D'ANTONIO, Giovanni, detto il Partenopeo
Visse a Napoli tra il Seicento e il Settecento, esercitando la professione di tribunalista.
Delle vicende di questo autore non è possibile venire a conoscenza. Era soprannominato il Partenopeo in una imprecisabile accademia napoletana. Dall'esame delle sue opere non emergono indizi utili, ma si può stabilire ch'egli vivesse ancora nel 1720.
Scrisse e stampò varie opere tutte in dialetto napoletano: un piccolo poema, due farse, una prosa, uno scherzo. Il giocoso ciclo epico si compone di quattro parti differenti, le quali probabilmente uscirono in un primo tempo separatamente e in periodi diversi: il Mandracchio nnamorato, il Mandracchio esiliato, il Mandracchio repatriato, il Mandracchio alletterato. Questi "capricci eroici" (così li definisce l'autore) furono stampati una prima volta attorno al 1722, ma l'edizione più diffusa è compresa nella ristampa di Tutte le opere di Giovanni D'Antonio, in un volumetto della Collezione di tutti i poemi scritti in lingua napoletana dello stampatore Porcelli (1788). Le due farse, Scola cavaiola e Scola curialesca, oltre a una imprecisabile stampa più antica, si possono leggere, assieme a una commedia del Marulli, in una piccola edizione della Biblioteca partenopea (presso F. D'Ambra, libreria editrice teatrale, Napoli 1892). L'unica prosa è costituita dallo Sciatamone mpetrato, narrazione eziologica. La brevissima Parte de Pazzo accumula una quantità di titoli e attribuzioni iperboliche riferiti in prima persona. I poemetti, in ottava rima, si compongono di cinque canti ciascuno, tutti preceduti da un argomento che riassume le vicende del canto e si aprono con invocazioni alla Musa di intonazione parodistica.
Nel Mandracchio nnamorato il D. fa esplicito riferimento a uno dei più famosi autori napoletani allorché chiede alla Musa "Scioscia comme sciosciaste allo Cortese". Non per nulla Mandracchio, eccezione fatta dello Nnamorato, avrà come compagno di avventure Micco Passaro, l'eroe del poema cortesiano. Il D. racconta le vicissitudini del protagonista che prende il nome dal popolare quartiere napoletano in cui è nato, il Mandracchio appunto, rovesciando comicamente i moduli e i luoghi epici. Mandracchio è rivale di un certo Nardo Chiappino, concorrente all'amore di Porzia, ma nel II canto un primo fiero duello tra i due contendenti viene differito per l'arrivo della notte, concludendosi, per suggerimento di Arrobbaciucce, fido consigliere di Mandracchio, nella famosa taverna del Cerriglio, dove ha luogo tra i due rivali una sorta di tenzone mangereccia. Mandracchio può sfogare la sua ira con una gatta della taverna, con l'uccisione di un porco e narrando nel III canto un'antica prodezza contro un drago, dall'epilogo triviale e dissacrante. Durante uno scontro con Nardo, Mandracchio, al termine di una furiosa rincorsa contro l'avversario, batte la testa contro una roccia, non senza divertimento degli astanti. Alla fine i due sono portati in galera e il matrimonio di Porzia con un altro è commentato da un consueto motto sentenzioso che chiude l'ultimo canto.
Nel Mandracchio esiliato l'autore ribadisce la sua volontà di dilettare chi legge, non cambiando la sua "rozza musa". In questa parte del poemetto si vede Mandracchio disperato per essere costretto ad abbandonare Napoli. Incappa nelle mani di banditi e si affligge molto credendosi morto, ma ben presto si unisce a lui Micco Passaro, col quale trova sempre nuovi modi per ottenere pranzi e ospitalità. Cacciati in malo modo da due ospiti, si accordano con un cerretano che aiutano nella macabra preparazione di un unguento dagli effetti deleteri e recitano nelle piazze. Per un furto di fichi finiscono in tribunale, però Mandracchio fingendosi stolto li fa assolvere. La narrazione è rallentata già in questo poemetto dall'incontro con personaggi savi, che offrono la possibilità di inserire quesiti eruditi, apologhi, tirate moraleggianti.
Il Mandracchio repatriato, l'autore lo dice composto "De notte infra na luna", rivelando che aveva dimenticato la promessa di cantare il rientro in patria di Mandracchio, ma la Musa, apparsagli in sogno, lo esorta, nonostante l'autore accampi la tristezza e le ristrettezze economiche, per cui conclude "canto pe grolia e pe mmeseria chiagno". Per il dolore del tradimento di Porzia, Mandracchio è condotto in manicomio, dove, in un pozzo, gli sono mostrati molti folli, tra cui alcuni antichi filosofi. Dopo questo episodio Micco e Mandracchio incontrano vari personaggi: un vecchio che impartisce consigli di vita parafrasando sentenze bibliche; lo sgobbato Vorpa di Sessa che racconta le sue picaresche vicende: uno degli episodi ricorda il caso di Lazarillo de Tormes assunto da un hidalgo in miseria. Mandracchio risolve a Micco vari quesiti su fenomeni fisici e astronomici, propugnando la vecchia teoria eliocentrica dell'universo.
Il Mandracchio alletterato è composto dal D. "fora la patria" allorché, svernando a "Massa bella", è costretto a restare in casa per il maltempo. Così compone il poemetto che ora dedica al Tempo. L'Alletterato ribadisce l'eterogeneità e discontinuità già presenti nelle parti precedenti, risolvendosi ovviamente in una rassegna di arti e studi, storie curiose ed erudite, descrizioni di Napoli, questioni varie.
Nella Scola cavaiola e nella Scola curialesca il D. riprende il genere delle farse cavaiole, contaminandolo coi modi della commedia dell'arte. Le due brevi opere, che esibiscono meccanismi comici tradizionali ma efficaci, sono composte nel metro di una farsa scritta dal Sannazzaro in occasione della vittoria del re di Castiglia sul regno di Granata. Presentano struttura compositiva analoga, vivacizzate da un buon numero di personaggi pluridialettali, con l'accumulazione di ritrovati comici ed espedienti mimico-buffoneschi. La tipologia da Improvvisa è evidente nei personaggi che costituiscono la scolaresca con cui, in entrambe le farse, si trova alle prese il "Mastro": Pulcinella, Coviello, Trastullo, Tartaglia. Nella Scola cavaiola interviene un dottor Cappa de Chiaiete, che si esprime in bergamasco alternato con parole latine, secondo la più antica tradizione della maschera del dottor Graziano. Il maestro traduce l'Eneide, stravolgendo comicamente il significato dei versi latini (così come faceva Carrafone nella farsa "de lo mastro" di V. Braca) e chiude la lezione raccontando un episodio in cui introduce inserti in spagnolo e in lingua schiavona. La Scola curialesca è caratterizzata da un maggior numero di personaggi e quindi di situazioni comiche. Si apre con l'unico intervento in lingua italiana delle opere del D., un'invocazione di un mago che ordina allo spirito Farfariello di disturbare l'irrequieta scolaresca. Intervengono, come al solito, vari personaggi esterni: una zingara che scambia col maestro fitte serie di epiteti ingiuriosi e volgari; il dottor Mangrella e un notaio che portano notizie d'una lite del maestro. Un medico improvvisa le solite cure comiche e Spaccamonte "guappo", introduce il figlio Tartaglia. Non si rinuncia alla presenza di Giangurgolo, il quale, come nell'altra farsa, parla calabrese. La confusione aumenta per l'intromissione dello schiavo Mustafà e di un "paglietta sfatto" che chiede la carità, ma la ridda si conclude allorché uno sbirro conduce in carcere il maestro.
Nella premessa allo Sciatamone mpetrato, si trova il riferimento cronologico e la circostanza in cui il D. decide di scrivere l'opera, quando, nel febbraio del 1720, trovandosi in casa a copiare un formulario, è disturbato da un tafferuglio che avviene sotto le sue finestre. Lo Sciatamone mpetrato (diviso in cinque capitoli), prende a pretesto l'omonimo faraglione, detto anche Chiatamone, situato nella zona orientale di Napoli, davanti al Castel dell'Ovo o isola Megaride. Si racconta che Megara partorì Sciatamone, del quale è ricostruita fantasticamente tutta la vita, il matrimonio con Celidora e il rapimento ad opera di un antico innamorato. In seguito alla guerra scatenatasi fra i due rivali, Sciatamone è metamorfosato in sasso.
Bibl.: R. Liberatore, Sul dialetto napoletano, in Annali civili del Regno delle Due Sicilie, XIV (1837), 27, p. 37; P.Martorana, Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori del dialetto napoletano, Napoli 1874, pp. 13 ss.; G. Natali, Il Settecento, Milano 1929, I, p . 616. I. Sanesi si limita a menzionare incidentalmente le "rinnovate farse cavaiole di Giovanni D'Antonio" (La commedia, Milano 191 1, II, p. 92).