dagimoro (d'Agimoro)
Lezione del manoscritto in Fiore CXXX 4 (Falso senbiante, si com'on di coro / religioso e di santa vita, / s'aparechio e si avea vestita / la robo frate alberto dagimoro) la cui lettura e conseguente interpretazione è notevolmente controversa.
Sull'autorità del Castets, primo editore del poemetto, il Mazzatinti, il Della Torre e il Parodi lessero d'Agimoro, intendendolo come soprannome senza meglio specificarne il significato. Il Biagi, convinto assertore dell'identificazione frate Alberto con Alberto Magno, corresse la lettura in Lagingoro, " di Laugingen " (cioè Lavingen, città natale del filosofo), senza però considerare che l'etnico non sarebbe stato " Lagingorio " ma " Lavingense ". Il Casini trascrisse d'Agromoro, senza fornire alcuna giustificazione. Per il Torraca, invece, la lezione originaria da ripristinare sarebbe sa' dimoro, che è " espressione cara all'autore del Fiore e corrisponde al " tantost " del Roman "; ma, a parte la considerazione che " tantost " non si trova nel passo del Roman de la Rose corrispondente a questo del Fiore, bensì parecchi versi avanti, ogni volta che l'espressione ricorre nel Fiore è nella forma san dimora (cfr. CXXXVI 13, CLXXXV 4, CXCVI 9, tutte in rima); inoltre l'avverbio non risulta consono al contesto.
Decisamente inaccoglibili sono le interpretazioni del Bassermann (d'Ogimoro, d'Ossimoro, " scemo furbo ", " finto sciocco ", dal latino oxymorus) e del Wiese (d'ag'i'moro, " muoio tra gli agi ", quindi " gaudente " e simili); e poco convincente è infine anche la proposta del Valli d'interpretare Agimoro " Aigues-Mortes " e, metaforicamente, " acqua cheta ", " ipocrita ".
Risalendo direttamente al passo francese sul quale è modellato il sonetto CXXX, il Neri propose di leggere da gir soro, che ben corrisponderebbe al " simple et piteuse " del Roman (ediz. Langlois, v. 12085; ediz. Lecoy, v. 12055), ché " soro " vale " sempliciotto ", " ingenuo " (cfr. Boccaccio Se bionde trecce 8). Meno accettabile è senz'altro l'ipotesi, proposta e scartata dal Neri stesso, di vedere in soro (o ‛ suro ') un crudo francesismo per sûr, che non compare peraltro nel corrispondente sonetto del Roman de la Rose. La proposta del Neri, accolta anche dal Petronio, risponderebbe inoltre assai meglio di ogni altra al contesto, in quanto non è richiesto che l'abito da frate indossato da Falsembiante sia già di per sé distintivo d'ipocrisia: è sufficiente che esso abbia la funzione di una maschera, l'ipocrisia e l'inganno sono in Falsembiante; il quale già precedentemente (LXXXVIII 12-14) ha dichiarato di vestire la roba del buon frate Alberto per meglio mascherarsi (Perch'i' la mia malizia me' ripogna) e per avere la certezza di non essere mai svergognato (Chi tal rob' hae, non teme mai vergogna: verso in cui non vediamo alcuna intenzione ironica). V. anche Alberto, Frate.
Bibl. - F. Castets, Il Fiore: poème italien du XIIIe siècle, Montpellier 1881; G. Mazzatinti, I manoscritti italiani delle biblioteche di Francia, III, Roma 1888, 611-730; T. Casini, Di alcune recenti pubblicazioni dantesche, in " Rivista Crit. Lett. Ital. " V (1888) coll. 146-147 (rist. in Scritti danteschi, città di Castello 1913, 287-288); A. Della Torre, in D.A., Tutte le opere, Firenze 1919, 185-223; V. Biagi, Il Fiore, il Roman de la Rose e D., in " Annali delle Università toscane ", n.s., VI (1921) 112; F. Torraca, Il " Fiore ", in " Bull. Ist. Stor. Ital. " XLI (1921) 148 n. (rist. in Studi di storia letteraria, Firenze 1923, 247 n.); E.G. Parodi, Il Fiore e il Detto d'Amore, Firenze 1922; A. Bassermann, Die Blume (Il Fiore), Heidelberg 1926, 255-256, con la rec. di B. Wiese, in " Zeit. Romanische Philol. " XLVI (1926) 721; L. Valli, Il linguaggio segreto di D. e dei " Fedeli d'Amore ", Roma 1928, 447 n.; F. Neri, " Fiore ", son. 88 e segg., in " Giorn. stor. " CXV (1940) 194-198.