D'ANGOLO (Dall'Angolo, Dell'Angolo), Battista, detto del Moro (dal Moro, Moro)
Figlio del pittore Altobello "ab Angulo" o "de l'Angulo" (forma che più tardi, in documenti riguardanti la discendenza, apparirà talora corrotta in "Agnolo-Angelo" usata anche dal Vasari) e di una Costanza, nacque a Verona circa il 1514 (Gerola, 1910: ricerche archivistiche fondamentali che tra l'altro stabiliscono gli esatti legami di parentela all'interno della famiglia).
Il soprannome "Del Moro", derivato dal rapporto del D. col suocero, il pittore Francesco India, detto il Torbido o il Moro, divenne ben presto cognome per tutta la famiglia, compresa la discendenza del fratello dell'artista.
Del padre Altobello di Battista, documentato a Verona in varie anagrafi ed estimi tra il 1571 e il 1558, non si conoscono opere: nacque verso il 1481 (Gerola, 1910, pp. 149 s., 154-157).
Se è verosimile che il D. abbia appreso i primi rudimenti della pittura presso il padre, fondamentale appare però l'incontro col pittore Torbido, del quale sposerà verso il 1534-35 la figlia Margherita, trasferendosi nella sua casa e assumendone il soprannome: il rapporto, ben noto alla letteratura a partire dal Vasari, col più anziano pittore è documentato a partire dal 1537, quando entrambi presenziano al testamento di Lelio Giusti, protettore del Torbido, ma era evidentemente iniziato da qualche anno. Troviamo i due pittori insieme, in contrada S. Vitale, nelle anagrafi del 1541 e 1545; nelle anagrafi del 1555 e del 1557, nonché nell'estimo del 1558, il D. risulta abitare nella contrada di S. Giovanni in Valle, ancora con tutta la famiglia del Torbido (compresa la suocera Angela e la cognata Lucrezia), ma senza il suocero che, nel 1557, vive ospite in casa dei conti Giusti a San Quirico.
Conferma gli ottimi rapporti tra i due pittori il fatto che il D. assuma il soprannome, "del Moro" almeno dal 1553, quando, nella supplica dell'11 marzo spedita al cardinale Ercole Gonzaga che l'anno prima aveva ordinato al D. e ad altri tre giovani pittori veronesi - il Brusasorci, Paolo Caliari e il Farinati - quattro pale per il duomo di Mantova non ancora ritirate e saldate, si sottoscrive "Batista del Moro" (Caliari, 1888, p. 17). Nel 1562 un documento ricorda alcune sue pitture, perdute, nel refettorio del convento di S. Domenico, cui la famiglia era legata a causa dell'intricata eredità del Torbido, mentre l'11 ag. 1567 (Viana, 1933, p. 84) è datato un primo testamento veronese del D. in cui ancora si nomina la moglie Margherita. Il 6 apr. 1573 (Ludwig, 1911, pp. 117 s.) il D. testa nuovamente a Venezia, dove risulta abitare a S. Maria Formosa: nel documento è ricordata la sua seconda moglie, Lucrezia Altichieri.
Secondo le sue disposizioni testamentarie, il primogenito Marco deve terminare alcune pitture, non altrimenti note, destinate al Friuli e riscuotere il saldo per una "palla di san apostolo".
Nel 1574 alcuni atti notarili riguardanti i figli lo indicano già "quondam" (Brenzoni, 1972, p. 123).
Risulta così priva di fondamento la data di morte dopo il 1610, proposta dallo Zannandreis ([1831-34], 1891, pp. 135 s.) sulla base di documenti dell'archivio dell'ospedale Civico di Verona, che riguardano in realtà un Giovanni Battista di Luca Del Moro (da qui era nato anche l'uso di chiamarlo Giovanni Battista, ma la cosa non trova riscontro nei documenti noti dove compare sempre e solo come Battista).
Purtroppo intricatissimi sono i problemi cronologici, ma talora anche attributivi, che concernono l'opera del D.: una sistemazione della quale, data la scarsezza di quelle datate, resta per il momento necessariamente nel campo delle induzioni personali.
Fondamentale per la comprensione degli inizi del D. è ovviamente lo stretto rapporto - probabilmente più stretto di quanto non si sia finora supposto - col Torbido, databile, come s'è visto, a partire almeno dal 1534. Sembra verosimile, senza per questo sottovalutare la precoce e in gran parte autonoma maturazione del D., che nell'ambito della bottega torbidesca e della divisione del lavoro all'interno di questa, il D. sia a lungo rimasto subordinato al più accreditato maestro, forse addirittura fino a quel 1546 che vede il Torbido trasferirsi a Venezia. In effetti, finché il più anziano maestro era a Verona e accentrava su di sé le commissioni più prestigiose, il nome del D. si legò a due sole opere di un certo prestigio, la pala dell'altare dei nocchieri nella chiesa veronese di S. Fermo Maggiore e quella della parrocchiale di Bevilacqua: la prima probabilmente lasciatagli dal Torbido perché oberato di troppi lavori, la seconda forse proprio grazie alla sua destinazione periferica.
Per il resto il D. in questi anni risulta impegnato in commissioni minori - piccoli affreschi, le prime incisioni - oppure si limitava, almeno fino al 1538, a collaborare alle imprese decorative più impegnative del suocero, come gli affreschi, veramente fondamentali, del duomo di Verona su cartoni di Giulio Romano (1534: da qui si data la nuova svolta della pittura veronese del Cinquecento), o come gli affreschi dell'abazia di Rosazzo in Friuli del 1535 e quelli che decorano il primo altare a destra a S. Zeno, ora datati verso il 1538 (Repetto Contaldo, 1982, p. 80). Se è vero che al D. spettano a S. Zeno le Figure femminili affrescate in alto (Repetto Contaldo, 1981, p. 195), la monumentale pala dei nocchieri in S. Fermo (S. Nicola in gloria tra i ss. Agostino e Antonio abate) per la sua maturità andrà datata negli anni successivi: forse iniziata dallo stesso Torbido cui potrebbero spettare gli angeli in alto, per il resto si rivela opera fondamentale del D. che, sulla base di un monumentalismo già consapevolmente manierista e mantovano, qui offre con l'esibizione di modi tipologici e cromatici di orientamento bresciano, la più clamorosa risposta veronese alla paletta del Savoldo in S. Maria in Organo del 1533.
Opere minori ma importanti non solamente nella storia del D. sono l'affresco di S. Eufemia con S. Paolo davanti a Anania che, secondo il Vasari ([1568] 1880, p. 297), "fece essendo giovinetto" (la commissione potrebbe essere coeva a quella al Torbido per la pala in loco all'altare dei bombardieri), e la lunetta affrescata sul quarto altare della navata destra di S. Nazaro col Martirio di una santa davanti a un giudice (l'unica, tra le proposte ottocentesche di attribuzione, che può essere confermata). L'orientamento deciso di queste opere verso Mantova, tra Giulio Romano e il Primaticcio, lega anche con le prime incisioni note del D. come il Sacrificio a Giove, giustamente ricondotto dal Dillon (1980, p. 260; 1981, p. 319) alle decorazioni di palazzo del Te a Mantova, o come le più antiche derivazioni-rielaborazioni di prototipi di Raffaello e di Giulio Romano.
In quanto a più precise datazioni occorre tuttavia notare che in generale la produzione incisoria del D. pare essere spesso in qualche modo autonoma rispetto al divenire stilistico e culturale della produzione pittorica, legata com'è alle volte non tanto alla disposizione mentale del pittore in quel momento, quanto al "genere" affrontato e al suo legame con determinati prototipi (nel senso che un paesaggio risulta sempre essere più o meno "tizianesco", mentre una Sacra Famiglia, per forza di cose, "raffaellesca": intricatissimo e ancor più difficilmente databile ad annum è poi il rapporto col Parmigianino, in particolare per alcune incisioni che altro non sono che derivazioni da disegni di questo).
In quanto invece al raffaellismo, che per la prima volta a Verona col D. è avvalorato a nucleo della nuova cultura, al di là ormai dello stantio classicismo delle opere tarde di più anziani maestri come Girolamo dai Libri e Giovanni Francesco Caroto che, non bisogna dimenticarlo, erano ancora attivi in quegli anni, è significativo che sia del D., pressappoco di questo tempo, una traduzione incisoria (Dillon, 1980, p. 260) della raffaellesca (in realtà di Giulio) Sacra Famiglia detta "La Perla", ora al Prado di Madrid, ma nel Cinquecento in casa Canossa a Verona e qui venerata come un autografo di Raffaello, copiata dal D. anche in pittura, come da molti altri. Anche il disegno conservato al Louvre in una montatura vasariana con La flagellazione di Cristo presenta caratteri stilistici giovanili (Ballarin, 1971, p. 96).In quanto alla problematica pala della chiesa parrocchiale di Bevilacqua, una Madonna col Bambino e tre santi, che la critica ha fatto oscillare da un capo all'altro della vicenda artistica del D., sembra decisivo, per una datazione a non oltre la metà del quinto decennio, l'intenso naturalismo dal sapore quasi ritrattistico dei volti dei due santi laterali che rimanda al substrato "lombardo" della pala dei nocchieri e che si perderà invece nella cifra tipologica delle opere successive: la Madonna col Bimbo, invece, già partecipa a quella congiuntura "della pittura veronese con le esperienze emiliane e mantovane ben prima del 1552" (Sgarbi, 1980, p. 41) che è propria della pala Alighieri, rispetto alla quale non dovrebbe essere di molto anticipata.
Anche il disegno del codice Resta alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, una Madonna in gloria e quattro santi, sembra precedere la pala Alighieri: l'acuto parmigianinismo del foglio ricorda le acqueforti, in qualche caso derivazioni da disegni del Parmigianino stesso, in cui più forte appare l'influsso parmense. D'altra parte si sa che l'incisore vicentino Battista Pittoni, di certo implicato con gli artisti veronesi, in particolare secondo il Vasari con il D., possedeva una raccolta di disegni del Parmigianino poi venduta, nel 1558, ad Alessandro Vittoria (Dillon, 1981, p. 300).
Quando il Torbido parte nel 1546 per Venezia lasciandogli la responsabilità della bottega, il D. aveva dunque maturato, in parallelo a Domenico Brusasorci, un proprio linguaggio nutrito di succhi mantovani ed emiliani. Giustamente la Repetto Contaldo (1981, p. 195) ha posticipato dal 1541 al 1547 circa la prestigiosa pala Alighieri in S. Fermo, una Madonna col Bambino e quattro santi, sulla base della datazione dei lavori di costruzione della cappella iniziati nel 1547 (ma anche del confronto stilistico con una Deposizione a Limone del Garda datata 1547).
Il dichiarato classicismo della pala - i quattro santi al di sotto della Madonna paiono disposti secondo lo schema raffaellesco della S. Cecilia bolognese - sembra implicare una sorta d'involuzione accademica che diventa ancor più chiara nella pala mantovana.La datazione a non prima del 1547 spiega meglio le affinità tra la pala Alighieri e la Maddalena del 1552, che fa parte del ben noto gruppo di tele veronesi per il duomo di Mantova: ora che i rapporti Mantova-Verona stavano ribaltandosi ed era semmai Verona a imporre la propria arte sul vicino mercato (la pala del D. sarà incisa nel 1577 da Diana Scultori), i quattro dipinti del D., del Brusasorci, e dei più giovani Caliari e Farinati indicano come il manierismo a Verona - o meglio, il manierismo nell'accezione veronese - fosse ormai un linguaggio assestato, una parlata comune alle volte già pronta, com'è il caso appunto del D., a involuzioni di natura leggermente accademizzante.
Forse il meglio di sé, in questi anni, il D. lo sapeva dare nel campo degli affreschi in interni e sulle facciate di case, anche se, rispetto ai più giovani Veronese e Zelotti, la sua posizione culturale rimane sostanzialmente un compromesso tra la civiltà delle grottesche e le nuove istanze figurative volte al raggiungimento illusionistico di uno spazio reale. Da ricordare i Paesaggi, affreschi in concorrenza con l'esordiente Veronese qualche anno prima del 1550, su un soffitto di palazzo Canossa, gli affreschi di un soffitto di palazzo Sambonifacio-Carton realizzati verso il 1552-1553, gli affreschi sulla facciata di palazzo Pindemonte-Bentegodi (restaurati nel 1985), che dovrebbero cadere poco prima del trasferimento nel 1556 a Venezia.
A un riquadro di questi ultimi Ballarin (1971, pp. 94, 102) ha riferito, giustamente, quale disegno preparatorio poi eseguito con poche varianti, il foglio di Stoccolma con Ercole che raccoglie le mele, che Mullaly (1971, pp. 53 s.) aveva impropriamente attribuito a Zelotti. La felice realizzazione di una architettura dipinta di raccordo per i monocromi figurati, di evidente ricordo polidoresco e mantovano, è la premessa per gli analoghi affreschi (perduti ma documentati da un disegno settecentesco al Museo Correr di Venezia) sulla facciata di palazzo Trevisan a Murano, circa del 1556-1557. Qui il D. avrebbe dipinto, secondo il Vasari ([1568] 1880, p. 297), anche il cortile interno, in collaborazione col figlio Marco, nonché il soffitto di un camerone.
Con il 1556 s'apre per il D. un periodo, che dura almeno fino al 1565 circa, sul quale la critica recente è stata abbastanza concorde: stilisticamente questa nuova fase si configura come un sensibile avvicinamento ai modi vincenti dei più giovani Veronese e, soprattutto, Zelotti. Ora il D., fin qui quasi sempre a Verona, sembra spostarsi continuamente tra Verona e Venezia: ma dell'attività veneziana poco rimane, mentre alcune attribuzioni tradizionali sembrano infondate, come le tele ora all'Accademia.
La lunetta firmata (1557 c.) di palazzo ducale con la Madonna col Bambino e i ss. Marco e Giovanni Battista, appare ingiudicabile per gli estesi rifacimenti. Probabilmente verso l'anno 1558 il D., che era allora documentato a Verona, lavorava nel palazzo veronese dei Murari, ora Bocca-Trezza, affrescando il fregio sotto le grondaie sulla facciata del cortile e il soffitto di una sala interna giustamente attribuitogli (1980) da Marinelli e Dillon sulla base del confronto con l'acquaforte firmata raffigurante l'Allegoria della Fama, evidentemente coeva. Confrontata con questi lavori, la problematica Pandora, un'acquaforte siglata e datata 1557, non sembra potersi collocare nel catalogo del D. che a quest'epoca dimostrava altri interessi: la sua stretta deferenza all'area mantovano-giuliesca semmai potrebbe portare a collocarla in anni più giovanili (ma forse è semplicemente una lastra preparata anni prima e siglata e datata nel 1557, al momento della pubblicazione: da porsi probabilmente ai tempi del soffitto di palazzo Sambonifacio-Carton). Al 1559-1560 risale la decorazione delle cupolette mediane e della volta della seconda rampa dello scalone della Biblioteca Marciana a Venezia: a questi affreschi si può accostare il disegno del Louvre con la Maddalena pubblicato da Ballarin (1971, p. 103). Sembra che gli affreschi di palazzo Bevilacqua-Lazise, di cui ora resta, staccato, solo un piccolo e poco significativo frammento esposto nel Museo degli affreschi di Verona, fossero datati 1561; 1562 è invece datata l'acquaforte con un Paesaggio con Venere e Cupido (Dillon, 1980, pp. 267 s.), dove il "tizianismo" alla Campagnola, che era alla base di alcune più giovanili prove incisorie del D. dedicate al paesaggio, è ormai in parte superato da quegli elementi nordicheggianti alla Cock e alla Dupérac, che rendono spesso incerti i confini tra l'attività grafica e incisoria del D. e quella di Battista Pittoni, in collaborazione del quale, secondo il Vasari ([1568] 1880, p. 423), avrebbe inciso "cinquanta carte di paesi vari e belli".
Verso il 1565 il D. lavorava a villa Godi-Malinverni a Lonigo, apparentemente in subordine al più giovane Zelotti col quale portò a termine l'impresa decorativa lasciata incompiuta dieci-quindici anni prima da Gualtiero Padovano.
Nella sala delle Muse e dei Poeti, concordemente attribuita al D., innegabilmente sue sono le nerborute cariatidi reggi-trave a monocromo che ricordano le più eleganti figure del soffitto di palazzo Bocca-Trezza e dello scalone della Marciana. Del tutto inatteso, e in questi termini altrove non riscontrabile, appare invece l'incredibile adeguamento ai modi dello Zelotti che il D. dimostra, con un effetto quasi da "bottega di", nelle scene finte al di là dell'impianto prospettico-architettonico che danno il nome alla sala.
Dopo villa Godi non troviamo più elementi cronologici precisi cui ancorare le tarde opere superstiti, ammesso che si sappia quali esse siano: non si può che condividere il parere di Ballarin (1971), che ha datato i due grandi monocromi nella chiesa di S. Stefano a Verona, con la Sepoltura e il Diaconato del santo verso il 1570 assieme ai fogli del British Museum di Londra con la Resurrezione e la Deposizione che sembrano costituire lo studio per una decorazione absidale.
Generalmente datati fra il 1553 e il 1559 (Marinelli, 1980, p. 200), gli affreschi di S. Stefano non trovano però agganci con le opere di quel decennio che si chiude all'insegna del Veronese e dello Zelotti. Il vivo accento già pienamente contro-riformista e sentitamente religioso è d'altra parte impensabile prima del 1570.
In parallelo agli sviluppi della decorazione veneta dopo il 1570 gli affreschi sono come arazzi, pensati ormai senza più legame col contesto architettonico entro cui sono inseriti: in questi anni compone un impianto architettonico-illusionistico totale in un salone di villa Garzoni alla Fittanza di Marega (con un "ductus", pittorico caratteristico di queste opere tarde che in un certo senso convalida quell'ascendente dello Schiavone e del Tintoretto che il Ballarin, 1971, p. 103, notava), ma limitandosi a creare un'immensa muraglia a finto bugnato rustico con statue innicchiate e due arcate aperte su paesaggi dove il mito razionale dell'Olimpo del Rinascimento si riduce alle quattro finte statue con le Stagioni che forse non interessavano più il vecchio D., tant'è vero che per almeno una di esse, l'Autunno, e ricorso a un modello altrui (un'incisione del Caraglio su disegno del Rosso Fiorentino: Marinelli, 1980, pp. 191, 193). Ritroviamo il pathos religioso dei monocromi veronesi anche in alcune prove incisorie tarde, dedicate al tema della Deposizione (Dillon, 1980, pp. 269 s.). Un coevo Martirio di s. Cecilia, una acquaforte firmata e dichiaratamente ricavata da un'invenzione di Bernardino Campi, dimostra l'interesse del D., nei suoi ultimi anni, per il manierismo cremonese. Perduti gli affreschi veronesi di palazzo Gherardini, rimasti incompiuti alla morte, e mentre rimangono da identificare le pitture ricordate nel testamento veneziano del 1573, la carriera del D. si chiude nel 1574 con l'uscita postuma, a Venezia, delle incisioni dei Compartimenti diversi tratti da marmi e bronzi degli antichi romani che ad evidenza propongono, in maniera molto intricata, il problema dei rapporti con lo Schiavone (Dillon, 1980, pp. 270 s.; 1981, pp. 320 s.).
A lungo sottovalutato e ricondotto, quasi ne fosse un seguace, sotto l'ala protettiva del più giovane Caliari, il D. è stato finalmente oggetto di più attenti studi che ne hanno illuminato l'importanza nell'ambito della diffusione del manierismo nel Veneto: oggi il suo ruolo appare sempre più determinante non soltanto a Verona, dove con lui e il Brusasorci si crea una parlata manierista locale già prima della comparsa del Caliari, ma nel panorama veneto in generale, non tanto per la sua attività veneziana, sostanzialmente tarda e dove è lui ad adeguarsi stilisticamente a più giovani ed ormai affermati colleghi, quanto per la sua attività nel campo dell'incisione con la quale contribuì attivamente, fin dagli inizi della sua non breve carriera, a diffondere le nuove idee figurative, in primo luogo le istanze raffaellesco-mantovane e parmigianinesche.
Degli otto figli del D. e Margherita, dei quali non si conoscono le esatte date di nascita (cfr. Gerola, 1910), furono pittori non soltanto Marco e Giulio ma anche Ciro e Alessandro. Per la verità il Brenzoni (1972, p. 119) dice pittore Paolo e non Alessandro, ma Paolo è documentato solo fino al 1557, con la famiglia paterna e senza specificazioni sulla sua attività. Di Alessandro sappiamo invece che "depenze", così almeno indica l'anagrafe di S. Giovanni in Valle del 1555: nel testamento veneziano del padre risulta già "quondam". Ben documentato è Ciro, con il padre e i fratelli nelle anagrafi veronesi dal 1541 al 1557 circa, con moglie e figli nell'anagrafe di S. Silvestro del 1583 dove risulta abitare in casa del pittore Francesco Bozzoletta.
Fu pittore anche il nipote del D., Girolamo, figlio del fratello Giovanni (Gerola, 1910, pp. 153-157), nato verso l'anno 1550, e documentato nelle anagrafi e negli estimi cittadini fino al 1596 (ibid., pp. 149, 153 s., 156 s.). È anche ricordato, non è chiaro a che proposito, in un volume dell'"Arte dei Radaroli per l'anno 1605" (Brenzoni, 1972, pp. 122 s.). "Buon pittore, ma non tale da poter reggere al confronto de' suoi congiunti" (Zannandreis [1831-34], 1891, p. 139), è ricordato per un affresco, ora scomparso, sulla facciata di una casa nei pressi di S. Tommaso Cantuariense che riproduceva il Matrimonio mistico di s. Caterina del Veronese, ora all'Accademia di Venezia. Era firmato "Gerolamo da Langolo / dito del Moro / pitor fece" e datato: la data, già nell'Ottocento di difficile lettura, è stata variamente interpretata: 1592, 1622, 1632 (su Girolamo si veda anche H. Voss, in U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, I,Leipzig 1907, p. 520, sub voce Angolo del Moro, Girolamo: erroneamente è detto fratello di Battista).
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