Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le straordinarie esperienze di Bernini, Borromini e Pietro da Cortona fanno di Roma l’epicentro dal quale si diffondo in tutta Europa le principali tendenze dell’architettura del XVII secolo. A fronte del grande fascino esercitato dalla lezione borrominiana il filone dominante è quello classicista. Esso raggiunge i risultati più compiuti nella Francia del Re Sole dove, anche grazie alla contestuale messa a punto del modello del giardino formale, alimenta il linguaggio ufficiale della monarchia, destinato a essere adottato nelle principali corti del Vecchio Continente e a segnare la misura di molti interventi urbanistici.
I comprimari della Roma barocca
Nel corso del XVII secolo Roma è la fertile fucina nella quale giunge a maturazione una ricca gamma di soluzioni innovative destinate ad arricchire il repertorio progettuale e il vocabolario degli architetti dei principali centri della penisola italiana e delle capitali di tutta Europa. Ciò grazie alla presenza congiunta di artisti come Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini e Pietro da Cortona. Accanto all’opera dei maestri un ruolo di grande importanza nella definizione del linguaggio barocco deve essere riconosciuto però anche ai molti altri che nell’arco del Seicento lavorano nell’Urbe sviluppando posizioni conservatrici ma altrettanto efficaci.
Mentre la lezione borrominiana, almeno nell’immediato, è destinata a rimanere ununicum per la sua originalità, di ben altra centralità gode il filone classicista. La sua propensione all’aulico e al monumentale lo rendono infatti adatto a rispondere alle esigenze delle monarchie del Vecchio Continente. Se molte opere romane dell’epoca hanno il proprio riferimento nel catalogo dei tre celebri architetti, altre trovano la loro fonte di ispirazione nella tradizione tardomanierista di fine Cinquecento. Questa è la strada seguita da Martino Longhi il Giovane, esponente di una famiglia di costruttori di origine lombarda, la cui opera più significativa è la chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio. Il prospetto dell’edificio, finanziato dal cardinale Mazzarino e ultimato per il Giubileo del 1650, è affacciato sulla piazza della fontana di Trevi; colpisce per il modellato dei suoi elementi, una sequenza di tre timpani incastonati l’uno nell’altro, il cui portato barocco risiede nel trattamento plastico e fortemente chiaroscurato.
Un utilizzo abbondante di colonne, impostate secondo la tradizione classica e valorizzate nel loro potenziale scenografico, contraddistingue anche un altro edificio emblematico del barocco romano, la chiesa di Santa Maria in Campitelli, commissionata a Carlo Rainaldi nel 1658 e costruita a partire dal 1663. In questa occasione Rainaldi propone elementi di interesse anche dal punto di vista planimetrico. Discostandosi dal principio della compenetrazione di cellule spaziali sperimentata da Borromini a favore della giustapposizione di unità virtualmente autonome, lo sviluppo longitudinale del vano è temperato da ampie cappelle laterali, pensate alla stregua di transetti che emergono dal perimetro dell’edificio conferendogli un profilo assai dinamico.
Ma è soprattutto l’attività di Carlo Fontana a costituire una tappa fondamentale per gli sviluppi successivi. Ticinese di nascita, giunto a ricoprire la carica prestigiosa di architetto di San Pietro, questi trova il suo aspetto qualificante nella sintesi delle posizioni precedenti e nella semplificazione linguistica. Questa tendenza è ben rappresentata dalla facciata di San Marcello al Corso, la sua opera più nota (dal 1682), nella quale è riletta, in modo razionale ma con evidente sensibilità nei confronti del contesto considerando la sua lieve flessione, la tradizione dei prospetti articolati su due registri principali raccordati da elementi laterali, di ascendenza albertiana. Anche grazie all’attività didattica, svolta sia in seno all’Accademia di San Luca che privatamente, Fontana gioca un ruolo cruciale nella diffusione internazionale del classicismo tardobarocco; sappiamo infatti dei suoi contatti con numerosi protagonisti dei decenni a cavallo fra Sei e Settecento quali Nicolaus Tessin il Giovane,Johann Bernhard Fischer von Erlach e Filippo Juvarra.
I principali centri della penisola italiana
In tutti i contesti si registra una grande varietà nella ricezione e nella rielaborazione delle esperienze romane.
Emblematico il caso di Bologna: nonostante l’appartenenza allo Stato della Chiesa e la presenza di architetti provenienti dall’Urbe, la città conserva la sua autonomia culturale. Fra i protagonisti del Seicento felsineo sono Giovan Battista Bergonzoni, autore della chiesa di Santa Maria della Vita (dal 1686), e Gian Giacomo Monti, autore del Palazzo Albergati a Zola Predosa. Qui la mole compatta dell’edificio si articola intorno a uno straordinario salone a tutto volume (dal 1659) dal quale traspare la cultura del progettista, formatosi a una scuola, quella emiliana, che trova nella dimensione teatrale una delle sue connotazioni principali.
Il contesto veneziano, dominato dall’eredità della tradizione cinquecentesca, è arricchito dall’opera di Baldassarre Longhena. Nel 1630 progetta il santuario di Santa Maria della Salute, commissionato dalle autorità marciane quale ex voto per l’epidemia di peste che aveva sconvolto la città. L’edificio, a pianta centrale, è espressione di un barocco precoce che molto deve alla sua felicissima ubicazione sulla punta della Dogana, all’ingresso del Canal Grande, che domina scenograficamente con le sue cupole dal profilo tradizionale e le grandi volute di raccordo con il corpo sottostante.
Anche le esperienze della Repubblica di Genova, della Milano spagnola e della Toscana medicea si pongono su una linea di stretta continuità con le esperienze del secolo precedente.
Un ruolo di primo piano gioca invece Torino grazie alla presenza del padre teatino modenese Guarino Guarini. Vi giunge su invito di Carlo Emanuele IInel 1666 dopo aver soggiornato a Roma, Messina, Parigi e, probabilmente, inSpagna e Portogallo. Filosofo e matematico, pur dimostrando di conoscere l’opera di Bernini (il cui progetto non realizzato per il Louvre riprende nel palazzo per i principi di Carignano, dal 1679), aderisce con originalità alla poetica borrominiana, della quale condivide i principi compositivi e i valori estetici, arricchiti grazie alle suggestioni dell’architettura islamica e gotica. La cappella della Sacra Sindone, di cui è responsabile dal 1668, si innesta alla testa del duomo di San Giovanni Battista affacciandosi scenograficamente sulla parete di fondo della zona presbiteriale. Concepita alla stregua di un monumentale reliquiario ricco di riferimenti simbolici, è coronata da una cupola diafana dall’andamento vorticoso e marcatamente ascensionale che, ultimata nel 1682, è stata gravemente compromessa da un incendio nel 1997. Non convenzionale è anche l’impianto centralizzato della chiesa teatina di San Lorenzo (a partire dal 1670), definita, nel perimetro interno, dall’alternanza di superfici concave e convesse; la sua copertura è costituita da una cupola a pianta circolare articolata dall’intreccio di sedici costoloni intorno e al di sopra dei quali si aprono ampie finestre che, letteralmente, accendono di luce e fanno pulsare l’organismo.
Sotto l’egida spagnola, nel meridione della penisola, comprese le isole maggiori, confluiscono esperienze di vario tipo. L’aggiornamento linguistico introdotto dagli ordini religiosi si innesta sulla tradizione locale che propende per soluzioni conservatrici, caratterizzate dall’applicazione di apparati decorativi scultorei di grande opulenza su strutture semplici. È il caso delle opere del bergamasco Cosimo Fanzago, il principale architetto attivo fra il 1630 e il 1656 a Napoli, capitale del viceregno; ed è il caso delle Puglie: centro provinciale,Lecce conosce una stagione di indubbio fermento che trova nelle facciate tufacee dei propri edifici luogo privilegiato d’espressione. Il contesto di maggiore ricchezza è però quello siciliano. Mentre Messina è arricchita dalla presenza di Guarino Guarini, la cui opera è purtroppo stata distrutta dal sisma del 1908, i principali protagonisti della scena palermitana della seconda metà del Seicento sonoGiacomo Amato e il gesuita Angelo Italia, entrambi legati alle tendenze più tradizionaliste del barocco romano.
L’architettura in Europa
Su scala continentale non mancano realtà avulse dal dibattito internazionale, in cui gli orientamenti diffusi non riescono a svincolarsi dalla tradizione. Così in Portogallo e soprattutto in Spagna, dove si diffonde uno stile ricco di superfici decorate secondo una tendenza che deriva dall’architettura del XVI secolo, spesso indicato con la definizione di “churrigueresco” (dal nome dei Churriguera, architetti e scultori attivi fra Sei e Settecento); destinato ad avere riflessi in America Latina, coglie i suoi frutti migliori durante il XVIII secolo nel perseguimento della fusione fra le arti.
Nei Paesi germanici la memoria storica, con riferimento alla sua componente gotica, porta a una comprensione profonda della lezioni borrominiana e guariniana, che animerà i progettisti fino al Settecento inoltrato. Ciò appare evidente negli edifici religiosi cattolici, fra cui l’abbazia benedettina di Melk, progettata nell’Austria Inferiore da Jakob Prandtauer, la chiesa boema di San Giovanni Nepomuceno progettata da Johann Santini Aichel (1720-1722), e nelle opere della famiglia Dientzenhofer. Considerazioni di altro genere riguardano invece l’opera di Fischer von Erlach a Vienna. Forte di un lungo soggiorno nell’Urbe, egli diviene l’interprete ufficiale delle ambizioni della monarchia asburgica. Se il progetto commissionatogli da Leopoldo I per la residenza di Schönbrunn con l’intenzione di surclassare il modello di Versailles è accantonato, cedendo il passo a un’impresa di minori ambizioni, vengono invece realizzate le opere che gli affida il successore al trono Carlo VI, imperatore del Sacro Romano Impero. Centrale nel suo programma è la chiesa di San Carlo, realizzata fra il 1716 e il 1733. Il ringraziamento rivolto al santo patrono per aver liberato la città dalla pestilenza del 1713 offre lo spunto per la celebrazione del sovrano e per la legittimazione del suo ruolo grazie a eruditi riferimenti all’architettura antica: il Pantheon, a cui allude il pronao in facciata, il tempio di Salomone, di cui si richiamano i pilastri gemelli, qui modellati sulla Colonna Traiana a illustrare storie della vita del Borromeo.
La Gran Bretagna del Seicento, inizialmente influenzata da Inigo Jones, profeta del palladianesimo, trova nella seconda metà del secolo il suo protagonista in Christopher Wren. Figura eclettica, egli apre la via agli architetti più giovani (John Vanbrugh, Nicholas Hawksmoor, Thomas Archer, James Gibbs) adottando un linguaggio ispirato alla tradizione del grande classicismo europeo: quello italiano dei maestri del XVI e del XVII secolo, la cui influenza risulta evidente nel più importante dei suoi progetti, la nuova cattedrale di San Paolo a Londra (dal 1666), nonché quello francese coevo, approfondito in un viaggio del 1665.
Insieme alla Roma dei papi, la Parigi di Luigi XIV è infatti il centro di maggiore fermento dell’epoca, nel quale matura il concetto di magnificenza architettonica strumentale all’esercizio del potere politico. Consigliato da Jean-Baptiste Colbert, il sovrano indirizza i suoi interessi dapprima verso il completamento del Louvre. La sua facciata orientale, edificata fra il 1667 e il 1674 su progetto di Claude Perrault, dopo che era stata scartata la proposta di Bernini, rappresenta il manifesto stesso del classicismo barocco francese: un’esibizione aulica di elementi tratti dalla tradizione antica e moderna. Ma è a Versailles, nei dintorni della capitale, dove si trasferisce la corte, che il modello francese raggiunge il suo apice.
Intervenendo su un edificio preesistente, a partire dal 1661 l’architetto Louis Le Vau si concentra sul versante occidentale, dove realizza una facciata compatta e tuttavia aperta sull’ambiente circostante dallo sviluppo marcatamente orizzontale. Come al Louvre, il linguaggio misurato degli ordini svolge un ruolo primario. Sull’andamento del blocco incide il successivo intervento di Jules Hardouin-Mansart, chiamato dal 1678 ad ampliare la struttura, che fu dotata nei decenni di ambienti sontuosi quali la Galerie des Glaces, la più tarda cappella, completata nel 1710 da Robert de Cotte, e il cosiddetto Grand Trianon, un edificio destinato al riposo del sovrano.
L’arte dei giardini
L’importanza della residenza del Re Sole deve essere ricercata anche nel rapporto che vi si stabilisce fra architettura e natura; per la sua autorevolezza quello diVersailles può infatti essere considerato il prototipo del giardino formale barocco francese del XVII secolo. La tipologia messa a punto sotto il regno di Luigi XIV, che affonda le proprie radici nella tradizione italiana tardocinquecentesca e primo seicentesca, è interpretata quale diretta espressione del potere monarchico, della cui manifestazione diviene teatro privilegiato. Come l’architettura coeva, l’organizzazione geometrica e razionale risente delle concezioni scientifiche inerenti lo spazio, percepito come infinito e tuttavia dominato dall’uomo.
Artefice di Versailles è André Le Nôtre, celebrato architetto paesaggista, il cui catalogo annovera il castello diVaux-le-Vicomte, che, realizzato fra il 1657 e il 1661 presso Parigi per il ministro delle finanze del regno, Nicolas Fouquet, sembra aver suscitato lo spirito di emulazione del sovrano; comprende inoltre gli interventi di Maisons, Saint-Cloud, Fontainebleau eChantilly. Lo schema iniziale, dove tutto è organizzato intorno a un asse mediano posto in diretta relazione con l’edificio residenziale, si evolve attraverso percorsi diagonali che infrangono la statica ortogonalità del disegno rinascimentale conferendo dinamismo alla composizione; ammirato dalle finestre degli ambienti di rappresentanza, il giardino trova motivo di ulteriore arricchimento nei mutamenti dovuti alla stagionalità della vegetazione impiegata e nel ruolo attribuito alle acque, messe in movimento da scroscianti cascate e zampilli e poi raccolte nelle grandi vasche e nelle fontane, sempre collocate nei punti focali, arricchite da apparati decorativi e gruppi scultorei. Se nelle porzioni più distanti dalla residenza non mancano zone piantumate a bosquet, rappresentazione di una natura apparentemente più indisciplinata rispetto alla misura generale, le superfici delimitate dalle vie di percorrenza in prossimità del palazzo sono trattate a parterre; il modello più diffuso è quello detto de broderie, cioè “ricamato” con l’impiego di specie vegetali, soprattutto bosso, ghiaie e fiori colorati.
Nel corso del Seicento e della prima metà del Settecento Versailles diviene il modello di riferimento delle residenze reali e nobiliari di tuttaEuropa. Fra i casi più interessanti si ricorda la Svezia, dove, avvalendosi della collaborazione di André Mollet, è la regina Cristina a farsi promotrice della nuova moda nella residenza di Jakobsdal, successivamente nota come Ulrichsdal. In Austria, dove il polo di maggiore importanza è quello della già ricordata residenza di Schönbrunn, deve essere segnalato il Belvedere, l’insediamento suburbano viennese del principe Eugenio di Savoia, dove il giardino si articola fra due corpi di fabbrica indipendenti sfruttando l’andamento digradante del terreno.
In ambito italiano il panorama di maggiore ricchezza è quello laziale e romano in particolare, dove dal tardo Cinquecento le esperienze paesaggistiche evolvono, senza soluzione di continuità, verso il pieno barocco. Partendo dalla scenografica sistemazione della villa Aldobrandini a Frascati, località privilegiata per gli insediamenti nobiliari, si ricordano le residenze suburbane dei Borghese, dei Ludovisi, dei Sacchetti (progettata da Pietro da Cortona e di cui nulla rimane), di villa Doria Pamphilj. Il Piemonte sabaudo si mostra sensibile alla moda francese, importata da Le Nôtre che nel 1681 collabora ai lavori avviati a Racconigi da Guarini per conto del principe Emanuele Filiberto.
Per l’unicità delle sue caratteristiche una menzione merita l’intervento dell’Isola Bella sul Lago Maggiore dove tutta la superficie utile è trasformata in un articolato giardino che circonda e correda il palazzo della famiglia Borromeo.
Gli interventi sulle città
Sotto il profilo urbanistico il Seicento presenta una grande ricchezza di problematiche e soluzioni. Sebbene, anche a livello teorico, manchi l’interesse per i centri di nuova fondazione, limitati ai casi di ricostruzione conseguente a eventi rovinosi e agli insediamenti fortificati, sono numerosi gli interventi di ampliamento delle città esistenti e del loro ammodernamento.
È di nuovo la Roma dei papi a costituire il caso di maggiore interesse. Nonostante il nuovo secolo si fosse aperto sotto il segno di Sisto V e degli ampi interventi da lui promossi in vista del Giubileo del 1600, nell’arco del Seicento si registrano episodi più circoscritti ma di grande impatto. Riguardano in primo luogo alcune importati piazze che, contestualmente alla promozione di interventi edilizi di rilievo, diventano luogo privilegiato per l’esibizione del potere pubblico e privato. È quanto dimostra l’esempio di piazza Navona, l’antico stadio di Domiziano, che la realizzazione pressoché congiunta del palazzo di famiglia di Innocenzo X Pamphilj ad opera di Borromini, della chiesa di Sant’Agnese, alla quale collabora lo stesso architetto e che viene completata da Carlo Rainaldi, e della grandiosa fontana dei Quattro Fiumi, capolavoro di Bernini, trasforma in un centro nevralgico della città. Una grande sensibilità nei confronti del decoro urbano contraddistingue il pontificato di Alessandro VII Chigi, promotore di alcune delle iniziative di maggiore importanza della Roma barocca. Tanto sulla piccola scala di Santa Maria della Pace che su quella monumentale di San Pietro in Vaticano, rispettivamente per la regia di Pietro da Cortona e di Bernini, lo spazio è plasmato mediante interventi coordinati che mettono il fulcro religioso in relazione con il tessuto urbano circostante. Un riferimento merita la sistemazione di piazza del Popolo, dove l’esigenza di dotare la città di un ingresso adeguato al suo rango di capitale politica e spirituale è risolta con soluzione scenografica, affiancando due chiese apparentemente identiche – Santa Maria di Montesanto e Santa Maria dei Miracoli – a capo del tridente che introduce in città.
Nel resto della penisola italiana si registrano casi molto diversi fra loro. Mentre in Sicilia l’evento catastrofico del terremoto del 1693 porterà alla fertile sperimentazione della ricostruzione di interi centri minori (fra essi Noto, Modica, Scicli, Ragusa), a Torino è la lungimirante ambizione dei Savoia ad alimentare il processo dello sviluppo urbano. Un primo ampliamento verso sud, la cosiddetta Città Nuova, risale ai primi decenni del secolo sotto la guida prima di Ascanio Vitozzi poi di Carlo di Castellamonte nonostante episodi salienti come l’apertura di piazza San Carlo, la città si qualifica in primo luogo per la regolarità della maglia urbana, impostata sull’ortogonalità del tracciato viario e sulla moderna uniformità dei prospetti. Le medesime caratteristiche sono riproposte in occasione della seconda espansione, avviata nel 1673 da Amedeo di Castellamonte in risposta ai bisogni di un rilevante incremento demografico e alle esigenze di fortificare il versante orientale della città.
Nel più ampio orizzonte dell’Europa continentale, mutatis mutandis, Londra trova un forte impulso al rinnovamento nel grande incendio che nel 1666 distrugge una parte rilevante della città, inducendo Wren a proporre un piano di ricostruzione nel quale le necessità della sicurezza si sposano a quelle del decoro urbano. Destinato a rimanere in larga parte privo di attuazione anche a causa dei significati politico -simbolici che gli erano sottesi, esso risulta influenzato dalle innovazioni dell’urbanistica romana. Sulle operazioni di ammodernamento della Parigi del secondo Seicento invece molto influiscono le volontà del Re Sole. Una scelta apparentemente controcorrente è quella di privare la città della sua cinta muraria, le cui funzioni vengono demandate alle modernissime cittadelle fortificate progettare dall’architetto Sébastien Le Prestre, marchese di Vauban, lasciando spazio ai boulevards. Pur svuotata del suo ruolo politico e amministrativo, trasferito a Versailles, Parigi diviene il luogo della celebrazione simbolica del sovrano, segnando, con le sue novità, le strategie poi condivise dalla maggior parte delle grandi capitali europee. Aspetto peculiare del programma è l’apertura di alcune piazze: seguendo l’esempio di place des Vosges, la prima piazza reale della città, voluta da Enrico IV, furono realizzate place des Victoires e place Louise-le-Grand, meglio nota come Vendôme. Entrambe opera dell’architetto Mansart, pur nella diversità d’assetto planimetrico (circolare la prima, quadrangolare, con gli angoli smussati, la seconda) trovano motivi di profonda consonanza nell’essere spazi autoreferenziali: delimitate da fronti omogenei e compatti fungevano da monumentale cornice alla statua equestre di Luigi XIV, simboli non a caso distrutti dalla furia rivoluzionaria di fine Settecento.