Da Ruffini a Jemolo: libertà religiosa e rapporti tra Stato e Chiesa
Richiamando nel 1967 le esperienze della prima infanzia di Francesco Ruffini (al quale la madre, precocemente vedova, aveva spiegato il catechismo rammentando i propri incontri giovanili con un vecchio prete giansenista), Arturo Carlo Jemolo – il più vicino, tra gli allievi di Ruffini, ai suoi orientamenti di pensiero e di ricerca – annotava:
In questi che sarebbe poi stato più che un libero pensatore un deista, rispettoso di tutte le confessioni e di tutti i convincimenti, sempre conscio di quel che hanno di fulgido i sommi principi del cristianesimo, fin dall’infanzia penetrava l’interessamento per i problemi morali, per quelli che sono, nell’animo del credente, i rapporti tra uomo e Dio (Introduzione alla ristampa del 1967 di F. Ruffini, La libertà religiosa. Storia dell’idea, 1901, p. XIX).
Ruffini era nato a Lessolo (Ivrea) il 10 aprile 1863 e, dopo gli studi liceali a Ivrea, aveva frequentato la facoltà di Giurisprudenza di Torino (1882-86), dove si laureò in storia del diritto con Cesare Nani. Nel 1889 pubblicò con Bocca il libro L’actio spolii: studio storico giuridico. Si recò, quindi, in Germania per studiare con Emil Albert Friedberg, allora la figura europea di maggiore rilievo nel campo del diritto ecclesiastico e canonico, del cui Lehrbuch des katholischen und evangelischen Kirchenrechts (1879, 18842) curerà nel 1893 la traduzione italiana (Trattato di diritto ecclesiastico cattolico ed evangelico), integrandola con una felice sintesi sulla storia dei rapporti tra gli Stati preunitari e la Chiesa di Roma.
Libero docente (1891), insegnò diritto canonico ed ecclesiastico a Pavia (1892) e a Genova (1893-98), per tornare a Torino nel 1899 sulla cattedra di storia del diritto e dal 1908 su quella di diritto ecclesiastico. Ricoprirà quest’ultimo incarico fino al novembre del 1931, quando deciderà di lasciare l’insegnamento per non prestare il giuramento di fedeltà al regime fascista richiesto a tutti i docenti universitari dal regio decreto nr. 1227 del 28 agosto 1931. Nella scelta lo seguirà, insieme a un ridottissimo gruppo di professori, anche il figlio Edoardo, professore di storia del diritto italiano a Perugia.
Preside della facoltà di Giurisprudenza di Torino (1904-07) e rettore di quell’Ateneo (1910-13), venne nominato senatore del Regno su proposta di Antonio Salandra (1914) e fu ministro della Pubblica istruzione nel governo Boselli (1916-17). Iniziò così un’impegnata battaglia politica, che si sviluppò in Senato (cfr. i suoi Discorsi parlamentari, 1986) e sulle colonne del «Corriere della sera» (a tale proposito, cfr. Diritti delle coscienze e difesa delle libertà: Ruffini, Albertini e il Corriere, 1912-1925, 2011), ma anche su «Nuova antologia» e su «La Rivoluzione liberale» di Piero Gobetti. Al congresso fondativo del Partito liberale, nell’ottobre del 1922, predispose i principi di politica religiosa del programma (punto 3: «Rispetto assoluto del sentimento religioso sulla base dell’uguaglianza tra i vari culti e della libertà della Chiesa nell’ambito della sovranità dello Stato»). Principi, questi, prossimi alle teorie di Luigi Luzzatti (esposte in La libertà di coscienza e di scienza, 1909) più che alla tradizione cavouriana, della quale, peraltro, Ruffini fu un sistematico interprete (cfr. in particolare Ultimi studi sul conte di Cavour, 1936).
Jemolo riteneva che le idee politiche di Ruffini – criticate da Antonio Gramsci in più occasioni – coincidessero in definitiva con quelle del direttore del «Corriere», Luigi Albertini:
Un conservatorismo laico con molte riserve verso Giolitti, in parte di ordine strettamente politico […], in parte di ordine morale per quel che era, nel Mezzogiorno, la clientela dei deputati giolittiani (Introduzione, cit., p. XXVI).
Un antigiolittismo, quello di Ruffini, non lontano da quello di Gaetano Salvemini, ma più vicino a quello di Gobetti. Quest’ultimo era stato studente di Ruffini e ne pubblicò nelle proprie edizioni il libro Diritti di libertà (1926), che, come ricorderà Piero Calamandrei nella sua prefazione (L’avvenire dei diritti di libertà) alla ristampa del 1946, «sparì subito dalle vetrine e diventò quasi introvabile, ridotto alla missione sotterranea, efficace soltanto a lunga scadenza, della stampa clandestina» (p. VIII), e che Norberto Bobbio definirà
uno dei testi fondamentali dell’educazione antifascista dei giovani che cercavano di sfuggire all’indottrinamento del regime (L’ombra di Francesco Ruffini, «Nuova antologia», gennaio-marzo 1986, p. 48).
Nel ricordare Gobetti subito dopo la sua morte (avvenuta a Parigi il 15 febbraio del 1926), Ruffini mise in evidenza
la vita esemplare, […] l’ardore incomparabile di quella esistenza [che] consumò rapidamente il fragile involucro [del] povero morto che mi fu e mi diventa ognora più caro. […] A me, pensando a quel mio discepolo, morto in condizioni così pietose mentre cercava in un paese straniero nuovo spazio alla vita del suo spirito, sembra che oramai il maestro sia lui (F. Ruffini, L. Einaudi, G. Fortunato, Piero Gobetti nelle memorie e nelle impressioni dei suoi maestri, «Il Baretti», marzo 1926, p. 80).
L’opera Diritti di libertà si ricollega alla ricordata La libertà religiosa. Storia dell’idea e al fondamentale ‘corso’ del 1924 La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo (riedito nel 1992 con una penetrante introduzione di Silvio Ferrari). Essa, come ha messo in luce Mario Dogliani nella postfazione alla ristampa del 2013, al di là della sua «perdurante notorietà» come «atto di coraggio e di testimonianza», in quanto «durissimo attacco contro la legislazione fascista» in formazione (Calamandrei, nella citata prefazione alla ristampa del 1946, aveva definito Diritti di libertà un «atto di fede nella libertà non solo pericolante ma già in quell’anno messa in catene, […] un atto di grande coraggio civile»; L’avvenire…, cit., p. VII), dev’essere valorizzata nel suo «nucleo teorico» relativo alla questione del «fondamento dei diritti», oggi «tornata di attualità» (p. 238). Il libro è, infatti,
espressione di un estremo tentativo di contrastare la radicale rimozione che la cultura giuridica post-unitaria aveva operato di ogni voce che non fosse allineata con un estremismo statualista che era sì di derivazione germanica – e pronto all’uso da parte del fascismo –, ma che era stato adottato perché rispondeva alla pervicace volontà di negare ogni minimo spiraglio ad una interpretazione del formarsi dello Stato unitario che ne valorizzasse la componente popolare, di partecipazione politico-ideale, suscettibile di imprimere alla concezione diffusa dello Statuto un carattere pattizio o addirittura di collocarla su uno sfondo evocante […] il potere costituente (p. 241-42).
In definitiva, secondo la felice interpretazione di Dogliani, i Diritti di libertà «non sono affatto una ricapitolazione di tesi diffuse nella cultura dell’Italia liberale, ma […] una trattazione originale ed eccentrica rispetto a tale cultura» (p. 242).
Contestato nelle aule dell’Università di Torino dagli studenti del Gruppo universitario fascista, Ruffini – tra i firmatari, con Jemolo, del Manifesto degli intellettuali antifascisti («Il mondo», 1° maggio 1925) promosso da Benedetto Croce – intensificò la sua battaglia in difesa di tutte le libertà e divenne il punto di riferimento di «tutto l’antifascismo intellettuale torinese, di giovani e vecchi» (A.C. Jemolo, Introduzione, cit., p. XXIX). In stretta coerenza con i suoi scritti e con la sua linea politica, nel 1929 votò in Senato contro la ratifica dei Patti lateranensi, insieme a pochissimi colleghi la cui posizione venne illustrata da Croce in un discorso con lui concordato.
Il rapporto di Ruffini con Croce, caratterizzato da molte consonanze e da non rare dissonanze (per es., al momento dell’intervento italiano nella Prima guerra mondiale, del tentativo di far nominare, nel 1916, Giovanni Gentile all’Università di Napoli, del voto di fiducia al governo Mussolini nel giugno 1924, della breve presenza di Ruffini nel Consiglio direttivo dell’Istituto della Enciclopedia Italiana nel 1925), divenne gradualmente, tra il 1910 e il 1933, una vera e intima amicizia, consolidata anche da quella tra le rispettive famiglie. Di Ruffini andrebbero, comunque, ricostruiti i rapporti con Gentile e le attività, tra il 1922 e il 1925, in seno alla Società delle nazioni (presso l’Istituto internazionale per la cooperazione culturale, dove contribuì a elaborare la regolamentazione internazionale del diritto d’autore).
Un approccio quantitativo alla sua vastissima produzione vede la prevalenza degli scritti di diritto positivo, seguiti da quelli di storia e di storia giuridica, con una forte presenza di temi di diritto ecclesiastico, canonico, pubblico, privato e internazionale. Tra le sue opere principali si possono ricordare: L’actio spolii: studio storico giuridico (1889), La buona fede in materia di prescrizione: storia della teoria canonistica (1892), La libertà religiosa. Storia dell’idea (1901, rist. 1967 e 1991), Le spese di culto delle opere pie (1908), La giovinezza del conte di Cavour (2 voll., 1912, 1937-19382, con il tit. La giovinezza di Cavour), Il presidente Wilson (1919), Sionismo e Società delle nazioni (1919), La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo (1924, rist. 1992), I giansenisti piemontesi e la conversione della madre di Cavour (1929, rist. 1942), La vita religiosa di Alessandro Manzoni (2 voll., 1931). Postume sono state pubblicate diverse raccolte di suoi scritti: Ultimi studi sul conte di Cavour (1936), Scritti giuridici minori (a cura di M. Falco, A.C. Jemolo, E. Ruffini, 2 voll., 1936), Studi sul giansenismo (a cura di E. Codignola, 1943), Studi sui riformatori italiani (a cura di A. Bertola, L. Firpo, E. Ruffini, 1955), Relazioni tra Stato e Chiesa: lineamenti storici e sistematici (a cura di F. Margiotta Broglio, premessa di A.C. Jemolo, 1974).
Jemolo definì Ruffini «forte costruttore e manipolatore di principi giuridici, […] finissimo giurista» che «sentiva sempre forte l’attrazione della storia: non solo del conversare con i morti, e farli rivivere […] nel loro tempo, […] ma di vedere l’umanità in cammino» (Introduzione, cit., p. XXI).
Ruffini morì a Torino il 29 marzo 1934. Alla sepoltura, avvenuta nel piccolo cimitero di Borgofranco d’Ivrea, erano presenti alcuni dei rari superstiti del mondo liberale: Luigi Einaudi, Benedetto Croce, Luigi e Alberto Albertini, Marcello Soleri, Gioele Solari, Luigi Salvatorelli, Mario Abiate, Niccolò Carandini. Era presente anche Jemolo, che così ebbe ad annotare, dopo aver ricordato la presenza «proterva» dei reali carabinieri:
I superstiti si contano; a qualcuno viene in mente il funerale del conte di Chambord, la bandiera del legittimismo richiusa con lui nella cripta: non sono questi gli ultimi liberali? (Introduzione, cit., p. XXXI).
Dopo la presentazione all’Accademia dei Lincei del libro del 1901 sulla storia della libertà religiosa, Ruffini aveva scritto al presentatore, Luzzatti (1841-1927), di aver fatto tesoro (nell’edizione inglese aggiornata del 1912) della sua opera La libertà di coscienza e di scienza, e nel libro del 1924 sulla libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo dette specifico rilievo al pensiero di Luzzatti, replicando anche alle critiche a esso rivolte da Croce. È singolare il fatto che dopo la morte di Luzzatti sia calato il silenzio sulle opere di quest’ultimo in materia di libertà di religione e di coscienza, tradotte in molte lingue (la citata La libertà di coscienza e di scienza e Dio nella libertà: studi sulle relazioni tra lo Stato e le chiese, 1926), così come per tutto il periodo del regime fascista si devono registrare lo «scarsissimo successo» del libro di Ruffini sulla libertà religiosa (Ferrari 1992, p. 21) e più in generale l’oblio di tutto il suo pensiero. E se l’interesse per Ruffini si riaccenderà nel 1946, con la Costituente, ed è ancora molto vivo (come si è sopra accennato), gli studi sull’opera di Luzzatti – ignorata anche a livello di dottrine giuridiche – sono ripresi solo dopo il convegno veneziano di studio del novembre 1991 (cfr. Luigi Luzzatti e il suo tempo, 1994) e con i successivi lavori di Paolo Pecorari (1995, 2006 e 2010) e di Pierluigi Ballini (2006).
Nella temperie trionfalistica della Conciliazione, che aveva celebrato anche la riconsacrazione delle religione cattolica come religione dello Stato – prevista dallo Statuto di Carlo Alberto, ma privata di contenuti giuridici dalla legislazione successiva e considerata da Luzzatti in contrasto con il principio di uguaglianza e discriminatoria verso gli altri culti – , non potevano sicuramente trovare spazio principi come quelli da lui propugnati nei numerosi scritti contenuti nel volume Dio nella libertà. Nella prefazione a esso aveva, tra l’altro, sostenuto che
la fede tende a liberarsi dalle catene che la tengono avvinta ai governi, dalle leggi di protezione, di tolleranza, e anela a ritrovare l’espressione genuina e libera dei credenti custodita in associazioni difese da provvedimenti generali. Scompaiono, quindi, gradatamente le confusioni fatali dello Stato con le religioni e delle religioni con lo Stato, svaniscono le egemonie e le servitù celesti, terribili connubi che per tanti secoli nocquero alla civiltà, e si disciolgono ai progressi di un diritto costituzionale, genuina espressione di due grandi liberazioni: quello dello Stato dalle Chiese e quella delle Chiese dallo Stato (p. IX).
E aveva avvertito che le differenze di trattamento tra i culti avrebbero, ancora una volta, scatenato il «demone dell’intolleranza» (p. X). Non si dovette attendere molto per vedere concretata la previsione di Luzzatti: il 24 giugno del 1929, qualche mese dopo la firma dei Patti Lateranensi, la legge nr. 1089 sui culti diversi dalla religione dello Stato, consacrerà la diversità di trattamento delle religioni ‘acattoliche’, una diversità che, sia pure in un ben diverso contesto normativo, si ritroverà ancora nella Costituzione del 1948 e che, per tutte le confessioni che non abbiano stipulato una ‘intesa’ con lo Stato (art. 8, 3, Costituzione), è ancora viva e vigente.
Jemolo fu dunque l’allievo di Ruffini che più degli altri (Mario Falco, Arnaldo Bertola, Mario Gorino Causa) ne seguì le orme, sia a livello di ricerca scientifica (su temi quali il diritto ecclesiastico e canonico, la storia giuridica e delle relazioni tra Stato e Chiese, la storia del pensiero religioso e della politica ecclesiastica, i rapporti tra i giansenisti e Alessandro Manzoni ecc.), sia sul piano della cultura politica nazionale. Divenne così, nel secondo dopoguerra e fino all’inizio degli anni Novanta, una delle più alte coscienze critiche dell’Italia sui principali nodi della società civile e, soprattutto, su quella questione religiosa che ha segnato la storia del Paese dalla nascita dello Stato alla pervicace difesa da parte delle autorità vaticane ed episcopali di valori morali considerati legittimamente ‘irrinunciabili’ (l’indissolubilità del matrimonio, il divieto di interruzione della maternità, i matrimoni ‘per tutti’, l’eutanasia), ma non imponibili o garantibili, in una democrazia, se non attraverso i previsti meccanismi legislativi e con l’avallo di opportune maggioranze, parlamentari o popolari (referendum).
Anche di Jemolo si devono mettere in evidenza – come si è detto per il suo maestro Ruffini – le molte e fondamentali opere giuridiche e storiche e i frequenti interventi, anche politici, su importanti periodici (da «Nuova antologia» a «Il ponte», da «Il politecnico» a «Belfagor», da «Il mondo» ad «Astrolabio») e sulla stampa quotidiana (soprattutto su «La stampa» di Torino, tra il 1955 e il 1981). Rievocando, nel 1966, lo «spirito» de «Il mondo» di Mario Pannunzio, Jemolo scriverà che era stato quello di
quanti nel ’45 avevano confidato in un’Italia rinnovata, pulita, con profonda fede nella libertà, guarita anche dal vecchio male nazionale, lo scetticismo, l’egoismo che porta a scambiare per vita democratica l’insofferenza della legge («Astrolabio», 1966, p. 24).
Di Jemolo vanno ancora ricordate la breve presidenza (qualche mese, a cavallo tra il 1945 e il 1946) della RAI e la lunga e sistematica presenza (quasi 90 puntate) nella popolare trasmissione radiofonica Il convegno dei cinque.
Il suo percorso politico andò dal nazionalismo (non interventista) al modernismo, dal liberalismo di Ruffini all’azionismo di Ferruccio Parri, dalla simpatia per il Fronte popolare del 1948 alla diffidenza verso ogni ‘partito cristiano’ (prima quello di Luigi Sturzo e poi quello di Alcide De Gasperi), dall’impegno, anche elettorale, con Calamadrei in Unità popolare – con la battaglia contro la ‘legge truffa’ – alla lotta a favore del divorzio, dalla collaborazione alla revisione del Concordato lateranense negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, alla ‘notte della Repubblica’ con il ‘sacrificio nel silenzio’ di Aldo Moro. Un percorso che può essere seguito anche attraverso il libro di ricordi Anni di prova (1969) e la raccolta di saggi storici Questa Repubblica (1978, 19812).
Jemolo era nato il 17 gennaio 1891 a Roma (e a Roma morirà il 12 maggio 1981). Dopo i primi studi, dal 1905, in seguito al ritorno a Torino della madre (Anna Adele Sacerdoti, imparentata con la vasta famiglia dei Momigliano) aveva frequentato gli ultimi due anni del liceo al classico Vittorio Alfieri e poi la facoltà di Giurisprudenza della locale Università, dove si laureò nel 1911 con una tesi in diritto ecclesiastico discussa con Ruffini (La questione della proprietà ecclesiastica nel Regno di Sardegna e nel Regno d’Italia, 1848-1888).
Fu segretario prima al ministero di Grazia e Giustizia (nel 1911, al Fondo per il culto) e poi al ministero dei Lavori pubblici (dal 1911 al 1920). Dopo la fine della Prima guerra mondiale (durante la quale fu fatto prigioniero dagli austriaci e venne detenuto nel campo per ufficiali di Plan, in Boemia) divenne giureconsulto della delegazione italiana alla Commissione delle riparazioni, a Parigi e a Vienna (1919-20). Aveva iniziato la carriera universitaria nel 1916 con la libera docenza; vinto nel 1920 il concorso a professore straordinario di diritto ecclesiastico, fu chiamato a Sassari (1920), Bologna (1923) e Roma (1933) – dove succedette a Francesco Scaduto, fondatore con Ruffini della scienza del diritto ecclesiastico in Italia, e dove rimarrà fino al 1961 –, con un breve e non felice passaggio all’Università cattolica di Milano (1925-27). Un lungo e incisivo magistero universitario, il suo, scandito da una serie sempre rinnovata di corsi e manuali di diritto ecclesiastico, in diverse e successive edizioni.
Profondo fu il suo legame con la figura centrale del modernismo italiano, Ernesto Buonaiuti (che celebrò nel 1921 il suo matrimonio con Adele Morghen), al quale, nonostante alcune divergenze, restò costantemente vicino (nel 1964 scrisse un’ampia introduzione alla ristampa, curata da Mario Niccoli, dell’autobiografia di Buonaiuti, Pellegrino di Roma, uscita in origine nel 1945) e dal quale fu incoraggiato, insieme a Ruffini, a scrivere la monografia del 1928 Il giansenismo in Italia prima della Rivoluzione, che era stata preceduta, nel 1914, dal libro Stato e Chiesa negli scrittori politici del Seicento e del Settecento e che sarà seguita da molte, ulteriori ricerche sulla storia religiosa di quei due secoli e dei due successivi.
Accademico dei Lincei, nel 1949 Jemolo vinse il premio Viareggio per la saggistica con il libro Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni (1948), che rappresenta ancora oggi (si veda a tale proposito “Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni” di Arturo Carlo Jemolo: un dibattito, 2012) la più valida sintesi sui rapporti tra Chiesa e Stato dal Piemonte di Carlo Alberto alla Repubblica del 1948 e, nelle successive edizioni (pubblicate fino al 1975), all’età di Giovanni XXIII, di Paolo VI e del Concilio Vaticano II. Carlo Morandi scrisse nel 1949 che con quest’opera il liberalismo italiano veniva a constatare «l’esaurimento del suo compito storico […] nei confronti della Chiesa e della massa cattolica del paese» («Il ponte», 1949, p. 130). La rivista dei gesuiti «Civiltà cattolica» manifestò nel 1948 gravi riserve sulla ‘ortodossia’ di Jemolo – cattolico credente e praticante –, ma alla morte di questi «L’osservatore romano» (14 maggio 1981) parlerà di opera «giudicata di eccezionale valore».
Attivo nell’avvocatura per lunghissimi anni, Jemolo seppe coniugare positivamente la riflessione scientifica con l’esperienza giuridica: basti ricordare la rubrica che tenne per molti anni sulla «Rivista di diritto civile», dal titolo Gli occhiali del giurista.
Se guardiamo al complesso della sua opera – la sua bibliografia registra tra il 1911 e il 1981 circa ottocento titoli – è possibile constatare, con qualche approssimazione, che circa metà dei suoi scritti è dedicata a temi propriamente giuridici (diritto ecclesiastico, canonico, pubblico, amministrativo), mentre l’altra metà si articola tra storia, politica e costume, con prevalenza della ricerca storica, dal Medioevo all’età contemporanea.
Quanto alla famiglia politica alla quale egli si sentì più vicino (considerandosi, peraltro, un malpensante congenito, ma «senza crisi»), è certamente inadeguata la facile (e più volte applicatagli) qualifica di seguace del ‘cattolicesimo liberale’. Infatti, in più di un’occasione egli ebbe a contestare il concetto stesso di cattolico liberale, sottolineando il contrasto tra le rispettive, diversissime ‘tavole dei valori’, tra ‘sentire’ cattolico e ‘sentire’ liberale; in giovinezza, benché irritato dall’anticlericalismo di basso conio di quegli anni, fu avverso, in sintonia con Ruffini, a ogni clericalismo, e non volle mai iscriversi a sodalizi che avessero un assistente ecclesiastico. Inoltre non fece mai parte di organizzazioni politiche cattoliche: nel 1917 rifiutò di aderire al Partito popolare di Sturzo, e nel 1944 non accolse gli inviti a essere tra i primi iscritti alla Democrazia cristiana (anche se una vera amicizia lo legò a Guido Gonella). Sempre nel 1944, pubblicò l’opuscolo Per la pace religiosa d’Italia, nel quale delineava un ardito programma ‘separatista’ e auspicava una Chiesa desiderosa non di concordati, ma di libertà, senza guardie nobili e ordini cavallereschi; tuttavia, ipotizzando una Santa Sede decisa a conservare i privilegi del Concordato e della legislazione fascista, prevedeva che non ci sarebbe stata altra strada se non quella del ‘cedere e piegarsi’.
Prescindendo dalla giovanile prossimità a Ruffini (interventista) e a Cesare De Lollis (antinterventista) e dal ricordato sodalizio spirituale con Buonaiuti, il suo tormentato sentire politico fu assai prossimo a quello di Salvemini e di Calamadrei, di Augusto Monti e di Tristano Codignola, di Ernesto Rossi e di Guido Calogero. Per gli azionisti, del resto, pubblicò, nella collana Quaderni del Partito d’azione, lo studio Il decentramento regionale (1944). Ma il suo fu un sentire segnato dalla perenne ricerca, dalla continua insoddisfazione, da un affermare che non era mai categorico, dal rifiuto di rinchiudersi in un pensiero omogeneo e ben definito. La sua esperienza conferma, peraltro, che nell’Italia degli anni Cinquanta la cultura ‘alta’ (quella popolare era di fatto egemonizzata dal guelfismo delle associazioni cattoliche e da strutture chiesastiche particolarmente efficienti) non fu monopolizzata dalla sinistra, e in particolare dai comunisti, che ebbero una presenza intellettuale certo forte, ma in realtà limitata.
È peraltro vero che, di fronte alla scomunica emessa dal Vaticano nei confronti dei comunisti (1° luglio 1949), Jemolo – che era stato vicino al Movimento dei cattolici comunisti, fondato nel 1943 da Franco Rodano – si chiese perché una misura del genere non fosse stata «mai adottata […] contro il fascismo», notando che «nessun fascista, nessun razzista, ha mostrato di sentirsi condannato dalla Chiesa» (La scomunica dei comunisti, «Il ponte», ottobre 1949, p. 1236). Egli non esitò, inoltre, a schierarsi contro il Patto atlantico (Al Parlamento della Repubblica, «Belfagor», 1949, p. 261). Come ha scritto Nello Ajello, Jemolo
resiste alla tentazione di unirsi al PCI in virtù della sostanza inguaribilmente illiberale che attribuisce al partito di Togliatti, ma ciò non gli impedisce di provare comprensione per quegli intellettuali borghesi […] che hanno deciso di passare al comunismo (Intellettuali e PCI, 1944-1958, 1979, 19972, p. 297).
E non va dimenticato che la figlia, Adele Maria, aveva sposato Lucio Lombardo Radice. Nel novembre del 1945 Jemolo scrisse che nei confronti del comunismo non riusciva a sentire
quell’avversione profonda, quel sacro orrore […] che molti avvertono e che io stesso avvertivo di fronte al nazismo. […] Quanti cari nomi sento risuonare tra questi giovani comunisti, nomi già in fama nella generazione precedente alla mia e nella mia, che paiono garantirci che non siamo, no, all’invasione dei barbari, e che non c’è hiatus che ci separi: Giolitti, Amendola, Calamandrei (Franco), Lombardo Radice (Noi e il comunismo, «Il ponte», novembre 1945, p. 691).
Inoltre, nel 1952, in un articolo su «Il mondo» (Un dialogo politico, 14 giugno, p. 4), facendo ‘scandalizzare’ i suoi amici che collaboravano al settimanale si schierò, a fianco di Calamandrei e diversamente da Ernesto Rossi, tra coloro che si opponevano a isolare i comunisti, sostenendo «la necessità di dare loro credito nelle battaglie costituzionali di libertà» (M. Teodori, Storia dei laici nell’Italia clericale e comunista, 2008, p. 246; si veda anche A. Cardini, Mario Pannunzio, giornalismo e liberalismo: cultura e politica nell’Italia del Novecento, 1910-1968, 2011, pp. 123 e 204).
Al «carissimo Jemolo», Salvemini – favorevole al Patto atlantico – scrisse nel 1952: «io da utile idiota non intendo funzionare […], mi rifiuto di agire tanto come pezza da piedi per il prof. Gedda, quanto da ‘utile idiota’ per Togliatti» (Un dialogo politico. Lettere a Jemolo, «Il mondo», 14 giugno 1952; si vedano anche le risposte di Jemolo alle Nove domande sullo stalinismo su «Nuovi argomenti», maggio-giugno 1956, p. 98).
Lungo e sostanziale fu il rapporto intellettuale, politico e professionale di Jemolo con il quasi coetaneo Calamandrei (1889-1956), che ne ospitò molti e frequenti interventi sulla sua rivista «Il ponte» e che lo volle al suo fianco, nel 1952-53, nella sfortunata avventura politica ed elettorale di Unità popolare. Un rapporto che andrebbe ricostruito attraverso le ancora inesplorate corrispondenze tra i due personaggi (pur tenendo conto della loro ben diversa formazione), i quali si ritrovarono nella comune esperienza del liberalismo azionista e nelle battaglie per l’attuazione dei principi della Costituzione del 1948.
Calamandrei, membro tra il 1924 e il 1926 del Consiglio direttivo dell’Unione nazionale di Giovanni Amendola, nel 1941 aveva aderito al movimento Giustizia e libertà e nel 1942 fu tra i fondatori del Partito d’Azione, che nel 1946 rappresentò alla Costituente. Eletto alla Camera dei deputati nel 1948 per Unità socialista, passò nel 1951 al Partito socialdemocratico, ma ne uscì un anno dopo per fondare, con Jemolo e Parri, Unità popolare, che alle elezioni del giugno 1953 non elesse nessun deputato, ma impedì, insieme ad altre piccole formazioni, che si potesse applicare al nuovo Parlamento la legge maggioritaria voluta dalla Democrazia cristiana (la cosiddetta legge truffa).
Nato nel 1889 a Firenze (dove morirà nel 1956), si era laureato in giurisprudenza con Carlo Lessona all’Università di Pisa nel 1912, e poi si era perfezionato in diritto processuale civile all’Università di Roma con Giuseppe Chiovenda, rifondatore di quegli studi. Nei due anni successivi si segnalò con il libro La chiamata in garantia: studio teorico-pratico di diritto processuale civile (1913) e con il saggio La genesi logica della sentenza civile («Rivista critica di scienze sociali», 1914, 5). Titolare della cattedra di diritto processuale civile all’Università di Messina dal 1915, volontario nella Prima guerra mondiale, passò nel 1918 all’Università di Modena, nel 1920 a quella di Siena e nel 1924 a quella di Firenze, appena istituita. Vi resterà fino alla morte, e ne sarà rettore tra il 30 luglio e il 1° ottobre 1943, poi dal 1945 al 1947. Minacciato di arresto dopo l’8 settembre 1943, riuscì a nascondersi in Umbria (si vedano le rievocazioni da lui raccolte in Uomini e città della Resistenza: discorsi scritti ed epigrafi, 1955). Era stato nel 1925 tra i firmatari del Manifesto di Croce, e nel 1941, insieme a quattro colleghi della facoltà di Giurisprudenza di Firenze, rifiutò di sottoscrivere il Manifesto degli intellettuali toscani promosso da Giovanni Papini per esprimere la «fede nella vittoria e nei destini d’Italia» (cit. in P. Calamandrei, Diario 1939-1945, 1° vol., 1982, p. 303).
Cultore della legalità, preoccupato della crisi della giustizia (promosse nel 1924 la «Rivista di diritto processuale civile»), fu anche ‘scrittore politico’ a partire dal 1944 (si vedano i suoi Scritti e discorsi politici, 3 voll., 1966, e la relativa introduzione di Bobbio), e nel 1945 fondò «Il ponte».
Fondamentali, nell’ambito delle sue opere, risultano i due volumi di La Cassazione civile (1920), in cui sostenne l’unificazione in una corte unica delle cinque cassazioni regionali; i saggi Significato costituzionale delle giurisdizioni di equità («Archivio giuridico», 1920, 2) e Linee fondamentali del processo inquisitorio (in Studi di diritto processuale in onore di Giuseppe Chiovenda nel venticinquesimo anno del suo insegnamento, a cura di A. Castellari, P. Calamandrei, F. Carnelutti et al., 1927); i vasti Studi sul processo civile (6 voll., 1930-1957); l’opera Processo e democrazia (1954), che raccoglie le conferenze da lui tenute alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università nazionale di Città del Messico. Curò inoltre, con Alessandro Levi, la raccolta di saggi Commentario sistematico della Costituzione (2 voll., 1950).
Convinto assertore – con Lodovico Mortara, Chiovenda e Antonio Segni – del carattere pubblico delle funzione giurisdizionale (che difenderà ancora, in Scritti e interventi politici, nel 1955), alla fine degli anni Trenta accettò di partecipare attivamente (con personalità quali Enrico Redenti e Francesco Carnelutti) alla riforma dei codici promossa dal regime fascista, contribuendo alla preparazione del nuovo codice di procedura civile, promulgato nel 1942 (si veda la sua opera Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo codice, 2 voll., 1941-1943, e in particolare il primo volume, Premesse storiche e sistematiche). Prese tale decisione probabilmente per poter condizionare dall’interno l’opera legislativa del regime che, certo, non intendeva ‘arrendersi’ ai giuristi estranei alle sue organizzazioni e alla sua dottrina (si vedano: Rodotà 1973, p. 409; F. Cipriani, Il codice di procedura civile tra gerarchi e processualisti: riflessioni e documenti nel cinquantenario dell’entrata in vigore, 1992, p. 53, e Storie di processualisti e di oligarchi: la procedura civile nel Regno d’Italia, 1866-1936, 1991, p. 129; M. Taruffo, La giustizia civile in Italia dal ’700 ad oggi, 1980, p. 151; A. Proto Pisani, Il codice di procedura civile del 1940 tra pubblico e privato: una continuità nella cultura processualcivilistica rotta con cinquanta anni di ritardo, «Quaderni fiorentini», 1999, 1, pp. 713-47).
Di grande rilievo la presenza di Calamandrei alla Costituente (anche come membro della cosiddetta commissione dei 75, dove fu protagonista del dibattito sui rapporti Stato-Chiesa e relatore delle norme sulla giustizia anche costituzionale) e la sua successiva battaglia politica, soprattutto nella pagine de «Il ponte».
Richiamando ancora il forte rapporto con Jemolo, va nuovamente ricordato che fu proprio Calamandrei a volere nel 1946 la ristampa dell’opera di Ruffini Diritti di libertà, che nella sua prefazione definì «un limpido e autorevole contributo, collaudato dall’esperienza, alla ricostruzione del nostro ordinamento costituzionale» (L’avvenire, cit., p. X), esprimendo inoltre la speranza che, in un momento nel quale
dovere primordiale di ogni partito è quello di chiarire e innanzitutto di chiarirsi le idee, [le] pagine appassionate di uno storico che era anche un giurista potranno aiutarci in quel duro lavoro, che è la pietra di paragone della vitalità di ogni moto rivoluzionario: quello di tradurre gli ideali rivoluzionari in articoli di legge, comprensibili ed esatti come assiomi di aritmetica elementare (p. X).
Una lezione che è stata anche quella di Luzzatti e di Jemolo, e che conserva la sua integrale validità ancora oggi, in un momento, che dura da troppi anni, nel quale gli articoli delle leggi non sono certamente «comprensibili ed esatti» come formule matematiche e sono frequentemente oggetto di severe verifiche da parte di quella Corte costituzionale della quale Calamandrei era stato uno dei principali ‘costruttori’ in sede di Assemblea costituente.
Per una bibliografia più completa su Francesco Ruffini si rimanda a quelle contenute in calce a due sue opere, Discorsi parlamentari, introduzione di G. Spadolini e F. Margiotta Broglio, Roma 1986, pp. 433-50, e Guerra e dopoguerra, a cura di A. Frangioni, Soveria Mannelli 2006, p. 3.
Tra i numerosi studi dedicati alla sua opera e alla sua figura, si vedano:
P. Calamandrei, L’avvenire dei diritti di libertà, prefazione a F. Ruffini, Diritti di libertà, Firenze 1946, pp. VII-XL.
A. Bertola, La vita e l’opera di Francesco Ruffini, discorso per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Torino il 5 novembre 1946, «Annuario dell’Università di Torino, 1946-1947», 1947, pp. 19-49.
A.C. Jemolo, Introduzione a F. Ruffini, La libertà religiosa. Storia dell’idea, Milano 1967, pp. XIX-XLI.
N. Bobbio, L’ombra di Francesco Ruffini, «Nuova antologia», gennaio-marzo 1986, pp. 36-49.
S. Ferrari, Introduzione a F. Ruffini, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Bologna 1992, pp. 11-59.
F. Bretti, Francesco Ruffini, Borgofranco d’Ivrea 2008.
A. De Ruggiero, La fortuna di Francesco Ruffini nel secondo dopoguerra, in I liberali italiani dall’antifascismo alla Repubblica, 2° vol., a cura di G. Berti, E. Capozzi, P. Craveri, Soveria Mannelli 2010, pp. 95-116.
Diritti delle coscienze e difesa delle libertà: Ruffini, Albertini e il Corriere, 1912-1925, a cura di F. Margiotta Broglio, Milano 2011.
Su Arturo Carlo Jemolo:
F. Margiotta Broglio, Jemolo Arturo Carlo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 62° vol., Roma 2004, ad vocem (a cui si rimanda per la bibliografia precedente).
P. Valbusa, Bibliografia degli scritti di Arturo Carlo Jemolo, «Il diritto ecclesiastico», 2005, 2-3, pp. 775-802.
La lezione di un maestro, Atti del Convegno in memoria di Arturo Carlo Jemolo, 8 giugno 2001, a cura di R. Bertolino, I. Zuanazzi, Torino 2005.
Arturo Carlo Jemolo: vita ed opere di un italiano illustre, a cura di G. Cassandro, A. Leoni, F. Vecchi, Napoli 2007.
A. Valbusa, I pensieri di un malpensante: Arturo Carlo Jemolo e trentacinque anni di storia repubblicana, Venezia 2008.
“Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni” di Arturo Carlo Jemolo: un dibattito, a cura di M.S. Pieretti, dossier di «Contemporanea», 2012, 3, pp. 529-62.
Per approfondimenti su Ruffini e Jemolo si veda:
F. Attal, Histoire des intellectuels italiens au XXe siècle: prophètes, philosophes et experts, Paris 2013, ad indicem.
Su Luigi Luzzatti:
Luigi Luzzatti e il suo tempo, Atti del Convegno internazionale di studio, 7-9 novembre 1991, a cura di P. Ballini, P. Pecorari, Venezia 1994.
P. Pecorari, La politica finanziaria di Luigi Luzzatti, ministro del Tesoro nei governi Rudinì (1896-98), in Finanza e debito pubblico in Italia tra ’800 e ’900, Atti della seconda ‘Giornata di studio Luigi Luzzatti per la storia dell’Italia contemporanea’, 25 novembre 1994, Venezia 1995, pp. 13-97.
P. Pecorari, P. Ballini, Luzzatti Luigi, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 66° vol., 2006, ad vocem (a cui si rimanda per una bibliografia più completa).
P. Pecorari, Luzzattiana: nuove ricerche storiche su Luigi Luzzatti e il suo tempo, Udine 2010.
L. Luzzatti, Discorsi parlamentari, 2 voll., Roma 2013 (con saggi di P. Ballini, P. Pecorari, F. Margiotta Broglio, M. Toscano).
Su Piero Calamandrei:
S. Rodotà, Calamandrei Piero, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 16° vol., 1973, ad vocem (a cui si rimanda per la bibliografia precedente).
A. Galante Garrone, Calamandrei, Milano 1987.
Piero Calamandrei: ventidue saggi su un grande maestro, a cura di P. Barile, Milano 1990.
R. Gambacciani Lucchesi, Piero Calamandrei: i due volti del federalismo, Firenze 2004.
F. Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile: miti, leggende, interpretazioni, documenti, Napoli 2007, 20092.
Piero Calamandrei e la costruzione dello Stato democratico, 1944-1948, a cura di S. Merlini, Roma 2007.
B. Mazzolai, La fede nel diritto di Piero Calamandrei, Jesi 2010.
N. Dell’Erba, Piero Calamandrei, in Id., Intellettuali laici nel ’900 italiano, Padova 2011, pp. 215-33.