Amor, da che convien pur ch'io mi doglia
. Questa canzone (Rime CXVI) si trova citata nel commento dell'Anonimo al canto XXIV del Purgatorio, a proposito della Gentucca appena accennata da Bonagiunta, che l'anonimo assicura che fu il secondo amore di D. dopo quello per Beatrice, mentre il terzo e ultimo fu per " una di Casentino, da Prato Vecchio, per cui fece quella canzone morale che incomincia: Amor, da che convien ". La canzone è costituita di 5 stanze di 15 versi ciascuna (12 endecasillabi e 3 settenari) e di un congedo regolare di 9 versi che riprende la struttura della sirima. La stanza è distinta in fronte, con due piedi di 3 versi ciascuno, e sirima di 9 versi. Presenta la seguente disposizione di rime, molto vicina a quella di Io sento sì d'Amor: ABC, ABC; CDDECDDEE.
I codici di più antica tradizione manoscritta che la contengono sono: il Chigiano L VIII 305, il Magliabechiano VI 143, i due autografi del Boccaccio (Chigiano L V 176 e Toledano 104, 6), dove è al quindicesimo e ultimo posto, dopo Doglia mi reca, nella serie di 15 canzoni che comincia con Così nel mio parlar. Fu stampata in appendice all'edizione veneziana di Pietro Cremonese della Commedia (1491) insieme con altre 14 canzoni della tradizione Boccaccio che qui corrono dal n. 3 al n. 17. Nell'edizione Giuntina del 1527 è nel libro III della sezione dantesca, al sesto posto, dopo La dispietata e prima di Al poco giorno, nella serie di 9 " canzoni amorose e morali ", che comincia con Così nel mio parlar. Nell'edizione del 1921 il Barbi la collocò col n. CXVI nel libro VII che comprende le " Rime varie del tempo dell'esilio ", ultima delle canzoni composte da D.
Che la canzone sia del tempo dell'esilio non c'è dubbio perché c'è la testimonianza del testo del congedo, dove il poeta dice di Fiorenza, la sua terra, che fuor di sè lo serra (vv. 77-78). Il testo della canzone ci rivela anche il luogo in cui il poeta si trovava, in mezzo l'alpi / ne la valle del fiume (vv. 61-62), lungo il quale Amore sempre si è dimostrato forte sopra di lui: cioè nella valle dell'Arno. Questa indicazione del luogo e altri particolari del testo della canzone trovano riscontro in un'epistola latina (la IV nell'edizione del '21), inviata da D. a Moroello Malaspina, nella quale egli confida al Marchese di essersi improvvisamente innamorato di una bellissima donna apparsagli presso le correnti dell'Arno. Da quel momento Amore lo tiene imperiosamente soggetto, e così i suoi bei propositi di astenersi dalle donne e dai loro canti sono svaniti. Amore ha incatenato il suo libero arbitrio in modo che egli deve andare dove vuole lui. E conclude: Regnat itaque Amor in me, nulla refragante virtute; qualiterque me regat, inferius extra sinum praesentium requiratis (§ 5). Cioè: i particolari di quella sua passione amorosa Moroello li avrebbe trovati nel componimento che accompagnava l'epistola che è appunto, come generalmente si ammette, la canzone Amor, da che convien. Per l'identificazione del luogo col Casentino si fa credito all'Anonimo; non mancano dissensi, invece, per una più stretta determinazione del tempo. L'opinione più seguita è che D. sia andato nel Casentino dopo essere stato in Lunigiana per comporre una vertenza tra il vescovo di Luni e i Malaspina (6 ottobre 1306): nel 1307 o, al più tardi, nel 1308. Mancano testimonianze sicure, ma, dal momento che non ci sono nemmeno prove in contrario, tale mancanza non può essere in sé una buona ragione per spostare a più tardi la composizione della canzone e dell'epistola, e precisamente nella primavera del 1311, quando D. datava in finibus Tusciae sub fontem Sarni, cioè dal Casentino, le due famose epistole per la discesa di Arrigo VII in Italia. E stata una tesi cara al Torraca, che intendeva unire Amor, da che convien al gruppo delle rime petrose, e che è stata in tutto o in parte anche del Santi, del Ciafardini, dello Zonta, del Santangelo e di altri. Motivi di ordine cronologico dovrebbero escludere che D. potesse riferirsi anche a questa canzone quando nel primo trattato del Convivio parlava delle quattordici canzoni sì d'amor come di vertù materiale (I I 14) che avrebbe commentate per rivelare il significato allegorico di un amore per la Filosofia, ma la tendenza a ricercare comunque un significato allegorico in Amor, da che convien è largamente rappresentata fra gli studiosi di D. Il Bartoli pensò a un amore allegorico per Firenze, il Pascoli all'idea della Commedia, il Ricolfi, lo Zingarelli (cambiando opinione rispetto a una sua precedente proposta di considerare la canzone un atto di galanteria cortigiana per una nobildonna dei conti Guidi) e, più recentemente, C.G. Hardie, a Beatrice. Se si esclude la possibilità di un intento allegorico, la canzone bisogna prenderla per quella che è nel suo significato letterale di canto d'amore (reale o immaginario che sia, non importa) e per i risultati di stile che la caratterizzano.
La canzone è tutta imperniata, come già Amor, che movi e Amor, tu vedi ben, su un discorso rivolto ad Amore, che tuttavia rivela uno stato d'animo più vicino (nei rapporti con la donna e con Amore) a quello testimoniato dalla canzone Così nel mio parlar. Nella prima stanza il poeta chiede ad Amore che, poiché non può fare a meno di esprimere il suo dolore, gli conceda, prima di condurlo a morte, che le parole corrispondano al dolore come egli lo sente. Se non riuscisse a farlo, non saprebbe come scusarsi; ma se, come spera, Amore gli farà la grazia, faccia in modo che la donna, così rea nei suoi confronti, non ne venga a conoscenza prima che egli muoia, perché altrimenti ella non potrebbe non provare un sentimento di pietà che farebbe men bello il suo bel volto (v. 15). Con la seconda stanza comincia la narrazione di tutto ciò che provoca la sua doglia. Egli non può evitare che l'immagine della donna s'insedii nella sua fantasia, così com'ella è nella realtà, bella e crudele, e perciò l'anima s'infiamma della bellezza, ma s'immerge nell'angoscia per la crudeltà. È impossibile in tali condizioni l'intervento della ragione, e gli effetti che ne derivano li apprendiamo dalla stanza successiva. La nimica figura della donna, così com'è dipinta nella sua immaginativa, domina dispoticamente la sua libertà di volere, e così egli è costretto in ogni modo ad andare dove ella vuole, cioè nel luogo dove si trova l'immagine vera della donna, ritrovandosi indifesodinanzi agli occhi micidiali di lei che lo feriscono a morte. Solo Amore sa, continua il poeta nella quarta stanza, in quali condizioni egli si è trovato subito dopo aver ricevuto la ferita dagli occhi della donna, perché è rimasto a vedere il suo corpo senza vita. E quando l'anima ritorna al cuore, non ricorda nulla di quel che è avvenuto senza di lei. Ritornato in vita, egli guarda la ferita che gli procurò la morte, e non può fare a meno di tremare di paura. Il pallore del suo viso mostra quanto terribile sia stato il colpo ricevuto, nonostante sia stato provocato da un dolce sorriso. Siamo alla quinta e ultima stanza: così malconcio l'ha ridotto Amore in un luogo alpestre della valle di quel fiume lungo il quale egli ha sempre subito il suo potere; è un luogo in cui non si trova neppure gente a cui confidare le proprie afflizioni, e d'altra parte non c'è da sperare nella donna, che è come se fosse sbandeggiata dalla corte d'Amore, e che del proprio orgoglio s'è fatto schermo tale da non temere che le sue saette la colpiscano al cuore. Si congeda ora dalla canzone con una dichiarazione di omaggio alla donna bella e ria, che più alto non potrebbe essere. Se Fiorenza, la sua terra che, vota d'amore e nuda di pietate (v. 79), lo tiene in esilio, lo richiamasse in patria, egli non avrebbe più la libertà di ritornare, tale è la catena che lo serra nel luogo dove ora si trova.
Confluiscono in questa canzone, dall'impostazione strutturale del discorso ad Amore a motivi psicologici e a riprese stilistiche, elementi già poeticamente sperimentati da D. durante un lungo arco di tempo che va dalle rime dolorose d'ispirazione cavalcantiana (cfr. specialmente E' m'incresce), al sonetto Chi guarderà, alle canzoni Amor, che movi e Io sento sì d'Amor, alle due petrose Amor, tu vedi ben e Così nel mio parlar. Che tali elementi siano fusi in una nuova e compatta poesia non si può dire, ma i segni di un esercizio di stile che aveva fatto prove convincenti nelle rime petrose sono avvertibili. Forse D. tentava nuove direzioni per la sua arte di rimatore d'amore, ma non era quello il momento più adatto. Erano gli anni in cui, dopo le canzoni della rettitudine (Tre donne e Doglia mi reca), si era messo a scrivere il Convivio in prosa volgare e il De vulgari Eloquentia in prosa latina, opere di grande impegno dottrinale nel campo filosofico e morale e in quello d'arte poetica. La composizione di Amor, da che convien nel 1307 s'inserisce solo marginalmente e provvisoriamente in quel periodo della vita di D. in cui, come egli stesso dice nell'epistola a Moroello, aveva fatto il proponimento di astenersi a mulieribus suisque cantibus (§ 4) per potersi dedicare assiduamente alle alte cose celesti e terrestri. Si ricordi, inoltre, come nel De vulgari Eloquentia (II II 9) D. abbia preferito citare Cino da Pistoia come poeta d'amore e sé stesso come poeta della rettitudine in perfetta coerenza con quanto si legge nel sonetto a Cino Io mi credea, in cui si mostra ormai lontano dalle rime d'amore perché alla sua nave si conviene omai altro cammino /... più lungi dal lito (Rime CXIV 3-4). Si può spiegare così quell'apparente involuzione che in sede stilistica e nella stanca ripresa di motivi usati è stata rilevata da vari critici in questa canzone.
Bibl. - A. Bartoli, Storia della letter. it., IV, Firenze 1881, 277-290; P. Serafini, Il Canzoniere di D. A., ibid. 1883, 55 ss.; G. Pascoli, La mirabile visione, Messina 1902; N. Zingarelli, Il Canzoniere di D., Firenze 1906, 11-13; Id., Dante 641 ss.; A. Santi, Il Canzoniere di D.A., II, Roma 1907, 168 ss.; F. Torraca, Le lettere di D. (1910), in Nuovi studi danteschi, Napoli 1921, 19 ss.; A. D'Ancona, Scritti danteschi, Firenze [1913] 251 ss.; E. Ciafardini, Tra gli amori e tra le rime di D. (1919), rist. in Problemi di critica dantesca, Napoli 1947, 141 ss.; S. Santangelo, D. e i trovatori provenzali, Catania 1921, 19592; G. Zonta, La lirica di D., in " Giorn. stor. ", Supplem. 19-21 (1922) 150 ss.; L. Valli, L'allegoria di D. secondo Giovanni Pascoli, Bologna 1922, 35; A. Ricolfi, Il ritorno di Beatrice e D. e il segreto della ‛ montanina ', in " Arch. Romanicum " XV (1931) 485-511; Contini, Rime 205 ss.; D.A., Rime, a c. di D. Mattalia, Torino 1943, 215 ss.; F. Maggini, La canzone ‛ montanina ' di D., in Studi letterari. Miscellanea in onore di E. Santini, Palermo 1956, 95 ss.; N. Sapegno, Le rime di D., dispense anno accad. 1956-57, Roma, II 117 ss.; C.G. Hardie, Dante's ‛ Canzone Montanina ', in " The Modern Language Review " LV (1960) 359-370; F. Montanari, La canzone ‛ Amor da che convien ', in " Lettere Moderne " XII (1962) 359-368; D.A., Rime, a c. di M. Apollonio, Milano 1965, 216 ss.; Dante's Lyric Poeta, a c. di K. Foster e P. Boyde, Oxford 1967, 330 ss.