Da una tangentopoli all’altra
Se si confronta la crisi che nel biennio 1992-93 pose fine alla cosiddetta ‘Repubblica dei partiti’ con quella che sta attraversando l’Italia in questo periodo le differenze prevalgono sulle analogie, nonostante si percepisca da più parti lo sforzo di cogliere negli avvenimenti attuali la replica distorta e amplificata di quanto accadde allora.
Vent’anni fa il discorso pubblico venne presidiato da tre retoriche nazionali assai pervasive: la prima riguardava il ruolo salvifico e di supplenza della magistratura destinata a sostituire un sistema corrotto e allo sbando; la seconda si fondava sull’autosufficienza rigeneratrice della società civile, giudicata per principio incontaminata e quindi in grado di sostituirsi al vecchio regime con effetti virtuosi; la terza offriva una lettura rivoluzionaria di quel passaggio storico, tesa a sottolineare soltanto gli aspetti di rottura e non le dinamiche di conservazione e di trasformismo che nel frattempo si andavano addensando sotto i velami della propaganda. Sappiamo come è finita: l’uscita da quella crisi di regime fu a destra, con la vittoria di Silvio Berlusconi e del suo partito-azienda Forza Italia, l’affermazione di Gianfranco Fini e l’ascesa di Umberto Bossi, cui è seguito un lungo ciclo personalistico, populista e plebiscitario che oggi mostra tutta la sua conclamata insufficienza.
All’indomani del voto amministrativo della primavera del 2011 e dopo l’esito referendario, due eventi che hanno segnato una dura battuta di arresto per le forze governative, si è sollevato un vento di protesta e di cambiamento che ha recuperato alcuni luoghi comuni del discorso pubblico al tempo di Tangentopoli con l’obiettivo di produrre i medesimi effetti di scardinamento del sistema.
Il primo argomento è costituito dall’attacco alla ‘casta’ che è stato inopinatamente sovrapposto al tema dei costi della politica, che andrebbero ridotti ed equiparati agli standard europei. In questo modo si attacca in maniera indiscriminata il Parlamento e non il governo, si confondono le responsabilità di Berlusconi con quelle dell’opposizione e si concede al Cavaliere una provvidenziale boccata di ossigeno. È facile prevedere che tale situazione di stallo durerà a lungo e che il vento dell’antipolitica continuerà a soffiare impetuoso: colpisce tutti e dunque non disturba nessuno per davvero ed è scattato come un riflesso condizionato perché il sistema di potere italiano è stato colto impreparato sia dal collasso del consenso berlusconiano, per la prima volta non compensato da una crescita della Lega, sia dall’imprevisto successo del Partito democratico e della società civile, che si è mobilitata con il movimento delle donne e quello referendario.
L’altra carta su cui puntare è l’azione della magistratura, la quale, come è giusto che sia, dove vede ipotesi di reato indaga senza fare sconti a nessuno. Anche in questo caso, però, c’è la tendenza a non cogliere le differenze: il centro-destra, quando è colpito da un provvedimento giudiziario, ritiene di essere vittima di una congiura della magistratura politicizzata e urla al golpe; il centro-sinistra auspica che la giustizia faccia il suo corso, ne rispetta l’azione e obbliga l’indagato a fare un passo indietro. Eppure, il sogno di un provvidenziale e rigeneratore tsnunami giudiziario conquista ora tanti commentatori, a destra come a sinistra, ma sarebbe bene non dimenticare le lesioni del garantismo che caratterizzarono quella stagione, quando la miscela di antipolitica e di giustizialismo finì per favorire la destra e di fatto assicurò una sostanziale impunità ai corrotti. Rispetto al 1992 l’azione giudiziaria appare più accorta e meno televisiva, senza che si affermi un unico centro propulsore simbolico come la procura di Milano. Ieri la magistratura agiva come contropotere e puntava alla confessione dell’imputato attraverso l’esercizio della custodia cautelare, oggi si affida più alla delegittimazione morale preventiva tramite le intercettazioni. Nessuno può dire cosa accadrà, ma sarebbe bene non commettere oggi gli stessi errori di ieri, quando cioè, in un clima giacobino furbo e opportunista, degli avvisi di garanzia furono considerati alla stregua di condanne senza appello. È curioso notare che una parte di quanti invocano ora la mannaia giudiziaria sono gli stessi che dopo Tangentopoli si batterono il petto per condannare gli eccessi di quella fase ormai lontana. Sarebbe bene non dimenticarlo e non smarrire la bussola che divide la giustizia di un paese civile da un’ordalia permanente. Molti analisti, tuttavia, commettono l’errore di ignorare le specificità della crisi di regime del 1992-93. Anzitutto, la dimensione svolta dal contesto mondiale con la fine della Guerra fredda che aveva giustificato la democrazia bloccata italiana e favorito, nel corso degli anni Settanta, la graduale deriva tra consociativismo e sovversione armata. Allora ad avviare la slavina fu il venire meno di una tenuta internazionale, un fattore determinante oggi assente. In secondo luogo, il ruolo svolto dal terrorismo mafioso che, come è sempre avvenuto nei cambi di potere nazionale, giocò le sue carte per dimostrare che bisognava comunque scendere a patti e stabilire nuove forme di convivenza con ‘Cosa nostra’: il 23 maggio e il 19 luglio 1992 vi furono gli attentati ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e nell’estate dell’anno successivo le stragi di via dei Georgofili a Firenze, di via Palestro a Milano e le bombe a S. Giovanni in Laterano e a S. Giorgio in Velabro a Roma. Furono mesi carichi di tensione e, di recente, l’allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi ha testimoniato di avere avuto timore che l’Italia fosse a un passo da un colpo di Stato. Infine, allora c’erano forze fresche disposte a giocare fino in fondo la propria partita: Berlusconi, Bossi, Fini, che oggi, per diversi motivi, appaiono come astri in via di spegnimento o dalla stentata sopravvivenza, certo incapaci di convogliare su di sé speranze di rigenerazione politica e di rinnovamento civile.
Anche le ricette che circolano per accompagnare l’ipotetica uscita di scena di Berlusconi prima della scadenza naturale della legislatura ricalcano orme passate: l’esperienza di Ciampi, ossia di un esecutivo di salvezza nazionale che unisca le risorse migliori del paese, o un governo di larghe intese come quello di Lamberto Dini, che preveda il sostegno della Lega e la tolleranza del PDL per traghettare il paese verso una nuova configurazione degli equilibri politici. In entrambi i casi i nomi già ci sarebbero, ma non sono mature le condizioni. Ambedue le soluzioni, infatti, non prendono nella dovuta considerazione il fatto che Berlusconi continua ad avere la maggioranza in Parlamento e che la crisi economica rappresenta il miglior puntello alla stabilità del suo esecutivo. L’emergenza non invita all’avventura, né allo scontro istituzionale che seguirebbe alla sua uscita di scena per via giudiziaria, con un repentino cambio di maggioranza parlamentare o su pressione dell’Unione Europea.
La fisiologia democratica e la prudenza politica imporrebbero di rispettare il grande consenso ottenuto dalla destra nel 2008 e di considerare il proseguimento della legislatura, in presenza del perdurare della fiducia parlamentare, un valore preferibile in sé. È verosimile pensare che se verrà indetto il referendum per abolire la legge elettorale in vigore e ritornare al cosiddetto Mattarellum, sarà l’attuale maggioranza di governo, in particolare la Lega, a preferire un ritorno anticipato alle urne nel corso del 2012 piuttosto che continuare a sostenere fino all’ultimo l’azione di Berlusconi, ottenendone in cambio l’erosione dei propri consensi.
In realtà, della stagione di Tangentopoli sono sopravvissuti i riflessi e le retoriche, ma non le condizioni strutturali che provocarono quel collasso. Anche perché, da un canto, all’opposizione il Partito democratico ha mostrato capacità di tenuta inaspettate e non si è verificato quel crollo di consensi bilaterale e bilanciato, a destra come a sinistra, che molti osservatori prevedevano e persino auspicavano, mentre, dall’altro, si è allargato lo spazio dell’astensionismo consapevole che sembra attendere la definizione di una nuova proposta politica, la quale, per avere qualche speranza di successo, dovrà essere tempestiva e risoluta. Pure il ruolo di terzietà e di stabilizzazione esercitato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è differente da quello dinamico svolto prima da Francesco Cossiga e poi da Oscar Luigi Scalfaro, i quali furono entrambi protagonisti della crisi e bersaglio di polemica durissima tra le parti in conflitto.
Al contrario, oggi, Napolitano rappresenta un punto di riferimento condiviso e autorevole a livello popolare e tra le forze politiche: si tratta di un’altra significativa diversità che induce a ipotizzare una tenuta maggiore del quadro complessivo rispetto al biennio di Tangentopoli. Per l’insieme di queste ragioni, nonostante la barca italiana sia da tempo sotto la linea di galleggiamento e quindi a rischio di affondare, si continuerà a navigare a vista fin quando la crisi democratica non renderà inevitabile il ricorso alle urne, ossia all’innata saggezza del popolo sovrano.
Sino ad allora, però, l’antipolitica, il qualunquismo, il trasformismo e il ruolo delle ‘cricche’ continueranno a regnare sovrani, dal momento che rappresentano attitudini antiche del carattere nazionale italiano.
Perciò esse sono destinate a riaffiorare ciclicamente in quanto espressione di una crisi di sistema come quella odierna, che sta accompagnando il faticoso e articolato declino del berlusconismo e del suo ramificato blocco di potere.
Mattarellum
Coniato dal politologo Giovanni Sartori il termine fa riferimento alle leggi del 4 agosto 1993, n. 276 (Norme per l’elezione del Senato della Repubblica) e n. 277 (Norme per l’elezione della Camera dei deputati), che prevedevano un sistema misto, in base al quale i seggi di Camera e Senato erano assegnati con sistema maggioritario per il 75% mediante l’elezione di candidati in altrettanti collegi uninominali, e per il restante 25% con sistema proporzionale, previo lo scorporo dei voti ottenuti dai vincitori nei collegi uninominali (legge definita Mattarellum, dal nome del deputato Sergio Mattarella, relatore del testo). Le norme hanno regolato le elezioni per la XII, XIII e XIV Legislatura, per essere poi sostituite dall’attuale legge elettorale promulgata nel dicembre del 2005.
Porcellum
La legge n. 270 del 21 dicembre 2005 ha sostituito le leggi 276 e 277 del 1993 (cosiddetto Mattarellum) per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, e costituisce l’attuale legge elettorale italiana. È stata proposta dall’allora ministro delle Riforme istituzionali Roberto Calderoli che in un’intervista l’ha definita «una porcata» e denominata per questo Porcellum da Giovanni Sartori. La legge ha di fatto modificato il criterio maggioritario con cui erano prima assegnati i tre quarti dei seggi del Parlamento e ha introdotto un sistema proporzionale puro con ‘liste bloccate’, nel quale i destinatari del voto possono essere solo i partiti e non i singoli candidati, per i quali non si indicano preferenze. I seggi sono attribuiti in base alle percentuali ottenute dai partiti su scala nazionale alla Camera e regionale al Senato, con premio di maggioranza e soglie di sbarramento differenti per i due rami del Parlamento. I candidati sono eletti secondo l’ordine di presentazione in base ai seggi ottenuti dalla singola lista.
Giustizialismo
Da molti anni ormai si fa uso in Italia del termine ‘giustizialismo’ [dallo spagn. justicialismo, der. di justicia ‘giustizia’] con significato diverso da quello con cui in origine si indicavano la dottrina e la prassi politica su cui era fondato il governo di J.D. Perón (1895-1974), presidente della Repubblica Argentina dal 1946 al 1954 e dal 1973 alla morte, caratterizzate da una dichiarata equidistanza tra comunismo e capitalismo, da acceso nazionalismo e da un programma di riforme sociali unito a spunti autarchici e corporativi. Attualmente il termine è adottato nel linguaggio giornalistico per definire l’atteggiamento di chi, per convinzione personale o come interprete della pubblica opinione, proclama la necessità che venga fatta severa giustizia (magari rapida e sommaria) a carico di chi si è reso colpevole di determinati reati, specie quelli di natura politica, di criminalità organizzata, di amministrazione pubblica disonesta, in opposizione a quanti si mostrano favorevoli a sanatorie e ‘colpi di spugna’ generalizzati.