vedrebbe preclusa la possibilità di applicare la custodia cautelare. Insomma, l’interpolazione di un nuovo co. 3 bis nell’ambito dell’art. 275, co. 3, c.p.p. di per sé inutile in quanto volta a ribadire un obbligo di motivazione che già trova rilievo normativo, esprimerebbe l’intento legislativo di indirizzare con forza la scelta del giudice verso la tutela della libertà, rendendo indiscutibile che nel concetto di inidoneità non possano mai rientrare ragioni addebitabili all’incapacità dello Stato di organizzare i presidi di controllo tecnologico22. La tesi appena ricordata, pur apprezzabile per l’apertura garantistica sembra porsi in conflitto con espliciti dati normativi e sistematici23 che sono stati recentemente valorizzati dalle Sezioni Unite intervenute a dirimere il contrasto giurisprudenziale instauratosi sul punto24.
Al riguardo il Supremo consesso ha ritenuto che la soluzione debba essere tratta in via interpretativa da una serie di indici sistematici che conducono a rigettare impostazioni predefinite, imperniate su automatismi applicativi. Così: da un lato, il chiaro intento legislativo rende inaccettabili interpretazioni della norma che comportino automatismo nell’applicazione della misura custodiale; dall’altro, non potrebbero avallarsi neanche opinioni che impongono al giudice di dar corso senz’altro agli arresti domiciliari: questa seconda opzione, con l’automatismo sopra indicato, contrasterebbe con i principi di proporzione e ragionevolezza, introducendo un favor non commisurato al convincimento del decidente ed alle valutazioni da questo operate in ordine alla individuazione ed alla tutela delle esigenze cautelari. Se ne deduce che, sia nel momento di prima applicazione della misura, sia nel caso di sostituzione della misura, in caso di indisponibilità dello strumento elettronico di controllo, la scelta se applicare la custodia cautelare in carcere o gli arresti domiciliari “semplici”, deve essere compiuta sulla scorta di un giudizio di bilanciamento che, dato atto dell’impossibilità di applicare la misura più idonea, ossia gli arresti domiciliari “elettronici”, metta a confronto l’intensità delle esigenze cautelari e la tutela della libertà personale dell’imputato.
La soluzione, nonostante la lunga argomentazione che la sostiene, sembra più guidata da ragioni di carattere pratico che ancorata ad inattaccabili argomenti giuridici. In effetti, di fronte al quesito affrontato dalle Sezioni Unite, all’interprete si aprono due vie, le medesime segnate dagli indirizzi giurisprudenziali in contrasto.
Valorizzando il testo dell’art. 275 bis c.p.p. si potrebbe affermare che, già compiuta la scelta di adottare la misura degli arresti, il giudice prescriva (anche) il controllo elettronico (solo) ove sia possibile, e salvo che lo abbia ritenuto non necessario. Così letta la disposizione di riferimento, l’indisponibilità degli strumenti tecnici non dovrebbe poter influire sulla decisione (già intervenuta) di disporre la misura degli arresti domiciliari. La tesi, improntata ad istanze di garanzia ed eguaglianza di trattamento, sembra in astratto la preferibile. Non è escluso, tuttavia che, in concreto – facendo il giudice affidamento sulla prospettiva di un controllo elettronico – finisca per essere adottata, nei casi di indisponibilità degli strumenti, una misura insufficiente. Nulla precluderebbe poi, se si imponesse una simile lettura, prassi elusive: conoscendo la (cronica) indisponibilità della sede in cui opera, il giudice potrebbe finire, in tutti i casi in cui fosse consapevole dell’insufficienza di arresti domiciliari privi del controllo elettronico (e naturalmente nei limiti del petitum), per scegliere immediatamente la misura più gravosa, assolto l’obbligo di cui all’art. 275, co. 3 bis, c.p.p. (l’esperienza insegna che non è mai troppo difficile motivare).
Una seconda via condurrebbe a ragionare intorno alla ratio dell’istituto: sottrarre a carceri sovraffollate parte dei soggetti (consenzienti) ad esse destinati, sulla premessa di una pressoché sovrapponibile adeguatezza dei due regimi a far fronte alle esigenze cautelari del caso concreto (e pur consapevoli del carattere di gran lunga preferibile dell’arresto controllato, tanto sotto il profilo dei diritti del singolo, quanto sotto quello degli effetti sul sovraffollamento carcerario e sui costi dello stesso). Così ragionando, non c’è dubbio che il tema di fondo relativo alla misura che il giudice potrà adottare – una volta constatata l’indisponibilità degli stessi strumenti – risolvendosi alla luce dei rapporti tra esigenze cautelari del caso concreto e adeguatezza della misura, finisca per indicare quale unica via quella custodiale. Infatti, già valutate le esigenze cautelari come sufficientemente pregnanti per escludere l’adeguatezza degli arresti “semplici” – così come di tutte le misure meno afflittive: diversamente il giudice non avrebbe sentito l’esigenza di appurare la disponibilità del “braccialetto” –, la soluzione, ancorché non determinata testualmente dall’art. 275 bis c.p.p. (come invece avviene per il mancato consenso del destinatario della misura) sembra obbligata: la sola misura – tra quelle cui il giudice può effettivamente ricorrere – che appaia adeguata a far fronte ad esigenze che richiedono un controllo continuativo, sia pure virtuale, non può che essere la custodia cautelare. Ed è la stessa interpolazione del nostro ultimo legislatore a dare la sensazione di asseverare questa vicinanza, collocando nel co. 3 bis dell’art. 275 c.p.p. quell’altrimenti incomprensibile nuovo e specifico onere di motivare.
Nessun automatismo viene in gioco, né nella prima né nella seconda interpretazione: ma solo una valutazione che, di fronte ad una richiesta del pubblico ministero, conduce il giudice, nella applicazione dei criteri di scelta della misura vecchi e nuovi, a segnare un limite sotto il quale il regime cautelare non sarebbe adeguato. Dopo di che, la constatata indisponibilità, per cause materiali, del regime meno afflittivo può far propendere l’interprete, per l’una o per l’altra soluzione, a seconda che si ritenga di valorizzare gli uni o gli altri tra gli indici interpretativi già evidenziati, i quali nel loro complesso sembrano indirizzare l’interprete verso la soluzione meno favorevole al destinatario della misura.
Le stesse Sezioni Unite, d’altro canto, premettendo che l’art. 275, co. 3-bis, c.p.p. costituisce «diretta espressione dell’intenzione del legislatore di considerare gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico ugualmente idonei, rispetto alla custodia cautelare a tutelare le esigenze cautelari poste alla base delle misure», mostrano di recepire come, sebbene, sul piano dell’afflittività, le due misure rivelino una marcata differente incidenza sulla sfera del singolo, sul piano della adeguatezza, esse postulino una valutazione che finisce (salvi casi di estrema pericolosità, per i quali ab origine il giudice, assolto il nuovo specifico obbligo di motivazione, si sarebbe già orientato per la sola custodia) per coincidere.
Resta il dubbio che, così interpretata, questa disciplina sia costituzionalmente eccepibile, confliggendo, quanto meno, con il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost.25, poiché tendente a favorire trattamenti sperequati sulla scorta di casuali occorrenze (conseguenze che non sarebbero in ogni caso eliminate ove si accedesse alla soluzione del Supremo Collegio), tanto più che dietro la “casuale occorrenza” si para la vecchia abitudine, che non merita alcun plauso, di legiferare senza aver preventivamente predisposto le strutture necessarie.
Note
1 Cfr. Relazione di presentazione, in Atti Camera – XVII Legislatura – Documenti, C. 631.
2 Cfr. Carnevale, S., I limiti alle presunzioni di adeguatezza: eccessi e incongruenze del doppio binario cautelare, in Giuliani, L., a cura di, La riforma delle misure cautelari personali, Torino, 2015, p. 101 s.
3 Tra i molti v. Illuminati, G., Introduzione alla riforma, in Giuliani, L., La riforma delle misure, cit., p. XVI ss.
4 Pistorelli, L., Discrezionalità del giudice e ruolo di garanzia della motivazione, in Giuliani, L., op. cit., p. 340.
5 Gaeta, P., Esigenze cautelari ed efficienza delle indagini, in Giuliani, L., op. cit., p. 306 ss.
6 Cfr. Cass. pen., sez. III, 19.5.2015, n. 37087 in CED rv. n. 264688, Marino; Cass. pen., sez. III, 15.9.2015, n. 43113, in CED rv. n. 265653, K. e altro; Cass. pen., sez. III, 27.10.2015, n. 49318, in CED rv. n. 265623, Barone; Cass. pen., sez. II, 3.12.2015, n. 50343, in CED rv. n. 265395, Capparelli; in particolare v. Cass. pen., sez. III, 18.12.2015, n. 15924, Gattuso, inedita; da ultimo Cass. pen., sez. VI, 19.4.2016, n. 19006, in CED rv. n. 266568, Cumbo; Cass. pen., sez. VI, 4.5.2016, n. 24476, in CED rv. n. 266999, Tramannoni.
7 Cass. pen., sez. I, 21.10.15, n. 5787, in CED rv. n. 265985, Calandrino; Cass. pen., sez. VI, 1.10.2015, n. 44605, in CED rv. n. 265350, De Lucia.
8 Cass. pen., sez. VI, 2.2.2016, n. 1082, in CED rv. n. 265958, Capezzera, in motivazione; Cass. pen. n. 44605/2015; Cass. pen., sez. V, 24.9.2015, n. 4303, in CED rv. n. 264902, Maio; Cass. pen., sez. IV, 2.2.2016, n. 5700, in CED rv. n. 265949, Mandrillo.
9 Premesso che sia da rigettare la interpretazione restrittiva della «concretezza», una decisione sottolinea come il codice continua a distinguere tra «esigenze cautelari» ed «eccezionali esigenze cautelari», a dimostrazione che l’attualità non possa essere «nell’immediatezza»: Cass. pen., sez. VI, 29.10.2015, n. 50027, Aurisicchio, inedita.
10 Cass. pen., sez. VI, 27.11.2015, n. 3043, in CED rv. n. 265618, Esposito.
11 Cass. pen., S.U., 30.5.2006, n. 29907, in CED rv. n. 234138, La Stella.
12 Cfr. Chiavario, M., sub art. 275, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato dal medesimo, III, Torino, 1990, p. 66.
13 «Se si resta ancorati all’interpretazione del principio di tassatività proposto dalle Sezioni Unite, il legislatore avrebbe aggiunto solo due nuove ipotesi rispetto a quelle già previste. Ne segue che attualmente il cumulo sarebbe così strutturato: un cumulo anche eterogeneo (ossia tra coercitive ed interdittive) in via originaria per escludere la custodia cautelare in carcere e nelle ipotesi di aggravamento delle esigenze cautelari; un cumulo con altra misura più grave (a rigore quindi non con una meno grave) in caso di trasgressione delle prescrizioni delle misure; un cumulo tra le sole indicate misure coercitive in caso di scarcerazione per decorrenza termini»: così Spagnolo, P., Principio di adeguatezza e residualità della custodia, in Giuliani L., op. cit., p. 91.
14 Cass. pen., sez. V, 4.7.2014, n. 51260, in CED rv. n. 261723, Calcagno; Cass. pen., sez.VI, 20.4.2011, n. 17313 , in CED rv. n. 250060, Cardoni; Cass. pen., sez. V, 19.10.2005, n. 9494, in CED rv. n. 233884, Pannone.
15 Cass. pen., sez. III, 17.12.2015, n. 842, in CED rv. n. 265964, Boscolo.
16 Cass. pen., sez. II, 24.2.2016, n. 10150, in CED rv. n. 266190, Clopotaru.
17 Cass. pen., sez. II, 20.1.2015, n. 6505, in CED rv. n. 262600, Fiorillo e altri.
18 Cass. pen., sez. III, 27.10.2015, n. 45699, Novavecchia, inedita.
19 Cass. pen., sez. III, 25.11.2015, n. 48700, Buscema, inedita; Cass. pen., sez. III, 1.12.2015, n. 48962, in CED rv. n. 265611, D.R.
20 Cass. pen., sez. VI, 28.10.2015, n. 46806 , Zanga, inedita; nonché Cass. pen., sez. I, 16.7.2015, n. 35948, Santoro, inedita.
21 Secondo un primo indirizzo, in caso di accertata indisponibilità dei suddetti mezzi di controllo, al giudice, sarà necessariamente imposta l’adozione della misura della custodia in carcere. Difatti le stesse esigenze cautelari che imponevano l’adozione della misura degli arresti domiciliari con adozione degli strumenti di controllo si prestano ad essere adeguatamente tutelate solo con l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere”: così Cass. pen., sez. II, 10.11.2015, n. 46328 , in CED rv. n. 265238, Pappalardo. Secondo altro indirizzo, che pure muove dalla natura di mera modalità esecutiva degli arresti domiciliari, che deve essere attribuita alle procedure di controllo elettronico, se viene ritenuta dal giudice la idoneità della misura degli arresti domiciliari a soddisfare le concrete esigenze cautelari, la applicazione ed esecuzione di detta misura non può essere condizionata da eventuali difficoltà di natura tecnica e/o amministrativa per l’esecuzione della misura, trattandosi di presupposti, all’evidenza, non comparabili tra loro; sicché una volta valutata la adeguatezza della misura domiciliare secondo i criteri di cui all’art. 275 c.p.p., il detenuto dovrà essere controllato con i mezzi tradizionali se risulti la indisponibilità degli strumenti elettronici: Cass. pen., sez. I, 10.9.2015, n. 39529, in CED rv. n. 264493, Quici; Cass. pen., sez. III, 1.12.2015, n. 2226, in CED rv. n. 265791, Caredda.
22 Potetti, D., Arresti domiciliari e mancanza dei mezzi elettronici per il controllo a distanza, in Cass. pen., 2015, p. 4151.
23 Valentini, E., Arresti domiciliari e indisponibilità del braccialetto elettronico: è il momento delle sezioni unite, in www.penalecontemporaneo.it, 27.4.2016.
24 Cass. pen., S.U., 28.4.2016, n. 20769, in CED rv. n. 266650, Lovisi.
25 Secondo Cass. pen., sez. II, 19.6.2015, n. 28115, in CED rv. n. 264230, Candolfi, peraltro, non sussisterebbe alcun vulnus ai principi di cui agli artt. 3 e 13 Cost., perché la impossibilità della concessione degli arresti domiciliari senza controllo elettronico a distanza dipende pur sempre dalla intensità delle esigenze cautelari e, pertanto, è ascrivibile alla persona dell’indagato.