Da Flatlandia all'ipercubo: il fascino matematico della dimensione
Da Flatlandia all’ipercubo: il fascino matematico della dimensione
Si possono vedere oramai, con appositi occhiali, film in tre dimensioni. Si tratta, ovviamente, di un’illusione ottica: grazie a speciali lenti, viene ripristinata artificialmente la visione bioculare che “restituisce” la profondità. Si crea così l’effetto della terza dimensione spaziale che, su uno schermo piatto quale quello del cinema, è impossibile da ottenere. Ma che cos’ è la dimensione? Se ci si limita alla comune esperienza quotidiana, senza sconfinare negli astratti concetti matematici quali quelli che sono alla base della dimensione frattale, la dimensione è un numero naturale, che indica il numero di parametri necessari per identificare un punto, un luogo, un evento in un determinato ambiente. Se per esempio si vuole segnalare al soccorso stradale un incidente sull’autostrada, basta indicare un solo numero: il chilometro in cui tale incidente si è verificato. Nonostante le sue numerose curve, si può dire che l’autostrada ha una sola dimensione perché un solo numero (il chilometraggio) basta a identificare il luogo in cui si è verificato l’evento che interessa. In modo analogo, una nave che chieda soccorso dovrà comunicare due numeri, affinché possa essere identificata la sua posizione: la sua latitudine e la sua longitudine. Essa, muovendosi sulla superficie marina, si trova in un ambiente di dimensione due. Un aereo potrà essere identificato, oltre che dalla latitudine e dalla longitudine, anche dalla sua altitudine. Sembra dunque che al mondo della nostra esperienza siano necessarie e sufficienti tre sole dimensioni, identificate, in un opportuno sistema di riferimento, da tre numeri: le coordinate x, y, z, ossia lunghezza, larghezza e altezza. Tuttavia, qualora si debba fornire la testimonianza di un evento, cioè di qualcosa che accade al di fuori dell’ordinario, la domanda non verte soltanto sul dove ma anche sul quando. Se il quando riguarda il passato, l’evento fa parte della cronaca, della statistica o della storia; se riguarda il futuro, si entra nel campo della probabilità. In ogni caso la dimensione temporale è essenziale per identificare l’accadimento di un evento e non può essere disgiunta dalle coordinate spaziali. La teoria della relatività ha smantellato l’idea che tale dimensione temporale, a differenza di quelle spaziali, abbia caratteri assoluti. Essa va assunta allo stesso livello delle altre tre. Coerentemente con i dettami operativi della fisica, Einstein ha infatti sottoposto a critica il concetto di “simultaneità”, legandolo a quello della visione, che risente della velocità della luce. Quest’ultima, pur essendo elevatissima, non è comunque infinita (per esempio, quando vediamo tramontare il Sole, in realtà assistiamo a un fenomeno avvenuto circa otto minuti prima). Ci si deve dunque rassegnare all’idea che ogni evento cui assistiamo avvenga in un ambiente caratterizzato non da tre, ma da quattro parametri di riferimento: tre per il dove, uno per il quando, indissolubilmente legati tra loro.
Certo, è difficile immaginare figure in quattro o più dimensioni, giacché fenomeni quali l’accorciamento delle lunghezze o la dilatazione del tempo avvengono, in base alla teoria della relatività, soltanto per corpi che viaggino a velocità vicine a quelle della luce, a velocità quindi di cui non si ha diretta esperienza quotidiana. Pensare di vivere in uno spazio a quattro dimensioni richiede pertanto una certa fantasia. In questo sforzo di immaginazione qualche utile suggestione ci è offerta dallo sguardo del reverendo Edwin A. Abbott (1838-1926), teologo inglese, studioso della Bibbia e di Shakespeare, insegnante di matematica e rettore della City of London School. Nel 1884 il reverendo Abbott pubblicò Flatlandia, racconto fantastico a più dimensioni, nel quale è descritto un mondo a due dimensioni con l’occhio di un suo abitante: un mondo piatto narrato da un Quadrato che in esso vive. È un mondo popolato di segmenti, poligoni, cerchi, tutti suddivisi ironicamente in classi sociali in base alla maggiore o minore regolarità: dai regolarissimi Cerchi (i sacerdoti), ai nobili Poligoni, scendendo poi ai Quadrati (la classe media), ai Triangoli (gli operai). Le donne sono Segmenti e la loro forma tradisce l’atteggiamento misogino dell’autore, che le colloca al livello più basso della scala sociale e, al contempo, le vede come aguzze e temibili. Gli abitanti di Flatlandia non possono vedere le loro reciproche forme: ogni altro individuo è un segmento, perché il mondo piatto è visto dall’interno e non da un punto esterno come accade quando si studia la geometria del piano: come possono allora riconoscersi i loro abitanti gli uni con gli altri? Un metodo potrebbe essere quello di toccarsi e contare il numero di lati e vertici, ma il narratore allude a un metodo alternativo, un particolare «riconoscimento a vista» che le persone più colte riescono a praticare con facilità, grazie all’esistenza, nel mondo di Flatlandia, di una fitta Nebbia. Scrive infatti Abbott: «Dovunque ci sia una buona dose di Nebbia, ecco che gli oggetti a una distanza, diciamo, di un metro, sono sensibilmente meno nitidi di quelli che si trovano a novantacinque centimetri; di conseguenza, con l’esperienza di un’attenta e costante osservazione della maggiore o minore nitidezza, siamo in grado di dedurre con grande precisione la configurazione dell’oggetto osservato».
Il narratore è, come già detto, un Quadrato che descrive il suo mondo a noi, abitanti di Spacelandia, il mondo a tre dimensioni. Lo stesso narratore racconta poi la sua esperienza di fronte a un mondo a una dimensione, Linelandia, dove gli abitanti non possono essere che punti o segmenti e sono costretti a rimanere gli uni accanto agli altri perché non è possibile alcun sorpasso. Abbott immagina poi l’incursione in Flatlandia di un essere tridimensionale: una sfera che attraversa il piano. Questa, nel suo attraversare il piano, viene vista in sezione dagli sbigottiti abitanti bidimensionali e appare un essere mostruoso: all’inizio è soltanto un punto, poi si allarga smisuratamente, quindi di nuovo rimpicciolisce, fino a divenire nuovamente un punto, per poi sparire. Il racconto di Abbott si conclude con l’ipotesi di uno spazio a quattro dimensioni: animato da autentico spirito geometrico, il Quadrato trae pretesto dalla scoperta della terza dimensione per spingersi oltre e avventurarsi nella terra della quarta dimensione, una terra di oggetti euclidei a quattro dimensioni, dove la quarta dimensione non è dunque il tempo, come sarà in seguito nella teoria della relatività, ma una dimensione geometrica omogenea alle altre. Prototipo di questa nuova classe di oggetti è il cubo a quattro dimensioni o ipercubo: esso fa la sua prima comparsa ufficiale in letteratura proprio nel libro di Abbott, che ebbe un ruolo centrale nella diffusione popolare del concetto di quarta dimensione. Ma di questo nuovo oggetto non vi è nell’opera alcuna rappresentazione e il problema resta appunto quello di come si possa avere una idea visiva della quarta dimensione. In effetti nel racconto di Abbott, tutti gli sforzi del Quadrato si rivelano vani e ben presto esso viene di nuovo catapultato nel mondo bidimensionale di Flatlandia. Risulta allora chiaro come Flatlandia sia una metafora per far comprendere come noi, abitanti di un mondo che sperimentiamo come tridimensionale, non siamo in grado di immaginare una quarta dimensione. Anche se convinti teoricamente dell’esistenza di una quarta dimensione non la sappiamo “vedere” e qualunque rappresentazione spaziale di un ipercubo non restituisce appropriatamente la sua possibile definizione matematica. Suggestiva parabola in cui si intrecciano letteratura, scienze esatte e fantascienza, inserita nella fiorente tradizione inglese delle descrizioni di mondi immaginari, Flatlandia è anche l’opera di un appassionato cultore della matematica attento al dibattito scientifico dell’epoca, un’epoca segnata dal tramonto della geometria euclidea come vera geometria del mondo fisico e dagli esordi della matematica n-dimensionale.