Da patria a nazione
Il termine «patria» deriva dall’espressione latina terra patria, che in origine avrebbe designato eminentemente un vincolo giuridico-patrimoniale, ovvero la terra ereditata dai propri antenati. Lo sviluppo della civiltà romana comportò quindi la maturazione semantica di questa espressione, e la «terra dei padri» divenne sinonimo di luogo natìo, di città o territorio di origine dei propri antenati; un legame di maggiore complessità rispetto al passato, che cioè sottintendeva anche vincoli di natura culturale, politica e affettiva: la patria come emblema della propria stessa identità, fonte dei valori e delle pratiche culturali, sociali e religiose trasmesse intergenerazionalmente (mos patrius, sermo patrius ecc.), ma anche contrassegno di appartenenza civica e cioè attributo capace di generare un forte sentimento di identificazione con il sistema normativo-istituzionale su cui la patria era fondata. Sul piano ideologico-affettivo questa forma di devozione verso la patria (da cui discendeva la spontanea propensione a battersi per la sua conservazione e il suo accrescimento) può essere considerata il primo germe del patriottismo. Gli scrittori latini testimoni delle guerre civili o vissuti all’inizio dell’età imperiale (Virgilio, Orazio, Seneca), che per primi accolsero e trasmisero questa più ampia idea di patria, attinsero anche al pensiero greco classico. I greci si erano variamente interrogati sulla nozione di polis, giungendo a formulare l’equazione «patria-città», già presente in Tirteo (7° sec. a.C.).
In numerosi autori del 4-5° sec. l’attributo di cittadinanza era stato quindi utilizzato come sinonimo di appartenenza a una specifica comunità politica, depositaria di un patrimonio culturale, giuridico ed economico che tutti i cittadini erano chiamati a difendere e ampliare, pure mediante il ricorso alle armi (le guerre contro i persiani, i conflitti del Peloponneso). Questa nozione di patria aveva improntato anche l’Apologia di Platone, opera in base alla quale Socrate scelse di non sottrarsi alla morte per ribadire l’alto valore del legame da lui contratto con Atene. L’età ellenistica (3°-1° sec. a.C.) aveva quindi attenuato o addirittura spento tale concetto di polis, proponendone il superamento a favore di una visione cosmopolitica (la koinè greco-asiatica come forte dilatazione e anzi dissoluzione dei confini politici e culturali della patria ellenica). Nella Roma imperiale il termine patria continuò pertanto a esprimere il concetto di ristretta comunità originaria, dai caratteri socioculturali ben definiti (accezione cui allude ancora il celebre epitaffio virgiliano, in cui Mantua si connota come terra patria del poeta), ma accanto a questa lettura se ne affermò una seconda, quella di «grande patria», coincidente con la stessa idea di Roma (città che aveva inglobato e unito innumerevoli popoli, impero dalla missione universale). È il concetto (e il mito) di Roma, patria per eccellenza di quanti godevano della cittadinanza romana, ma anche idea della sua libertà e della sua gloria come valore supremo (Virgilio). «Penso che esistano due patrie», notò anche Cicerone (1° sec. d.C.), «una di nascita, l’altra di cittadinanza» (De legibus, II). Questa seconda accezione del termine patria ha ormai acquisito piena solidità e risulta anzi prevalente nell’opera di Claudio Rutilio Namaziano (5° sec. d.C.), composta durante le prime invasioni barbariche, osservando il tramonto dell’Urbe (e del mondo classico); lo dimostra l’assenza di perifrasi e il forte vigore conferito all’autonomo sostantivo patria, che in questo autore (originario della Gallia) ha il significato univoco di impero romano. Il contemporaneo Agostino d’Ippona aveva frattanto intrapreso l’elaborazione del De civitate Dei (413-26), con l’intento di replicare alla lettura pagana della caduta di Roma (causata dalla discesa dei barbari e dalla diffusione del cristianesimo, anche nel giudizio di Namaziano). Il pensiero di Agostino è già preludio dell’Età medievale, e infatti la sua nozione di patria non aderisce tanto a un concetto terreno (politico, culturale), ma viene utilizzata eminentemente in relazione alla patria caelestis, a quel regno di Dio che solo la dottrina teologica successiva (di impronta scolastica) sarebbe tornata ad ancorare al mondo sensibile (proponendo la patria caelestis come modello delle diverse comunità politiche erette dall’uomo). Il recupero della tradizione anche pagana (Cicerone) operato da Tommaso (13° sec.) risponde appunto all’intento di sacralizzare, ora in chiave cristiana, l’idea di patria, comunità politica (genericamente) verso cui il cristiano deve mostrare rispetto (pietas), devozione (cultus) e ubbidienza (officium), perché la patria è dono di Dio e riflesso terreno della sua grandezza. Nel corso della prima Età medievale, anche l’idea di patria come «comunità originaria» (piccola patria, terra degli avi ecc.) venne recuperata e rielaborata. L’evoluzione semantica dell’espressione germanica vaterland, attesterebbe infatti un processo di progressiva ricezione dell’eredità culturale romana, da parte dei popoli barbari. Con la nascita dei regni romano-barbarici tramonta l’originaria accezione di vaterland come clan (comunità di individui che non erano legati a una specifica terra, bensì uniti da vincoli di sangue) e si afferma quella di terra che appartiene alla propria stirpe. Lo sforzo politico-normativo compiuto dall’impero carolingio, appare in effetti improntato alla consapevolezza che si tratti di una terra conquistata dai propri antenati, i cui tratti distintivi sono ancora molto lontani dall’antico concetto latino di terra patria (territorio i cui caratteri risultavano invece plasmati dagli antenati, nel corso di innumerevoli generazioni). Non a caso in Eginardo (775-840), biografo di Carlomagno, l’oscillazione semantica tra patria e regno è frequente, sebbene il primo termine indichi in prevalenza i domini ereditati da Carlo e il secondo i domini da lui conquistati (o l’insieme degli uni e degli altri). Dalla legislazione carolingia al Liber Augustalis (1231), emanato a Melfi da Federico II, il disegno di ricostruzione di un impero con aspirazioni universalistiche implicò dunque l’integrale recupero e la rielaborazione dell’antica idea di patria. Il Sacro romano impero da un lato tornò a proporre la visione di «grande patria comune» (Cicerone, De legibus, III), un’entità politico-statuale (terrena, concreta), capace di unificare, sul piano culturale e istituzionale, terre e genti un tempo nemiche (molte «piccole patrie»), dall’altro trovò nell’attributo cristiano (e nella teologia medievale) nuove basi ideologiche a sostegno della propria vocazione universale. Un concetto per certi aspetti più dinamico in rapporto all’antico modello romano, perché le potenzialità espansive di questa «grande patria» erano virtualmente maggiori (la riconquista della Terra Santa e dei territori musulmani, e anzi il sogno di un impero coincidente con i confini delle terre emerse, perché il verbo di Dio era giunto ovunque). I cronisti e i poeti d’Età tardomedievale che presero coscienza dell’inapplicabilità di questo ambizioso disegno imperiale, dissolto a opera di poteri diversi (papato, civiltà comunali, feudalità e nuovi regni), guardarono a un diverso orizzonte. È soprattutto il caso di numerosi esponenti della letteratura e della storiografia italiana, interpreti di una nuova cultura borghese, fiorita tra gli incessanti conflitti di una penisola che si mostrava incapace di evolvere anche verso la dimensione di regno nazionale unitario (a differenza di Spagna, Francia e Inghilterra). Nella Commedia di Dante e nelle Istorie fiorentine di G. Villani (1276-1348), uno degli ultimi esponenti della storiografia medievale, il termine «patria» venne pertanto utilizzato in stretta aderenza allo scenario cittadino, alla propria città di origine e di cittadinanza, o meglio il concetto di «piccola patria» si connotò, in questi autori, di una nuova concreta pregnanza e di un forte sentimento politico, acquistando attributi che erano stati caratteristici dell’idea di «grande patria». Si pensi alla ferma e talora feroce condanna formulata, in entrambi i casi, nei confronti dei traditori di patria. D’altro canto le fonti notarili e amministrative (le patenti di cittadinanza, i diplomi di nobiltà) prodotte nei primi secoli dell’Età moderna (15°-17° sec.), attestano che le nozioni di patria e di cittadinanza non furono sempre affini e sovrapponibili o percepite come omologhe e coincidenti. È per esempio il caso di chi appartiene alle fila della mercatura internazionale, talora obbligato o interessato a definirsi sia in rapporto alla propria origine (mercator patria genuensis ecc.) sia in relazione a un’eventuale diversa nazionalità o grande area geografica di provenienza (civis neapolitanus, sudditus Hispaniae regis, natione italicus ecc.). La nozione di patria come luogo natìo (in specie territorio di piccole dimensioni, città), con il quale ci si identifica anzitutto sul piano genealogico e culturale, risulta dunque prevalente per gran parte dell’Età moderna e non sempre coincidente (per ragioni di ordine politico o culturale-affettivo) con quella di natione (Stato), concetto che può anzi risultare molto debole e talora assente. Così nel caso di molte culture contadine, in cui la patria è il villaggio, il paese o la valle in cui si nasce e si muore, mentre la natione è al più percepita come un’entità lontana e astratta, come somma di valori ambigui, oscuri e persino oppressivi, in specie sul piano fiscale e normativo. Lo sforzo compiuto dai massimi pensatori politici, e in specie dai teorici dello Stato moderno e dell’assolutismo monarchico, mira appunto a riavvicinare il concetto di patria a quello di natione (J. Bodin, 16° sec.), anche mediante il recupero della definizione di «padre della patria», attribuita al sovrano (titolo onorifico coniato dal senato romano per l’imperatore Augusto). Questa operazione fallì ove il ritorno al concetto di «grande patria» si era già rivelata ardua impresa (l’ipotesi di costruzione di una potente Lega italica, elaborata da N. Machiavelli). In alcuni manifesti politici elaborati durante la Rivoluzione napoletana del 1647, improntati al pensiero di Machiavelli al fine di teorizzare uno Stato repubblicano meridionale, i margini del concetto di patria si presenterebbero meno incerti che in passato, e cioè porrebbero con chiarezza il dilemma e l’ineluttabilità di una scelta: «per il re o per la patria» (R. Villari). Ben diversa è la posizione dei coevi pensatori olandesi e inglesi, interpreti di una cultura e di un sistema politico che invece erano prossimi a raggiungere importanti traguardi nazionali (la nascita della repubblica in Olanda, 1648, e della monarchia parlamentare in Inghilterra, 1688). Licenziando il suo Trattato politico (1675-76), l’olandese B. Spinoza (di origine portoghese ed ebraica) utilizza una nozione di patria che si lascia indubbiamente alle spalle quella di terra patria, per divenire piuttosto sinonimo di Stato e di legge, valori verso cui Spinoza esprime piena e immediata adesione. Nel quadro più ampio della cultura europea il concetto di patria smise di essere alternativo a quello di nazione, divenendo compiutamente e durevolmente coincidente con quest’ultimo, solo a partire dal 19° sec., epoca dell’affermazione dello Stato liberale borghese (anche in Italia e Germania). I maggiori fondamenti teorici di questo processo risalgono però al secolo precedente, alla lunga stagione inaugurata dall’Illuminismo e dal riformismo illuminato, e conclusa dalle rivoluzioni francese e americana e dall’età napoleonica. Per esempio nel giudizio di Voltaire (1694-1778), che si ispirò variamente alle opere dell’inglese J. Locke, la patria e la nazione potevano coincidere solo a opera di sovrani incapaci di derive assolutiste. Anche al contemporaneo A. Genovesi (1713-1769), filosofo ed economista, la nozione di patria appariva ormai meno chimerica (sul piano della concreta attuazione politica, all’incontro con l’idea di nazione), ma pur sempre molto articolata (ancora troppo condizionata dalla specificità culturale e politica italiana): «L’idea di patria […] è un’idea complessa, che abbraccia in sé il suolo nativo, l’amicizie contratte dalla figliuolanza, i sepolcri degli avi, i templi, e ’l pubblico culto, il governo, i magistrati, l’arti proprie, e i comodi di ciascun luogo» (Lezioni di commercio o sia di economia civile, 1765). L’osmosi tra questi due concetti (patria e nazione) si completa nell’età delle grandi rivoluzioni, da un lato quella francese (1789-99) che contrappose il regno (il potere monarchico) al binomio patria-nazione (i patrioti perseguirono l’obiettivo di abbattere il primo ed elevare il secondo, attraverso la nascita di una nuova nazione, patria di tutti i francesi), e d’altro canto la Rivoluzione americana, che implicò la rinuncia a ogni più antica idea di patria (la madrepatria inglese o i diversi territori d’origine dei coloni) e il varo di un originale modello politico, funzionale al governo di società complesse (un federalismo più evoluto di quello svizzero o olandese, cioè una «grande patria di Stati», non di cantoni o province). Nella definizione di Stati Uniti d’America, patria e nazione divennero concetti inscindibili, perché forgiati in uno stesso momento, per volontà del popolo americano. Non a caso le dottrine che tra 19° e 20° sec. elaborarono una concezione volontaristica della patria (alternativa alla nozione tradizionale, di tipo etnico-naturalistico) si confrontarono puntualmente con gli esiti più profondi dell’Illuminismo (J.-J. Rousseau), oltreché con il modello americano e napoleonico. Anche l’Europa napoleonica aveva rappresentato un importante esperimento politico, pur se marcato da forti ambiguità: da un lato l’esportazione di un’idea di patria-nazione (di un’Europa di patrioti e cittadini) che era stata consacrata dalla Rivoluzione francese (in nome della quale l’abbattimento delle tradizionali gerarchie politiche e sociali diveniva necessario e legittimo, e il principio volontaristico di affermazione della patria trionfava attraverso lo strumento plebiscitario), e d’altro canto la creazione di nuovi regni satellite della Francia, fondati su una nozione di patria alquanto artificiale, come il napoleonico regno d’Italia, o sul soffocamento delle tradizionali istanze patriottiche (granducato di Varsavia). Nel corso delle rivoluzioni liberali e dei processi di unificazione nazionale che scandirono il 19° sec., il concetto di libertà divenne invece inscindibile da quello di patria-nazione. «La patria è la casa dell’uomo, non dello schiavo», affermò G. Mazzini, secondo cui ogni uomo avrebbe ricevuto da Dio due missioni: patria e umanità. Quest’ultima corrisponde al disegno di una confederazione europea (di repubbliche) che non ammette, a differenza dell’Europa napoleonica, l’esistenza di una grand patrie egemone sulle altre, e tanto meno quella di innumerevoli «patrie negate» (o non libere). Per Mazzini, l’affermazione della patria (attraverso la nazione), cioè la sua liberazione (da poteri stranieri, dalle monarchie), spetta unicamente ai diversi popoli d’Europa, la cui identità è data dalla comunanza di lingua, storia, istituzioni, cultura, tradizioni. La nozione di patria, sia pur diversamente coniugata (in aderenza a diverse visioni politiche: monarchica, repubblicana), acquistava dunque un nuovo pathos religioso, e nel 19° sec. ogni nazione europea divenne compiutamente patria, «e la patria la nuova divinità del mondo moderno» (F. Chabod). A questo ennesimo processo di sacralizzazione della patria diedero un contributo ulteriore i regimi totalitari sorti nel secolo successivo. Da un lato, fascismo e nazionalsocialismo, che trasformarono il culto della patria, inteso anche come recupero e spregiudicata manipolazione della storia e delle tradizioni (il mito di Roma o quello della primigenia patria ariana), in un elemento funzionale alla costruzione del consenso politico e al controllo delle masse; d’altro canto, il bolscevismo che si confrontò con l’ardua impresa di conciliare patria e socialismo. Per definizione quest’ultimo significava rifiuto della dimensione nazionale in favore di un’alleanza sovranazionale (il modello dell’Internazionale socialista) fra le classi lavoratrici («gli operai non hanno patria», aveva teorizzato K. Marx). Invece la patria sovietica non tardò a dotarsi anch’essa di padri, madri, eroi, martiri, traditori, monumenti, sacrari e santuari, promuovendo cioè una concezione comunque spirituale dell’identità politica, che implicava la distruzione dei vecchi attributi religiosi, culturali, etnici, linguistici, e l’accettazione dell’URSS come nazione modello o patria guida, nell’attesa del giorno in cui «tutto il mondo sarà patria» (E. Mühsam). Dopo il secondo conflitto mondiale una parte della cultura europea ha cominciato a porsi il problema dell’eventuale superamento della dimensione nazionale. In contrapposizione all’Europa delle patrie di C. De Gaulle è stato sostenuto il graduale sganciamento del concetto di patria da quello di Stato-nazione. In questa cornice si sono collocati progetti politici anche antitetici: da un lato, la rivalutazione di accezioni subnazionali di patria (come sinonimo di comunità locale, identità territoriale, in riferimento alle minoranze e alle specificità etniche e linguistiche ecc.), dall’altro, ipotesi federaliste sovranazionali come la «patria Europa» o la «super-nazione» di J. Habermas.
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