La politica estera della Russia, nelle sue successive manifestazioni politiche (Impero, Unione Sovietica, Federazione Russa), è stata accompagnata dal persistente desiderio di assurgere a un ruolo strategico sullo scenario internazionale che le facesse acquisire lo status di potenza. È attribuibile a una progressiva e cospicua espansione territoriale, in particolare durante la fase imperiale, la sedimentazione di una auto-percezione di potenza. Tale auto-percezione si è irrobustita durante la Guerra fredda mentre la fine del sistema bipolare, causando un grave declassamento del paese, ha segnato un momento di disorientamento. Lo status è stato riacquisito grazie alla ‘normalizzazione’ politica, alla ripresa economica e a una leadership forte e ambiziosa. Il drammatico passaggio da Unione Sovietica a Federazione Russa ha generato una crisi profonda sia sul versante interno che su quello esterno. L’implosione sovietica ha sancito il trionfo del modello economico e politico incarnato dall’Occidente e in particolare dagli Usa che hanno raggiunto l’apice del loro soft power. La Russia, al contrario, ha affrontato un difficoltoso e tortuoso processo di trasformazione multidimensionale. Contemporaneamente, con l’avvio dello sfaldamento dell’Unione Sovietica e la drastica riduzione del territorio controllato, la nuova entità statuale che andava emergendo doveva ridefinire i confini della sovranità e le fondamenta della identità nazionale. La nascente Federazione fu perciò pienamente assorbita dalle dinamiche interne.
La decisione di passare rapidamente da un sistema economico centralizzato e pianificato a uno di mercato con un’estesa liberalizzazione rischiò di portare il paese al default. Fu necessario ricorrere all’aiuto occidentale e in particolare ai prestiti dell’Imf per far sì che la situazione economica non precipitasse. Le crisi connesse al cambiamento indebolirono sul piano internazionale la Federazione Russa, non più percepita come una minaccia dall’Occidente né considerata strategica sugli scenari internazionali. La Russia era stata neutralizzata come risultato della fine ‘pacifica’ del paradigma bipolare, determinandone la marginalizzazione dai centri di potere mondiali.
Le istituzioni transatlantiche non furono scalfite dal collasso del bipolarismo ma anzi ne uscirono rafforzate trovando una nuova ragione d’essere nella stabilizzazione dei paesi dell’, attraverso la loro graduale cooptazione sia nella Nato che nella Unione Europea (Eu). Sebbene non sincrono né concordato, il duplice allargamento condusse in pochi anni alla normalizzazione di quella parte dell’Europa che con determinazione intendeva tracciare una netta cesura con l’oscuro periodo del «rapimento» sovietico, così come lo aveva definito pochi anni prima lo scrittore ceco Milan Kundera. I paesi che invece per volontà o ritardo nel processo di trasformazione rimasero ai margini del blocco euro-atlantico furono soggetti a pressioni sia da parte di Bruxelles che di Mosca con effetti spesso negativi per il loro autonomo percorso di trasformazione.
È alla luce del drammatico arretramento di status in cui incorse la Federazione Russa nei primi anni Novanta che deve essere perciò interpretata l’ansia di rientrare nel gruppo di quei paesi che nel frattempo si erano affermati come potenze post-bipolari.
L’ascesa al potere di Vladimir Putin nel 2000 segna l’inizio del ritorno della Russia fra gli stati che esercitano una influenza determinante sul sistema internazionale. Nel corso delle due prime presidenze consecutive di Putin, la Russia risorge economicamente, registrando una crescita consistente, con tassi medi annui di oltre il 6%. La ripresa è determinata principalmente dai prezzi del petrolio in costante ascesa. Al petrolio si sono sommati due ulteriori fattori, uno congiunturale e l’altro strutturale: la svalutazione del rublo scaturita in seguito alla crisi valutaria del 1998, che ha fortemente accresciuto la competitività internazionale dell’industria anche non petrolifera e la ormai più che decennale transizione dalla pianificazione socialista al mercato, che ha migliorato il quadro economico e normativo, consentendo la ripresa degli investimenti (esteri e locali), e soprattutto l’incremento dei redditi che hanno sostenuto i consumi privati. Al contempo, l’ordine (poryadok) e la stabilità politica (preyemstvenost’ poltiki) ripristinati da Putin, talvolta ricorrendo anche all’uso della forza – come nella Seconda guerra cecena (1999-2006) – creano consenso intorno alla leadership. La verticalizzazione e centralizzazione del potere attuata progressivamente da Putin hanno favorito la conduzione di una politica estera sempre più assertiva.
In questi anni, la Russia è apparsa protesa a ridurre la forbice fra rango (determinato da ciò che prima l’Impero zarista e poi l’Unione Sovietica furono: vittoria nella Grande guerra patriottica, potenziale nucleare, diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell’Un, relazioni di dipendenza di carattere economico e culturale consolidate con paesi un tempo sottomessi) e ruolo (la capacità effettiva di influenzare e orientare il sistema internazionale contemporaneo). Lo sfasamento fra rango e ruolo di uno stato può generare instabilità a livello sistemico. Nel caso della Russia tale tensione non ha generato conflitti ma ha certamente prodotto azioni improntante alla risolutezza. La proiezione esterna della Russia può contare sia sulle vestigia del rango passato che sull’impiego coercitivo di alcune leve di potere come quella energetica. Al contempo, la Russia si è impegnata anche in un riposizionamento della propria potenza, partecipando e promuovendo varie forme di cooperazione internazionale (gruppo dei Brics, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai).
Il mutamento da potenza sovietica a post-sovietica ha infatti avuto tra i vari effetti quello di declassare il potere militare. La Russia è passata da essere potenza ideologizzante, militare, aggressiva a potenza pragmatica, mercantilista, assertiva ma incline alla cooperazione. Il potere militare ricopre ancora un’importanza strategica per l’immagine esterna del paese e per la gestione delle relazioni con i vicini (si veda il caso dello scudo antimissile progettato dagli Stati Uniti e la minaccia di Mosca di dislocare dei missili Iskander a Kaliningrad; la guerra dell’agosto 2008 con la Georgia; la rimilitarizzazione dell’Artico e l’annessione della Crimea) ma non è considerato lo strumento primario di influenza. L’uso della forza è giudicato da Mosca come una sorta di extrema ratio, ossia uno strumento residuale da utilizzare quando gli altri si siano rivelati inefficaci o inadeguati a difendere interessi ritenuti vitali come nel 2008 l’intervento in Georgia per difendere i russi di Abkhazia e Ossezia del Sud o l’infiltrazione nell’Ucraina sud orientale e l’annessione della Crimea nel marzo del 2014 per tenere saldo il controllo almeno su una parte del paese che si stava chiaramente allineando con l’Eu.
La Russia tende quindi a complementare modalità d’azione tipiche della diplomazia tradizionale con strumenti soft come quelli economici (investimenti diretti, risorse energetiche e finanziarie, offerta di opportunità di lavoro) e culturali (lingua, mass media). La Russia, tuttavia, non ha finora elaborato una grand strategy per la propria condotta di politica estera che si mostra, rispetto a quella espressa dall’Occidente, più flessibile e aperta a partnership strategiche con diverse tipologie di paesi compresi quelli ostracizzati dalla comunità internazionale come in passato l’Iran, la Bielorussia o la Corea del Nord.
La condotta di politica estera è stata forgiata secondo il ‘multivettorialismo’ e la cosiddetta network diplomacy, ossia una diplomazia realista e pragmatica (scevra da vincoli normativi e valoriali come quelli che condizionano il mondo occidentale) fondata su alleanze a geometria variabile secondo interessi contingenti e obiettivi di breve termine. Il pragmatismo russo chiarisce sia la convergenza di interessi con Washington (lotta al terrorismo, sostegno di Mosca per Afghanistan ed Iran), testimoniata in particolare dal reset the button del 2009, che gli affari lucrosi che Mosca conclude con Caracas, Nuova Delhi, Pechino o Teheran.
La Russia nel relazionarsi con i suoi partner predilige il bilateralismo al multilateralismo non solo perché ciò le consente di trarre maggiori vantaggi rispetto a negoziati multilaterali, ma anche perché sul piano bilaterale questioni sensibili come il rispetto della democrazia e dei diritti umani non sono solitamente poste al centro dell’agenda politica. Tuttavia l’aspirazione a integrarsi nei mercati globali ha indotto la Russia ad avviare negoziati di adesione con il Wto (la Russia è entrata nella organizzazione il 22 agosto 2012) e l’Ocse e a soggiacere alla condizionalità che l’adeguamento all’acquis delle due organizzazioni comporta. Una tale accondiscendenza scaturisce dall’idea che l’integrazione economica possa accelerare la modernizzazione del paese che rimane una priorità della leadership.
Le aperture della Russia vero l’esterno non devono però mettere a rischio la sicurezza e la stabilità del paese. Proprio a protezione della peculiarità politica del paese, la leadership russa contesta la pretesa universalità del modello di governo democratico adottato nei paesi occidentali e vi contrappone la piena legittimità di un indirizzo politico che aggettiva la democrazia ricorrendo al concetto di sovranità (democrazia sovrana). La Russia si oppone a interferenze o pressioni motivate ideologicamente (ivi compresi i principi sulla tutela dei diritti umani), provenienti dall’esterno ed in particolare dall’Occidente che si fa portatore di principi teoricamente assurti a norma della comunità internazionale. Tale principio si dovrebbe applicare anche all’estero vicino dove le rivoluzioni colorate e gli scontri di Maidan di fine 2013 sono stati, secondo la Russia, fomentati dall’Occidente. Il Cremlino è ben consapevole che l’instabilità dai paesi limitrofi si può propagare verso la stessa Russia mettendo a rischio la tenuta dell’attuale establishment. Il controllo sulle aree circostanti è perciò ritenuto una garanzia per la continuità dell’attuale assetto di potere.
Inoltre, l’esistenza di una ‘democrazia orientale’ offre a Mosca l’opportunità di proporre il proprio modello di democrazia alle ex Repubbliche satelliti perché più consono, di quello occidentale, al loro contesto nazionale. Al di là delle manipolazioni utilitaristiche insite nella operazione di relativizzazione della democrazia condotta da Putin, è necessario però valutare le difficoltà che il processo di democratizzazione può incontrare in un paese complesso come la Russia avvezzo a regimi autocratici ed alla personalizzazione del potere.
Come sottolineato in precedenza, alla fine degli anni Novanta era diffusa l’interpretazione del sistema internazionale come uni-multipolar ossia costituito dalla presenza di una superpotenza, gli Stati Uniti, che ancora era predominante nelle diverse dimensioni del potere (economico, politico, militare, etc). Accanto alla potenza americana andava emergendo un gruppo ristretto di potenze regionali predominanti nell’ambito della loro regione di origine che tuttavia non avevano la capacità di essere predominanti a livello globale. Infine si stava anche delineando una fascia di poteri regionali secondari che avrebbe potuto intralciare l’operato della superpotenza e delle potenze regionali. È in particolare sul versante asiatico che si affastellano nuove potenze (, India, Giappone) con crescenti aspirazioni di status.
La Russia risorgente intende proprio collocarsi in quella fascia di paesi che attorniano gli Stati Uniti e che possono bilanciarne il potere dando vita a un sistema tendente alla poliarchia. La multipolarità nella visione russa implica che un dato stato possa formare un centro autonomo anche non disponendo di una supremazia in tutti gli ambiti del potere ma soltanto in alcuni di essi, quali, ad esempio, l’economia o le riserve energetiche. In un regime poliarchico ciascun polo-stato, costituirebbe un fulcro di attrazione per i paesi contigui formando una sorta di blocco regionale (Russia più estero vicino). Ciascun polo risponde a interessi e obiettivi peculiari complementari o comunque non necessariamente in conflitto con gli altri. I poli possono cooperare, ma non interferire fra loro. Si tratta quindi di una multipolarità strumentale alla difesa e alla legittimazione di un proprio percorso e sviluppo autoctono. Questo spiega l’attenzione della Russia sullo spazio post-sovietico che viene definito ‘estero vicino’, uno spazio ibrido fra politica interna e politica estera. Similmente all’Eu, che con la politica europea di vicinato e soprattutto con il Partenariato orientale, offre una graduale integrazione ai paesi dell’Europa orientale (Bielorussia, Moldavia, Ucraina) e del Caucaso (Armenia, Azerbaigian e Georgia) senza tuttavia alcuna promessa di adesione, anche la Russia promuove un progetto regionale di integrazione economica, l’Unione economica euroasiatica, di cui fanno parte Kazakistan, Bielorussia, Armenia e Kirghizistan.
Così quando il Cremlino ha ritenuto che l’Ucraina protendesse in maniera decisa verso la comunità euro-atlantica, con il rafforzamento del legame con l’Eu, non ha esitato a procedere all’annessione della Crimea e a infiltrare militari russi nella regioni sud-orientali dell’Ucraina. In quelle regioni, la situazione è ancora confusa, incerta e suscettibile di degenerare in un conflitto regionale. La Russia, così facendo, ha chiarito che gli assetti dello spazio post-sovietico non possono essere modificati senza il suo consenso, ovvero l’Eu o in futuro la Nato devono rinunciare all’esercizio di un loro potere in quell’area, seppur sotto forma di potere civile, a meno che non si vogliano scontrare con Mosca.
La Russia, fino allo scoppio della crisi ucraina, non aveva mostrato ambizioni imperiali che implicassero una acquisizione di territori una volta appartenuti all’Unione Sovietica. Le circostanze propizie nel corso del 2014 (la certezza che né la Eu né gli Stati Uniti intraprendessero azioni militari) hanno però indotto Mosca all’annessione della Crimea, aggiudicandosi una importante vittoria geopolitica sia in termini di capacità di esercizio della ‘potenza’ che di riposizionamento geostrategico. Il controllo del porto di Sebastopoli consente alla Russia di conservare l’accesso al Mediterraneo mentre la trasformazione dello scontro fra russi e ucraini nelle regioni sudorientali dell’Ucraina in un conflitto congelato apre al Cremlino una breccia permanente negli affari interni del paese. L’annessione della Crimea è però probabile che rimanga un unicum e che l’obiettivo del Cremlino continui ad essere il mantenimento di una influenza su alcuni paesi dello spazio post-sovietico.
La scelta di rispondere all’intrusione europea negli affari interni ucraini (così è stato giudicato il cambio di regime a Kiev a seguito dei tragici scontri di piazza Maidan) con un gesto così estremo ha causato un nuovo isolamento della Russia da parte di attori rilevanti come gli stati europei e gli Stati Uniti che hanno convenuto nell’imporre sanzioni economiche (oltre che misure restrittive e diplomatiche) contro il Cremlino. L’effetto negativo delle sanzioni è stato amplificato da un contesto economico già in fase declinante sia per l’atavica incapacità di diversificare l’economia che per il calo del prezzo del greggio. La svalutazione del rublo ha ridotto pesantemente il potere di acquisto dei russi. Tuttavia per ora i russi si sono coalizzati intorno alla leadership e la condanna occidentale ha accresciuto il consenso verso il presidente Putin.
L’Occidente però ha bisogno del sostegno della Russia su altri complicati scenari a partire da quello mediorientale. La posizione russa sulla crisi siriana è stata fortemente condizionata dall’esito del conflitto libico. L’intervento della Nato, conclusosi con la cattura e l’uccisione di Gheddafi, ha corroborato la convinzione russa che le risoluzioni dell’Un possano essere manipolate e addirittura legittimare interventi il cui scopo è quello di incoraggiare mutamenti di regime che non sarebbero altresì accettati dalla comunità internazionale. Putin ha affermato: «Ciò che è stato fatto in Libia è stata una tragedia in termini di relazioni internazionali» e ha ammonito l’Occidente a non ricorrere mai più «alla democrazia delle bombe e dei missili in Medio Oriente».
La crisi siriana appare molto più complicata perché molti sono gli attori portatori di interessi e obiettivi confliggenti e quindi suscettibile di scatenare un conflitto regionale. La Russia teme che una destituzione del regime di Bashar al-Assad sostenuto dagli alawiti (un segmento degli sciiti presenti anche in Iran) possa rafforzare la componente sunnita (al-Qaida, i Fratelli musulmani, Hamas) con due gravi conseguenze: 1) un’eventuale ripresa dei movimenti secessionisti che all’interno della Russia sono promossi dai wahhabiti (appartenenti ai sunniti); 2) un indebolimento eccessivo dell’Iran, paese sempre più vicino alla Russia, dove prevalgono gli sciiti.
Le posizioni degli altri paesi della regione e degli altri attori complica ulteriormente il quadro: Israele appoggia i sunniti siriani al fine di bloccare le ambizioni iraniane; l’Arabia Saudita, retta dai sunniti ma dove nelle aree dei giacimenti petroliferi la minoranza sciita arriva al 30% della popolazione, assiste attivamente l’opposizione siriana. Il caso siriano quindi mostra quanto nella regione la divisione fra sunniti e sciiti travalichi i confini nazionali e costituisca una seria minaccia per tutta la regione e non solo. Mentre l’Occidente enfatizza, giustamente, la grave violazione dei diritti umani e la mancanza di democrazia, la Russia avverte sui rischi della degenerazione in un conflitto di portata internazionale.
La Siria è inoltre un alleato storico di Mosca e un intervento esterno nel paese significherebbe un fallimento russo in Medio Oriente. Con la fine della Guerra fredda, le relazioni fra Mosca e Damasco si cementarono soprattutto sul piano commerciale facendo della Russia il più importante fornitore di armi della Siria (il 75% delle armi siriane sono di fabbricazione russa), anche se il mercato siriano non è fra i più lucrativi per Mosca (Damasco è il settimo paese cliente). La Russia, che ha ereditato dall’Unione Sovietica una piccola base logistica per la sua marina nel porto siriano di Tartus, poi abbandonata nel 1991, aveva avuto la possibilità di convertirla in una base navale permanente con un sistema radar sofisticato. Una sorta di risposta allo scudo anti-missile posto dalla Nato nella base turca di Malatya.
La preoccupazione condivisa sia da Mosca che da Washington e dalle altre capitali europee è che il conflitto possa, a seguito di un intervento esterno, contagiare l’intera area mediorientale esacerbando contrasti trasversali agli stati (sunniti/sciiti; tradizionalisti/modernisti) e propagare ondate di tensione a livello sistemico. Ecco perché sinora l’opposizione russa ad un intervento armato, sebbene biasimata, abbia però di fatto giocato a favore di Barack Obama che non solo in campagna elettorale è sembrato assai restio ad un impegno militare, solo prospettato dopo la scoperta dell’uso di armi chimiche di al-Assad. Il ruolo di mediatore che Mosca, anche a nome delle potenze occidentali, ha svolto con il regime siriano equivale ad un riconoscimento di partner legittimo nel ridisegnare gli equilibri regionali ed internazionali. Ne consegue che gli Stati Uniti non siano più l’unica ‘potenza di riferimento’ nel Grande Medio Oriente, ambizione che risale, prima ancora che alla guerra del Golfo del 1991, alla ‘dottrina Eisenhower’ del 1957.
Alla decisione degli Stati Uniti e di alcuni alleati arabi di bombardare postazioni dello Stato islamico (Is) in Siria ha fatto seguito la decisione del Cremlino di partecipare alla lotta al terrorismo con incursioni aree che però si sono concentrate nelle province di Homs e Hama dove sono radunate anche le forze anti-Assad. E ora che anche la Russia è presente sul campo, gli altri attori non potranno ignorarla in qualsiasi futuro piano per il paese martoriato. Il Cremlino addirittura sembra essere riuscito a convincere gli occidentali che Assad sia il ‘male minore’ rispetto alla priorità di bloccare l’avanzata di Is. Il viaggio nel settembre 2015 di Benjamin Netanyahu a Mosca per ricercare un’intesa con Putin che eviti il rischio di incidenti tra le forze aeree di Israele e quelle russe, entrambe impegnate in Siria, ha segnato un importante riconoscimento del ruolo del Cremlino nella regione. Allo stesso modo, il coinvolgimento russo nella crisi siriana ha contribuito a rafforzare ulteriormente l’alleanza tra Teheran e Mosca che presumibilmente contrasteranno una soluzione occidentale qualora non reputata confacente ai loro interessi strategici.
E proprio all’indomani dei feroci attacchi inferti alla Francia dai kamikaze contigui ad Is (13 novembre 2015) il segretario di stato americano, Kerry, e il ministro degli esteri russo Lavrov, in una conferenza stampa congiunta, affermano che un primo accordo per una risoluzione Un sul cessate il fuoco in Siria è stato raggiunto, aprendo così la via a un negoziato politico vero e proprio, fra governo siriano e opposizioni, in cui è evidente che il ruolo della Russia sarà determinante.
I raid russi in Siria, prima campagna militare fuori dallo spazio post-sovietico, segnano perciò il passaggio della Russia da potenza regionale a potenza multi-regionale e quindi globale. Per affermare un sistema poliarchico equilibrato (con un ridimensionamento degli Usa) è necessario che i vari centri di potere amplino il loro raggio strategico e d’azione oltre il perimetro regionale. L’attributo di potenza per uno stato comporta ormai l’onnipresenza sui teatri di crisi a livello globale. La Russia pare quindi aver intrapreso con decisione una de–regionalizzazione della sua politica estera che tuttavia potrebbe risentire negativamente di una situazione economica interna poco promettente, con tassi di crescita molto lontani da quelli dell’inizio degli anni Duemila che videro il repentino e deciso ritorno del paese sulla scena internazionale.
di Pejman Abdolmohammadi
L’interesse principale della Russia in Iran, sul piano geopolitico, è da sempre stato l’accesso alle acque calde dell’Oceano indiano tramite il golfo Persico. Lo stesso Pietro il grande, in una parte del suo testamento, evidenziò questo aspetto, raccomandando ai suoi successori di «mantenere l’influenza russa in Persia allo scopo di raggiungere così le acque calde dell’Oceano Indiano».
Durante l’intero XIX secolo la Russia insieme alla Gran Bretagna è stata una delle grandi potenze maggiormente coinvolte negli affari persiani; la Persia subì due importanti sconfitte contro i russi, perdendo una buona parte dei propri territori situati nell’area caucasica. La prima sconfitta militare avvenne nel 1813 e portò alla firma del trattato di Golestan, con il quale la Persia cedeva alla Russia importanti territori, perdendo anche il diritto di navigazione sul mar Caspio. I persiani provarono a ristabilire l’equilibrio combattendo una seconda guerra, nel 1826, che però si concluse ancora con la loro sconfitta e con la firma del trattato noto come Turkmencāy, a seguito del quale, oltre ai territori già ceduti, la Persia perdeva anche il controllo sull’Armenia e sull’Azerbaigian.
La Russia, dopo queste due vittorie, continuò a esercitare una importante influenza negli affari politici iraniani, in particolare nell’area settentrionale della Persia. Il ruolo russo fu importante anche durante la Rivoluzione costituzionale persiana del 1906, durante la quale i russi proveranno a fermare l’ondata costituzionalista, sostenuta invece dai britannici, appoggiando la dinastia dei Qajar.
Con la Rivoluzione bolscevica, il nuovo regime russo guidato da Lenin cambiò la sua linea di politica estera nei confronti dell’Iran, perché Lenin, considerando i popoli musulmani parte del mondo sottomesso al colonialismo occidentale, adottò politiche meno aggressive nei confronti dei vicini mediorientali.
La distensione dei rapporti Iran-Urss, tra il 1920 e il 1945, non ebbe però lunga durata, perché con la fine della Seconda guerra mondiale e l’inizio della Guerra fredda l’Iran di Mohammad Reza Shah Pahlavi si schierò con il fronte occidentale, allontanandosi da Mosca.
Tuttavia, durante gli anni Settanta, a causa dell’intenzione dello Shah di diventare più indipendente dagli americani, si registrarono alcune nuove aperture politico-commerciali nei confronti dell’Urss. Per esempio nel 1970 lo Shah accettò di esportare gas verso l’Unione Sovietica, dando vita a due gasdotti sul mar Caspio, arrivando nel 1972 a sottoscrivere con essa un accordo economico-commerciale.
Con la caduta dello Shah nel 1979 e l’istituzione della Repubblica islamica in Iran, anche i rapporti politico-diplomatici con l’allora Unione Sovietica registrarono un cambiamento. Nei primi mesi pre e post rivoluzionari, l’Urss guardava con una certa simpatia alla Rivoluzione iraniana, perché il nuovo sistema si basava sul principio dell’anti-americanismo. Il cambio di regime in Iran, a prima vista, poteva sembrare in linea con gli interessi sovietici; proprio per questo ci fu un sostegno iniziale nei confronti delle forze rivoluzionarie, in particolare verso le forze comuniste e di sinistra.
Tuttavia, questa simpatia durò ben poco, perché l’ayatollah Khomeini reagì in modo forte contro l’invasione sovietica in Afghanistan, accusando Mosca di ingerenza negli affari interni di un paese islamico. La presa di posizione di Khomeini contro i sovietici raffreddò in nuce una possibile alleanza strategica tra i due paesi. Un raffreddamento che si rispecchiò anche durante la guerra Iran-Iraq dove i sovietici, sebbene in modo informale, si schierarono con gli iracheni a scapito degli iraniani.
Con la fine della Guerra fredda, la morte di Khomeini e la fine della guerra Iran-Iraq, fatti avvenuti tutti tra il 1988 e il 1990, i rapporti tra i due paesi entrarono in una nuova fase. Già prima della sua morte Khomeini mandò segnali di distensione verso Mosca, inviando un messaggio a Gorbachev, che rispose con la visita dell’allora ministro degli esteri Shevardnadze a Teheran. Anche l’allora delfino di Khomeini, Rafsanjani, fece un viaggio importante a Mosca nel 1989, siglando una serie di accordi commerciali e militari tra i due paesi e così si compì un primo passo verso la distensione dei rapporti.
La vera svolta nei rapporti tra i due paesi avvenne quando Putin prese il potere a Mosca. La nuova strategia della Russia, intenzionata a diventare una nuova potenza globale in chiave anti-americana, ha trasformato l’Iran in un alleato strategico in Medio Oriente. La Russia negli ultimi 15 anni ha sostenuto l’Iran sul piano internazionale contro le pressioni esercitate, in particolare per il dossier nucleare, da parte del fronte occidentale. In Medio Oriente i due paesi vedono nella Siria di Assad un alleato comune e, se Assad è riuscito a sopravvivere all’ondata delle cosiddette ‘primavere arabe’, è stato grazie al sostegno congiunto russo e persiano. Mosca utilizza il suo canale privilegiato con Teheran come una risorsa da utilizzare contro gli interessi americani nella regione: per esempio, in risposta al sostegno degli americani all’Ucraina, Putin ha rafforzato i legami politico-commerciali con l’Iran. Anche per la Repubblica islamica avere un rapporto privilegiato con il gigante russo è conveniente, in primis perché si riduce la minaccia proveniente dal mar Caspio e in secondo luogo l’Iran può contare, oltre che sulla Cina, su un altro alleato forte contro gli Usa in materia di dossier nucleare e per quanto riguarda la questione dei dritti umani.
di Irina Mirkina
L’Unione economica euroasiatica (Uee) rappresenta il tentativo più recente di formare un mercato comune tra i paesi dello spazio post-sovietico. È il quarto tentativo – dopo l’accordo di libero scambio (1994), la Comunità economica eurasiatica (2000) e l’Unione doganale (2010) – tra Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Russia di stabilire la libera circolazione di persone e di capitali, cercando di unificare le politiche interne dei paesi membri in materia di regolamentazione del mercato finanziario, dell’energia e del mercato del lavoro.
Alla Commissione economica eurasiatica, esplicitamente ispirata alla Commissione europea, è stata affidata una fatica considerevole, consistente nell’armonizzazione degli standard finanziari, tecnici e sanitari dei paesi membri. La struttura dell’Uee include anche la Corte comunitaria, che si occupa delle eventuali dispute che dovessero sorgere nell’applicazione dei trattati dell’Unione. Creati nel 2011 nell’ambito dell’Unione doganale, questi organi sono rimasti finora dipendenti dalle linee guida del Consiglio supremo dell’Uee, composto dai presidenti dei paesi membri. Più che sulle decisioni legali, la politica dell’Unione continua ad essere fondata sulla diplomazia multilaterale o, addirittura, su un accordo tra i capi di stato.
La Russia domina nell’ambito dell’Unione, con l’85% del pil e l’83% della popolazione totale. La disuguaglianza nelle dimensioni dei paesi membri dell’Uee è la differenza maggiore rispetto all’Eu, a volte dimenticata in quelle analisi politico-economiche comparative che prevedono l’espansione della zona euroasiatica pari a quella europea. Lo sviluppo dell’Uee è inseparabile dal destino della Russia e strettamente collegato alla sua crescita o, più recentemente, al suo crollo. Dall’imposizione delle sanzioni internazionali contro la Russia ad agosto 2014, il commercio estero del paese è calato del 35%, mentre il bilancio totale dell’Uee – nonostante notevoli possibilità di crescita dovute alla sostituzione delle esportazioni e delle risorse finanziarie europee – è diminuito del 36%. Inoltre, la tendenza verso il basso continua almeno dal 2012: anno su anno, il commercio interno dell’Unione è calato del 6% nel 2013, dell’11% nel 2014 e del 31% nei primi otto mesi del 2015. Benché i paesi membri mirino alla progressiva integrazione dei loro mercati, le difficoltà economiche rendono queste prospettive piuttosto incerte. I paesi dell’Uee non eccellono in tempestività nell’adozione delle norme unitarie; dopo cinque anni dall’istituzione dell’Unione doganale nel 2010, l’armonizzazione degli standard tecnici tra i paesi membri è ancora ben lontana dall’essere completa, cosi come l’implementazione della tariffa doganale comune (che attualmente copre soltanto l’85% dei beni). Il mercato comune dell’elettricità entrerà in vigore non prima del 2019. Il mercato comune di gas e petrolio è stato rimandato al 2025 – decisione alquanto indicativa, visto che l’onnipotente gigante russo Gazprom già possiede quasi tutta la raffinazione del petrolio e gas dell’Unione, compresi il 100% in Armenia e Kirghizistan, il 73% in Bielorussia ed il 50% in Kazakistan. Sempre nel 2025 è prevista l’entrata in vigore del mercato finanziario comune, anche se una moneta unica aumenta notevolmente i rischi per tutta l’unione monetaria, dovesse uno dei paesi andare in crisi oppure essere soggetto alle sanzioni internazionali. Della data d’istituzione del mercato comune del lavoro non si parla neanche. Eppure l’Uee cerca di attirare nuovi membri e nuovi partner, anche se meno con le promesse di sviluppo economico e più con sussidi e coercizioni russe. Il Tagikistan rimane il prossimo candidato a diventare un paese membro, mentre l’Uzbekistan ha iniziato il processo d’integrazione nel 2015, non appena la Russia ha promesso di dimenticare 865 milioni di dollari del suo debito pubblico. Ucraina, Moldavia e Georgia hanno firmato gli accordi di associazione con l’Eu, ma la loro scelta è travagliata anche sulla base delle tensioni regionali: le ‘repubbliche popolari’ di Donets’k e Luhans’k (Ucraina), la Transnistria (Moldavia) e l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia (Georgia) hanno tutte espresso la volontà di unirsi all’Uee.
Inoltre, l’Uee parla di associazioni di libero scambio con Cina, India, Iran, Egitto e altri paesi. Nel maggio 2015, tra l’Uee e il Vietnam è stato firmato l’accordo di libero scambio, e si prevede che lo stesso accordo venga firmato nel 2016 con l’India e la Tailandia. Il primo ministro della Siria nel 2015 ha parlato dell’integrazione del suo paese con l’Uee, nonostante la mancanza di confini condivisi (da notare che anche l’Armenia non condivide i confini con nessun altro dei paesi membri). Evidentemente l’Uee segue un’ampia visione politica come qualsiasi altra unione economica. Però l’economia russa non è sufficientemente sviluppata per poter aiutare gli altri membri cosi come operato da Stati Uniti e Canada con il Messico all’interno del Nafta, ma è grande abbastanza per ostacolare il loro sviluppo interno o la transizione democratica. Sono pertanto probabili tensioni politiche dovute alla redistribuzione delle risorse, del capitale e del potere all’interno dell’Unione già nell’immediato futuro.
di Ugo Tramballi
La questione è sintetizzata da Dmitri Trenin, esperto del Carnegie Moscow Center: «Un quarto di secolo dopo il suo ritiro dall’Afghanistan, la Russia è di nuovo in guerra in un paese musulmano, fuori dal perimetro del suo impero storico». Ma questa volta in un Medio Oriente che nel frattempo è cambiato dai tempi del ‘grande gioco’ fra le superpotenze: queste ultime, esterne alla regione come Usa, Russia, Gran Bretagna e Francia, non hanno più il ruolo dominante che, fra alti e bassi, avevano mantenuto nei cento anni precedenti.
Oggi gli avvenimenti sono molto più determinati dall’Iran, l’Arabia Saudita, la Turchia, il Qatar, presto anche dall’Egitto se il presidente al-Sisi saprà garantire al suo paese sicurezza e sviluppo economico, dopo gli anni di disordine fra le rivolte di piazza Tahrir e il golpe militare. E fra questi nuovi protagonisti regionali, per la prima volta in modo determinante, partecipano forze diverse e pericolose. Non stati con frontiere ed eserciti ma attori non statali come l’IS che, al contrario, ignora e smentisce i tradizionali confini della regione; o forze come Hezbollah libanese che sono parte del governo di Beirut ma contemporaneamente hanno un’agenda politico-militare diversa e l’ambizione di giocare un ruolo regionali e che il piccolo Libano non ha.
Una potenza straniera sa quando entra in un conflitto mediorientale, ma non quando e come ne esce. Lo sta sperimentando Obama: nonostante il suo desiderio di rompere definitivamente con l’interventismo di Bush, il suo predecessore, non riesce a disimpegnare del tutto le forze americane dall’Iraq e dall’Afghanistan. È sempre stato così ma ora programmare un’uscita dal caos è ancora più incerto. Perché dunque Putin ha deciso d’intervenire in Siria, nella più devastante e caotica guerra civile che la regione abbia mai avuto? Quali sono i suoi scopi e quali i suoi traguardi?
Non c’è una sola risposta né la spiegazione riguarda solo la Siria o il Medio Oriente. L’agenda di Putin è globale. Tuttavia è evidente e comprensibile ci sia una preoccupazione che riguarda la sicurezza nazionale: l’estremismo islamico. Sono circa 2.500 i foreign fighter russi che combattono con l’Is in Siria e Iraq. Secondo il Pew Forum on Religion & Public Life, nel 2010 l’11,7% della popolazione russa era di fede musulmana. Sarà del 14,4 nel 2030 ma contando le minoranze etniche che vivono in Russia, già oggi sono il 14%. E le repubbliche asiatiche ex sovietiche sulle quali la Russia conta per la sua sicurezza, sono piene di sostenitori del cosiddetto Stato islamico: 7mila combattenti dell’Is vengono da quei paesi. Per la Russia, dunque, la minaccia fondamentalista è per molti versi più presente e chiara di quanto non lo sia per gli Stati Uniti.
L’aspetto geopolitico resta comunque la ragione principale dell’intervento russo in Siria. Prima emarginata e poi estromessa dal Medio Oriente, l’Unione Sovietica/Russia non aveva più paesi amici né basi militari, salvo che in Siria: il porto di Tartus in realtà non era che un piccolo approdo per le navi russe. Ma era l’unico nel Mediterraneo.
È stata soprattutto la politica di disimpegno dell’amministrazione Obama ad aprire a Putin una prateria nella quale dare contenuti concreti alle ambizioni di Putin di ripristinare l’imperialismo russo mai sopito. Nei quasi due mandati di Obama, gli Stati Uniti hanno rinunciato ad esercitare una politica di potenza mentre, al contrario, Putin ne ha ridefinita e rilanciata una russa.
Certamente c’era anche l’esigenza di distogliere l’attenzione dalla questione ucraina, estremamente importante per la Russia. Ma una presenza forte in Medio Oriente era e rimane un obiettivo strategico indipendente e parallelo all’Ucraina. I bombardamenti russi in Siria stanno dimostrando di non essere più efficaci di quelli americani nella lotta all’Is. Anche perché la gran parte degli obiettivi colpiti appartiene alle milizie anti-Assad e non ai combattenti del califfato. Per la Russia non è essenziale mantenere il dittatore siriano al potere: lo è lasciarci un governo amico. Tuttavia, nonostante l’inutilità dei bombardamenti, quotidianamente esaltati da una stampa russa tornata a una propaganda di stile sovietico, quella di Mosca è ormai una presenza ineludibile nella regione. Non c’è più questione che possa essere affrontata ed eventualmente risolta senza la partecipazione russa. È già accaduto con l’accordo sul nucleare iraniano e sarà decisiva nella pacificazione irachena; la Russia è tornata ad essere un partner importante per l’Egitto di al-Sisi, e la creazione di un sistema di sicurezza collettiva nel Golfo persico non potrà avvenire senza la sua collaborazione. Perfino il processo di pace fra israeliani e palestinese, se e quando riprenderà, dovrà essere aperto in maniera più consistente alla Russia.
Il regime politico di Putin che molti esperti ritengono stia tornando da una condizione autoritaria a una totalitaria, è molto più simile ai sistemi di potere del Medio Oriente di quanto questi ultimi lo siano alle democrazie occidentali. Ed è più facile per Putin imporre alla Duma interventi militari all’estero di quanto non sia per Obama convincere il Congresso. Grazie a questo, ma non solo, la diplomazia russa ha sviluppato una duttilità che quella americana non conosce. Agli occhi dei governi arabi e dell’Iran è l’asfissiante politicamente corretto americano, domestico e internazionale, che rende la Russia un partner più affidabile nella lotta al terrorismo.
La crescita economica, che in Russia ha costituito dal 2000 fino al 2008 il fattore più potente di legittimazione della leadership ed è stata alla base del ritorno del paese fra le potenze mondiali, ha subito una grave decelerazione già prima della crisi ucraina. La diminuzione del prezzo delle materie prime ed in primis del petrolio, le sanzioni comminate dai paesi occidentali in seguito all’annessione della Crimea da parte di Mosca e la caduta del rublo hanno contribuito ad un clima economico ancora più fosco. Sebbene le condizioni finanziarie della Russia siano solide (differentemente da quanto accadde durante la crisi finanziaria del 1998), gli altri indicatori segnano un chiaro declino: la moneta in un anno ha perso circa la metà del proprio valore, e con essa si è ridotta la ricchezza e il potere d’acquisto dei russi tanto che i consumi sono calati in maniera significativa. Inoltre è la prima volta da quando Putin è al potere, sia come presidente che come primo ministro, che si registra una diminuzione dei salari con un calo dei redditi del 6,3% mentre la disoccupazione sale al 5,8%. Finora il governo non ha elaborato una strategia strutturale per far fronte al declino economico, nonostante che, ormai dalla presidenza di Medvedev, la modernizzazione economica del paese sia una priorità dichiarata della leadership. È plausibile invece che la spesa pubblica subisca una revisione con tagli anche alle politiche sociali. Sinora le sanzioni occidentali, anche grazie ad un sistema dei mass media ligio al potere politico, hanno avuto come effetto quello di rafforzare il sentimento nazionalista dei russi e di coalizzarli intorno al presidente. Tuttavia se la crisi dovesse persistere non si può escludere che lo scontento della popolazione possa avere dei riverberi anche a livello politico.
Si stima che sul territorio russo vivano circa quattordici milioni di musulmani, ossia il 10% dell’intera popolazione. Sebbene dislocati sull’intero territorio, i russi musulmani sono concentrati soprattutto nelle aree del Caucaso settentrionale e nella regione del Volga e degli Urali. La diffusione della religione islamica risale all’invasione mongola che, verso la metà del XIII secolo portò alla fine della Rus’ di Kiev, contribuendo a creare il mito del ‘musulmano-invasore’. Dopo la rivoluzione del 1917, i bolscevichi repressero ogni rivendicazione all’autodeterminazione dei popoli e condussero una dura lotta contro i musulmani. Tra i vari credo diffusi sul territorio sovietico, l’islam fu preso particolarmente di mira perché era considerato arretrato e reazionario e si temeva una resistenza religiosa al dominio comunista. Durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan migliaia di centroasiatici furono arruolati nell’Armata rossa per combattere i mujaheddin afghani. L’esercito sovietico era costituito per il 30-40 % da soldati di religione musulmana che una volta impegnati nell’occupazione dell’Afghanistan simpatizzarono con i ribelli afghani indebolendo la stessa missione sovietica e rafforzando il loro credo religioso. All’interno dell’Urss, l’ultima crociata anti-islamica fu lanciata da Gorbachev nell’ambito della perestrojka. L’islam era infatti considerato un nemico per la modernizzazione e un catalizzatore di sentimenti antirussi già diffusi fra i gruppi etnici dell’Asia centrale. Con l’avvento al potere di Putin, l’estremismo islamico è sempre più accostato al terrorismo internazionale e così l’intervento in Cecenia del 1999 è presentato come una operazione antiterroristica. Le guerre cecene ebbero conseguenze negative sulla immagine della Russia in Medio Oriente. Dopo l’11 settembre, la Russia temette una polarizzazione etnica della popolazione musulmana già estenuata dalle guerre cecene ma anche delusa dall’allineamento di Mosca con la Serbia contro i musulmani di Bosnia e del Kosovo. L’intervento degli Stati Uniti in Iraq del 2003 da cui la Russia prese le distanze contribuì a migliorare la reputazione russa nei paesi arabi. La congiuntura favorevole consentì alla Russia di avvicinare paesi tradizionalmente in sintonia con gli Stati Uniti che si sentivano traditi dal bellicismo dell’amministrazione Bush.
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