Da Manin a Manin: istituzioni e ceti dirigenti dal ’97 al ’48
La disputa lacerante sorta all’indomani del ’97 per ricercare e attribuire le responsabilità politiche della fine della Repubblica di Venezia scatenò un dibattito la cui eco, rimasta in sordina durante il Regno italico, riprese vigore durante il Congresso di Vienna. A essere riproposta sui tavoli della capitale imperiale non fu solo la questione della forma di governo cui Venezia, con il resto del Veneto, avrebbe dovuto soggiacere. Meno ufficiale, ma non meno urgente, la scelta della classe dirigente cui affidare il governo dei domini asburgici in Italia, in laguna piuttosto che all’ombra del duomo di Milano, non poteva che risentire del clima di sfiducia, spesso di aperta opposizione, vissuto nei confronti dell’antica aristocrazia marciana. Quanto questa eredità ideale pesasse nella elaborazione del lutto che proprio allora si stava componendo tra gli epigoni del patriziato e, più in generale, nei sostenitori del modello repubblicano(1), sarebbe stato chiaro nel Vormärz, il periodo compreso tra il 1815 e il marzo del 1848. Fu allora, quando il mito positivo del buon governo della Serenissima venne recuperato con l’aiuto fondamentale della borghesia professionale — in specie quella mercantile e forense —, che iniziò quella rivalutazione positiva — sia pure in chiave antiaustriaca — del patrimonio istituzionale veneziano, che i suoi più diretti interpreti non erano stati in grado di difendere. Ma, dopo Campoformido e nei primi mesi del 1798, la presa d’atto della fine dello Stato marciano era ancora troppo onerosa, per tutti. Le rivendicazioni dei barnaboti, i patrizi poveri che vivevano di sussidi statali, contro l’élite patrizia erano all’ordine del giorno di una memorialistica che comprendeva anche le molte autodifese dei protagonisti della politica dogale, alcune postume come quelle di Ludovico Manin(2).
Con l’arrivo dell’Austria, il ruolo istituzionale e politico della vecchia classe dirigente fu messo in crisi nella sua stessa natura, equiparato nel rango alla nobiltà del resto dell’Impero, che non conosceva ulteriori distinzioni di lignaggio. A sintetizzare dubbi e incertezze di quegli anni fu, all’inizio del secolo, Alessandro Balbi(3), un barnaboto democratico e filofrancese durante i mesi della Municipalità, che, indirizzandosi ora a Francesco II, auspicava l’abolizione del privilegio patrizio perché su esso poggiava la rivendicazione al governo delle classi dirigenti veneziane. «Sostituendo alla sua aristocratica, sovrana nobiltà una nobiltà provinciale vassalla; abolendo un titolo rivoluzionario e surrogandone un altro né vile, né raro, né invidiabile […] Voi, o Sire, con un colpo di penna dareste un esempio di giustizia a tutto lo stato veneto e […] Vi fareste applaudire dall’Europa». Una volta operato questo salutare intervento, le generazioni successive non avrebbero potuto avanzare altre pretese: infatti «quella [generazione] che nacque sotto il Vostro Dominio, nacque suddita e non essendolo divenuta l’è tolta il diritto di gettar dei lamenti e d’arrogarsi delle pretese»(4).
L’intervento imperiale non fu celere come auspicato; nonostante i molti progetti di mano della cancelleria viennese, la piena e ufficiale parità all’interno dell’aristocrazia veneta venne sancita solo con la patente imperiale del 7 novembre 1815, sette mesi dopo l’istituzione del Regno lombardo-veneto(5).
Divenuto suddito asburgico, Balbi aveva sostituito il destinatario degli encomi e degli opuscoli densi di opportunismo, volti a farsi accreditare presso il nuovo sovrano, mantenendo inalterata la polemica contro gli antichi governanti della Serenissima, apostrofati come «nulli in tutto». Altrettanto avrebbe fatto, nel 1806 e nel 1814, con Napoleone e ancora con Francesco I, pur mostrando, nel tempo, un’indubbia predilezione verso il modello viennese, alla luce del quale riuscì a riabilitare anche il passato repubblicano, indicando nell’Austria e nel suo dominio la realizzazione ultima del destino e della felicità dei popoli veneti. Ma almeno su un punto Balbi aveva colto nel segno: a rendere tutti ugualmente sudditi degli Asburgo era stato il giuramento di sottomissione pronunciato da patrizi veneziani, radunati in un simulacro del maggior consiglio, nobili di terraferma, capifamiglia cittadini e rurali, in segno di dedizione formale e sostanziale al nuovo sovrano(6). Un atto che sarebbe stato richiamato, durante il Congresso di Vienna, a supporto della totale legalità del ritorno dell’Austria a Venezia, anche se, in quei mesi, ci fu chi — come l’ex patrizio Giovanni Bembo — inviò numerose petizioni alle potenze riunite nella capitale danubiana perché si arrivasse a una, pur parziale, ricostituzione della Repubblica veneta(7).
Se da un lato quindi il giuramento segnerà, nel 1815, la premessa giuridica al ritorno del Veneto nei domini asburgici, dall’altro esso aveva provveduto a porre sullo stesso piano le diverse aristocrazie dell’ex Stato marciano: ricchi patrizi e barnaboti, titolati imperiali e membri dei consigli delle città di terraferma erano, ormai, tutti semplicemente nobili. Eppure, nel 1798, l’ambiguità persisteva anche a corte, se le istruzioni inviate a Venezia raccomandavano l’assunzione, nei ranghi del governo provvisorio, di «nobili patrizi possessori», ovvero dell’antica classe dirigente con evidente esclusione di coloro che possessori non erano, i barnaboti, appunto. Strumentale, dunque, il livore di Balbi verso l’élite aristocratica, ma diffidenza e ostilità verso i patrizi erano sentimenti conosciuti a Vienna già dal ’98, nonostante molti di loro, primo fra tutti Francesco Pesaro, avessero trovato riparo nella capitale, sin dal fatidico maggio 1797. Così, la perdita di sovranità della città e delle sue classi dirigenti fu dapprima graduale durante il primo governo austriaco, restando pur sempre sede di un governo regionale; drastica nelle forme del Regno italico, semplice capoluogo di prefettura; più subdola e definitiva nell’organizzazione del Vormärz, ritornata capoluogo di un Regno dell’Impero, pur se in coabitazione con Milano, completamente svuotata, negli effetti pratici, di ogni autonomia politica.
Non fu dunque un caso che la responsabilità del primo governo provvisorio fosse affidata a Giuseppe Pellegrini, un funzionario lombardo proveniente, come tanti altri, dalla Repubblica Cisalpina. Figlio di Antonio, economista e amministratore tra Milano e Vienna, a fianco di Firmian, Pellegrini(8) si era formato nella Lombardia giuseppina di fine Settecento. Membro del dipartimento d’Italia, a Venezia era giunto via Vienna, sull’onda migratoria dei funzionari asburgici in fuga dai francesi. Suo fu il ruolo di commissario civile, a fianco del generale Wallis, per dare attuazione al trattato di Campoformido. I decreti emanati da Wallis tra il 6 febbraio e il 31 marzo 1798 riportavano indietro la situazione storica alla data del 1° gennaio 1796, anteriore all’ingresso delle truppe francesi nei confini dello Stato marciano. Ciò consentiva un iniziale ripristino della legalità e una prima organizzazione amministrativa di Venezia e della terraferma.
Esclusi gli esponenti più compromessi con la Municipalità, a partire dal 1° ottobre 1798 buona parte dei posti di comando venne progressivamente affidata a uomini che potevano vantare la tradizionale trafila nella burocrazia asburgica. Da capitale, Venezia era diventata capoluogo delle province «austrovenete» e qui trovavano posto il governo con i suoi dicasteri, il magistrato camerale, la direzione generale di polizia, i tribunali revisorio e d’appello, oltre a quelli di commercio e di sanità e alle istanze inferiori, presenti anche in periferia. Rappresentanti dell’aristocrazia veneziana, anche «non possidente», almeno sino al 1801, ve n’erano ovunque, soprattutto nelle corti di giustizia. Al governo, presieduto da Pellegrini, trovarono infatti posto tre patrizi, due dei quali — Agostino Barbarigo e Paolo Antonio Crotta, nati nel 1725 — assai avanti negli anni, mentre il terzo — Pietro Zen, nato nel 1751 — era di gran lunga più giovane. A capo della direzione generale di polizia vennero sistemati due ex inquisitori di Stato e consiglieri dei dieci come Zuanne Zusto (1718-1800) e Girolamo Ascanio Molin (1738-1814). Era come se fosse stato riesumato un simulacro di quelle magistrature repubblicane, dove i due si erano seduti più volte tra il 1771 e il 1796, con l’intento di incutere timore sugli ultimi «giacobini» che ancora non avessero preso la via dell’esilio. Zusto, nel 1797, era stato preposto alle ultime difese dei lidi contro improbabili attacchi francesi; assai malandato e quasi sordo, sarebbe morto di lì a due anni. Molin invece restò in carica fino all’organizzazione definitiva (1803). Personalità di ben altra rilevanza politica e culturale, Molin, oltre ad aver percorso un ricco cursus honorum nelle istituzioni repubblicane, era membro di numerose accademie grazie a una produzione storico-letteraria manierata e arcadica, ma non corriva, e soprattutto in virtù di un sincero mecenatismo che aveva fatto della sua villa bassanese un vitale centro di artisti e letterati(9). Malgrado le persecuzioni di cui era stato oggetto nel 1797, proprio a Bassano, Molin non sfruttò la carica per ordinare vendette, limitandosi per breve tempo ad assecondare quelle di Francesco Pesaro.
Nei settori tecnici di maggiore rilevanza, come il magistrato camerale e, più tardi, l’intendenza di finanza, l’Austria pose uomini di estrema affidabilità: la scelta ricadde su Stefano Lottinger, già intendente nella Milano asburgica, mentre ai patrizi restava pur sempre la direzione dell’Arsenale, assegnata ad Andrea Querini Stampalia. Zan Piero Grimani (1754-1820 ca.), già ambasciatore a San Pietroburgo, destinato alla presidenza del tribunale di sanità, si troverà improvvisamente, dopo la fugace apparizione di Pesaro, alla guida del governo (1799-1801) — spesso sotto tutela di rappresentanti asburgici come Christoph Alois von Roner o Filippo Ghisilieri — e restandovi come vicepresidente sino alla riforma di Bissingen (1803). Completamente in mano all’aristocrazia era inoltre la congregazione nobile delegata, ibrida forma di organismo comunale — a capo non vi era un vero podestà — che si occupava, senza alcuna autonomia economica, di compiti tipici di un’istituzione municipale, dall’annona al militare, dalla manutenzione di strade e acque ai monumenti. In terraferma, Pellegrini rimise nel pieno godimento i corpi territoriali, i consigli cittadini e le giurisdizioni feudali che le Municipalità avevano abolito, ripristinando anche i giudizi civili di prima istanza(10).
Ma un nuovo problema, non meno pressante del dualismo tra nobiltà e patriziato, era ben sintetizzato dalla domanda che, con forte senso di retorica, si poneva un altro poligrafo dell’epoca, Troilo Malipiero: «dovranno tutti essere impiegati quei che lo furono prima della fatal epoca 12 maggio 1797?»(11). Al di là infatti delle distinzioni di censo e di rango, al di là delle opinioni politiche, quale doveva essere il criterio discriminante per assumere o riammettere in servizio giudici e consiglieri, funzionari e impiegati, direttori e segretari, aggiunti, cancellisti, contabili? Il problema diveniva insolubile soprattutto nelle magistrature giudiziarie, dove le cariche erano sempre state rette gratuitamente dai patrizi. Si poneva quindi un ulteriore ostacolo: come dare uno stipendio a questa moltitudine? Destinando a tutti una specifica retribuzione, si sarebbe operata una sorta di intervento assistenziale verso aristocratici in bolletta e impiegati disoccupati dall’Austria. Ciò era ben chiaro a Pellegrini, al punto da ricordare al ministro degli Esteri, il barone di Thugut, «se mai sembrasse […] eccessivo il numero de’ subalterni […] che, dopo il numero degli impiegati provvisoriamente, è restato senza pane […] qualche migliaio di persone, che sfornite di qualunque risorsa presentano al pubblico un quadro spiacevole di miseria e di disperazione»(12). Reintegrare nel ruolo la mole di impiegati «buoni e non buoni, necessari e non necessari», già alle dipendenze della Repubblica, non era solo questione di equità o, al massimo, di ordine pubblico. Dietro al problema dello stipendio, si celava in realtà l’intenzione di dar vita a un corpo di funzionari per professione, com’era nella tradizione asburgica, e come avverrà solo a partire dal 1801. Proprio in quell’anno infatti, con l’arrivo di Mailath alla guida del governo, verrà dato il via all’organizzazione definitiva, completata poi dal conte di Bissingen (1802-1805): nell’Informazione sull’odierna amministrazione e governo delle province austrovenete, indirizzandosi al suo nuovo rappresentante, la corte avrebbe sancito la definitiva necessità dello stipendio, riconoscendo come «il compenso che hanno finora trovato i patrizi non pagati per il tempo che consacrano al servizio, sono le protezioni arbitrariamente accordate ai meno meritevoli ed i premi a larga mano prodigalizzati capricciosamente sia con impieghi, sia con aumenti di soldo, sia con gratificazioni, sia con largizioni a una infinità di persone con enorme detrimento del regio erario»(13). Ma prima di Mailath e di Bissingen, a Venezia giunse, commissario straordinario, Francesco Pesaro (1740-1799), la cui breve permanenza alla guida del governo lasciò spazio ad antiche vendette, ampliando sospetti e risentimenti verso il ceto patrizio.
La nomina di Pesaro colse di sorpresa persino l’entourage veneziano più vicino all’ex procuratore di S. Marco. Pesaro, infatti, fuggito in Istria e di lì a Vienna alla vigilia del 12 maggio 1797, era stato tra i pochi — assieme a Francesco Labia — a non rientrare nel corso del ’98, nella convinzione che, così, fosse più facile preparare un trionfale ritorno. A Venezia aveva lasciato più detrattori che estimatori e tuttavia il suo arrivo fu salutato da nuove illusioni: al ricordo della fuga ignominiosa, alle voci che lo volevano denigratore interessato di Pellegrini, accusandolo di incapacità, si sovrappose l’attesa di quanti, dai nostalgici del corno dogale ai rappresentanti del ceto mercantile, confidavano che il suo arrivo potesse contribuire al rilancio della città. Sin dalla nomina (19 gennaio 1799), fu subito chiaro che egli avrebbe dato corpo a un sentimento di rivalsa mai definitivamente sopito. Pur all’interno di una rinnovata e formale sottomissione all’Austria, l’antica classe dirigente cercava così di ritagliare, per Venezia più che per il Veneto, un originale spazio di autonomia, sconosciuto al resto dell’Impero. D’altro canto, inizialmente Vienna assecondò il progetto: a pochi mesi dall’ingresso delle truppe di Wallis, parve opportuno accattivarsi le simpatie di una parte consistente della città, facendo leva sul sentimento nazionale del patriziato e della collettività cittadina. Pesaro, cioè, avrebbe potuto essere un ottimo traino verso una piena e complessiva osmosi delle classi dirigenti venete all’interno della monarchia asburgica e il censore necessario per liberarsi degli ultimi oppositori. Dotato di poteri più ampi di quelli di Pellegrini, il commissario straordinario si circondò, nelle stanze di Palazzo Ducale, di un buon numero di antichi compagni di toga e di giovani leoni: confermati Molin, Zusto, Grimani e Querini, alla commissione di Pellegrini e dei tre consultori (Barbarigo, Crotta, Zen) ne venne contrapposta un’altra presieduta dal fido Iseppo Priuli (1764-1822), a lui unito nell’esilio viennese, affiancato da tre assistenti: il nipote di Pesaro Zuanne Manin (n. 1774), Antonio Diedo (n. 1772) e Zuanne Contarini (n. 1774).
Ma il commissario andò oltre i compiti assegnatigli, non accontentandosi di distribuire i posti di comando all’interno del patriziato, ma dando il via a repressioni ingiustificate, che continuarono anche dopo la sua morte. In laguna, infatti, non soffiava aria di aperta opposizione verso l’Austria: in esilio la gran parte dei democratici, a Venezia erano rimasti personaggi di limitato respiro politico. Pochi irriducibili, spesso ex municipalisti provenienti dalla piccola borghesia impiegatizia — segretari, scrivani, uscieri — o dai quadri inferiori dell’esercito, qualche artigiano o commerciante ebreo, il console francese Giuseppe Ferratini. C’erano poi i docenti dello Studio di Padova, verso i quali Pesaro nutriva particolari sentimenti di vendetta sin da quando, riformatore dello Studio, aveva avuto numerosi scontri con alcuni di loro, in particolare con il fisico Simone Stratico, più volte rettore tra il 1765 e il 1798(14). Un senso di fronda, ispirato tuttavia più a uno snobismo filofrancese alla moda che non a un reale sentimento di opposizione verso gli Asburgo, si avvertiva anche negli esclusivi salotti di Isabella Teotochi Albrizzi, di Marina Benzon e, in parte, di Chiaretta Corner, che assieme al marito Alvise Zaccaria Contarini sposerà in pieno la causa austriaca solo dopo il 1815. Erano questi, infatti, luoghi della sociabilità d’opposizione solo in senso molto lato: vi si ricevevano infatti i pochi intellettuali e le figure di un certo rilievo culturale ancora rimaste nei confini veneti, o quelli di passaggio in laguna, da Madame de Staël (a Venezia nel 1805) agli ufficiali italici che portavano notizie fresche sull’andamento della guerra. All’inizio dell’Ottocento, i salotti, a Venezia come a Milano, stavano evolvendosi da ritrovi mondani a circoli culturali, più spesso letterari. Proprio Isabella Teotochi Albrizzi, Giustina Renier Michiel o Fanny Morelli, vicine all’ambiente accademico e artistico, erano riuscite a richiamare nei loro circoli persone di estrazione culturale e politica eterogenea, la cui presenza si giustificava in chiave formativa e informativa, come apparirà chiaro nell’arco del XIX secolo. Difficile dunque, con tali premesse, che questi ambienti accogliessero favorevolmente l’arrivo di Pesaro e si schierassero a sostegno dell’azione restauratrice del commissario straordinario(15).
La fine di Pesaro (25 marzo) fu, dunque, tanto repentina quanto salutare. Infatti, se le persecuzioni nei confronti di avversari e democratici, pur eccessive, erano in linea con quanto operato in quelle settimane nella Milano riconquistata dagli austro-russi, come ricordano le Lettere sirmiensi di Francesco Apostoli(16), ancora più nociva fu l’eredità di anarchica e supponente autonomia innescata nei diversi dicasteri e nelle istituzioni di governo, sull’impronta presunta delle magistrature repubblicane, che trovò spazio soprattutto nella congregazione delegata(17). Furono proprio le questioni sorte nell’organismo deputato a reggere la città e il territorio corrispondente al Dogado a convincere gli ambienti viennesi ad andar definitivamente oltre il patriziato. Al di là delle tangibili irregolarità amministrative e finanziarie, infatti, incise il significativo comportamento di quanti cercarono di approfittare della crisi seguita alla controffensiva francese di Marengo, invece di salvaguardare le istituzioni già provate dall’assedio e dal dilagare delle truppe nemiche in terraferma.
In queste condizioni, registrato il rifiuto di esponenti autorevoli, come Alvise Querini Stampalia o Angelo Giustinian Recanati(18), ad assumere il ruolo di consiglieri al posto dei più vetusti colleghi, firmata la pace di Lunéville (1801), l’Austria riprese in mano la situazione, nominando un ungherese, il conte di Mailath, plenipotenziario nelle province austro-venete e dando subito un segnale nella composizione del nuovo governo, dal quale sparirono i patrizi, nonostante l’aumento dei dipartimenti a sette, a esclusione del vicepresidente Grimani e della successiva nomina di Daniele Renier. C’erano, invece, i cittadini originari, esponenti del ceto di segretari e notai cui era affidata la cancelleria dogale e la burocrazia della Serenissima. In loro Vienna identificò, più che nel patriziato, la classe dirigente capace di dare continuità fisica e istituzionale al governo della regione. Personaggi come i consiglieri Piero Busenello e Giuseppe Gradenigo (1738-1820), o il segretario e poi vicecapitano Giuseppe Giacomazzi (1752-1843)(19), avevano costituito un tempo l’ossatura dell’apparato statale, di cui conoscevano il meccanismo sovente meglio degli stessi aristocratici. Al loro fianco, cresceva sempre più il peso dei funzionari provenienti dalle altre province dell’Impero, spesso di lingua italiana, con buona rappresentanza di personale nativo nei domini ereditari, come il goriziano conte di Strassoldo, dopo il 1815, a Milano, direttore generale della polizia e governatore(20). Quanto a Renier, lo ritroveremo in seguito, nominato primo podestà di Venezia, raggiungere l’apogeo della sua potenza politica con Napoleone assieme ad altri patrizi, designati prefetti, da Alvise Querini ad Alvise Mocenigo.
Mailath cercò di porre ordine nelle molteplici controversie istituzionali, difendendo le ragioni del principe sia nei confronti dell’aristocrazia che dei corpi pubblici o delle istituzioni, come la Chiesa cattolica. Ma soprattutto il commissario ungherese progredì nella costituzione di quel ceto di funzionari, avviata da Pellegrini, cooptando un nutrito gruppo di lombardi provenienti da esperienze diverse, nessuna tuttavia di primo piano. Tutti erano in cerca di reimpiego e di un regolare stipendio, che venne loro finalmente concesso. Il ruolo del personale ‘straniero’ diventò predominante nell’agosto del 1802, con l’arrivo del governatore del Tirolo, il conte Ferdinand von Bissingen-Nippenburg, il quale, rapportandosi al modello giuseppino, cercò di completare definitivamente l’assetto istituzionale delle province austro-venete.
Obbedendo a un criterio di razionalità, il governatore ampliò le materie di competenza dei dipartimenti, cresciuti sino a undici. Tra i sette nuovi consiglieri, oltre ai riconfermati Busenello, Gradenigo e Renier, si trovavano ora altri veneziani, due tecnici: il protomedico Giovanni Piccioli, a sovrintendere gli affari di sanità, e l’ex revisore dei brevi, Michele Giaxich, referente per gli affari ecclesiastici. Ma complessivamente il ruolo politico del patriziato, e più in generale quello dell’ex Dominante, era assai ridotto. Nel giro di un anno, il 1803, Grimani lasciò la vicepresidenza del governo a un funzionario di professione come il conte von Aichelburg, tornando a presiedere il tribunale di sanità; Andrea Querini, dimessosi sin dal 1802, era stato sostituito alla guida dell’Arsenale dal tenente di vascello Joseph de L’Espine; e anche Girolamo Ascanio Molin venne avvicendato alla direzione della polizia, lasciando il posto al mantovano Luigi Avigni.
L’assenza di veneziani, aristocratici e borghesi, era ancor più tangibile alla guida del camerale, nell’intendenza di finanza e più in generale negli uffici amministrativi e fiscali, nel protocollo e nella cancelleria, nelle cui stanze si parlava veneto solo tra il personale subalterno. Gli incarichi di natura tecnica, quelli che presupponevano una profonda conoscenza dei meccanismi della burocrazia, vennero spartiti tra lombardi e sudditi imperiali, in misura eguale, riconoscendo in questo modo la scarsa affidabilità dei quadri intermedi locali, per imperizia, scarsa conoscenza dei metodi in uso nelle province asburgiche o semplice mancanza di fiducia di Vienna nei loro riguardi. L’unica eccezione fu rappresentata da Girolamo Erizzo (1749-1843), cui venne assegnata la responsabilità della ragioneria generale e, in seguito, la contabilità demaniale del Regno d’Italia. Quanto alle amministrazioni periferiche, esse vennero istituite dall’Istruzione generale per i regii uffici capitaniali nelle provincie dello stato austroveneto in Italia. In essa si stabilivano sette circoscrizioni territoriali, che — nel nome — evocavano gli antichi ordinamenti della Repubblica marciana: Venezia e Dogado, l’antico territorio alle spalle della Dominante smembrato nel corso del 1804 tra le nuove giurisdizioni di Venezia, Udine e Treviso; poi Padova, Vicenza e Verona. Su quattordici, tra capitani e vice, oltre al cittadino Giacomazzi, vicecapitano di Udine, l’unico patrizio titolare, non a caso a Venezia, era Niccolò Guido Erizzo(21).
In definitiva, nelle prime ventisei cariche dello Stato, ai veneziani ne restavano sei, pari al 23%. Allargando questo quadro ai capitanati e alle intendenze di finanza periferiche, il ruolo di patrizi e cittadini scendeva sotto il 18%. Tolti i loro casi, e quelli di qualche, sparuto, rappresentante della nobiltà di terraferma, su quarantacinque incarichi complessivi solo undici erano veneti (24,5%), mentre i restanti erano stati assegnati ai lombardi (33%) e, soprattutto, a sudditi imperiali (42,5%). Prevedibilmente, la percentuale dei ‘tedeschi’ — coloro che provenendo dalle province ereditarie avevano qualche dimestichezza con la lingua di casa d’Austria — scendeva sensibilmente tra impiegati esecutivi, segretari, uscieri e facchini: attestati attorno al 35% i veneziani e al 37% i residenti nelle province, restava disponibile solo il 26% per gli altri due gruppi che abbiamo considerato sin qui, con leggera prevalenza dei lombardi.
Esautorati dai luoghi della politica, ridotti nel rango e nella considerazione, ai patrizi veneti non restò che ritirarsi progressivamente dalla scena, non senza aspettare l’occasione di dare un ultimo colpo di coda. Il pretesto per la vendetta — forse solo per un dispetto — si presentò, nel 1804, quando la corte decise di avviare la complessa operazione catastale. Essa era finalizzata a creare un nuovo sistema fiscale, basato sul comune censuario, una moderna unità di base in sostituzione dell’antica divisione in fuochi veneti e fuochi esteri, nella quale iscrivere gli immobili e i diritti goduti, indipendentemente dalla residenza del possessore, eliminando insieme le complesse e diversificate gravezze che ancora pesavano sulla terraferma. In questo modo, tutti erano tenuti a dichiarare i beni attraverso le notifiche, anche coloro — ed erano molti — che risultavano esenti da alcuna imposizione o dal pagamento della decima. Si può immaginare a quale mole di ricorsi e reclami dovette far fronte l’ufficio del consigliere Pietro Bellati e di Francesco Mengotti, l’economista feltrino vero artefice dell’operazione catastale. Ma mentre le suppliche provenienti dalle regioni di montagna della Carnia o del Cadore esprimevano un drammatico senso di povertà e sopravvivenza, ben altra ispirazione si poteva avvertire dietro le ventisette obiezioni mosse, nell’aprile del 1805, da un nutrito gruppo di esponenti dell’antica aristocrazia veneziana.
Ai molti problemi che si frapponevano alla riuscita del progetto, il sospetto agitato tra i possidenti che tutta l’operazione stesse fallendo, al punto che l’imperatore in persona pensasse alla sua sospensione, appariva opportunistico. A questa notizia, diffusa, scriveva Bellati, «non saprei accertare né come, né da chi», si univa la convinzione che, ripresa la guerra, lo Stato austro-veneto sarebbe passato in mano francese: ora vi si aggiungeva la petizione di settantatré persone diverse, ma tutte veneziane, stesa con il chiaro intento di far fallire la raccolta delle notifiche. Non altrimenti si giustificavano le molteplici difficoltà avanzate nel ricorso; vi erano esposti, infatti, dubbi sulla possibilità di identificare la natura dei fondi da dichiarare, quesiti sul modo di calcolare le rendite, giungendo persino a chiedere lumi sul modo di riempire gli stampati. Complessità e obiezioni non erano di natura tecnica, ma politica o, semplicemente, pretestuosa. La determinazione del fondo e, ancor più, della rendita, infatti, non spettava al ricorrente, ma all’autorità. Così andava letta, secondo Bellati, l’opposizione strisciante di chi «accostumato a comandare, non ha bene ancora acquistata la costumanza di ubbidire»(22). A confermare questa tesi era il modo con il quale era stato pensato l’esposto, ideato in «vari congressi» in casa di Angelo Giustinian Recanati e fatto circolare porta a porta come una petizione; così si spiegavano firme importanti come quelle dell’ex direttore della polizia, Girolamo Ascanio Molin, di Francesco Labia, Alvise Mocenigo, Andrea Querini e la sua famiglia, dei fratelli di Francesco Pesaro e del suo primo collaboratore, Iseppo Priuli. E ancora l’ex presidente del tribunale criminale, Iseppo Diedo, Niccolò Erizzo e i suoi familiari e persino le badesse dei monasteri di S. Zaccaria, S. Chiara e S. Girolamo, «le quali è da supporvi che siino state sollecitate alla firma», concludeva il consigliere. E anche agli occhi di Mengotti appariva chiaro quale fosse il vero motivo dell’intervento. Il ricorso fu respinto per motivi di forma e di sostanza, ma sull’idea di coinvolgere Vienna il governatore fu altrettanto deciso: la linea che Bissingen aveva intrapreso sin dal suo arrivo era stata quella di far comprendere, in laguna, che solo creando un’amministrazione e un governo efficienti si poteva ottenere una modesta autonomia dalla capitale, agli occhi della quale egli era il garante della legalità. In questo modo il commissario cercò di sfumare le ansie degli uni — patrizi nostalgici, democratici irriducibili o nobildonne animatrici di salotti filofrancesi — e le esigenze degli altri, dalla corte ai funzionari milanesi di stretta osservanza giuseppina. Proprio richiamandosi al modello accentratore e statalista di Giuseppe II, Bissingen riuscì ad avanzare una serie di riforme istituzionali per modificare il corpus aristocratico sul quale ancora si reggeva lo Stato austro-veneto. Particolare oggetto delle attenzioni del governatore furono la riforma del diritto — con l’introduzione delle procedure civili e penali in uso nelle altre province imperiali — e quella dell’istruzione, con l’allargamento delle scuole normali anche al Veneto e l’adeguamento dello Studio di Padova ai modelli delle università asburgiche: progetti che non riuscirono a essere completati per la ripresa della guerra contro Napoleone, come la legislazione sulla «nazione ebrea», congelata nelle antiche disposizioni veneziane, da tempo superate dalle stesse norme che regolavano i rapporti col mondo israelitico nel resto dell’Impero.
Qualche mese dopo l’Austria avrebbe abbandonato il Veneto: imbarcandosi al limite della laguna, il 15 maggio 1814, le truppe del principe di Reuss non sarebbero state portatrici di altrettanta volontà di riforma e di mediazione. Sarebbero occorsi più di trent’anni perché a Venezia si potesse ricreare un’opposizione nei confronti della dominazione asburgica. Solo attorno alla metà degli anni Quaranta, infatti, professionisti, intellettuali ed esponenti del mondo imprenditoriale avrebbero iniziato quella battaglia legale che avrebbe portato, come esito ultimo, alla rivoluzione del 22 marzo 1848. Ma, a fianco di Daniele Manin, non sarebbero stati questa volta i custodi delle patrie memorie aristocratiche, quanto i rappresentanti di quella borghesia che, cresciuta in modo disomogeneo e spesso evanescente dalla seconda metà del Settecento, si trovava ora a gestire le sorti del movimento liberale(23).
Oltre l’Adige, confine naturale delle province austro-venete, si alternavano intanto le forme di governo dell’Italia napoleonica: alla Cisalpina e alle altre Repubbliche giacobine del quinquennio 1797-1802 si era — dopo i comizi di Lione — sostituita la Repubblica Italiana (1802-1805), che aveva lasciato posto al Regno d’Italia. Divenuto imperatore dei francesi, Bonaparte aveva cinto la corona italica nel marzo del 1805, nominando viceré il figliastro Eugenio di Beauharnais. Quando, alla ripresa delle ostilità della terza coalizione, Napoleone sconfisse gli austriaci in Veneto, nella cruenta battaglia di Caldiero (oltre diecimila morti), inseguendoli ben oltre i confini dei domini ereditari, si profilò come imminente il passaggio di consegne anche a Venezia. La vittoria di Austerlitz costrinse Francesco I a firmare, il 26 dicembre, il trattato di Presburgo, con il quale l’Austria cedeva alla Francia Veneto e Friuli, incorporati nel Regno d’Italia, mentre Trieste, solo per qualche mese tra il 1805 e il 1806 e poi dal 1809, l’Istria e la Dalmazia entrarono a far parte direttamente dell’Impero francese, costituendo la nuova entità amministrativa delle province illiriche. Quanto a Venezia, la città venne aggregata al Regno d’Italia: giunto al suo apogeo esso comprendeva, dunque, Lombardia, Veneto, Friuli, Trentino, Emilia, Marche, quasi sette milioni di abitanti — più di un terzo dell’intera penisola — suddivisi in un numero progressivo di dipartimenti, cresciuti, sino al 1811, da dodici a ventitré. Venezia perse anche lo status di capoluogo regionale, relegata al rango di provincia, il dipartimento dell’Adriatico, che, dopo alcuni aggiustamenti territoriali giunse a comprendere i quattro distretti del capoluogo lagunare, delle viceprefetture di Chioggia, Adria e di San Donà prima, Portogruaro poi, a loro volta ripartiti in nove cantoni, con sedi, oltre ai distretti, a Mestre, Dolo, Cavarzere, Loreo e Aquileia(24).
A capo dei dipartimenti stavano dunque i prefetti, figura cardine del sistema napoleonico, che rispondevano direttamente al ministro degli Interni, a Milano. Essi erano affiancati da un consiglio di prefettura, insieme al quale reggevano l’amministrazione, in materie tuttavia di esclusiva pertinenza locale: giustizia, polizia, acque, strade, sanità, commercio. Analogo consiglio coadiuvava il viceprefetto, mentre al di sotto, nei cantoni, la struttura era più agile, affidata a un consigliere del censo e a un giudice di pace. Al di sopra dei dipartimenti vi erano, a Milano, il consiglio di Stato e, dal 1807, il senato — i ministri risiedevano per lo più a Parigi — e molti altri organismi, tutti di esclusiva nomina regia, al pari delle cariche inferiori o dei cosiddetti collegi elettorali — dei possidenti, dei dotti e dei commercianti —, unica forma di rappresentanza, quanto mai elitaria, di notabili e possessori, sulle cui solide basi economiche e culturali si poggiava l’impalcatura napoleonica.
Veneto e Friuli vennero divisi progressivamente in sette dipartimenti: Adriatico (Venezia), Adige (Verona), Bacchiglione (Vicenza), Brenta (Padova), Tagliamento (Treviso), Piave (Belluno), Passariano (Udine), mentre Rovigo fu sede di viceprefettura, nel dipartimento ferrarese del Basso Po. A Venezia giunse l’aristocratico milanese Marco Serbelloni, proveniente da una famiglia esclusiva quanto schierata, da sempre, con il partito filofrancese. Nonostante non brillasse per intuizioni politiche e amasse dedicarsi alla sua particolare passione per il vino, Serbelloni profuse impegno nel risollevare le sorti economiche della città, mediando anche attorno alla perdita di centralità politica dell’ex Dominante: fu avvicendato nel 1809 da Francesco Galvagna, economista novarese che, dopo il 1815, manterrà un posto di rilievo nell’amministrazione austriaca(25).
In generale il gotha napoleonico non riservò oneri importanti e prestigiosi onori per i veneziani: in uno scenario provinciale che equiparava il dipartimento dell’Adriatico a tanti altri, ai residenti andarono al massimo le poltrone di consigliere dipartimentale e incarichi di modesta iniziativa nell’azione politica(26). Forse anche per questo — oltre che per un naturale quanto altero distacco maturato nel corso dell’Ottocento — la storiografia non si è mai occupata a fondo di questo periodo. Alla difficoltà della sintesi si è unita probabilmente quella di reperire, nelle fonti, una linea di autonomia e autogoverno che guidasse anche l’attività dei funzionari e dei responsabili dipartimentali. Tra le poche eccezioni vi furono i patrizi Alvise Mocenigo e Alvise Querini Stampalia, rispettivamente prefetto dell’Agogna, a Novara, e del Reno, a Bologna; autentica minoranza come nel caso più eclatante del borghese Vincenzo Dandolo, provveditore generale in Dalmazia. Un altro patrizio stava in realtà per essere nominato prefetto, nel 1806: non lo divenne per l’opposizione dell’influente segretario di Stato, Antonio Aldini. Si trattava del capitano della Venezia asburgica, Niccolò Guido Erizzo. Per lui, come per gli altri magistrati civili del governo provvisorio, non si sarebbero aperte le porte delle prefetture, nonostante l’appoggio di Eugenio di Beauharnais. In particolare il viceré aveva ipotizzato la possibilità di assegnare a Erizzo la prefettura del Mella (Brescia), la quarta per importanza di tutto il Regno, e un seggio nel consiglio di Stato. Un ruolo troppo importante per un uomo di cui era noto il sentimento — a tratti autentico livore — antifrancese: la sua appartenenza a una delle più ricche e influenti famiglie dell’aristocrazia, tuttavia, ne accreditava politicamente l’inserimento nell’organigramma italico. L’intervento di Aldini — che ricordò a Napoleone «le sue maniere arbitrarie e quasi dispotiche» — tagliò di netto ogni indecisione, riducendo il destino politico di Erizzo a quello di membro del consiglio di Stato, incarico comunque prestigioso anche se non altrettanto importante(27).
Mocenigo (1760-1815) e Querini (1758-1834) costituivano una tipologia ben diversa tra loro: il primo, filofrancese sin dai giorni delle Municipalità democratiche, già deputato della Serenissima al generale Bonaparte, aveva vissuto defilato il periodo del governo austro-veneto. Ritiratosi ad Alvisopoli, da lui creata nelle sue tenute, fuori Portogruaro, aveva declinato ripetutamente le offerte che Vienna gli aveva fatto, non considerandole all’altezza del suo rango, che pure aveva cercato di elevare, ottenendo dall’imperatore titoli e onori, ma restando in cuor suo vicino allo spirito di grandeur della corona napoleonica. Così, nel 1806, aveva accolto con entusiasmo la nomina alla prefettura novarese, trasportandovi quella concezione di governo che gli era propria, fatta di lusso e desiderio di mettersi in mostra, con immaginabile stupore dell’ambiente provinciale piemontese e naturale imbarazzo dei circoli governativi milanesi, sino al suo avvicendamento nel 1809, grazie alla provvidenziale promozione a senatore. Quanto a Querini, già incontrato nel ruolo di consigliere del camerale, il suo rapporto con Napoleone era iniziato in modo assai burrascoso quando, ambasciatore della Serenissima a Parigi, era stato accusato di corruzione ai danni del Direttorio e trattenuto in ostaggio dal generale, durante il suo passaggio per Milano, tra il ’97 e il ’98. L’episodio non lo aveva evidentemente lasciato in pessima luce nell’opinione dell’imperatore dei francesi — probabilmente conscio dell’errore in cui era incorso dieci anni prima — se, nel 1809, venne posto alla guida della prefettura del Reno. Anche allora, come già nel 1800, si impegnò a fondo per evitare la nomina, e pur tuttavia dovette cedere perché — come avrebbe ricordato qualche anno dopo a Giovanni Scopoli, di fronte ad analoghe proposte asburgiche — «conviene dir qualche volta di sì, per non esser creduti quello che non si sente d’essere, e non conviene essere». Pur non particolarmente addentro al sistema amministrativo italico e francese, Querini era comunque uomo dalle molte esperienze — soprattutto finanziarie — di governo e diplomazia: in questo modo costituiva la persona più indicata per l’importante dipartimento bolognese(28).
Un altro personaggio era ora destinato a ricevere incarichi rilevanti nell’amministrazione napoleonica. Vincenzo Dandolo (1758-1819), negli anni Novanta del Settecento aveva eletto la sua farmacia all’insegna di Adamo ed Eva, nei pressi del Teatro la Fenice, a sede del dibattito sui Lumi e le «nove di Franza». Lo speziale veneziano non era dunque un aristocratico: figlio di ebrei convertiti aveva egualmente servito il senato marciano in numerose ambasciate al Bonaparte, continuando in questo ruolo anche per conto della Municipalità democratica, della quale era stato uno degli interpreti più dinamici e intelligenti. Proprio durante questi incontri, Dandolo aveva maturato un profondo rapporto di amicizia col generale còrso, che si sarebbe protratto ben oltre i rapporti ufficiali di quegli anni, al punto che il futuro imperatore lo considerava uno dei due italiani, oltre a Melzi d’Eril, di cui potersi fidare ciecamente. La riprova si ebbe nel 1806, quando Napoleone lo destinò provveditore generale in Dalmazia. A Zara, Dandolo rimase fino al 1809: si scontrò con una situazione di estrema povertà e di grande fermento politico, che vedeva contrapporsi formazioni di diversa matrice e destinazione nazionale, ma certamente non è azzardato credere che nei suoi tentativi di far convivere assieme veneti e croati, dalmati o morlacchi, fossero riscontrabili ampie tracce dell’ideale riformatore che lo aveva guidato in passato, unito alla cura dell’interesse pubblico che trovava ora eco nell’amministrazione italica(29). Dandolo non fu l’unico rappresentante di rilievo della Municipalità democratica a trovare spazio nell’Italia napoleonica. A Venezia rientrò anche Tommaso Gallino, già acerrimo nemico di Francesco Pesaro: giurista di fama, assunse la presidenza del tribunale d’appello. Ma, in generale, i protagonisti del ’97 erano ormai lontani, alcuni idealmente, altri fisicamente(30). Come avvenne con gli Asburgo, prima e dopo Napoleone, magistrature e incarichi di governo vennero affidati a non veneziani: questa volta si trattava di personale proveniente dalle altre regioni italiane, raramente francese. La classe aristocratica si era ormai ridotta a poco più di duemila anime: si calcola, infatti, che il numero delle famiglie oscillasse attorno a cinquecento. In fuga o trascurati, i patrizi veneziani avrebbero continuato a mantenere una privativa, per tutto l’Ottocento e addirittura sino alla fine del fascismo, esclusivamente sulla funzione di sindaco e podestà, come se questa fosse divenuta col tempo una sorta di riserva protetta dell’antica aristocrazia della Serenissima: dei ventitré podestà che si alternano da Renier alla Repubblica Sociale Italiana non più di cinque sarebbero rimasti esclusi dal diritto di sedere in un immaginario maggior consiglio. È alla luce di questo esercizio di potere, ormai ristretto alla gestione degli affari municipali, che vanno letti quindi i tentativi di Daniele Renier e Gerolamo Gradenigo di andare oltre gli angusti confini delle lagune per rilanciare il proprio ruolo di patrizi.
Renier (1768-1851) aveva fatto in tempo a percorrere la carriera delle magistrature minori della Repubblica, le quarantie. Nel 1801 era stato nominato consigliere di governo dall’Austria, su proposta del marchese Ghisilieri e dell’entourage patrizio, nonostante ne fosse stata sottolineata da più parti, a Vienna come a Venezia, la giovane età e la sostanziale inesperienza ad assumere un tale incarico. All’inizio del 1806 è immediatamente incaricato del governo provvisorio di Venezia, ricevendone la conferma il 5 febbraio, con la nomina a podestà. Riconfermato dallo stesso Napoleone nel corso della sua visita a Venezia alla fine di novembre del 1807, Renier rimase complessivamente in carica cinque anni, sino al 31 gennaio del 1811. Il suo operato fu rivolto da un lato a salvaguardare per quanto possibile il patrimonio artistico cittadino dalle frequenti spoliazioni napoleoniche, dall’altro a indurre Beauharnais e la corte a prendere i necessari provvedimenti per risollevare le sorti di Venezia. Argomenti che saranno al centro del colloquio tra Renier e il ministro dell’Interno Ludovico di Breme, temi e problemi che verranno esposti quindi a Parigi, dapprima nella commissione presieduta dal segretario di Stato Antonio Aldini, poi allo stesso Napoleone, dalla delegazione che si era recata a rendere omaggio all’imperatore, a St-Cloud, il 15 giugno 1806(31). Il rapporto di Aldini, articolato in nove capitoli, diede l’avvio all’interesse dell’imperatore verso la città che si concretizzò durante la sua visita, nel novembre successivo. Dall’illuminazione pubblica all’escavo dei canali, dalle misure di ordine pubblico per ridurre l’accattonaggio a quelle per rilanciare l’attività dell’Arsenale e del porto, dalla commissione — tutta patrizia — destinata a irrobustire gli istituti di beneficenza e a confermare le pensioni per i barnaboti, alla creazione di un Monte di pietà o di una reggia di rappresentanza, Renier coordinava le molte iniziative di modifica del tessuto urbano e sociale che il Regno d’Italia andava attuando a Venezia in quegli anni. E in questo tentativo di razionalizzazione neoclassica della città, il podestà trovava un punto di contatto tra il suo prestigio, la classe d’origine e i nuovi sovrani. Ma dove la grandeur del patrizio si sposò naturalmente con quella dell’imperatore dei francesi fu proprio nei festeggiamenti per accogliere l’arrivo di Napoleone, il 28 novembre 1807, di cui egli divenne il naturale regista: a scorrere anche distrattamente i quadri dipinti da Giuseppe Borsato per l’occasione, ci si accorge dell’impressionante mole di feste, regate e allestimenti — persino un arco di trionfo in legno, a S. Chiara — che accolsero e accompagnarono Napoleone lungo il Canal Grande. Quest’ambigua commistione di interessi privati e pubblici era talmente evidente da colpire l’attenzione della polizia napoleonica: il suo direttore, Antonio Mulazzani, notava in quegli anni come il podestà fosse, «sotto il mantello dell’ipocrisia, nostalgico per l’antico ordine di cose». In seguito Renier sarebbe stato ancora consigliere comunale, poi membro del governo provvisorio, nel 1814, e della ristretta élite che, nel 1815, avrebbe reso omaggio nella basilica di S. Marco all’arciduca Giovanni, fratello dell’imperatore Francesco I, non più come podestà, ma come delegato di Portogruaro, dove aveva alcune delle sue ampie tenute: in una di queste, alle porte di Mestre, si ritirerà, dopo la nomina a gran scudiere del Regno lombardo-veneto, e lì, a Trivignano, morirà. Ma, prima della fine, Renier avrebbe avuto ancora tempo e modo di dar prova di inettitudine — consigliere del governo veneto sino al 1837, rimosso dal dipartimento acque e strade che aveva portato all’inattività, colmandolo di debiti — e insieme di ottima conoscenza del Palazzo, nel quale era, prima di tutto, riferimento e protettore degli ex patrizi. E se gli austriaci, pur conoscendone l’ambiguità, lo tennero al governo per altri vent’anni, era perché, come sottolineava ancora nel ’15 il governatore conte von Goess, egli aveva «un enorme ascendente presso il pubblico»: così passava attraverso di lui la possibilità per Vienna di avere un partito filoaustriaco a Venezia(32).
Le sue vicende si intrecciano a quelle, simili, dell’altro podestà italico, Gerolamo Bartolomeo Gradenigo, che gli succede dal 1811 al 1816. Gradenigo (1754-1828), durante il periodo aristocratico aveva avuto una carriera più importante di Renier: podestà a Chioggia, savio di terraferma, ambasciatore in Spagna dal 1790 alla fine della Repubblica. Dopo una breve parentesi nella congregazione nobile delegata aveva vissuto il primo governo austriaco in modo defilato, rientrando in consiglio comunale all’arrivo dei francesi(33). Entrambi, Renier e Gradenigo, rispondevano — al pari degli Erizzo, dei Querini e dei Mocenigo — a quella tipologia di classe dominante voluta prima dagli Asburgo e poi dallo stesso Napoleone: «nobili patrizi possessori», così erano stati definiti i membri della congregazione nobile delegata, che nel 1798 erano stati posti a capo dell’amministrazione municipale dell’ex Dominante. Non differenti dovevano esser stati i criteri di scelta dei podestà italici: i Renier — che pure Giacomo Nani nella celebre suddivisione dell’aristocrazia stesa a metà Settecento aveva collocato nella quarta classe, tra le famiglie «che hanno meno del loro bisogno»(34) — vantavano possedimenti nel Portogruarese, nel Padovano e nel Vicentino: tra Arquà e Monselice, Daniele possedeva 80 ettari, ma assieme ai suoi fratelli raggiungeva i 620 ettari, tutti nella Bassa padovana. Quanto ai Gradenigo, tra le più ricche del patriziato in assoluto, la famiglia di Gerolamo possedeva oltre 1.000 ettari a ridosso della laguna di Chioggia e una quantità altrettanto vasta di terreni si estendeva nella Pedemontana trevigiana, tra Castelfranco, Montebelluna e il Montello; qui, da solo, l’ex ambasciatore denunciava 227 ettari nelle notifiche preparatorie del catasto napoleonico(35).
L’altro criterio di selezione fu affidato alla effettiva perizia tecnico-amministrativa, con l’obiettivo di formare un corpo di servitori dello Stato, cui affidare la gestione dell’apparato statale, una burocrazia di differente estrazione sociale ed economica, basata su solidi requisiti di capacità e di merito, indipendentemente dalla provenienza geografica o politica(36). A questi criteri rispose la scelta di uomini come Dandolo, Galvagna (1773-1860), non a caso al rientro degli austriaci a Venezia designato consigliere e vicepresidente di governo (1817-1831), poi presidente del magistrato camerale (1831-1845), o Gasparo Del Majno (1758-1826), prefetto napoleonico a Belluno e Treviso e poi vicepresidente di governo a Venezia e Milano, nella Restaurazione. O come Giuseppe Giacomazzi, già ricordato vicecapitano austriaco e ora viceprefetto(37).
Nato nel 1753 da una dinastia di segretari del senato e del consiglio dei dieci, Giuseppe era entrato a sedici anni nella cancelleria dogale e aveva quindi svolto il consueto cursus honorum diviso tra carriera da segretario, in senato e nelle ambasciate, e nella diplomazia, come residente. Quasi senza soluzione di continuità, all’arrivo degli austriaci è accolto nel magistrato camerale, quindi riprende il ruolo influente di segretario di governo sino alla nomina, nel 1804, a vicecapitano del Friuli, a Udine. I francesi gli confermano la fiducia, prima come consigliere della prefettura dell’Adriatico, poi destinandolo viceprefetto di Adria, nel 1808. È in questo periodo che iniziano, nell’antica cittadina, gli scavi archeologici autorizzati, su determinante suggerimento di Giacomazzi, da Eugenio di Beauharnais a spese del Regno d’Italia. Nella viceprefettura di Adria, allargata a Chioggia, Giacomazzi resta durante l’organizzazione provvisoria austriaca, sino al 1816: «gode universale e fondata opinione di probità e intelligenza», scrivono di lui da Vienna, e per questo viene scelto quale commissario del governo provvisorio a Ferrara e a Milano. Ancora un decennio come membro del magistrato di sanità marittima, e nel 1826 è collocato in quiescenza: in tutto cinquantatré anni di servizio sotto quattro sovrani, durante i quali Giacomazzi aveva dimostrato di credere in un ideale dello Stato superiore a qualsiasi, specifica, forma di governo(38). Come testimoniano le sue memorie, egli era ben conscio di incarnare la continuità fisica delle istituzioni, al pari di quanti, come lui, avevano continuato a collaborare con le diverse amministrazioni che si erano susseguite, dopo l’abdicazione di Ludovico Manin, nell’interesse congiunto di salvaguardare l’entità statale e sociale veneta e di diffondere la stessa cultura delle istituzioni di cui si era alimentato il modello della migliore tradizione marciana(39). E se naturale, in quest’ottica, era stato, per Giacomazzi, l’incontro con la logica dell’amministrazione del primo governo austriaco e di quello italico, non meno diretta era stata la convergenza per un ex democratico come Francesco Mengotti, che aveva invece alle spalle una solida scuola di studi illuministi(40).
Feltrino di Fonzaso, Mengotti (1749-1830) è un altro di quei veneziani d’adozione che si incontrano alla fine del secolo XVIII, quando ancora aveva senso scendere nella già ex Dominante, per cercare di dare corpo a speranze e progetti che potevano affollare la mente di un giovane e vivo intellettuale di provincia. La sua partecipazione alla Municipalità lo aveva indotto a lasciare Venezia, tornando alla quiete di un impiego in provincia, utile solo a far dimenticare l’adesione democratica del ’97. Dalla polvere di una burocrazia quotidiana e offensiva riemerge, richiamato a Venezia da Bissingen, nel 1804, per dirigere l’intera operazione catastale, a fianco del milanese Pietro Bellati, impegnato a tradurre in azione di governo quanto l’economista delineava in sede teorica, in una febbrile quanto profonda attività riformatrice che non si fermava solo alla politica tributaria, ma investiva più ampiamente i settori produttivi, come dimostrano i suoi progetti sull’Arsenale e il portofranco. La caduta del primo governo austriaco impedisce la totale raccolta delle notifiche e il completamento del catasto: anche per questo Mengotti accetta di proseguire l’iniziativa sotto l’amministrazione italica, non senza porsi il problema di ciò che la permanenza nelle istituzioni, sotto sovrani diversi, comportava agli occhi dei contemporanei. Di fronte all’ipotesi di piaggeria, ricorda l’abate Bernardi, «previde egli l’accusa ed i nipoti si ricordano tuttavia come solesse ripetere che il bene dell’umanità era il suo grande scopo e che rimanendo ne’ conferiti impieghi, ne portava quella coscienza di giovare che forse tal altro cui era giuoco forza affidarneli, non avrebbe portato». Mengotti divenne così ispettore generale delle finanze napoleoniche, ed è certo, al di là della retorica ottocentesca, che ciò significava, anche per lui, servire lo Stato, qualunque sovrano lo governasse. Ma un altro fattore, meno evidente ma non secondario, sottendeva le sue scelte: dietro Il saggio sulle acque correnti e le opere idrauliche, gli analoghi interventi sulla libertà del commercio estero e sulle monete, i pareri sui boschi, la seta, gli zuccheri, le riflessioni sui proverbi e i modi di dire, le osservazioni critiche sulla lingua, o sul modo di «essiccar» le paludi, al pari di quanto faceva Vincenzo Dandolo con i suoi studi sul Governo delle pecore spagnuole e italiane, Mengotti dava continuità a quello spirito riformatore che lo animava da sempre. Ricco di onori — cavaliere della corona ferrea, elettore del collegio dei dotti, membro di numerose accademie —, Mengotti dovrà sbrogliare un’altra matassa intricata, quella delle finanze nei tre dipartimenti «pontifici», riorganizzati dal 1808. Un’attività sufficiente per esser messo a riposo, anche alla luce del saccheggio subìto in casa, a Milano, nel 1814, nei giorni tumultuosi dell’eccidio del Prina, ministro di cui Mengotti era amico. Invece, proprio in virtù della sua perizia tecnica e nonostante agli occhi della cancelleria viennese egli apparisse «uomo fornito di talenti, ma torbido e inquieto», dopo una breve parentesi come consigliere nel governo provvisorio tra 1815 e 1816, è nominato nel 1818 vicecommissario dell’imperial-regia giunta per il censo, presieduta dal viceré Ranieri. In pensione, il vecchio funzionario ci andrà solo nel 1825.
L’annessione al Regno d’Italia andò attenuando, infine, l’ostracismo politico verso gli esponenti, aristocratici e borghesi, delle città di terraferma. A scorrere l’elenco dei prefetti, infatti, riscontriamo la presenza dell’udinese Cinzio Frangipani a capo del dipartimento bergamasco del Serio, dopo una breve parentesi austriaca come capitano in Friuli nel 1801; i padovani Francesco Ferri a Belluno e Costantino Zacco a Ferrara, il veronese Giacomo Gaspari destinato in Ancona e a Macerata, oltre all’apparizione del trevigiano Bernardo Pasini sul Panaro modenese, mentre il celebre avvocato democratico di Capodistria, Angelo Calafati, alla guida della sede istriana, costituì l’unica eccezione alla regola che voleva i prefetti — spesso uomini di età attorno ai quarant’anni — inviati lontano da casa.
Questi esempi rappresentavano comunque delle eccezioni, anche importanti, in un panorama che pure, complessivamente, prevedeva un’amministrazione assai numerosa e ricca di possibilità di carriera(41). Al di là dei casi isolati, nel complesso la società veneziana era stata mortificata dal declassamento politico e dalla riduzione delle possibilità economiche, con qualche eccezione. I ceti imprenditoriali, infatti, trovarono nuova soddisfazione nella Camera di commercio, espressa dalla nomina alla presidenza di Antonio Revedin e, soprattutto, di Jacopo Treves de’ Bonfili. Attorno a loro, una direzione di nove membri veneziani, più sei rappresentanti dei rispettivi dipartimenti della regione. Anche qui le premesse teoriche e pratiche di questa crescita vanno cercate subito dopo la caduta della Repubblica: la deputazione mercantile aveva già consolidato una serie di critiche e di proposte per rilanciare l’economia veneziana, attorno alla figura del suo presidente, il mercante d’origine fiamminga Pietro Vanautgarden, e di altri esponenti autorevoli, come Francesco Jacopo Tommasini. Le discussioni vertevano soprattutto sull’utilità del portofranco, ma si allargavano a comprendere anche molti temi di politica economica e mercantile, dando segnali di straordinaria vitalità a dispetto di quanto accadeva nella realtà commerciale quotidiana(42). La deputazione mercantile, istituita dall’Austria nel 1798, cessò le sue funzioni nel 1806, passando il testimone alla Camera di commercio, che si avviava a diventare così l’espressione più visibile del nuovo soggetto politico, la borghesia. Quest’ultima, tuttavia, non fu in grado di assicurare, da subito, il ricambio nella classe dirigente, così come invece si sarebbe manifestato negli anni Quaranta. Il segno più evidente di questo progressivo, inesorabile, depauperamento dei ceti dirigenti veneziani si vedrà qualche anno dopo, con la scomparsa anche fisica degli ultimi esponenti della classe politica veneto-italica. L’Austria che si affidava, nel 1815, agli eredi di questa tradizione, ne riconosceva la piena affidabilità, insostituibile da altri esponenti dalla simile formazione sociale e tecnica, perché unici — in terra veneta — a esser cresciuti nella cultura delle istituzioni.
Certamente gli Asburgo, rimettendo piede in piazza S. Marco, non erano più disposti ad accreditare possibilità o speranze di autonomia da parte delle vecchie e nuove classi dirigenti veneziane. La riprova venne dalla «sovrana patente» dell’imperatore Francesco I che, il 7 aprile 1815 — un anno dopo l’armistizio di Schiarino-Rizzino firmato da Beauharnais davanti al generale Bellegarde —, costituiva il Regno lombardo-veneto, «incorporato in perpetuo» nell’Impero asburgico, ma non nella Confederazione germanica, alla quale appartenevano invece i paesi boemi e austriaci, compresi il Tirolo con Trento, il Litorale con Trieste, Gorizia e l’Istria austriaca. La patente generò un forte senso di delusione in quanti, soprattutto in seno all’aristocrazia, credevano ancora possibile la ricostituzione dell’antica Serenissima, in virtù del principio di legittimità che stava passando sui tavoli del Congresso di Vienna. Invano, in quei mesi, il patrizio Giovanni Bembo aveva inviato numerose petizioni alle potenze vincitrici, riunite nella capitale danubiana. A supporto della totale legalità del ritorno dell’Austria a Venezia fu assunto il ricordato giuramento di sottomissione che tutti, patrizi veneziani e capifamiglia di provincia, avevano prestato nella primavera del 1798, quando gli Asburgo avevano preso possesso delle province austro-venete, in forza del trattato di Campoformido.
Le due nuove province, oltre cinque milioni e mezzo di abitanti per 47.000 kmq, vennero collocate giuridicamente e politicamente sullo stesso piano, con due governi a Milano e a Venezia, capoluoghi di regioni articolate in province chiamate delegazioni: la figura del regio delegato aveva molto, per impostazione amministrativa e diretto rapporto col centro, del prefetto napoleonico. Il Veneto era articolato in otto delegazioni provinciali: Venezia, Verona, Vicenza, Padova, Polesine (solo dal 1853 designata col nome di Rovigo), Treviso, Belluno, Friuli (dal 1853, Udine), composte da nobili e borghesi designati secondo un complesso meccanismo di terne di scelta, individuate sulla base del censo. Esse facevano gerarchicamente riferimento alle due congregazioni centrali, poste nei capoluoghi, nelle quali, accanto ad aristocratici e a membri della middle class, sedevano anche i rappresentanti delle città regie. Al di sotto delle delegazioni, il sistema comunale rappresentò infine una forte modifica rispetto a quello teresiano in uso nella Lombardia prerivoluzionaria: retti da un podestà e da un consiglio composto da un numero variabile (trenta-sessanta membri), i Comuni veneti godettero di limitata e formale autonomia, in materie di immediata e locale attinenza amministrativa.
Sin dal 1816 la situazione sociale e istituzionale dei territori italiani presentò numerosi motivi di insoddisfazione nei nuovi sudditi, a cominciare dal mancato rispetto delle promesse fatte dall’Austria, all’atto del rientro al di qua delle Alpi. L’accentramento a Vienna di ogni soluzione politica, lo svuotamento effettivo delle funzioni delle congregazioni centrali e provinciali, il crescente peso fiscale, il mancato sviluppo industriale dell’insieme dello Stato lombardo-veneto, costituiranno crescenti e progressivi motivi di disamore da parte dei ceti dirigenti, borghesi e aristocratici, di Venezia e Milano. Eppure anche per questa serie di motivi, il periodo che va dal 1813 al 1815 rappresenta uno dei campi di maggior richiamo nella storia dell’Italia moderna, per il groviglio di problemi creatosi in quei brevi mesi e la cui soluzione determinò poi, per cinquant’anni, l’assetto politico italiano(43).
Pressato da questi problemi da un lato e dal ritorno in patria di Napoleone, fuggito dall’isola d’Elba, dall’altro, l’arciduca Giovanni, fratello dell’imperatore Francesco I, dispose che si svolgesse in tutta fretta il giuramento di fedeltà, il 7 maggio. Davanti a lui e al governatore conte von Goess, nella basilica di S. Marco, sfilarono i rappresentanti delle città venete, ex patrizi e ottimati, nobili di terraferma e alti prelati. A sancire l’avvenuto accordo tra gli Asburgo e le genti venete in autunno giunse, anche a Venezia, l’imperatore accompagnato dal suo cancelliere, il fido barone Klemens von Metternich. Francesco I fece il suo ingresso in laguna il 31 ottobre, si trattenne per quasi due mesi, molto densi di appuntamenti: visite e interventi attivi, in città e nell’estuario, feste e apparizioni pubbliche si susseguirono senza sosta, toccando l’apice con la restituzione della celebre quadriga, ricollocata al suo posto, al centro della facciata della basilica di S. Marco, il 13 dicembre 1815. Fu una visita all’insegna della riconciliazione e del buon governo: Francesco, nato a Firenze durante il governo granducale del padre Leopoldo, era stato educato nella lingua e nella cultura italiana e si presentava come il garante della tradizione e del rispetto della legalità, forte di un paternalismo benevolo e legittimista su cui la monarchia viennese basava la sua fortuna, e che sarebbe andato accentuandosi, nell’età del declino, con Francesco Giuseppe. Salito al trono nel 1792, Francesco II aveva rinunciato all’appellativo millenario di Sacro Romano Imperatore nel 1806. La sua concezione di governo, inizialmente orientata sulla via del giuseppinismo, aveva infine svoltato verso un conservatorismo che preferiva testualmente sudditi fedeli ed efficienti piuttosto che cittadini illuminati, magari d’opposizione. Un orientamento che si rifletteva anche nella predilezione verso un modello scolastico che, dopo l’istruzione elementare, improntata sul metodo normale, favoriva una scuola superiore specializzata in funzione dell’avviamento al lavoro o della formazione dei dipendenti della pubblica amministrazione.
Dopo la visita, nel 1818, Francesco I e Metternich decisero di nominare un viceré per il Lombardo-Veneto. Scelsero l’arciduca Ranieri, altro fratello dell’imperatore, che tuttavia, anche per la sua indole rinunciataria, ebbe funzione rappresentativa, rintanato nella Villa Reale di Monza. In realtà l’effettivo potere era tenuto dai due governatori, uno a Milano, l’altro a Venezia, in diretto contatto con la corte, che dirigevano un gabinetto composto da un numero di consiglieri che oscillava tra i dieci e i dodici: ognuno di loro era a capo di un dicastero, con specifiche materie di intervento, dalla sanità al commercio, dall’istruzione ai lavori pubblici, dall’Arsenale ai boschi, dalla marina all’esercito, ecc.
Meno traumatico, perché più in linea con la tradizione storicamente positiva della presenza austriaca in Lombardia, fu invece l’avvicendamento del governo a Milano. Qui giocò senz’altro a favore la presenza del generale Bellegarde, più abile a gestire i rapporti e a intraprendere l’azione politica di quanto non fosse, in laguna, il principe di Reuss. Meno ignaro della situazione locale fu invece il conte di Thurn, nominato governatore alla fine del 1813. Anch’egli era al rientro nelle province venete dopo una parentesi che lo aveva portato a ricoprire la carica di vicecapitano a Treviso e Verona durante il primo governo austriaco; dopo una breve apparizione in Veneto nel 1809, al seguito dell’arciduca Giovanni, era riparato a Vienna, dove aveva studiato da governatore, e ora in quella veste si presentava a Venezia. Thurn, vivendo ai margini dei territori veneti, tra la Carinzia e Gorizia, conosceva la difficoltà della situazione politica veneziana sicuramente meglio del più sprovveduto principe di Reuss: le sue attenzioni furono dirette quindi a ricreare un corpo di fidati funzionari, dissolto dall’esperienza precedente. Ma Venezia non aveva la latente pericolosità socio-politica che derivava invece a Milano dall’eredità napoleonica: forse per questo i rappresentanti austriaci riuscirono a muoversi con disinvoltura, senza tenere particolare conto del patriziato, né d’altra parte intimorendosi troppo della presenza di ex amministratori italici, confermati, come visto, in forza della loro provata abilità amministrativa. Paradossalmente, data questa situazione, il Veneto — anche per le conseguenze delle lunghe e cruente operazioni militari — venne subito affidato alla burocrazia imperiale, mentre a Milano continuò a funzionare una solida struttura, basata su funzionari cresciuti nei ranghi di una carriera locale. E quando, nel 1817, si diede il via all’organizzazione definitiva, a capo delle nove province lombarde vennero posti altrettanti delegati di famiglia italiana, mentre gli otto colleghi del Veneto erano in maggior parte d’Oltralpe: oltre al Thurn, vi erano un moravo (Paul Lederer, già vicecapitano a Vicenza, 1803-1806), un trentino (il celebre Torresani, poi direttore della polizia a Milano), e ben due rappresentanti dei Porcia, che solo in senso lato potevano considerarsi friulani, date la loro secolare fedeltà con la casa d’Austria e la lunga permanenza a corte, sin da quando, nel Cinquecento, avevano scelto l’Impero dopo la ribellione antiveneziana successiva alla lega di Cambrai. Di certo a capo dei tribunali o alla direzione generale della polizia troveremo spesso trentini, dunque personale di lingua italiana, in grado di mediare tra la società civile e la perfetta padronanza dei meccanismi del sistema giudiziario austriaco. Più in generale, veneziani e veneti nell’amministrazione asburgica non raggiunsero che posti marginali e in numero limitato: nei primi trent’anni, sino al ’48, oltre a Mengotti e al naturalizzato Galvagna, nel governo della regione sedettero i patrizi Franco e Giovanni Battista Contarini e il nobile Francesco Contin, il dottor Francesco Aglietti, intellettuale di passate esperienze democratiche, protomedico, e i suoi successori di origine dalmata Angelo Frari e Giuseppe Dercich, l’immancabile Daniele Renier, il nobile friulano Pietro Maniago, il raguseo Matteo Luigi Zamagna, il dalmata Francesco Gregoretti. Una dozzina di persone, mai più di tre alla volta nel totale dei dieci, dodici consiglieri di governo. Quanto ai governatori, essi furono il conte von Goess (1816-1819), Carl Inzaghi (1819-1827), quindi Johann Baptist Spaur (sino al 1841) e l’ungherese Aloys Pálffy (arresosi agli insorti nel ’48), mentre i vicepresidenti si identificarono dapprima in Alfonso Porcia, poi nel lombardo Del Majno, già vicecapitano del Dogado sino al 1806, quindi in Galvagna e Aloys Pálffy, infine nel comasco Sebregondi, dal 1841 al 1848.
Nell’insieme i veneziani subivano non solo, al pari dei milanesi, la presenza di un governatore imperiale a capo del consiglio di governo, ma erano retti, amministrati e giudicati da un personale in grande maggioranza estraneo alla regione, compresi i molti lombardi che mal sopportavano, spesso come una punizione, il trasferimento a Venezia. Nel 1822, il 70% dei consiglieri di governo — centrale e periferico — non era veneto. La città venne così definitivamente relegata a centro amministrativo e politico di secondaria importanza rispetto alla Milano italica e poi, soprattutto, a quella asburgica, anche se questa percentuale andò progressivamente migliorando. Dieci anni dopo, infatti, col diminuire dei funzionari di carriera napoleonica, i veneti saranno in maggioranza (55%) e vi resteranno, con qualche oscillazione (53-56%), sino al ’48, senza tuttavia che si sanasse lo squilibrio politico, anche perché la modifica nella composizione dei ceti dirigenti avvenuta in questi anni, fu dovuta sì all’ascesa di personale istruito nelle pratiche dell’economia e dell’amministrazione, ma proveniente da famiglie della nobiltà di terraferma, o comunque non appartenente al patriziato, che non aveva quindi particolare interesse a battere il tasto del rilancio dell’ex Dominante, se non all’interno di una più ampia e complessiva ripresa economica e culturale dell’intero Veneto(44).
Lo spirito pubblico, culturalmente depresso, era invece animato da un diffuso quanto sotterraneo movimento di insoddisfazione, che si alimentava soprattutto in campo economico, a causa del tracollo che aveva colpito il porto, l’Arsenale e, più in generale, le attività produttive della città, legate alle tradizionali attività commerciali e terziarie. Una situazione a lungo stagnante — di cui gli osservatori contemporanei addossarono la responsabilità ai francesi — e che l’Austria modificò solo a partire dagli anni Trenta, prima con l’istituzione di un portofranco esteso a tutta la città (1830), quindi attraverso il rafforzamento della naturale e antica dimensione terziaria di Venezia, attiva sin dalla Serenissima, con la creazione di una serie di nuove infrastrutture (dalla ferrovia al macello, dai tribunali alle scuole), che saranno completate nella seconda metà del secolo e dopo l’Unità, con il porto, il gas e l’acquedotto.
Già il primo governo austriaco aveva dato spazio a un’intensa progettualità, spesso rimasta sulla carta, che aveva investito i diversi campi dell’amministrazione statale. Al loro rientro a Venezia gli Asburgo avevano ripreso in mano il discorso, lì dove era stato interrotto dall’arrivo dei francesi, nel 1806. Tuttavia alcune situazioni erano state modificate a fondo dalla legislazione italica. Gli ebrei, ormai definitivamente liberi, erano usciti dallo storico Ghetto e avevano attaccato la scalata al vasto patrimonio immobiliare dei beni di manomorta, proveniente dai molti istituti religiosi soppressi. In queste operazioni la punta di diamante della comunità israelitica si era trovata accanto, come compagni di cordata, quei grandi borghesi cui Napoleone aveva riconosciuto i titoli di una moderna nobiltà, di censo ora, non più di sangue. Ma gli esponenti di questa nuova aristocrazia latitavano nella Venezia ottocentesca: era facile trovare in laguna più dotti e commercianti che possidenti, secondo la classica tripartizione dettata da Bonaparte. Provata dai saccheggi e dalle conseguenze del blocco navale, questa borghesia non riuscì a improntare in fretta il sistema delle attività produttive della Venezia della Restaurazione, non arrivando a influenzare la politica economica di Vienna che dopo molte pressioni e interventi, tra cui quelli, fondamentali quanto in linea col tradizionale paternalismo asburgico, del patriarca Pyrker e dello stesso viceré Ranieri, giunti a metà degli anni Venti, dopo che la Camera di commercio aveva colto ogni occasione utile per esprimere il dissenso e lo sconforto del corpo mercantile e imprenditoriale(45).
Fu attorno agli anni Trenta(46), dunque, che insoddisfazione economica e irrequietezza politica iniziarono a saldarsi — senza tuttavia dar luogo ancora a una vera opposizione — attorno alla Camera di commercio e, dal 1839, alla Società Veneta Commerciale, che raccoglieva, in modo meno formale della prima, rappresentanti del ceto mercantile in un gruppo di pressione istituzionale finalizzato a favorire gli scambi internazionali. In realtà la borghesia veneziana non si era arricchita in modo uniforme, e se da un lato si annoveravano banchieri come i greci Papadopoli(47) o gli ebrei Treves(48), l’industriale e proprietario terriero Giuseppe Reali(49), la famiglia Comello, mercanti di cereali che contavano possedimenti in ogni parte del Veneto(50), dall’altro vi era una diffusa ansia di imprenditorialità che solo alcuni riuscivano a soddisfare con profitto, come il vetraio Pietro Bigaglia(51) o, più tardi, il pellestrinotto Giovanni Busetto detto Fisola(52). Eppure tutti, grandi banchieri, ricchi borghesi e dignitosi artigiani, si sarebbero schierati, in forza di spinte diverse, con la rivoluzione del 22 marzo 1848. Motivi di insoddisfazione univano, infatti, gran parte dei ceti imprenditoriali, alcuni dei quali vantavano specifici motivi di denuncia dello statu quo, come la crisi delle attività marinare da un lato, quello dell’esercizio del diritto secondo i canoni classici della tradizione veneta, dall’altro.
Non fu dunque un caso che, nel 1841, la filiazione veneziana della Giovine Italia, l’Esperia dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera e di Domenico Moro, trovasse spazio e campo d’azione all’interno dell’Arsenale, in particolare nella marina militare, che comprendeva in gran numero maestranze e ufficiali istro-veneti. E d’altro canto non dovette rappresentare una sorpresa per le autorità austriache riscontrare come proprio nel ceto forense si andasse sviluppando l’opposizione legale, promossa dal giovane avvocato Daniele Manin e da alcuni suoi colleghi. Tuttavia, tra il 1821 del processo a Silvio Pellico e ai carbonari di Fratta Polesine e la rivoluzione del 1848 non si registrano fatti insurrezionali, per la continua vigilanza della polizia asburgica che ampliava a dismisura le decise difficoltà organizzative(53).
La censura era basata su un’organizzazione fortemente oppressiva(54). Ordinata attraverso uffici politici periferici — a Venezia e Milano — che tutto riferivano e tutto sapevano, la censura esercitò un controllo accurato sulla circolazione delle idee e degli scritti: il governo scelse la strada della mortificazione culturale per colpire soprattutto gli intellettuali, alimentando una società del sospetto in cui letterati e dotti vennero progressivamente emarginati, finendo per andare a ingrossare l’inevitabile pattuglia dell’opposizione. Il direttore della polizia centrale, il temuto barone Sedlnitzky, impartiva istruzioni e regole da Vienna: sorveglianza sulla posta, revisione stretta dei libri in commercio o in stampa, in specie quelli in cui poteva apparire un quadro desolante delle province lombardo-venete, indice dei libri proibiti, controllo sui giornali e sugli spettacoli, costante presenza di spie nei caffè e nei salotti. Tutto ciò favorì, anche al di là della pur pressante sorveglianza, un torbido clima di diffidenze e di oppressione, che, se da un lato contribuì ad alienare progressivamente le simpatie dei sudditi, anche di quelli più moderati, dall’altro non impedì che Venezia crescesse nella dimensione di un turismo non solo d’élite, come testimoniano le molte e autorevoli guide della città pubblicate — tra cui Otto giorni a Venezia di Antonio Quadri (1821) — e, soprattutto, gli oltre trentamila viaggiatori arrivati in laguna nel 1838, per assistere alla visita dell’imperatore Ferdinando I, succeduto al padre, morto nel 1835(55).
L’introduzione dei codici civili e penali austriaci, oltre a connotare anche la vita privata nel senso dell’alleanza tra il trono e l’altare (si veda, ad esempio, l’introduzione della natura religiosa del matrimonio, con il sacerdote a celebrare il rito, e l’abolizione del divorzio), e a introdurre la pena di morte per reati contro «la pubblica e privata sicurezza», commessi «dietro una piena riflessione», non prevedeva la presenza, nei dibattimenti, di avvocati difensori o di udienze pubbliche: tuttavia, nonostante quanto si crede abitualmente, il sistema giudiziario asburgico era più garantista di quello napoleonico, in quanto prevedeva che l’imputato non potesse essere condannato che in presenza di prove certe e non solo in forza dell’arbitrium del giudice, come già nel sistema precedente. Gli avvocati veneziani — pur ridotti dai 240 ricordati nei Mémoires di Carlo Goldoni agli attuali 60 (109 in tutta la provincia) — costituivano il 27% dell’intera regione asburgica: privati del diritto di patrocinare i propri clienti nelle aule dei tribunali, oberati di carte bollate e altri balzelli amministrativi, indirizzarono l’attività professionale e il risentimento per questo stato di cose verso la composizione delle liti commerciali, alimentando le diatribe intorno all’esproprio dei terreni necessari alla costruzione della ferrovia o ad altre opere pubbliche. In questo modo essi legarono le proprie sorti a quelle di altri organismi ufficiali, come la Camera di commercio, nella quale alcuni membri — pur ricchi — della borghesia avevano trovato parziale soddisfazione all’esclusione dai posti di governo nelle congregazioni centrali o provinciali, dove l’alto censo e un complesso meccanismo di scelta li tagliava inevitabilmente fuori da ogni rappresentanza. La battaglia del ceto forense non fu, come quella operata dai giudici patrizi nel 1798-1799, un’operazione di retroguardia volta a difendere i privilegi che il diritto veneto riservava all’aristocrazia o ad alcune comunità locali, come quelle istriane, di fronte all’introduzione degli allora più moderni e dirompenti istituti del diritto imperiale(56). Gli avvocati divennero invece, nel 1848, «la punta di lancia della borghesia»(57), coscienza critica e brillante, anche dopo l’Unità d’Italia, di una città prima che di una classe sociale, in un quadro generale in cui statistiche e anagrafi delle classi sociali appaiono sfumate, restie a definire con esattezza soprattutto i pallidi contorni del ceto medio. Nel Prospetto statistico di Antonio Quadri, compilato tra il 1818 e il 1827, risulta evidente la difficoltà a superare la vecchia triade patriziato-cittadini-popolo per sostituirla con una nuova gerarchia basata sull’esercizio di un lavoro o di una professione, permanendo, a fianco di nuove classificazioni, «categorie a carattere giuridico, come la classe nobiliare, o basate su criteri misti, come quella dei ‘Possidenti cioè Ditte censite’», «Negozianti e Trafficanti», «Artisti», «Agricoltori e Pastori», «Marinai e Barcaiuoli», «Pescatori»; altre giungevano a distinguere le diverse forme di un’identica professione liberale: «Avvocati», «Notai», «Personale sanitario» (diviso tra medici, chirurghi e farmacisti), e alcune, semplicemente, non potevano essere considerate un’autentica categoria, come gli «Ecclesiastici», oltre al fatto che vi erano ancora escluse le donne(58).
E tuttavia, nella sola provincia veneziana, alla realtà di un nobile ogni 240 abitanti faceva riscontro il ben più ravvicinato rapporto di 1 possidente ogni 11 residenti, 1 negoziante ogni 23, 1 artigiano ogni 8, 1 contadino ogni 16 e 1 tra marinai, barcaioli e pescatori ogni 17 abitanti. Ovvero: proporzioni molto più serrate del resto della regione per nobili (1 a 587), negozianti (1 a 36), «artisti» (1 a 19) e gente di mare (1 a 116), logicamente più distanti per agricoltori e pastori (tra Veneto e Friuli lavorava i campi 1 abitante su 2), ma meno prevedibilmente anche per i possidenti (1 a 5), in linea con l’alto numero di «miserabili» (a Venezia c’è 1 povero su 5, media regionale 1 a 26).
Anche la comunità ebraica veneziana divenne un altro punto di riferimento, pur confessionale, non solo per la presenza di banchieri come i Treves o i Levi(59), ma più in generale per i molti uomini d’affari — diversi dei quali legati a vario titolo alle Assicurazioni Generali, nate anch’esse nel 1831: dai primi «direttori veneti» Samuele Della Vida († 1876) e il figlio Cesare (1817-1876) al segretario della sede veneziana, Leone Pincherle (1814-1882), che in esilio a Parigi, dopo la rivoluzione, vi aprirà la filiale francese, al direttore della compagnia Isacco Pesaro Maurogonato (1817-1892), ministro delle Finanze nel ’48(60) — e per il capillare movimento degli intermediari minori, attraverso i quali passava buona parte del traffico immobiliare e antiquario della Venezia del primo Ottocento.
L’alta borghesia rimase dunque lontana dalle congregazioni di governo, spesso forzatamente, perché tali organismi furono frequente appannaggio dell’aristocrazia, più semplicemente per scelta. Ma l’élite tecnica e professionale trovò altri modi per mantenere continui e forti legami con l’amministrazione pubblica, dirigendo le proprie attenzioni verso posti di rilievo nei quadri degli uffici operativi. In quest’ottica, si capisce come un altro ‘luogo’ di crescita dei ceti borghesi (in specie avvocati, ingegneri, geologi), più volte richiamato in queste pagine, divenne la società per azioni nata per la costruzione della ferrovia Ferdinandea, ovvero l’ambizioso e difficile progetto di unire Milano con Venezia per mezzo di una strada ferrata, che avrebbe dovuto portare il nome dell’imperatore(61).
Infine, fu attorno all’Ateneo Veneto, voluto da Napoleone I sin dal 1810 assieme all’Istituto Nazionale e inaugurato all’inizio del 1812, che iniziarono a catalizzarsi, in modo ufficiale, le attenzioni della borghesia liberale veneziana, dapprima verso dibattiti teorici legati alla realtà fisica delle lagune e del territorio veneto, quindi sempre più pressantemente rivolte a progetti riformisti di matrice economica o politica che non potevano che destare i sospetti delle autorità asburgiche. Fu questo il momento in cui pareva dovesse realizzarsi l’antico auspicio di Vincenzo Dandolo che, già al cadere del XVIII secolo — dalla sua bottega di speziale situata proprio accanto alla futura sede dell’Ateneo —, auspicava unite la scienza teorica e le sue applicazioni pratiche(62). Università e licei avevano notevolmente ampliato la presenza delle discipline scientifiche in senso stretto, pur rifacendosi alla continuità dell’istruzione classica: ne fa testo la struttura data al liceo «S. Caterina» di Venezia (oggi «Marco Foscarini»), abilmente organizzato dal suo primo provveditore, il fisico e matematico Antonio Traversi, con un eccellente gabinetto di fisica, secondo solo a quello universitario di Padova, un laboratorio di scienze naturali, un orto botanico, un archivio e una biblioteca di quindicimila volumi, proveniente dalle scuole dei Gesuiti, già chiuse dalla Serenissima, e da diversi monasteri soppressi(63). Privilegiando l’aspetto scientifico anche nella formazione scolastica, l’Austria perseguiva sempre lo stesso obiettivo, allentare cioè quel rapporto tra cultura e politica che gli imperatori, da Francesco a Ferdinando, intuivano come pericoloso per la stabilità della loro presenza in Italia. Sarà per lo stesso motivo che agli scienziati sarà consentito, dal 1839 al 1847, di ritrovarsi annualmente, al di là delle barriere nazionali, per discutere dotte questioni, cosa che agli intellettuali di stampo umanistico — ritenuti più pericolosi — non sarà concesso, nonostante nelle assise degli scienziati si respirasse analogo clima di fronda liberale e antiaustriaca.
L’unica eccezione a questa impostazione, almeno fino alla fondazione dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti (1838), è costituita dall’Ateneo Veneto; è qui che la cultura umanistica mantiene un’indubbia prevalenza: basta scorrere gli argomenti delle memorie di quegli anni per rendersene conto. Ma è anche qui che si può trovare una mediazione tra scienza e politica, grazie agli interventi sui lidi e i pozzi artesiani, più volte proposti in quegli anni. La composizione dell’accademia, dopo il biennio iniziale, sancisce la giusta divisione tra scienze e lettere, eguale il numero di soci, progressivamente ampliato a una ventina di membri nel corso degli anni successivi. Se tra i letterati, professori e artisti sono equamente distribuiti, nella classe scientifica prevalgono medici e chirurghi — in genere la metà dei soci — seguiti da chimici e fisici naturalisti (il 25%), ingegneri e architetti. Di conseguenza anche il tenore delle memorie rispecchia questa divisione con il prevalere di studi su ogni tipo di febbre influenzale, patologia clinica o forma di pellagra, nei quali tuttavia le invenzioni importanti passavano quasi inosservate. È il caso, ad esempio, delle analisi operate sulle acque termali di Monte Ortone da Eusebio Valli, dei primi lavori del chimico Bartolomeo Bizio, o degli studi di Domenico e Antonio Galvani; ma è soprattutto il caso di Luigi Magrini, professore di fisica e matematica nel liceo veneziano, che nel 1837 escogita, senza riscuotere successo, un sistema telegrafico d’avanguardia(64). In generale, tuttavia, tra le circa trenta memorie annue, quelle di interesse scientifico non superano il 35-40% del totale.
Non era difficile trovare, tra i soci, gli ultimi interpreti di quel sapere enciclopedico che aveva fatto proseliti proprio a Venezia, qualche decennio prima. Marco Antonio Corniani degli Algarotti(65), ad esempio, era in grado di passare con facilità e identica predisposizione dalla direzione delle miniere di Agordo alla guida del Museo Correr, dalla scienza metallurgica ai mosaici di S. Marco: animatore del IV congresso degli scienziati(66), a Padova, muore nel 1845, dopo aver presieduto a lungo la commissione, istituita nel 1833, «sull’argomento di formare in Venezia un pozzo trivellato […] con l’incarico di sminare le particolarità geologiche del suolo di Venezia, onde dedurne il mezzo più facile e meno dispendioso per la formazione di un pozzo artesiano». Ovvero studi di immediata e particolare attualità, dato il ritardo storico dei lavori per l’introduzione di un acquedotto in città, che ritornavano come una costante nei temi trattati dall’ingegner Emilio Campilanzi(67), anch’egli messosi in luce nella progettazione della ferrovia Ferdinandea: che illustrasse una ricerca sullo stato della laguna, parlasse delle cisterne per la raccolta dell’acqua o narrasse la storia degli approvvigionamenti idrici nella Dominante, Campilanzi non perdeva di vista il suo obiettivo. E nel 1843 depositava un progetto, assieme all’ingegnere civile Giovanni Cattaneo, troppo dispendioso per essere accolto. A riprova di questi interessi civili basti citare la memoria di un altro socio e ingegnere, grande protagonista degli studi di idraulica e della stessa Ferdinandea, il direttore generale delle pubbliche costruzioni Pietro Paleocapa, che interveniva, nel 1847, sulla Condizione idrografica della Maremma veneta e le bonificazioni di cui è suscettibile: pochi mesi dopo ritroveremo Paleocapa a fianco di Daniele Manin, ministro dei Lavori pubblici del governo repubblicano(68).
Nello stesso numero della pubblicazione dell’Ateneo, il socio corrispondente Daniele Manin e il socio ordinario Giovanni Francesco Avesani affidavano alle pagine della rivista quanto aveva fatto oggetto di altrettante relazioni, rispettivamente il 17 giugno 1847 «per migliorare il commercio di Venezia», il primo; l’8 luglio, il secondo, «intorno al principio proclamato dal Cobden», sulla spinta dell’arrivo in città dell’economista inglese, campione del liberismo, reduce vittorioso, in patria, dalla battaglia per l’abolizione del dazio sul grano. Anche Niccolò Tommaseo sarebbe salito alla ribalta dell’Ateneo, il 30 dicembre 1847: discorrendo Dello stato presente delle lettere italiane, avrebbe trovato pretesto per dimostrare come la censura stesse in realtà penalizzando la crescita culturale dell’intero paese(69).
A saldare l’antica dicotomia tra scienza e politica aveva contribuito anche un’opera monumentale come Venezia e le sue lagune, edita da Giuseppe Antonelli per conto del Comune e offerta come guida storico-artistica a oltre un migliaio di partecipanti del IX congresso degli scienziati italiani, apertosi a Palazzo Ducale il 13 settembre 1847(70). Rivisitando la storia, il diritto, l’arte e la cultura, soprattutto attraverso i contributi di Agostino Sagredo e dello stesso Manin, la guida offriva una rilettura del mito e della storia della Serenissima forte di un’interpretazione puntuale che, evitando le trappole della nostalgia e del rimpianto, lasciava spazio agli inevitabili raffronti col tempo presente, senza alimentare la dirompente leggenda nera che il gusto romantico del tempo, invece, avrebbe amplificato a dismisura(71). A fianco di queste discipline, Venezia e le sue lagune dedicava 340 delle sue 1.721 pagine — meno di un quinto — a importanti interventi di taglio scientifico in senso stretto, tra cui quelli del botanico Giovanni Zanardini, del naturalista Giovan Domenico Nardo e del medico Giacinto Namias, a lungo segretario della classe di scienze dell’Ateneo.
La borghesia veneziana aveva trovato dunque altre palestre per cimentare la propria vocazione alla politica, approfittando delle occasioni che le si erano prospettate per attirare verso di sé, e agganciarli, quegli strati di popolazione, maggiormente elevati, per lignaggio e censo, o inferiori, che le erano naturalmente distanti. Furono luoghi sempre ufficiali, come l’Ateneo Veneto o la comunità ebraica, la Società Commerciale o le assise scientifiche, spesso istituzionali, come la Camera di commercio, la ferrovia Ferdinandea, le aule dei tribunali, quasi mai governativi, se si esclude qualche dipartimento minore o gli assessorati municipali.
La vicenda di Daniele Manin è, anche da questo punto di vista, esemplare. Discendente di ebrei convertitisi al cristianesimo, padrino l’ultimo doge Ludovico Manin del quale — come si usava — la famiglia aveva assunto il cognome, il giovane avvocato aveva fatto fortuna, dopo gli stentati avvii mestrini, patrocinando, come Avesani, le cause della Ferdinandea. Aveva quindi ripetutamente rivolto le proprie attenzioni al rilancio delle attività mercantili della città e al recupero, in chiave storica, dell’identità giuridica veneziana, sapientemente opposta al diritto imperiale. Su questa linea aveva finito per trovare sostenitori ovunque, nei ceti imprenditoriali e nelle classi colte, diventando portavoce di democratici e moderati, della Camera di commercio e della comunità ebraica, che a lui affidarono istanze, tra la fine del ’47 e l’inizio del ’48, pochi giorni prima dell’arresto, suo e di Tommaseo, avvenuto il 18 gennaio. Lentamente, in carcere, vincendo le resistenze dello stesso letterato dalmata, Manin avrebbe abbracciato la linea rivoluzionaria, saldando gli interessi della borghesia con quelli della popolazione cittadina e diventando il capo indiscusso del movimento, mentre ogni giorno giungevano, anche a Venezia, le notizie sulle insurrezioni in ogni parte d’Italia e d’Europa, sino a quella, definitiva per le sorti dei due reclusi, di Vienna. Come ben testimonia, iconograficamente, il grande dipinto di Napoleone Nani(72), la liberazione di Manin e Tommaseo sanciva d’un lato la piena adesione del popolo all’evento rivoluzionario, dall’altro l’assunzione, da parte della borghesia, di una leadership ormai irrinunciabile, anche se non ancora definitiva(73).
1. Su questi temi cf. Michele Gottardi, Il trapasso, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 85-101, e Piero Del Negro, La memoria dei vinti. Il patriziato veneziano e la caduta della Repubblica, in L’eredità dell’Ottantanove e l’Italia, a cura di Renzo Zorzi, Firenze 1992, pp. 351-370.
2. Lodovico Manin, Memorie del dogado, a cura di Attilio Sarfatti, Venezia 1886 (ora in Al servizio dell’‘amatissima patria’. Le memorie di Lodovico Manin e la gestione del potere nel Settecento veneziano, a cura di Dorit Raines, Venezia 1997).
3. Su Balbi (nato nel 1757), cf. Gianfranco Torcellan, Balbi, Alessandro, in Dizionario Biografico degli Italiani, V, Roma 1963, pp. 358-359.
4. Alessandro Balbi, Memoria stampata di Alessandro Balbi patrizio veneto a Sua Maestà sulle disposizioni da darsi nel governo dei nuovi stati austro-veneti, s.n.t., pp. V-VII. Essa risale probabilmente al 1802, data in cui Balbi fu introdotto a Vienna, alla presenza dell’allora Francesco II (poi I, dopo il 1806 e la rinuncia al titolo di imperatore del Sacro Romano Impero). Torcellan la dice perduta: introvabile nelle biblioteche, ne esiste una copia in Wien, Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Kaiser Franz Akten, c. 23, inserita in carte datate 1801-1802.
5. I progetti del cancelliere aulico Alois di Ugarte e successivi, in A.S.V., Prima dominazione austriaca, Governo generale, Atti Bissingen, b. 3, fasc. 616, 26 luglio 1804; b. 135, fascc. 16 e 315, febbraio-marzo 1805. Su questi temi cf. Renzo Derosas, Dal patriziato alla nobiltà. Aspetti della crisi dell’aristocrazia veneziana nella prima metà dell’Ottocento, in Les noblesses européennes au XIXe siècle. Atti del convegno, Roma 1988, pp. 333-363. Per le patenti del 7 novembre 1815 (notificate a Venezia il 28 dicembre successivo), cf. la Collezione di leggi, avvisi, sentenze, notificazioni […] e di tutte le altre carte derivanti dalle autorità di questa centrale e suo dipartimento (cominciate dal primo gennaio di quest’anno 1815), IV, Venezia 1816, pp. 218-220.
6. Cf. La convocazione degli ecc. NN. HH. patrizi veneti fatta per ordine di S.M. Francesco II imperatore nella sala del Gran Consiglio, il dì 23 febbraio 1798, s.n.t.: il giuramento avvenne il 25, nelle mani di Wallis e Pellegrini, da parte di dodici deputati eletti tra i novecentosette presenti due giorni prima. La domenica successiva, 4 marzo, il rito riguardò tutti i capifamiglia delle province austro-venete, davanti a parroci e notai.
7. Alessandro Balbi, Qual esser dovrebbe il destino politico degli stati veneti, Udine 1814, pp. 7-12, 80-84; su Balbi e la questione del giuramento v. Giovanni Pillinini, Il sentimento filoasburgico nel Veneto agli inizi della seconda dominazione austriaca, in Il Lombardo-Veneto (1815-1866) sotto il profilo politico, culturale, economico-sociale. Atti del convegno, a cura di Renato Giusti, Mantova 1977, pp. 50-52 (pp. 47-64). Sulle posizioni di Bembo era anche Michele Battagia, Della nobiltà patrizia veneta, Venezia 1816.
8. Andrea Leonardi, L’opera di un cameralista italiano. L’economia dell’Austria teresiana e le sue potenzialità nell’elaborazione di Antonio Pellegrini, in Österreichisches Italien-Italienisches Österreich? Interkulturelle Gemeinsamkeiten und nationale Differenzen vom 18. Jahrhundert bis zum Ende des Weltkrieges, a cura di Brigitte Mazohl Wallnig-Marco Meriggi, Wien 1999, pp. 411-498.
9. Tra le sue opere un poema allegorico antifrancese, Venezia tradita, s.n.t. [ma Venezia 1803], che nel 1806, per paura di rappresaglie, darà alle fiamme salvandone pochi esemplari, oltre a biografie di dogi e letterati veneti, poemi storici e l’inedita Istoria politica di Venezia dal 1761 al 1816 (Venezia, Archivio Privato Giustiniani). Su di lui cf. la commemorazione tenuta all’Ateneo Veneto, il 16 giugno 1814, da Bartolomeo Gamba, Narrazione intorno alla vita e alle opere di Girolamo Ascanio Molin, Venezia 1815.
10. Sull’intervento di Pellegrini, sui personaggi citati da qui in avanti e più diffusamente sul primo governo austriaco, cf. Michele Gottardi, L’Austria a Venezia. Società e istituzioni nella prima dominazione austriaca (1798-1806), Milano 1993.
11. L’intervento manoscritto di Troilo Malipiero (La voce della verità, ossia esposizione imparziale di fatti sullo stato attuale civile ed economico di Venezia, con alcune riflessioni sopra di essi umiliate a S.E. barone di Mailath), databile 1801, è in A.S.V., Governo generale, Atti Pellegrini, b. 1. Su Malipiero (1771-1829), autore di opere morali e teatrali, cf. Giovanni Battista Contarini, Menzioni onorifiche de’ defunti, scritte nel nostro secolo ossia raccolta cronologica alfabetica di necrologie, biografie, prose e poesie […], I-II, Venezia 1845-1846: I, pp. 146-147.
12. Su questi temi cf. anche Alfredo Viggiano, Da patrizi a funzionari. Classe di governo e pratica degli uffici a Venezia nella prima dominazione austriaca, in Dopo la Serenissima. Società, amministrazione e cultura nell’Ottocento veneto, a cura di Donatella Calabi, Venezia 2001, pp. 349-362.
13. L’Informazione è in Wien, Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Kaiser Franz Akten, fasc. XXIX, c. 22.
14. Su ordine pubblico e polizia, cf. M. Gottardi, L’Austria a Venezia, pp. 177-208; sui professori e l’università, cf. ibid., pp. 272-277.
15. Per un quadro più dettagliato, anche dal punto di vista bibliografico, v. ibid., pp. 268-269.
16. Francesco Apostoli, Le lettere sirmiensi per servire alla storia della deportazione de’ cittadini cisalpini in Dalmazia ed Ungheria, riprodotte e illustrate da Alessandro D’Ancona, colla vita dell’autore scritta dal prof. Guido Bigoni, Roma-Milano 1906.
17. Su Pesaro e le sue vicende, v. ibid., pp. 31-41. È noto il giudizio della corte sul suo operato: «non fece che del male, e durò soli 40 giorni per il bene dell’Augusto Padrone» (Informazione, c. 10). Quanto all’episodio legato al progetto del monumento funebre nella basilica di S. Marco, commissionato ad Antonio Canova e mai eseguito per il mancato conseguimento del numero minimo di sottoscrizioni, esso testimonia, pur in un’opinione pubblica che espresse innumerevoli orazioni funebri alla memoria del commissario, la volontà di andare oltre, dimenticando in fretta quello che poteva diventare il simbolo più triste del tramonto della Serenissima.
18. Alvise Maria Querini Stampalia (1758-1834), consigliere del camerale, prefetto napoleonico nel 1809. Angelo I Giacomo Giustinian Recanati (1757-1813), vicepresidente del camerale, rappresentava l’ala più orgogliosa del patriziato. Dopo un’intensa carriera sotto la Serenissima, era stato protagonista di un celebre scontro col Bonaparte, a Treviso, nei giorni caldi del ’97. Resterà consigliere del magistrato camerale sino al 1803, per poi ritirarsi.
19. Segretari del senato, del consiglio dei dieci o nelle ambasciate patrizie, residenti nelle corti estere, essi erano anche uomini di cultura: Gradenigo possedeva una biblioteca di ventimila volumi, Giacomazzi lasciò interessanti memorie inedite. Cf. Michele Gottardi, Giuseppe Giacomazzi, testimone di un’età ‘memorabile’, in Studi in onore di Marino Berengo, a cura di Livio Antonielli-Carlo Capra-Mario Infelise, Milano 2000, pp. 716-729.
20. Sulle carriere del personale non veneziano, cf. M. Gottardi, L’Austria a Venezia, pp. 41-69.
21. L’Istruzione è in Wien, Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Kaiser Franz Akten, c. 20; A.S.V., Governo generale, Atti Bissingen, b. 69, fasc. 177.
22. A.S.V., Governo generale, Atti Bissingen, b. 138, fasc. 590, 10 e 23 aprile 1805.
23. Andrea Zannini, Un personaggio metafisico: la borghesia veneziana nel secondo Settecento, in L’area alto-adriatica dal riformismo veneziano all’età napoleonica, a cura di Filiberto Agostini, Venezia 1998, pp. 177-198.
24. Sulle vicissitudini legate alla determinazione dei confini nell’area storica del Dogado, cf. Archivi delle vice-prefetture di Chioggia e di San Donà (poi di Portogruaro), a cura di Piero Scarpa, Venezia 1987, e Franco Rossi, Portogruaro 1797-1814. Appunti per una ricerca, in Portogruaro nell’Ottocento. Contesto storico e ambiente sociale, a cura di Ruggero Simonato-Roberto Sandron, Portogruaro 1995, pp. 38-43.
25. Su Serbelloni e Galvagna, cf. Livio Antonielli, I prefetti dell’Italia napoleonica. Repubblica e Regno d’Italia, Bologna 1983, pp. 286-290, 532.
26. L’elenco dei primi consiglieri dipartimentali, a Venezia, registra una schiacciante prevalenza di patrizi — ventisei su quaranta — su vecchi e nuovi borghesi. Tra i primi, le famiglie e gli esponenti più autorevoli dell’aristocrazia, dai Querini ai Manin, da Gritti a Gradenigo, nei secondi rappresentanti del ceto imprenditoriale, professionale e intellettuale, da Jacopo Monico a Francesco Mengotti, dal dottor Aglietti a Raffaele Vivante, da Francesco Revedin a Tommaso Gallino.
27. L. Antonielli, I prefetti, pp. 289-290. Se Niccolò Guido (nato nel 1761, morirà dopo il 1837, anno in cui è nominato gran scudiere del Regno lombardo-veneto) poteva contare sugli oltre 286 ettari posseduti nel basso Piave, il fratello Niccolò Andrea (1759-1819), di dichiarata fede asburgica, con i suoi 870 ettari poteva essere sicuramente considerato uno dei grandi proprietari del Trevigiano: cf. Giorgio Scarpa, Proprietà e impresa nella campagna trevigiana all’inizio dell’Ottocento, Venezia 19812, p. 80.
28. L. Antonielli, I prefetti, pp. 310-315 (Mocenigo) e pp. 398-401, 533-534 (Querini).
29. Paolo Preto, Un ‘uomo nuovo’ dell’età napoleonica: Vincenzo Dandolo, politico e imprenditore agricolo, «Rivista Storica Italiana», 97, 1985, pp. 44-97; Id., Dandolo, Vincenzo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 511-516; Michele Gottardi, Echi veneziani della perdita di Istria e Dalmazia (1797-1809), in L’area alto-adriatica dal riformismo veneziano all’età napoleonica, a cura di Filiberto Agostini, Venezia 1998, pp. 501-503 (pp. 493-503).
30. Michele Gottardi, Vicende e destini dei protagonisti politici, in Venezia e l’esperienza ‘democratica’ del 1797, a cura di Stefano Pillinini, Venezia 1997, pp. 141-152.
31. La delegazione era composta da quattordici persone, provenienti dai sette dipartimenti veneti. Per il dipartimento dell’Adriatico vi erano i patrizi Francesco Pisani e Leonardo Giustinian, e il rappresentante del ceto mercantile Antonio Revedin.
32. Notizie diverse su Renier in Sergio Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946. L’istituzione, il territorio, guida-inventario dell’Archivio Municipale, Venezia 19872, p. 69; Marco Meriggi, Amministrazione e classi sociali nel Lombardo-Veneto (1814-1848), Bologna 1983, pp. 115-116, 216-219; Giandomenico Romanelli, Venezia Ottocento. L’architettura, l’urbanistica, Venezia 19882, pp. 37-54, 102-115; Antonio Zanolini, Antonio Aldini ed i suoi tempi, II, Firenze 1867, pp. 63-70, 146-155; Alvise Zorzi, Venezia austriaca 1798-1866, Roma-Bari 1985, pp. 25-26, 37, 242-248.
33. S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 69.
34. Giacomo Nani, Saggio politico del corpo aristocratico della Repubblica di Venezia per l’anno 1756, in Padova, Biblioteca Universitaria, ms. 914.
35. G. Scarpa, Proprietà e impresa nella campagna trevigiana, p. 81, e Giovanna Trevisan, Proprietà e impresa nella campagna padovana all’inizio dell’Ottocento, Venezia 1981, pp. 79, 85.
36. Carlo Zaghi, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, Torino 1986 (Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XVIII/1), pp. 355-357 e 497.
37. Notizie biografiche intorno al conte Giuseppe Maria Giacomazzi ed alcuni suoi opuscoli, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 3577. Giacomazzi era figlio di Angelo Maria — a sua volta figlio dell’omonimo segretario del consiglio dei dieci — e di Aurelia Maria Corner.
38. Col consueto paternalismo, la cancelleria viennese giustificherà l’adesione al Regno italico di Giacomazzi, di cui era nota l’appartenenza alla massoneria, perché «spinto dal bisogno»: Wien, Haus-, Hof-und Staatsarchiv, Vertrauliche Akten, fasc. 78, c. 50. Morirà a 91 anni: cf. il necrologio di Emmanuele Antonio Cicogna nella «Gazzetta Privilegiata di Venezia» del 14 dicembre 1843.
39. M. Gottardi, Giuseppe Giacomazzi, pp. 726-729.
40. Id., L’Austria a Venezia, pp. 85-90; Jacopo Bernardi, Mengotti, Francesco, in Biografia degli italiani illustri nelle scienze lettere e arti del secolo 18° e de’ contemporanei compilata da letterati italiani d’ogni provincia, a cura di Emilio de Tipaldo, I-X, Venezia 1834-1845: IX, pp. 117-146.
41. Stuart Woolf, Napoleone e la conquista dell’Europa, Roma-Bari 1990, pp. 134-135.
42. Gli interventi di Vanautgarden, in A.S.V., Magistrato Camerale, b. 115, fasc. 422, 26 maggio 1801 e allegati; cf. anche Wien, Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Staats;kanzlei, Provinzen Lombardo-Venetien, c. 32; Francesco Jacopo Tommasini, Riflessioni sommarie d’un negoziante sul modo di sottrarre il commercio e la marina ex-veneta da ulterior decadenza e sui mezzi di condur l’uno o l’altra a considerabile ingrandimento, Venezia 1801.
43. Marino Berengo, Le origini del Lombardo-Veneto, «Rivista Storica Italiana», 83, 1971, pp. 525-544.
44. M. Meriggi, Amministrazione e classi sociali, pp. 215-228. Nelle province i posti di rilievo erano spesso appannaggio di sudditi delle province ereditarie — magari di lingua italiana, come i trentini — ma non lombardi. Pur in questo quadro di subalternità, attorno al 1827 si calcola che i dipendenti pubblici di Venezia fossero più di tremila, su una popolazione di poco superiore ai centomila abitanti, uno ogni trenta: Antonio Quadri, Atlante di LXXXII tavole sinottiche relative al prospetto statistico delle provincie venete, Venezia 1827, tavv. 19-20, pp. 51-56.
45. Il cardinale Giovanni Ladislao Pyrker (1772-1847) era patriarca di Venezia dal 1821. L’intervento venne formulato in qualità di presidente della commissione di beneficenza e consegnato all’imperatore, durante la sua visita, nell’agosto del 1825: copia della relazione in Venezia, Museo Correr, ms. P.D. 452, c. 53; cf. G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 136-147; Giovanni Ladislao Pyrker, Mein Leben, in La visita pastorale di Giovanni Ladislao Pyrker nella diocesi di Venezia (1821), a cura di Bruno Bertoli-Silvio Tramontin, Roma 1971, pp. 199-210 (pp. 192-216).
46. Sull’economia veneziana sino all’Unità, cf., in questo stesso volume, il saggio di Adolfo Bernardello.
47. Angelo Papadopoli (1772-1833), originario di Corfù, aveva impiantato un esercizio commerciale in Venezia sin dal 1788, continuando a trafficare con l’isola del Levante, dove era stato ascritto alla dignità nobiliare, entrando nel consiglio cittadino nel 1791. In seguito, i figli di Angelo, Spiridione (1799-1859) e Antonio (1802-1844), avevano irrobustito le loro attività, espandendosi nel campo delle assicurazioni e del credito, senza disdegnare le attività artistiche: il primo, mecenate non privo di un proprio senso artistico, sarà vicepresidente dell’Accademia di Belle Arti, il secondo, amico di Leopardi e Romagnosi, coltiverà un gusto letterario e filosofico di stampo romantico. La vicinanza a Manin e alla Repubblica da parte di Spiridione — membro dell’Assemblea permanente — non impedì a Francesco Giuseppe di elevarlo al titolo comitale nel 1856.
48. Della celebre casa di armatori, banchieri e assicuratori di Jacopo Treves de’ Bonfili (1788-1885) va qui solo ricordato, data la rinomanza della famiglia, che essa costituiva l’esempio più luminoso dell’emancipazione ebraica, dopo l’apertura del Ghetto, successiva al 1797. Barone del Regno italico, presidente della Camera di commercio, imprenditore a tutto campo con palazzo sul Canal Grande, Jacopo diventerà amico e protettore di Daniele Manin (sua la casa di S. Paternian abitata dall’avvocato sino alla rivoluzione del ’48), senza subire, al pari dei Papadopoli, alcuna censura o restrizione al rientro degli austriaci: il denaro, com’è noto, non ha odore. Notizie su di lui e i protagonisti del ’48 in Pietro Rigobon, Gli eletti alle Assemblee veneziane del 1848-49, Venezia 1950, passim, e, in questo stesso volume, Gadi Luzzatto Voghera, Gli ebrei, passim.
49. Considerazioni analoghe ai precedenti vanno fatte per Giuseppe Maria Reali (1801-1869), anche se nella sua partecipazione alle Assemblee del 1848-1849 adottò poi la linea di Jacopo Castelli, ovvero quella della fusione con il sabaudo Regno dell’Alta Italia, che lo portò a entrare nel suo governo e a dissociarsi da Manin e Tommaseo prima dell’agosto del ’49. Presidente della Camera di commercio, aveva fatto fortuna con zucchero, cera e cremor di tartaro, tutti stabilimenti nei quali usava metodi d’avanguardia, come nella fabbrica di mattoni e nella filanda che aveva in terraferma. Vicepresidente della ferrovia Ferdinandea, collezionista d’arte, riceverà molti incarichi pubblici anche negli anni Cinquanta e con essi la nobiltà imperiale: cf. G. Luzzatto Voghera, Gli ebrei, e Giovanni Battista Contarini, Menzioni onorifiche dei defunti ossia raccolta di lapidi, necrologie, poesie […], Venezia 1869, pp. 39-43.
50. Valentino Comello († 1864) non aveva invece da esibire quarti di nobiltà o servizi all’Impero, eppure questo negoziante di grano aveva ben capito l’importanza delle strategie parentali, sposando Anna, sorella di Spiridione Papadopoli, e imparentando allo stesso modo il figlio Angelo con la contessa Maddalena Montalban, nobile di Conegliano. Tutta la famiglia fu coinvolta nell’avventura di Manin: Valentino e l’altro figlio Giuseppe (1824-1873) eletti alle Assemblee, Angelo — membro del comitato di pubblica sorveglianza e repubblicano convinto — entrò nella lista di quaranta proscritti emessa dall’Austria al rientro. Gli eredi saranno nobilitati solo nel 1899.
51. Pietro Bigaglia (1786-1876) discendeva da un’antica famiglia di vetrai di Murano, ma a differenza dei suoi antenati non si era limitato solo a produrre l’antica specialità veneziana, impegnandosi nel ricercare moderne tecniche di lavorazione che lo avrebbero reso ricco e famoso: dalle perle soffiate «a lume» ai mosaici, dagli smalti alla «venturina», una pietra trasparente, tempestata di pagliette d’oro. Vicepresidente della Camera di commercio, membro della ferrovia Ferdinandea e delle Assicurazioni Generali, filantropo, eletto alle Assemblee del ’48-’49, verrà insignito della croce di cavaliere da Francesco Giuseppe, nonostante, nel marzo 1854, la polizia avesse trovato, nei suoi magazzini, 2.500 libbre di perline bianche, rosse e verdi, inequivocabile segno di una fede patriottica non sopitasi all’indomani del ’49. Cf. A. Zorzi, Venezia austriaca, pp. 257-258.
52. Fisola (1796-1887), di umili origini, aveva fatto fortuna gestendo l’appalto di opere idrauliche e foranee: dighe, apertura della bocca di porto di Malamocco, con i cui fanghi di riporto creerà la Sacca che ne porta il nome, all’estremità occidentale della Giudecca. Durante il governo repubblicano, fu eletto nelle Assemblee e ottenne altri appalti per il trasporto dei militari per mezzo dei suoi burchi, che utilizzava per traghettare i viaggiatori tra Marghera e il centro storico, ma il suo progetto più celebre è legato alla nascita degli stabilimenti dapprima — abortiti — in Canal Grande, quindi — riusciti — al Lido, che avviò e cedette alla società che li avrebbe destinati al grande turismo balneare: cf. G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 329-337; Andrea Zannini, Vecchi poveri e nuovi borghesi. La società veneziana nell’Ottocento asburgico, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 189-191 (pp. 169-194).
53. Adolfo Bernardello, Veneti sotto l’Austria. Ceti popolari e tensioni sociali (1840-1866), Verona 1997.
54. Giampietro Berti, Censura e circolazione delle idee nel Veneto della Restaurazione, Venezia 1989, pp. 1-16.
55. Cf., in questo volume, il saggio di Andrea Zannini.
56. Sulla questione del diritto sorta all’inizio del primo governo austriaco, Gaetano Cozzi, Fortuna, o sfortuna, del diritto veneto nel Settecento, in Id., Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 393-410; M. Gottardi, L’Austria a Venezia, pp. 70-77; sul caso istriano, Id., L’amministrazione della giustizia in Istria nel primo governo austriaco: 1797-1805, «Acta Histriae», 4, 1996 (atti del convegno «Aspetti dell’amministrazione della giustizia in Istria», Koper-Capodistria). Sul diverso atteggiamento successivo degli avvocati veneziani, v. Michele Simonetto, Appunti su mito del buongoverno aristocratico, liberalismo e giuristi veneziani dell’Ottocento, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 419-429.
57. A. Zorzi, Venezia austriaca, p. 254.
58. Antonio Quadri, Prospetto statistico delle provincie venete, Venezia 1826, pp. 44-50, e Id., Atlante, tavv. 20-21, pp. 52-57; A. Zannini, Vecchi poveri e nuovi borghesi, pp. 180-184; Marino Berengo, Antonio Quadri e le statistiche venete della Restaurazione, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 391-407.
59. Su Angelo (1801-1881), figlio di Jacob Levi, e la sua attività patriottica, cf. P. Rigobon, Gli eletti, p. 133.
60. Ibid., passim; v. anche Il centenario delle Assicurazioni Generali (1831-1931), Trieste 1931.
61. Adolfo Bernardello, La prima ferrovia fra Venezia e Milano. Storia della imperial-regia privilegiata strada ferrata Ferdinandea lombardo-veneta (1835-1852), Venezia 1996.
62. Vincenzo Dandolo, Sulla pastorizia, sull’agricoltura e su vari oggetti di pubblica economia. Discorsi, Milano 1806; su questi temi, cf. La chimica e le tecnologie nel Veneto dell’800. VII Seminario di storia della scienza e della tecnica, a cura di Angelo Bassani, Venezia 2001, in partic. Michele Gottardi, Scienza e politica a Venezia nella Restaurazione, pp. 151-161.
63. Mario Isnenghi, I luoghi della cultura, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, pp. 233-238 (pp. 233-406).
64. Luigi Magrini, Telegrafo elettro-magnetico praticabile a grandi distanze immaginato ed eseguito da Luigi Magrini, Venezia 1838, un sunto nelle «Esercitazioni Scientifiche e Letterarie dell’Ateneo di Venezia», 3, 1839, pp. 78-79. V. gli interventi di Bartolomeo Bizio e di Eusebio Valli, ibid., 1, 1827, rispettivamente alle pp. 331-350 e 351-364; dello stesso B. Bizio e del figlio Giovanni, ibid., 5, 1846, rispettivamente alle pp. 16-17 e 55-56; per Domenico Galvani, cf. quanto riportato nella Sessione pubblica dell’Ateneo Veneto tenuta nel giorno 27 di novembre 1815, Venezia 1817, pp. 20-21 e nelle «Esercitazioni Scientifiche e Letterarie dell’Ateneo di Venezia», 3, 1839, pp. 132-133; quindi per il figlio Antonio, ibid., 2, 1838, pp. 151-174; 3, 1839, pp. 32-33; 5, 1846, pp. 15-16; 6, 1847, pp. 293-301.
65. Notizie su di lui in G.B. Contarini, Menzioni onorifiche de’ defunti, scritte nel nostro secolo, I, pp. 345-346.
66. Cf. il Diario della quarta riunione degli scienziati italiani convocati in Padova, nella seconda metà del settembre 1842, Padova 1842.
67. «Esercitazioni Scientifiche e Letterarie dell’Ateneo di Venezia», 2, 1838, pp. 91-101; 5, 1846, pp. 25-26; 6, 1847, pp. 209-225; cf. anche L’acquedotto di Venezia, a cura di Sergio Barizza-Susanna Biadene, Venezia 1984, pp. 13-15; A. Bernardello, La prima ferrovia, passim.
68. «Esercitazioni Scientifiche e Letterarie dell’Ateneo di Venezia», 6, 1847, pp. 243-272. Molte notizie sul rapporto tra Paleocapa (1788-1869) e la Ferdinandea in A. Bernardello, La prima ferrovia, passim. Direttore generale delle pubbliche costruzioni, dopo il ’48 Paleocapa fu ministro dei Lavori pubblici del Regno di Sardegna con D’Azeglio e Cavour; a Venezia tornò nel 1867 per progettare il porto e la nuova stazione ferroviaria: cf. Contributi su Pietro Paleocapa 1788-1869, a cura di Maria Francesca Tiepolo, Venezia 1988.
69. Interventi e verbali di quelle sedute sono stati ristampati dall’Ateneo Veneto in appendice a Venezia suddita 1798-1866, a cura di Michele Gottardi, Venezia 1999, pp. 129-146. Su Manin (1804-1857) tuttora esaustivo è lo studio di Paul Ginsborg, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49, Milano 1978, come su Tommaseo (1802-1874) ancora valida è la biografia di Raffaele Ciampini, Vita di Niccolò Tommaseo, Firenze 1945. Su Avesani (1790-1861), P. Rigobon, Gli eletti, pp. 10-21, e Giovanni Gambarin, Avesani, Giovanni Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, IV, Roma 1962, pp. 670-671.
70. L’elenco completo dei partecipanti, molti dei quali citati in queste pagine, è nel Diario del IX congresso degli scienziati italiani e convocati a Venezia nel settembre 1847, Venezia 1847.
71. M. Gottardi, Il trapasso, pp. 96-101; Mario Infelise, Intorno alla leggenda nera di Venezia nella prima metà dell’Ottocento, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 309-321; nonché il saggio dello stesso autore in questi volumi.
72. Napoleone Nani, Manin e Tommaseo liberati dal carcere sono portati in trionfo in piazza San Marco (cm 252 x 357), 1876, Fondazione Querini Stampalia, Venezia. Pur nella retorica celebrativa, il realismo della tela testimonia come Manin, in primo piano, e Tommaseo, sullo sfondo, siano portati a spalla, assieme, da proletari e borghesi, donne del popolo e bambini, pescatori scalzi e avvocati in marsina e cilindro. Il fatto avvenne il 17 marzo: cinque giorni dopo, con la resa del governatore Pálffy e del comandante Zichy iniziava la Repubblica veneta.
73. La composizione delle assemblee elette nei diciassette mesi di governo (P. Rigobon, Gli eletti, pp. XXXIX-XLVIII) testimonia come la partecipazione della borghesia non sia stata assoluta, e nemmeno maggioritaria. Su 268 eletti, 130 dei quali veneziani, industriali, commercianti, banchieri e armatori oscillavano tra il 12% in città e l’8% del totale, che comprendeva anche una porzione di terraferma, dietro le lagune; ufficiali, impiegati e funzionari pubblici, magistrati rappresentavano rispettivamente il 23% e il 17%; la borghesia professionale (avvocati, notai, farmacisti, medici, insegnanti, giornalisti, ecc.) costituiva il 32% degli eletti in città, il 27% del totale; religiosi e rabbini, omogeneamente, oscillavano sul 14-15%, mentre aristocratici e rentiers trovavano maggior rappresentanza dalla terraferma: 14,5% in città contro il 22 % del totale (altri, 4-9%); ho in parte rielaborato i dati forniti da A. Zannini, Vecchi poveri e nuovi borghesi, pp. 188-190.