Da Romolo alla grande Roma dei Tarquini
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La storia della nascita e della crescita di Roma fino all’instaurazione della Repubblica è scandita da momenti nei quali si assiste al sorgere di strutture fondamentali per l’evoluzione delle istituzioni politiche e religiose, ma anche alla definizione di spazi comuni, che simboleggiano l’idea dello spazio urbano come luogo del vivere insieme.
La leggenda di Romolo e Remo e della fondazione di Roma è qualcosa che fa parte del background culturale di tutti noi; ma è in genere considerata, appunto, come una leggenda, come una bella favola priva di qualsiasi addentellato con la realtà storica delle origini dell’Urbe. Del resto la stessa storiografia almeno dalla fine dell’Ottocento ha teso a negare la possibilità di una fondazione di Roma come atto unico ed irreversibile, espressione pianificata di una precisa volontà politica manifestata da Romolo nel sulcus primigenius tracciato intorno al Palatino in quel 21 aprile del 753 a.C.; e ha preferito ricorrere al concetto di formazione, ipotizzando il concretarsi di un processo di lunga durata, graduale e spontaneo, che avrebbe condotto alla costituzione di un insieme urbano coerente e centralizzato non prima del VI secolo a.C. Ma le importantissime scoperte archeologiche fatte da Andrea Carandini e dalla sua équipe nel sottosuolo di Roma in poco più di vent’anni, accompagnate da una accurata revisione dei dati di scavi più antichi, hanno veramente sparigliato le carte, restituendo ai testi sulle origini di Roma di Cicerone, Livio, Dionigi di Alicarnasso, Varrone, un valore di testimonianza storica, anche se in essi la storia si intreccia con il mito, la verità con la fiction e l’intelaiatura del racconto si arricchisce di elementi sacrali e rituali di cui occorre comprendere il significato facendo ricorso alle categorie interpretative dell’antropologia comparata e dell’etnografia, e facendo dell’Urbe un osservatorio privilegiato per gli studi sulla nascita nel mondo antico di un modo organizzato di vivere insieme, di quell’istituto politico, giuridico, sacrale cui diamo il nome di città. Gli scavi di Carandini hanno infatti dimostrato che una sostanziale svolta nella storia di Roma è collocabile proprio negli anni intorno alla metà dell’VIII secolo a.C., anche se non si tratta del sorgere ex nihilo di un insediamento umano, come la leggenda romulea vorrebbe. Il sito su cui sorgerà l’Urbe è, come noto, interessato da una frequentazione che risale almeno alla metà del II millennio a.C., come dimostrano i materiali ceramici rinvenuti sul Campidoglio e nell’area del sottostante Foro Boario, luogo reso strategico dal convergere di un facile guado sul Tevere e del percorso stradale via Salaria-via Campana, sul quale transitava verso la Sabina il sale, elemento prezioso per la conservazione dei cibi e la produzione del formaggio, proveniente dalle saline di Ostia.
Nel corso del IX secolo a.C. si assiste anche qui, come in tanti centri dell’Etruria villanoviana, alla formazione di un nucleo protourbano, nel quale Carandini riconosce il Septimontium ricordato dalle fonti (Varrone, Sulla lingua latina, V, 41), costituito da quartieri sparsi sulle alture insieme alle relative necropoli (che si distribuiscono anche nell’area su cui poi sorgerà il Foro) e separati tra loro da porzioni territoriali destinate alla coltivazione o al pascolo e dislocati in un comprensorio di circa 205 ettari, più ampio dunque di quello dei maggiori centri protourbani etruschi, come Veio e Tarquinia, e di poco inferiore a quella che sarà la dimensione di Roma in età storica. Abitate da gruppi egemoni, le gentes, e dai loro clientes, queste “contrade” non costituiscono un insieme gerarchizzato, così come non è gerarchizzato l’organismo politico (anzi, pre-politico) che verosimilmente le dirige, un consiglio costituito dai patres più anziani e più autorevoli a capo dei diversi gruppi egemoni.
Una sorta di confederazione di “primi tra pari”, dunque: una situazione che mostra di mutare sensibilmente proprio intorno alla metà dell’VIII secolo a.C., quando chiari segnali parlano della nascita di un potere centrale forte, che realizza strutture per il culto comune e per la vita politica, ma anche luoghi-simbolo di una nuova unità civile; che avvia imprese impegnative ma necessarie alla salute e all’ampliamento della comunità; e che infine promuove e stimola un inizio di mobilità sociale, con lo sviluppo delle attività commerciali ed artigianali e un aurorale processo di divisione e specializzazione del lavoro, che giungerà a maturazione nell’età dei Tarquini.
Tra le scoperte più importanti fatte da Carandini c’è quella del muro “romuleo” sulle pendici settentrionali del Palatino, una fortificazione realizzata con pali lignei ed alzato in mattoni crudi e provvista di porte, tra le quali quella che è stata scavata è probabilmente identificabile con la Mugonia, così chiamata per il belato degli armenti che la attraversavano.
La datazione della struttura al secondo quarto dell’VIII secolo a.C. è stata proposta sulla base di un deposito di fondazione rinvenuto sotto la soglia della porta, consistente in un corredo funerario pertinente alla sepoltura di una bambina probabilmente sacrificata in funzione propiziatoria: elemento questo di notevole suggestione, che richiama alla mente il particolare della saga romulea relativo all’uccisione di Remo, che aveva osato violare il confine tracciato dal fratello.
Altri sacrifici umani a destinazione espiatoria sono riconducibili ad una distruzione (databile negli ultimi anni dell’VIII secolo a.C.) della prima cinta muraria in funzione di una sua ricostruzione con una tecnica più raffinata e più solida, con fondazioni in scaglie di pietra e alzato costituito da due cortine di argilla con riempimento; la cinta subirà poi una nuova ristrutturazione, svolgendo la propria funzione fino alla realizzazione delle mura che la tradizione attribuisce a Servio Tullio, che intorno alla metà del VI secolo a.C. andranno ad abbracciare una parte ben più ampia del tessuto urbano, dall’Esquilino al Quirinale, conferendo a Roma un’immagine più definita e coesa di città. Le mura dell’VIII secolo a.C., invece, lasciando fuori una buona parte dell’abitato, cingono solo la “Roma quadrata” sul quadrangolare Palatino: cittadella fortificata che rappresenta il cuore dell’insediamento ma anche il centro del potere regio, focalizzato in due capanne contigue, databili intorno alla metà del VIII secolo a.C. e interpretabili rispettivamente come la prima residenza regia e il primo sacrario di Marte e di Ops Consiva, protettrice delle messi: capanne che appaiono continuamente restaurate e ricostruite, oggetto di una venerazione secolare. La struttura romulea sancisce così, di fatto, la funzione egemonica del Palatino, destinata a resistere per lunghi secoli nella storia di Roma antica: va ricordato che il Palatino costituirà il quartiere residenziale della classe dirigente romana durante la repubblica, per accogliere poi le dimore di Augusto e dei suoi successori. Al terzo quarto dell’VIII secolo a.C. è probabilmente riconducibile l’istituzione del primo culto poliadico della città, rivelato sul Campidoglio dal rinvenimento di un importante deposito votivo tornato alla luce negli anni Venti del secolo scorso durante i lavori per la realizzazione di uffici del Comune di Roma (si tratta del cosiddetto deposito della Protomoteca capitolina): si ritiene che debba trattarsi del luogo di culto di Giove Feretrio, la cui inaugurazione le fonti antiche attribuiscono a Romolo.
Probabilmente la struttura sacra in questione è una semplice capanna con un altare antistante, all’interno della quale è custodito il simulacro aniconico del dio, il lapis silex, forse un’ascia preistorica, interpretata come la materializzazione del fulmine; va a tal proposito ricordato che un frammento di Varrone (Le antichità, I, fr. 18 Cardauns) testimonia dell’esistenza, nella Roma della prima età regia, del divieto di realizzare immagini di culto, che sarebbe venuto meno solo con i Tarquini.
Negli anni tra il 750 e il 725 a.C. circa, una precoce e strutturata pianificazione urbanistica sembra interessare l’abitato, come testimoniano sia lo spostamento delle zone riservate alle sepolture in aree periferiche dell’Esquilino e del Quirinale allo scopo di destinare aree più ampie all’espansione della città che la realizzazione di strade, spazi pubblici per eccellenza, le più antiche di Roma, con battuti di ghiaia pressata in funzione impermeabilizzante.
Ma è il Foro a mostrare nel modo più chiaro e sorprendente la complessità e l’ambiziosità di questo progetto urbano, e la forza dell’autorità politica di cui è emanazione: qui, in un lasso di tempo compreso tra il secondo quarto dell’VIII e gli inizi del VII secolo a.C., quella che era stata una bassura malsana spesso invasa dalle acque del Tevere accoglie le prime strutture istituzionali specializzate, a carattere religioso e politico, della neonata città, e si avvia a diventare la piazza pubblica per eccellenza, del tutto paragonabile all’agorà della polis greca, anche grazie ad un impegnativo intervento di bonifica che si conclude con la realizzazione della prima pavimentazione, in ciottoli, del Foro (inizi VII secolo a.C.).
Gli scavi recenti hanno rivelato che gli inizi della frequentazione del Comitium, sede, in origine, del consiglio regio destinata a diventare luogo di riunione dei cittadini della Roma repubblicana, debbono datarsi entro la seconda metà dell’VIII secolo a.C., epoca in cui viene costruita la prima Regia, la dimora “pubblica” del re sceso dalla residenza palatina: una struttura che assomma funzioni politico-rappresentative e funzioni religiose, accogliendo il culto di Marte, quello di Ops Consiva e quello dei Lari, e collocandosi all’interno del santuario di Vesta, dove arde perennemente il sacro focolare della città. Si tratta di una struttura a capanna, caratterizzata tuttavia da una pianta rettangolare allungata, di un tipo che tornerà nelle regge dei principes etruschi di età orientalizzante, e che nella seconda metà del VII secolo a.C. supererà la tecnica capannicola per dotarsi di un tetto di tegole e di muri con base a scaglie di tufo. Intorno al 600 a.C. questa domus, nella quale è da individuare la sede dei re fino a Tarquinio Prisco, verrà sostituita nella sua funzione da una nuova Regia, significativamente esterna al santuario di Vesta, anche se direttamente collegata ad esso tramite un passaggio interno, mentre la vecchia dimora verrà ristrutturata per diventare la sede del rex sacrorum, il “re dei sacrifici”, una figura istituzionale che assume il ruolo religioso fino a questo momento espletato, insieme ai doveri militari, giuridici e amministrativi, dal rex: una figura emblematica, dunque, come lo è la stessa separazione tra la dimora regale e il santuario di Vesta, del processo di secolarizzazione che l’istituto della regalità arcaica a Roma conosce con l’avvento dei “re etruschi”, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. La monarchia dei Tarquini ha delle caratteristiche che la rendono paragonabile alle tirannidi arcaiche delle città greche, magnogreche e siceliote; e del resto, questo legame ideale è sotteso alla stessa leggenda che vuole Tarquinio Prisco figlio di Demarato, esule a Tarquinia da Corinto a seguito della cacciata dei Bacchiadi e dell’instaurazione della tirannide di Cipselo (657 a.C. ca.). Come in Grecia, a Roma si assiste in questo periodo ad un intensificarsi della mobilità sociale, che conduce ad un ridimensionamento dei privilegi e del potere dell’aristocrazia fondiaria e all’affermazione di nuovi ceti, artigiani, commercianti, stranieri inurbati, che costituiscono la base del consenso per i Tarquini, e che andranno a formare poi la plebe urbana di Roma; e i re dimostrano una particolare attenzione alle loro esigenze, promuovendo una politica urbanistica che trasformerà il volto della città, rendendola, alla fine del VI secolo a.C., una delle più grandi dell’area mediterranea, ricca di edifici monumentali, ma anche di strutture funzionali adatte al commercio e alla vita attiva.
Una città caratterizzata da una magnificentia espressa sia dagli edifici sacri che dalle strutture utilitarie, come sottolinea Tito Livio (Storia di Roma, I. 56,1-8) a proposito della Cloaca Maxima, attribuita dalle fonti a Servio Tullio; la stessa magnificentia che impronta la grandiosa cinta muraria serviana, lunga 11 chilometri, e la realizzazione del primo impianto pubblico per spettacoli della città, il Circo Massimo, il grandioso ippodromo voluto da Tarquinio Prisco, ispirato ai primi impianti sportivi del mondo greco. Una città prospera, infine, nella quale all’intensa attività edilizia di committenza pubblica verrà gradualmente ad affiancarsi lo sviluppo di un’architettura privata di notevole livello qualitativo, come ha dimostrato la scoperta di grandi residenze aristocratiche, databili agli anni intorno al 530 a.C., disposte tra le pendici del Palatino e la Via Sacra: strutture nelle quali è possibile riconoscere la prima definizione del modello romano della domus ad atrio, che sarà la residenza-tipo dell’élite dirigenziale romana in età repubblicana. È questa, dunque, la “grande Roma dei Tarquini”, come l’ha definita, per primo, il massimo filologo classico italiano del Novecento, Giorgio Pasquali.
È indicativo del ruolo propulsivo svolto dal commercio nello sviluppo della Roma dei Tarquini il fatto che la tradizione letteraria attribuisca ai re etruschi la costruzione dei primi spazi commerciali affacciati sul Foro, quelle tabernae (che verranno poi dette veteres per distinguerle dalle novae, costruite più tardi sul lato opposto della piazza) collocate all’imbocco del Vicus Tuscus, una via che giunge sino al Foro Boario, cuore pulsante dei commerci e degli scambi della città, e il cui nome, interpretabile sia come “via degli Etruschi” che come “quartiere etrusco”, allude chiaramente alla vivace presenza nella Roma di questo periodo dell’elemento etrusco, impegnato principalmente nelle attività artigianali e commerciali.
Tutta l’area del Foro Boario subisce in questa fase delle notevoli trasformazioni, con la realizzazione di una serie di santuari emporici che vanno ad affiancare l’Ara Maxima Herculis, il “grandissimo altare” costruito secondo il mito dallo stesso Ercole (giunto sul Palatino come ospite dell’arcade Evandro) dopo aver ucciso Caco, il brigante che gli aveva sottratto alcuni capi della mandria di Gerione. La leggenda sulle origini di questa struttura (della quale resta il grande nucleo in tufo, pertinente ad un rifacimento del II secolo a.C., all’interno del quale è incavata la cripta della chiesa di S. Maria in Cosmedin) rimanda ad un periodo precedente alla fondazione romulea (tanto che l’Ara Maxima è ricordata come uno dei vertici della “Roma quadrata”), trasferendo sul piano mitico il ricordo di antichissime frequentazioni dell’area da parte di mercanti greci e orientali, dimostrate dal rinvenimento, nella zona del Foro Boario, di frammenti di ceramica euboica e cicladica databili già dalla metà dell’VIII secolo a.C.; ed è probabile che l’altare sia da interpretarsi come santuario emporico eretto a protezione di un fondaco greco precoloniale, nel quale mercanti stranieri e indigeni potevano contrattare sotto la protezione della divinità. A Servio Tullio (forse il figlio bastardo di Tarquinio Prisco e di una serva, la cui affascinante vicenda è ricostruita in un libro recente di Carandini) le fonti attribuiscono l’introduzione in questa zona del culto di Fortuna, divinità con la quale il re ostenta un rapporto particolarmente privilegiato, di natura erotica, chiaramente ispirato all’ideologia ierogamica di matrice vicino-orientale, e di Mater Matuta, dea italica della luce del mattino, protettrice delle nascite.
Al di sotto della grande platea che funge da base ai due templi gemelli di età repubblicana dell’area sacra di Sant’Omobono sono stati rinvenuti i resti di un tempio arcaico, databile intorno alla metà del VI secolo a.C. e distrutto violentemente alla fine dello stesso, in significativa corrispondenza con la data di inizio del regime repubblicano; in questa struttura, che costituisce il più antico esempio conservato di tempio tuscanico, è probabilmente riconoscibile l’edificio sacro di Mater Matuta nella sua prima fase, quella serviana. È probabile che a questo periodo debba essere fatta risalire anche una prima fase costruttiva del tempio di Portunus, dio protettore dei porti e degli accessi, collocato a fiancheggiare lo scalo arcaico del porto sul Tevere sul lato opposto rispetto al complesso di Sant’Omobono: è stato proposto che le due aree santuariali fossero idealmente connesse tra loro grazie all’identificazione di Portunus con Melicerte-Palemone, e di Mater Matuta con sua madre, Ino-Leucothea, una figura spesso assimilata a divinità di natura emporica in età arcaica in scali frequentati da navigatori provenienti dalla Ionia (come a Pyrgi, uno degli scali di Cerveteri). Un carattere emporico è probabilmente da attribuire anche al tempio di Diana sull’Aventino, fatto realizzare dallo stesso Servio secondo il modello del più celebre e prestigioso santuario della Ionia, quello di Artemide ad Efeso, e destinato a diventare per eccellenza il tempio della plebe di Roma, insieme a quello dedicato alla triade Cerere, Libero e Libera, la cui erezione, ai piedi dello stesso Aventino, risale probabilmente alla fine dell’età dei Tarquini.
Il tempio di Diana sull’Aventino è costruito in competizione con il santuario federale dei Latini nel bosco sacro di Diana Aricina a Nemi, in un momento in cui la spinta espansionistica di Roma si dirige verso i Colli Albani, mentre sempre più numerosi sono probabilmente i latini che si trasferiscono nell’Urbe; così come per esautorare e sostituire il più importante e antico santuario panlatino, quello di Giove Laziare sul monte Albano, viene concepito il più grandioso progetto monumentale dell’età dei Tarquini, il tempio di Giove Capitolino, votato ed iniziato da Tarquinio Prisco, ma costruito dal Superbo ed inaugurato solo dopo la fine del regime monarchico. L’edificio, della cui fase arcaica restano parti del podio in opera quadrata di cappellaccio (un tipo di tufo grigiastro utilizzato ampiamente nell’edilizia urbana dell’età dei Tarquini) è il più grande tempio tuscanico mai costruito: le sue dimensioni, eccezionali per l’epoca (53x63 m), rappresentano l’eloquente manifestazione della volontà di potenza dei Tarquini, che con quest’opera intendono sancire sia l’unità dell’Urbe che il suo ruolo egemonico e tutelare sui popoli del Lazio. In questo grande tempio le suggestioni derivanti dai contemporanei sviluppi dell’architettura templare greca si combinano con le esigenze dettate dai rituali indigeni del culto, dando origine ad una struttura periptera ma chiusa posteriormente (peripteros sine postico), collocata su un alto podio che riserva alla divinità lo spazio effatus (liberato dagli spiriti maligni) e inauguratus attraverso la pratica divinatoria dell’auspicium espletata dall’augure, e caratterizzata dalla presenza di tre celle, destinate a Giove, Giunone e Minerva (la triade capitolina), nelle quali si combina la tradizione italica di associare gli dèi in triadi con il concetto, comune anche al modello templare greco, del tempio come “casa” del dio. L’effetto grandioso del monumento doveva essere amplificato dalla profondità del vestibolo rivolto verso la città con tre file di sei colonne, e soprattutto dalla ricca decorazione in terracotta policroma, culminante con la quadriga acroteriale di Giove (Plutarco, Publicola, 13), realizzata dall’artista Vulca di Veio per Tarquinio il Superbo (Plutarco, Publicola, 13); e quale fosse la qualità della decorazione fittile può essere solo immaginato attraverso il confronto con le splendide statue in terracotta dal tempio di Portonaccio a Veio, attualmente conservate presso il Museo di Villa Giulia a Roma.
I coroplasti etruschi, spesso artigiani di origine greca (segnatamente ionica) trasferitisi in Etruria, sono attivissimi nella Roma dei Tarquini, dove realizzano complessi apparati decorativi per dimore private e per edifici templari. Nelle lastre fittili policrome, di un tipo ampiamente diffuso in questo periodo in Etruria e nel Lazio (da Murlo ad Acquarossa, da Veio a Velletri), destinate a costituire il sistema di copertura degli elementi lignei dei tetti, si celebrano i rituali gentilizi, dalle cerimonie nuziali alle gare atletiche e al simposio, mentre vi compaiono raramente i soggetti mitologici, eccezion fatta per quelli che consentono di esaltare la virtus del committente e le sue aspettative a seguito dell’esito glorioso delle sue imprese attraverso il confronto ideale con i grandi eroi del mito greco. Basti pensare al tema di Teseo vincitore del Minotauro, che compare nella decorazione fittile della Regia nel Foro, o quello dell’apoteosi di Ercole, presente nelle decorazioni fittili delle dimore aristocratiche laziali (come nelle lastre del cosiddetto Tempio delle Stimmate di Velletri, 530 a.C. ca.), e a Roma nell’ornamentazione del tempio dell’area sacra di Sant’Omobono, dove costituisce il soggetto di uno splendido gruppo acroteriale a tutto tondo, eseguito in un raffinato stile di gusto ionico. La decorazione di questo tempio, di cui sono giunti numerosi frammenti, doveva essere assai ricca, e il frontone, probabilmente di tipo chiuso, doveva ornarsi di due felini affrontati in un esplicito richiamo a modelli greci (tra cui quello dell’Artemision di Corfù) per un edificio che costituisce un biglietto da visita della città ai naviganti stranieri, in un momento in cui maturano le spinte egemoniche di Roma, che significativamente la condurranno, con l’inizio del regime repubblicano, alla ratifica del primo trattato romano-cartaginese (509 a.C.). La splendida fioritura che la città vive nell’età dei Tarquini è la manifestazione concreta del crescere delle sue ambizioni, che ne amplieranno sempre più il ruolo nella politica internazionale del Mediterraneo.