Dagli antichi Stati all’Italia unita
Durante il biennio 1848-49 il tema della nazione si impose negli Stati della penisola italiana con una risonanza di ampiezza sin lì sostanzialmente sconosciuta. Nei decenni anteriori, infatti, a coltivare il sogno dell’unificazione nazionale – dunque dell’abbattimento degli Stati esistenti e della costruzione al loro posto di un nuovo soggetto politico unitario – era stata una porzione decisamente ristretta dell’opinione pubblica: quella di orientamento democratico e repubblicano. Viceversa, le componenti maggioritarie dell’opposizione liberale ai governi costituiti avevano avuto a cuore, durante i decenni della Restaurazione, essenzialmente i temi della libertà e della costituzione e, pur mostrandosi a tratti anche fermamente determinate a esercitare pressioni presso i sovrani affinché essi attuassero riforme in tal senso, non avevano coniugato alla loro realizzazione un coerente progetto di trasformazione della carta politica della penisola. Ma le dinamiche del 1848-49 scompaginarono radicalmente questo quadro.
Sotto la pressione di una cittadinanza che la congiuntura politica internazionale rendeva ogni giorno più convinta del probabile successo delle proprie rivendicazioni, prima nel Regno delle Due Sicilie, poi anche nello Stato pontificio, nel Granducato di Toscana e nel Regno di Sardegna costituzioni moderatamente liberali vennero accordate tra febbraio e marzo del 1848 da sovrani improvvisamente traballanti, i quali nei decenni precedenti erano stati tutt’altro che propensi all’idea di negoziare con i propri sudditi le modalità di esercizio di un potere sin lì declinato in termini autoritari e illiberali. Nella seconda metà di marzo a Milano e a Venezia – le due capitali del Regno Lombardo-Veneto, il solo grande Stato della penisola in cui non fosse stata concessa una costituzione – il fermento politico sfociò in una insurrezione, che nel capoluogo lombardo, dove caddero sulle barricate centinaia di cittadini e cittadine, assunse un carattere particolarmente drammatico. Le truppe austriache vennero messe in fuga e abbandonarono le due città, dove si formarono dei governi provvisori che con forza inalberarono la bandiera dell’indipendenza dell’Italia dal dominio che l’Austria, in forma diretta o indiretta, vi esercitava dal 1815.
È essenzialmente lungo l’onda montante di questa mobilitazione collettiva, finalizzata alla conquista e successivamente alla difesa della libertà, che il progetto di costruzione di una nazione italiana – unita, oltre che indipendente – acquisì nei poco meno di venti mesi distesi tra il febbraio 1848 e l’agosto 1849 quella valenza politica (e non solo genericamente culturale) che avrebbe poi conservato nel decennio seguente, anche dopo l’esaurimento della stagione rivoluzionaria. Quel progetto fu, in primo luogo, il riflesso dell’esigenza tutta concreta di unificare le forze disponibili contro un nemico che le minacciava tutte: l’esercito austriaco, che non tardò a ricomporre i propri ranghi dopo lo scacco patito nel marzo 1848 e che già nell’estate di quell’anno riconquistò Milano.
A difendere l’autonomia appena conseguita dalla reazione austriaca, si aggregò in quei mesi un fronte variegato ed eterogeneo di sudditi degli antichi Stati che in quell’occasione cominciarono a vestire panni da «italiani»: le truppe del Regno di Sardegna, il cui sovrano, Carlo Alberto, si sforzò in quei frangenti di arricchire la tradizione dinastica di contenuti retorici e ideali che in qualche modo si proiettavano oltre di essa, presentandosi come il protettore di una nuova libertà lombarda e veneta da mettere al sicuro nella cornice di un Regno dell’Alta Italia sabaudizzato; le milizie inviate in Lombardia dalle altre dinastie «con la riserva mentale che le avrebbe spinte a mutare bandiera appena la situazione fosse mutata» (Soldani 1997, p. 64), ma anche molte persone comuni di sentimenti libertari, che in ordine sparso, e tuttavia a contingenti sempre più fitti, affluirono a migliaia in Lombardia e in Veneto per difenderne una indipendenza che avvertivano come il presupposto della propria e di quella dell’Italia considerata tutta insieme.
Nel corso dei mesi successivi l’estemporaneo fronte indipendentista, creatura spuria nel cui corpo l’idealismo di liberali e democratici si mescolava con il cauto attendismo di un pugno di monarchi sostanzialmente imbarazzati dalla propria condizione di ostaggi dell’opinione pubblica, perse rapidamente pezzi. A fine aprile papa Pio IX dichiarò ufficialmente il proprio disimpegno dalla guerra di indipendenza. A maggio Ferdinando di Borbone, re delle Due Sicilie, congelò l’evoluzione costituzionale sollecitata da parte del Parlamento, represse un tentativo di insurrezione nella capitale al prezzo di centinaia di vittime e si apprestò alla riconquista della Sicilia ribelle, che avrebbe realizzato solo nel maggio 1849, dopo avere imposto qualche mese prima il pieno ritorno all’ordine anche nella porzione continentale del regno, previo scioglimento della Camera dei deputati di Napoli.
Nel frattempo, già nell’agosto del 1848, gli austriaci avevano inflitto una pesante sconfitta alle truppe sabaude e ai volontari italiani, riprendendo possesso della Lombardia. Un ulteriore tentativo piemontese di sfidare sul piano militare la potenza austriaca si sarebbe risolto, alcuni mesi più tardi (marzo 1849) in una nuova disfatta, in seguito alla quale Carlo Alberto prese la decisione di abdicare. Anche a Firenze e a Roma, intanto, le strade degli innovatori liberali e quelle di sovrani pur sempre criptoassolutisti s’erano divise da tempo. Tra il novembre 1848 e il febbraio 1849, prima papa Pio IX, poi il granduca di Toscana Leopoldo II avevano infatti abbandonato le rispettive capitali, riparando a Gaeta sotto la protezione di Ferdinando di Borbone e dissociando drasticamente le proprie responsabilità da quelle di quanti a Roma e a Firenze s’erano impadroniti delle leve di governo e intendevano rilanciare la guerra contro l’Austria e proporre addirittura un piano di Costituente italiana a base democratica. La Firenze di Francesco Domenico Guerrazzi e la Roma repubblicana di Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi, Carlo Armellini, difesa da Giuseppe Garibaldi, caddero nell’aprile 1849, immediatamente a ridosso della seconda sconfitta patita da Carlo Alberto ad opera dell’Austria. Firenze venne occupata dagli austriaci, Roma da un corpo di spedizione francese inviato da Napoleone III. Ad agosto agli austriaci si arrese anche Venezia, dove fino all’ultimo un «microcosmo di italianità» (ivi, p. 69), formato dai volontari che da tutta la penisola s’erano spostati a nord in occasione della prima guerra di indipendenza, continuò a offrire un esempio carico di pathos di quello slancio in senso nazionale che, a partire dai primi mesi del 1848, si era via via sovrapposto e intrecciato con le aspirazioni liberali e indipendentistiche.
Indipendenza dei vari Stati che la componevano e unificazione della penisola in un singolo Stato, in una nazione, non erano, fino alla vigilia del 1848, obiettivi politici coincidenti. Ma le vicende del biennio rivoluzionario avevano convinto molti del fatto che per tutelare la prima era necessario realizzare anche la seconda, non importa se in una versione accentrata o, piuttosto, come non pochi continuavano a ritenere largamente preferibile, federativa. I replicati scacchi dei rivoluzionari avevano, d’altro canto, evidenziato come anche la semplice indipendenza (e, con essa, la possibilità di sviluppare istituzioni liberali) risultasse posta in cattive mani se affidata alla custodia di sovrani intimamente propensi ad ascoltare con maggior convinzione la voce autoritaria di Vienna che quella dei loro sudditi desiderosi di emanciparsi in cittadini. A questo rilievo, suggerito dalla drammatica esperienza del biennio rivoluzionario, si sottraeva nell’agosto 1849 – quando con la presa di Venezia l’ordine calò di nuovo sulla penisola – una sola delle teste coronate insediate su un trono italiano: quella del re di Sardegna, ora Vittorio Emanuele II, il sovrano dell’unico regno nel quale la costituzione concessa nel 1848 – lo Statuto albertino – continuasse a restare in vigore, mentre altrove le carte emanate prima della guerra di indipendenza erano state ovunque ritirate o congelate. Ed era, al tempo stesso, la dinastia sabauda, la sola che durante il biennio alle spalle avesse concretamente profuso la propria forza militare contro l’Austria, sforzandosi di operare una congiunzione tra le proprie tradizionali aspirazioni espansionistiche e le aspettative indipendentistiche e liberali di parte significativa delle élites civili e sociali padane.
Sollecitata dal basso – ma un basso socialmente selezionato, formato essenzialmente dagli strati più alti e acculturati della popolazione, e capace di prendere tonalità popolari solo nei maggiori contesti urbani – la questione dell’indipendenza, attraverso gli eventi del 1848-49, aveva almeno in parte mutato pelle. Se in precedenza la proiezione in senso nazionale ne aveva costituito un corollario possibile, ma tutt’altro che condiviso tra le stesse forze liberali, negli anni Cinquanta l’idea di una auspicabile congiunzione tra libertà e nazione venne mettendo radici anche presso strati dell’opinione pubblica in precedenza alquanto titubanti rispetto a uno scenario, che molti tendevano ad associare in maniera obbligante e indissolubile agli «eccessi» della rivoluzione francese – simbolico luogo di battesimo non solo del moderno sentimento nazionale, ma anche della figura inquietante della sovranità popolare –, e per questo a stornare dal proprio immaginario. Ora, viceversa, il fatto che a impadronirsi – seppure gradualmente e in parte anche accidentalmente – di una finalità sin lì monopolizzata dai fautori di una trasformazione rivoluzionaria delle istituzioni fosse una forza d’ordine, quale una dinastia regnante, rappresentò un elemento di garanzia. Lungo il corso del decennio si vennero così non poco smussando le diffidenze e i misoneismi di quanti, desiderosi di un rinnovamento politico in senso liberale, erano tuttavia atterriti di fronte alla prospettiva che questo si caricasse di una connotazione radicale, quale quella normalmente da essi associata alla rivendicazione della sovranità nazionale e alla proclamazione dell’identità tra popolo e nazione, che ne rappresentava il presupposto.
A lungo, peraltro, dopo il 1849, a dare linfa al sogno della nazione – una nazione pensata come scenario della democrazia – fu ancora soprattutto il mondo dei militanti repubblicani vicini a Giuseppe Mazzini, il quale dalla sconfitta del 1848-49 era comunque riuscito a uscire forte dell’ascendente morale e del carisma che s’era conquistato grazie al ruolo svolto nella vicenda della Repubblica romana. Ma le iniziative avviate dalla rete mazziniana andarono incontro nei primi anni Cinquanta a una serie ininterrotta di insuccessi, che ne minò notevolmente la forza di attrazione. Nel 1852 una raffica di arresti scompaginò l’organizzazione del patriota genovese nel Lombardo-Veneto e si tradusse nella condanna a morte di quanti maggiormente s’erano esposti nella diffusione delle cartelle del Prestito nazionale di 10 milioni di lire lanciato qualche mese prima da Mazzini allo scopo di finanziare la ripresa dell’azione rivoluzionaria nella penisola. Nel febbraio 1853, a Milano, fallì anche la cosiddetta «rivolta dei Barabba», forse il solo episodio insurrezionale organizzato dal padre del repubblicanesimo italiano nel quale la componente popolare – artigiani e salariati cittadini – si segnalasse per l’entità della sua partecipazione. I rivoltosi, armati di coltelli, riuscirono a uccidere all’arma bianca un certo numero di militari austriaci; non ad infiammare la città, che assistette quasi senza batter ciglio al soffocamento del loro tentativo da parte delle truppe di Radetzky.
Dopo questi due episodi Mazzini, che affidava alla testata «Italia e popolo» la diffusione del proprio programma di unificazione nazionale democratica e repubblicana, intercalando i suoi soggiorni nell’esilio estero con qualche permanenza clandestina nel regno di Sardegna e specialmente a Genova, vide calare sensibilmente il consenso che aveva saputo conquistarsi tra i patrioti più determinati. Al fallimento della «rivolta dei Barabba» reagì annunciando la costituzione di un nuovo raggruppamento rivoluzionario, il Partito d’azione, ma molti di coloro che in precedenza l’avevano affiancato non entrarono a farne parte, pur mantenendo aperto un dialogo con il genovese. In particolare, dalla crisi del mazzinianesimo scaturì l’addensamento di una dissidenza patriottica, che, pur tenendo fermo l’obiettivo dell’unificazione nazionale, si mostrò sempre più propensa a ritenerne lo strumento operativo più efficace il coinvolgimento della corona sarda, la sola forza in campo che fosse in grado di prestare al progetto non solo il braccio armato dell’esercito, ma anche quella capacità di fraseggio sullo scacchiere diplomatico internazionale che risultava invece ovviamente preclusa ai patrioti di ispirazione rivoluzionaria e di fede repubblicana. Quello italiano, peraltro, da questo punto di vista, non fu un caso unico.
In Germania, infatti, negli stessi anni molti dei militanti democratico-nazionali che più si erano esposti nella rivoluzione del 1848 seguirono un percorso analogo, abituandosi a intravedere in una Realpolitik (il termine venne coniato proprio allora) confidente nel ruolo dominante di una potenza statale – in questo caso quella prussiana – lo strumento capace di ottenere almeno parte degli obiettivi che la mobilitazione dal basso della cittadinanza si era, alla fine del biennio rivoluzionario, lasciati sfuggire. Anche per l’Italia la metamorfosi di parte dei patrioti radicali formatisi nei decenni anteriori al 1848 in fautori di una unificazione nazionale di segno monarchico (a costo, ovviamente, di un sostanzioso svilimento della carica ideale in precedenza coniugata al progetto di costruire una nazione a sovranità popolare) può essere classificata sotto il segno di una Realpolitik che, del resto, in quegli stessi anni, anche se con caratteristiche diverse da paese a paese, coinvolse in varia misura non pochi dei reduci dalle battaglie politiche quarantottesche in tutta Europa. Ma perché questa trasformazione del fronte patriottico si realizzasse era necessario il presupposto di una alternativa, se non seducente, almeno concreta e credibile.
È quanto avvenne dal momento in cui Camillo Benso conte di Cavour – dal 1850 come ministro dell’Agricoltura e commercio, e dal 1852 come capo del governo – operò nel Regno sabaudo una svolta che si concretizzò tanto in una intraprendente conduzione della politica estera, finalizzata all’obiettivo di rafforzare la legittimazione del «piccolo» Piemonte sul piano delle relazioni internazionali, quanto nell’impulso allo svolgimento in senso compiutamente liberale delle istituzioni di uno Stato nel quale, ancora nei primi anni dopo il 1848-49, il sovrano non si faceva scrupolo di prescindere dagli orientamenti della maggioranza parlamentare e di governare in base a una interpretazione rigida della prerogativa regia, un istituto del resto esplicitamente previsto dallo Statuto del 1848.
Anche la forte spinta impressa da Cavour alla vita economica, naturalmente, contribuì non poco a guadagnare simpatie crescenti al Regno di Sardegna da parte di quanti, in altre aree della penisola, coniugavano all’idea dell’indipendenza italiana quella dell’adeguamento dell’economia e della società agli sviluppi in corso nelle aree d’Europa più moderne e avanzate. Ma qui ci concentreremo sugli aspetti più propriamente politici e diplomatici del suo operato.
Le iniziative che, a costo di forzare le convinzioni del sovrano, riuscì a promuovere nel campo della legislazione ecclesiastica – inaugurate già prima del suo ingresso al governo dalle leggi Siccardi del 1850 e culminate nella crisi Calabiana del 1855 – suscitarono due effetti: da un lato il rafforzamento dello charme liberale dello Stato piemontese; dall’altro la scomunica da parte di Pio IX di coloro che in sede di Parlamento subalpino avevano approvato nel 1855 la legge contestata dalle gerarchie ecclesiastiche locali, e dunque la forzosa dislocazione dell’establishment politico del Regno su un fronte nettamente contrapposto a quello dello Stato pontificio, il cui governo si stava segnalando dopo il 1849 come uno dei più sordi rispetto alle sollecitazioni liberali. Il Pio IX del dopo-rivoluzione, da questo punto di vista, rappresentava l’esatto opposto del pontefice che tra il 1846 e il 1848 aveva suscitato tante speranze, e alla sua metamorfosi faceva pendant il tramonto di quella ipotesi di soluzione neoguelfa per l’indipendenza italiana che nei primi anni del pontificato di Mastai Ferretti aveva riscosso forti simpatie tra i moderati.
Nel 1853, d’altro canto, nel momento in cui il feldmaresciallo Radetzky, come rappresaglia per il moto milanese dei Barabba, ordinò il sequestro di tutti i beni dei profughi politici del Lombardo-Veneto (molti dei quali, avendo abbandonato il proprio paese tra il 1848 e il 1849, si erano rifugiati nel confinante Regno di Sardegna, dove i più doviziosi e politicamente rassicuranti tra di essi avevano anche ottenuto la cittadinanza), Cavour interpretò l’iniziativa come una sorta di sfida lanciata da Vienna contro Torino: quasi un provocatorio supplemento di penalizzazione in aggiunta a quella già ricevuta dallo Stato sabaudo in virtù dell’oneroso trattato di pace siglato tra le due corti nel 1850. Di conseguenza, fece richiamare a Torino il ministro sardo a Vienna e, riscuotendo in particolare il plauso delle forze parlamentari di «centro-sinistra» e di sinistra che già da qualche tempo lo sostenevano, dispose l’erogazione di sussidi agli esuli danneggiati dai sequestri.
In capo a qualche mese dall’inizio dell’esercizio del proprio mandato, dunque, il primo ministro sabaudo si trovava riversata addosso l’acrimonia e l’ostilità sia della grande potenza europea che dal 1815 esercitava la funzione di gendarme della penisola e di maggiore ostacolo alla sua indipendenza, sia di uno Stato della Chiesa i cui vertici avevano repentinamente chiuso qualsiasi spiraglio a una evoluzione della vita politica in senso liberale. E, se Roma considerava Torino una corte politicamente avversa, Vienna tendeva a vedere nel Piemonte una perdurante minaccia militare, immaginandolo potenzialmente disposto a riprendere, alla prima occasione favorevole, la guerra per la supremazia nell’Alta Italia già ingaggiata nel 1848 e nel 1849.
Tra il 1853 e il 1856, auspice l’inasprimento della questione d’Oriente e la deflagrazione della guerra di Crimea tra Russia e Turchia, il Regno di Sardegna riuscì a ottenere i primi tangibili riscontri di quella considerazione internazionale di cui il suo capo di governo andava alla ricerca. Cavour siglò nel 1855 con Francia e Gran Bretagna (dal settembre 1854 militarmente presenti in Crimea) un’alleanza assai più impegnativa di quella che l’Austria aveva stipulato in relazione al medesimo scenario di crisi un mese prima con le cosiddette «potenze occidentali». Vienna finì poi, nei mesi successivi, per tergiversare quando fu sollecitata a convertire l’alleanza in concreto impegno militare e di fatto non entrò in guerra, paga di avere ottenuto nei mesi precedenti dalla Turchia il consenso a occupare i principati danubiani. Da Torino, a sostegno dell’azione militare franco-britannica, mosse invece nella primavera del 1855 un corpo di spedizione di 18.000 uomini, che sbarcò a maggio nel teatro delle operazioni e fornì il contributo richiesto al Regno per la sconfitta della Russia.
Al momento di sedersi al tavolo dei negoziati di pace, nel febbraio 1856, assieme ai rappresentanti degli altri Stati coinvolti nel conflitto, Cavour aveva immaginato un programma massimo, che era quello di ottenere, come segno di riconoscimento per la partecipazione sarda alla guerra, una sorta di protettorato sabaudo sui Ducati padani e sulle Legazioni pontificie, previa l’emancipazione degli uni e delle altre dalla tutela militare che l’Austria vi esercitava dal 1849. Contestualmente, secondo questo piano, avrebbe dovuto avere inizio un processo di inorientamento territoriale dell’Austria, quale compensazione per l’indebolimento delle sue posizioni di forza in Italia.
Il programma massimo non andò a buon fine; ma qualche risultato interessante comunque si produsse. Le potenze europee, in seguito a pressioni anglo-francesi, accettarono infatti che si discutesse, nella seduta del 6 aprile 1856, di una «questione italiana» esplicitamente messa all’ordine del giorno in quanto tale, nonché della convenienza di affrontarla con gli strumenti della diplomazia. Essa si sostanziava, nell’interpretazione che ne venne data, essenzialmente di due nodi scottanti: l’indesiderabilità dell’ulteriore mantenimento dell’occupazione militare per un verso (Legazioni) austriaca, per l’altro (Roma) francese all’interno di aree tanto significative dello Stato pontificio; la condanna dei modi di governo del re delle Due Sicilie, da tempo biasimati, soprattutto nella liberale Gran Bretagna, per la loro supposta o effettiva brutalità, che li rendeva inaccettabili rispetto agli standard ritenuti appropriati a un paese civile, nonché possibili pretesti di indesiderabili iniziative rivoluzionarie.
Alla discussione non fecero seguito disposizioni operative concrete. E, tuttavia, Francia e Gran Bretagna confermarono in forma ufficiale la propria condanna nei confronti del governo assolutista delle Due Sicilie; ad essa il rappresentante della Gran Bretagna aggiunse anche quella della situazione vigente nello Stato pontificio, a proposito tanto delle occupazioni militari straniere, quanto della natura clericale del suo governo. Ma, soprattutto, il congresso di Parigi restituì un quadro in movimento del sistema delle alleanze europee, che lasciava confidare chi desiderasse di mutarne gli equilibri a proprio vantaggio nella possibilità di approfondire le contraddizioni con iniziative di rottura. L’eventuale carattere eversivo di queste ultime rispetto agli accordi internazionali esistenti sarebbe stato comunque temperato dal fatto che a realizzarle avrebbero potuto essere non le forze della rivoluzione, che da decenni tutti i governi europei si sforzavano di neutralizzare, ma legittimi sovrani di Stati dotati di un proprio autonomo dinamismo istituzionale e militare, purché capaci di fare propria se non altro la retorica del discorso liberale intorno al diritto delle nazioni alla libertà e all’indipendenza.
Per il momento, la guerra e le trattative diplomatiche che ne ratificarono il congelamento sancivano intanto l’evidenza della rottura di quella solidarietà austro-russa che era stata uno degli elementi fondanti della normalizzazione del continente seguita al biennio rivoluzionario. E già questo costituiva un presupposto fondamentale per lo sviluppo della strategia che la diplomazia sabauda venne perseguendo negli anni successivi, mentre Cavour, dal canto suo, avviò, già al momento del ritorno dal tour europeo che l’aveva impegnato dopo il congresso di Parigi, un ciclo politico esplicitamente orientato al rilancio del Regno di Sardegna quale avversario naturale dell’Austria in un conflitto che aveva per posta il piatto italiano. Il 6 maggio, in una seduta della Camera nel corso della quale espose i risultati conseguiti al congresso, si espresse, in proposito, in termini molto più arditi di quelli di cui aveva fatto uso fino a quel momento:
Le negoziazioni di Parigi non hanno migliorato le nostre relazioni con l’Austria. Noi dobbiamo confessare che i plenipotenziari della Sardegna e quelli dell’Austria, dopo aver seduto per due mesi a fianco […] si sono separati, dico, senza ire personali, ma coll’intima convinzione essere la politica dei due paesi più lontana che mai dal mettersi d’accordo, essere inconciliabili i principii dall’uno e dall’altro paese propugnati. Questo fatto […] è una conseguenza inevitabile, fatale di quel sistema leale, liberale e deciso che il re Vittorio Emanuele inaugurava salendo al trono, di cui il Governo del Re ha sempre cercato di farsi interprete, al quale voi avete sempre prestato fermo a valido appoggio. Né io credo che la considerazione di questa difficoltà, di questi pericoli, sia per farvi consigliare al governo del Re di mutare politica. La via che abbiamo seguita in questi anni ci ha condotto ad un gran passo: per la prima volta nella storia nostra la questione italiana è stata portata e discussa avanti a un congresso europeo, non come le altre volte, non come al congresso di Lubiana ed al congresso di Verona coll’animo di aggravare i mali d’Italia e di ribadire le sue catene, ma coll’intenzione altamente manifestata di arrecare alle sue piaghe un qualche rimedio, col dichiarare altamente le simpatie che sentivano per essa le grandi nazioni. Terminato il congresso, la causa d’Italia è portata ora al tribunale della pubblica opinione, a quel tribunale al quale, a seconda del detto memorabile dell’Imperatore dei Francesi, spetta l’ultima sentenza, la vittoria definitiva. La lite potrà essere lunga, le peripezie saranno forse molte; ma noi confidenti nella giustizia della nostra causa aspetteremo con fiducia l’esito finale (Cavour 1961, p. 362).
Attribuendo a Vittorio Emanuele propensioni genuinamente liberali che in realtà erano soprattutto sue, Cavour si rivolgeva dunque, esaurita la prima fase dell’impegno diplomatico, esplicitamente alla pubblica opinione; quella subalpina, naturalmente, in primo luogo, ma con un occhio rivolto in tutta evidenza anche in direzioni più lontane, a perlustrare la possibilità di utili sinergie in altre parti della penisola.
Tra il 1848 e il 1849 erano affluiti a Torino e nel Regno di Sardegna, da tutti gli altri Stati italiani, esuli nell’ordine delle decine di migliaia: addirittura 100.000 secondo la stima della marchesa Costanza d’Azeglio, mentre la valutazione dell’ambasciatore austriaco nel capoluogo subalpino si attestava su una cifra equivalente a circa la metà e quella di altri osservatori suggeriva numeri ancora più limitati. Negli anni successivi la presenza di esuli nello Stato sabaudo calò, ma essi rimasero comunque una componente stabile nel panorama sociale e civile del Regno. Si trattava soprattutto di lombardo-veneti, ma ve ne erano anche di diversa provenienza. Quelli di orientamento moderato si concentravano essenzialmente a Torino; quelli di tendenza democratica e repubblicana prevalentemente a Genova, dove lo stesso Mazzini, del resto, soggiornò talvolta in clandestinità tra il 1856 e il 1857. Sul piano delle garanzie giuridiche, il governo sardo si dimostrò molto cauto nei confronti di questo nuovo «microcosmo di italianità», di cui facevano parte molte figure caratterizzate da un radicalismo politico – o anche, più prosaicamente, da una pericolosità sociale derivante dalla condizione «marginale e precaria» in cui vivevano (De Fort 2003, p. 682) – che si conciliavano male con le esigenze di ordine dello Stato sabaudo. La cittadinanza subalpina venne concessa, pertanto, solamente a un segmento selezionato di esuli, ben emblematizzato, per esempio, da quel nucleo di aristocratici e alto-borghesi lombardi e veneti sussidiati nel 1853 al momento del sequestro dei loro beni in patria disposto dagli austriaci. Con gli altri le autorità del Regno si conservarono mano libera, munendoli di permessi provvisori di soggiorno all’occorrenza revocabili ove sorgessero dubbi o preoccupazioni in ordine alla loro condotta. Tuttavia, all’altezza del 1857, erano ben 2.300 i rifugiati politici che risultavano ricoprire un qualche incarico pubblico nello Stato sabaudo.
La loro partecipazione alla composizione del ceto di governo era indubbiamente modesta. Tra i ministri di Cavour il solo extraregnicolo fu il veneto Pietro Paleocapa e in precedenza, nel governo d’Azeglio, c’erano stati i casi del piacentino Pietro Gioia e del romagnolo Luigi Carlo Farini. Ma nell’entourage più intimo di Cavour i non sabaudi erano numerosi e così pure in campo culturale l’influenza degli esuli si faceva sentire robusta, per esempio attraverso la voce dei napoletani e dei siciliani che avevano ottenuto un impiego nell’Università. Una spiemontesizzazione del Piemonte? O, addirittura, la sedimentazione di una sorta di Italia virtuale, protesa alla ricerca di un’occasione per il proprio inveramento politico? Se una prospettiva di lettura di questo genere risulta tutto sommato esagerata, si può tuttavia persuasivamente parlare dell’agglutinarsi – grazie agli esuli – di un livello inedito della vita politica del Regno, parallelo a quello che si materializzava nelle aule del Parlamento di Torino; in grado, certamente, di influenzarne in modo occasionale l’agenda, ma fondamentalmente distinto da questo, perché proiettato su uno scenario necessariamente extrapiemontese: quello dell’Italia dei molti Stati dai quali gli emigrati provenivano e ai quali desideravano che fosse restituita l’indipendenza persa tra il 1848 e il 1849. È all’interno di questo specifico milieu che affondò le proprie radici la Società nazionale italiana.
Le condizioni che ne favorirono la formazione cominciarono a prendere corpo nei primi anni Cinquanta e coincisero in buona parte con le prime avvisaglie della crisi del mazzinianesimo. Già nel novembre 1851 Giorgio Pallavicino, esule lombardo a Torino, che era stato negli anni precedenti vicino a Mazzini, faceva notare come le forze vive, in un’Italia che si voleva «indipendente, prima che libera», fossero «l’opinione italiana e l’esercito sardo» (cit. in Candeloro 1964, p. 225). Era una presa di distanza esplicita rispetto alla visione di Mazzini, il quale insisteva sul principio dell’iniziativa popolare, immaginando l’indipendenza (e poi l’unificazione) italiana come l’esito di una serie di insurrezioni democratiche, di cui auspicava la propagazione da un capo all’altro della penisola, incluso il Regno di Sardegna. Negli anni seguenti, ma soprattutto a partire dal momento in cui esplose la questione d’Oriente, la prospettiva di Pallavicino guadagnò proseliti, conquistando molti dei democratici delusi dall’inconcludenza del mazzinianesimo. Nel 1855 Daniele Manin, che dopo la fuga da Venezia aveva impiantato a Parigi il proprio centro di aggregazione dell’emigrazione politica, e che godeva presso i democratici di un carisma di poco inferiore a quello del patriota genovese, annunciò ufficialmente la propria rinuncia alla pregiudiziale repubblicana e formulò una proposta rivolta tanto ai liberali moderati, piemontesi e non, quanto ai repubblicani sparsi nel Regno subalpino e nel resto della penisola. Essa era intonata al compromesso, ovvero alla formalizzazione di un fronte comune finalizzato al conseguimento di quello che era stato l’obiettivo storico del repubblicanesimo democratico – l’unificazione nazionale – nel quadro della formula politico-istituzionale prediletta dai liberali moderati: la monarchia. Manin riproponeva così, forte del prestigio di cui godeva, e che gli consentiva di amplificarne l’irradiazione, un principio che già qualche mese prima Giorgio Pallavicino aveva espresso dalle colonne del giornale torinese «Unione»: «Abbiamo bisogno del re sardo? Accarezziamolo e soprattutto non offendiamolo con velleità repubblicane. Parlare ora d’assemblee popolari non è opportuno» (ivi, p. 227).
La presa di posizione di Manin suscitò naturalmente reazioni contrastanti. Venne attaccata tanto dalla sinistra repubblicana quanto dalla destra poco più che tiepidamente liberale; o, meglio, dai settori più intransigenti dell’una e dell’altra; ma, al tempo stesso, trovò fertile terreno di presa tra gli scontenti che animavano la fronda mazziniana e anche tra i moderati più aperti alle novità, e gli eventi legati alla guerra di Crimea e al successivo congresso di Parigi ne accrebbero la capacità seduttiva. Alla prospettiva di un «movimento disposto a subordinarsi all’iniziativa piemontese» e insieme capace di far leva sugli interessi dinastici sabaudi «per indurre il governo di Torino ad assumere la guida della lotta per l’indipendenza e l’unificazione» (ivi, p. 242) aderì la figura che negli anni successivi sarebbe divenuta l’icona per eccellenza del patriottismo italiano, Giuseppe Garibaldi, rientrato da poco a Genova dopo alcuni anni di disimpegno politico trascorsi sui mari del mondo. Per contro, pur non esponendosi in modo altrettanto esplicito, sciolsero i loro tradizionali legami con Mazzini anche altre figure sin lì per lui assai fidate, come Giacomo Medici e Agostino Bertani. Intanto, nel gioco di sponda ingaggiato da Pallavicino e Manin si inserì, assumendo anch’egli funzioni dirigenti nell’organizzazione che cominciava a prendere forma, il siciliano Giuseppe La Farina, che dalle colonne del «Piccolo Corriere d’Italia» (pubblicato a Parigi dal 1856) propagandò intensamente negli anni seguenti la causa di quello che si andava definendo come il movimento monarchico-unitario italiano. Nel frattempo Cavour, dopo la sua forte presa di posizione in sede di Parlamento subalpino al rientro dal congresso di Parigi, avviò una consuetudine di consultazioni clandestine con i promotori del progetto di convergenza tra repubblicano-democratici e monarchico-moderati sotto lo scudo politico-militare della monarchia sabauda. Incontrò di frequente Pallavicino, col quale, peraltro, intrattenne rapporti intonati a reciproca diffidenza, e in qualche occasione anche Garibaldi; ma trovò soprattutto in La Farina un interlocutore capace di entrare in sintonia con la sua visione – che era, per il momento, quella di far uso della «questione italiana» per consolidare in senso liberale un Regno sabaudo da presentare come alternativa ai regimi reazionari degli altri Stati e per accrescerne in prospettiva tanto l’estensione territoriale quanto la sfera di influenza sullo scacchiere peninsulare e su quello continentale – e di meglio corrispondere, dunque, al suo desiderio di promuovere la fondazione di una Società nazionale italiana intesa essenzialmente come polo di ralliement politico per repubblicani in crisi di identità disposti a subordinarsi alle scelte di volta in volta suggerite dallo statista piemontese.
Nell’estate 1857 la Società nazionale italiana uscì ufficialmente allo scoperto, in un contesto che sul piano diplomatico era da quasi un anno contraddistinto dall’approfondirsi dell’isolamento diplomatico del Regno delle Due Sicilie in seguito al richiamo da Napoli degli ambasciatori di Francia e Inghilterra, e che sotto il profilo politico era segnato dal recentissimo e tragico fallimento di quello che, nel giugno 1857, si configurò come l’ultimo tentativo di insurrezione di matrice repubblicana nell’Italia preunitaria, articolandosi nei moti di Livorno e di Genova e, soprattutto, nella spedizione di Sapri, guidata dall’esule napoletano e protosocialista Carlo Pisacane. Sulle ceneri della disfatta delle ultime iniziative mazziniane, la Società nazionale italiana, che ebbe carattere pubblico nel Regno di Sardegna, ma si organizzò in una rete clandestina via via più solida negli altri Stati della penisola, poté nei due anni successivi saturare il vuoto politico che s’era determinato nelle file dei patrioti democratici attraverso un programma che – formulato da La Farina, ma passato per il vaglio di Cavour – testualmente recitava:
La Società nazionale italiana dichiara: che intende anteporre a ogni predilezione di forma politica, e d’interesse municipale e provinciale, il gran principio della indipendenza ed unificazione italiana; che sarà per la casa di Savoia, finché la casa di Savoia sarà per l’Italia, in tutta l’estensione del ragionevole e del possibile; che non predilige tale o tal altro ministero sardo, ma che sarà per tutti quei ministeri, che promuoveranno la causa italiana, e si terrà estranea ad ogni questione interna piemontese; che crede alla indipendenza ed unificazione dell’Italia sia necessaria l’arme popolare italiana; utile a questa il concorso governativo piemontese (La Farina 1870, 2° vol., p. 81).
Dunque, iniziativa popolare sì, ma accompagnata, guidata, e all’occorrenza frenata dallo Stato sabaudo. Ma, perché quest’ultimo potesse entrare ufficialmente in campo, era necessario un ulteriore smottamento nella configurazione degli equilibri internazionali, per il quale indubbiamente il congresso di Parigi aveva posto qualche possibile presupposto, senza però offrire per il momento spinte risolutive.
L’accelerazione fu impressa, nei due anni seguenti, essenzialmente dalla ferma e spregiudicata determinazione di Napoleone III di ridisegnare a vantaggio della Francia gli equilibri europei, e di ancorare all’espansione francese sia il drastico ridimensionamento dell’egemonia austriaca in Italia, sia il rafforzamento di un Regno di Sardegna da considerare sostanzialmente come una testa di ponte transalpina nella penisola. Scampato nel gennaio 1858 all’attentato del patriota italiano Felice Orsini, l’imperatore dei francesi sfruttò la risonanza emozionale che il processo all’attentatore aveva suscitato in vasti strati dell’opinione pubblica internazionale, attirando l’attenzione sull’esistenza di uno stato di malessere profondo nella penisola, al quale si trattava di dare risposta allontanandone i regnanti più screditati e soprattutto gli occupanti austriaci. Da Torino, dove oltre a Cavour anche re Vittorio Emanuele si andava convincendo dell’opportunità di una nuova guerra dinastico-patriottica, venne manifestata immediata disponibilità a tale progetto di massima, tanto più che già dal marzo 1857 il governo di Vienna, denunziando l’atteggiamento apertamente antiaustriaco ultimamente assunto dal governo e dalla stampa piemontesi, aveva interrotto le relazioni diplomatiche con lo Stato sabaudo.
Nel luglio 1858 Napoleone III e Cavour si incontrarono clandestinamente a Plombières, dove misero a punto un accordo nel quale, oltre alle usuali clausole predilette dalla diplomazia vecchio stile (il matrimonio tra uno scapestrato cugino trentaseienne di Napoleone e la poco più che quindicenne e religiosissima principessa Clotilde di Savoia), figurava l’impegno a una comune guerra contro l’Austria, previa provocazione di quest’ultima fino al punto di indurla a una offensiva antipiemontese che avrebbe giustificato in sede internazionale la risposta militare franco-sabauda. Dall’auspicata vittoria – contestualmente alla cessione della Savoia e di Nizza alla Francia da parte del Piemonte – sarebbe dovuta scaturire una riformulazione della carta politica d’Italia nei seguenti termini: 1) formazione di un regno dell’Alta Italia sabaudo, potenzialmente comprensivo anche di Lombardia, Veneto, Ducati e Legazioni pontificie; 2) attribuzione al papa, sotto la protezione francese, di Roma e dei territori circostanti; 3) edificazione di un Regno dell’Italia centrale formato dal resto degli Stati del papa e dalla Toscana, e affidato, nell’auspicata ipotesi che il granduca Leopoldo II abbandonasse Firenze, o alla duchessa di Parma (ipotesi di Cavour) o a Napoleone Girolamo (cugino di Napoleone, il quale era, naturalmente, fautore di questa opzione); 4) mantenimento del Regno delle Due Sicilie, con l’auspicio che Ferdinando di Borbone venisse indotto da una sollevazione ad abbandonarlo e che al suo posto si insediasse Luciano Murat, uomo dell’entourage di Bonaparte e figlio di Gioacchino, già re di Napoli dal 1810 al 1815 e animatore, nel 1815, della prima guerra per l’indipendenza italiana; 5) istituzione di una confederazione dei quattro Stati così formati, affidata alla presidenza del papa. Ammesso che la vittoria in guerra arridesse ai franco-piemontesi, si trattava di un progetto ambizioso ed eversivo al tempo stesso, che dava per scontati alcuni presupposti di assai dubbia realizzabilità: da un lato quello del semispontaneo ritiro dalla scena dei sovrani di vari Stati della penisola, incluso il papa, che nella carica tutta formale di presidente dell’erigenda confederazione italiana avrebbe trovato una davvero assai modesta compensazione alla perdita di gran parte dei territori del suo Stato; dall’altro quello dell’accettazione da parte della comunità diplomatica internazionale – pur sempre saldamente identificata nel suo ruolo di tutrice dell’ordine – di una sorta di terremoto politico in una delle aree più effervescenti del continente. Che a provocarlo fosse l’azione militare promossa da due capi di Stato, e non un’insurrezione, non escludeva affatto che a trarne linfa per i propri progetti potessero poi essere quelle forze della rivoluzione, il cui soffocamento stava a cuore all’intero concerto delle potenze europee.
Nel gennaio 1859 Napoleone III ruppe gli indugi. Inaugurò l’anno – per l’appunto il 1° gennaio – rivolgendo un discorso glacialmente ambiguo all’ambasciatore di Vienna a Parigi a proposito del cattivo stato dei rapporti franco-austriaci e qualche giorno più tardi dettò di fatto a Cavour la famosa frase del «grido di dolore» che Vittorio Emanuele inserì in tutta fretta nel discorso tenuto il 10 gennaio in occasione dell’apertura del Parlamento subalpino. Nei mesi seguenti, mentre naufragavano gli sforzi profusi dalla diplomazia internazionale per scongiurare la deflagrazione di un ormai probabile conflitto, si vennero precisando i termini dell’alleanza franco-piemontese, con una serie di postille segrete che prevedevano da un lato il carattere non solo difensivo, ma anche offensivo dell’alleanza – allo scopo di «soddisfare i voti della popolazione» –, dall’altro l’attribuzione integrale all’erigendo Regno dell’Alta Italia del carico delle spese di guerra. Dopo l’impaludamento dei tentativi di negoziare con i principali banchieri di Parigi il cospicuo prestito necessario per sostenerle, Cavour non ebbe difficoltà a risolvere la questione in pochi giorni ottenendone la sottoscrizione in parte all’interno del Piemonte, in parte presso banchieri e personaggi benestanti in Lombardia e in Toscana. Mentre la finanza di alcuni degli Stati della penisola, dunque, sembrava in un certo senso scommettere sulla possibile evoluzione degli eventi nel senso auspicato dal governo piemontese, a Torino cominciarono ad affluire dal resto della penisola, con l’intenzione di affiancare nelle operazioni belliche le truppe regolari franco-piemontesi, migliaia di volontari, molti dei quali erano disertori dell’esercito di stanza nel Lombardo-Veneto. Era la prova che il ralliement patriottico promosso dalla Società nazionale italiana aveva dato buoni frutti, non solo nel Regno di Sardegna, ma anche almeno in parte degli altri Stati.
Anche il governo inglese, che tra l’inizio di marzo e la prima settimana di aprile si era speso attivamente allo scopo di evitare il conflitto, finì per vedere vanificati i propri propositi e dovette recedere, tanto più che gran parte dell’opinione pubblica britannica manifestava simpatia per la causa dell’indipendenza e della libertà italiana e al tempo stesso disprezzo per due delle vittime designate della tempesta che si andava annunciando: il papa e Ferdinando II di Borbone. Il 26 aprile Cavour respinse l’ultimatum, inviatogli tre giorni prima da Vienna, in cui gli veniva perentoriamente richiesto di provvedere all’immediato congedo dei volontari affluiti a Torino e posti dal governo piemontese ai comandi di Giuseppe Garibaldi, nonché alla sollecita riconduzione dell’esercito sardo sul piede di pace.
Era l’inizio della seconda guerra di indipendenza, di fatto preparata sotto gli occhi di tutti ormai da mesi e, per questo, giunta tutt’altro che inaspettata, all’interno di una penisola nei cui Stati gli oppositori liberali ai regimi esistenti – coordinati dalla Società nazionale – ne avevano atteso l’approssimarsi con crescente entusiasmo.
La cronaca della guerra è ben nota. Grazie al contributo determinante dell’esercito francese, giunto sul teatro bellico qualche giorno dopo i primi scontri tra piemontesi e austriaci, questi ultimi vennero ripetutamente sconfitti (a Magenta il 4 giugno, a Solferino e San Martino il 24 giugno), e già l’8 giugno Napoleone III e Vittorio Emanuele fecero trionfanti il loro ingresso a Milano. Secondo gli accordi stipulati in precedenza, i franco-piemontesi a questo punto avrebbero dovuto invadere il Veneto. Ma Napoleone III il 5 luglio decise unilateralmente di proporre agli austriaci un armistizio, i cui preliminari vennero poi firmati l’11 luglio a Villafranca. A indurlo a congelare le operazioni concorsero varie considerazioni: da un lato la certezza di poter ottenere comunque parte dei guadagni territoriali previsti (la Savoia e Nizza); dall’altro il desiderio di non aggravare un bilancio di perdite umane che anche per l’alleanza vittoriosa si calcolava dopo i primi due mesi di conflitto nell’ordine delle migliaia di unità; infine la preoccupazione per gli eventi inattesi che nei Ducati, nelle Legazioni, nel Granducato di Toscana, stavano minacciando di mandare almeno in parte all’aria i piani definiti a Plombières.
A rimescolare vigorosamente le carte in tavola furono per primi gli esponenti dell’opposizione al governo del granduca di Toscana, i quali, già il 27 aprile, prima ancora che la guerra avesse ufficialmente inizio, organizzarono, con il conforto di nuclei consistenti dell’esercito, una pacifica sollevazione, finalizzata a indurre il granduca – già nei giorni precedenti sottoposto a incalzanti pressioni in tal senso – ad aderire all’alleanza franco-piemontese e ad ordinare alle sue truppe di partecipare anch’esse, come si apprestavano a fare gli oltre 4.000 volontari toscani confluiti a Torino nelle settimane precedenti, alla guerra di indipendenza contro l’Austria. Leopoldo II rispose precipitosamente alla «piazza» disponendo l’immediato ripristino dello Statuto emanato nel 1848 e abrogato l’anno dopo, e affidando il mandato di formare un nuovo governo al marchese Neri Corsini, uno degli esponenti dell’establishment granducale meno malvisti dal fronte liberale locale. Ma questo tentativo di tacitare la protesta non durò che lo spazio di una giornata. Già a sera, infatti, dopo aver respinto la proposta di abdicare a favore del principe ereditario formulatagli dai leader della sollevazione, Leopoldo II si vide costretto ad abbandonare Firenze insieme all’intera famiglia. E mentre il granduca partiva in carrozza alla volta di Bologna, su sollecitazione del Consiglio comunale di Firenze – e con l’approvazione, espressa nei giorni seguenti, di 216 dei 241 municipi della Toscana – si insediò una giunta provvisoria che chiese formalmente al sovrano sabaudo Vittorio Emanuele II di assumere la dittatura sul Granducato. Da Torino si replicò con un diplomatico diniego, ma al tempo stesso con la nomina (11 maggio) di Carlo Boncompagni – il legato sardo a Firenze, il quale nelle settimane precedenti molto si era speso per indurre il granduca ad aderire all’alleanza antiaustriaca – a commissario regio incaricato di garantire il protettorato sabaudo sulla regione per la durata della guerra. Quando, a luglio, giunse la notizia della stipulazione dei preliminari di Villafranca, Boncompagni venne richiamato a Torino. Ma intanto, già da qualche tempo, sostanzialmente docile alle direttive del commissario regio piemontese, sedeva a Firenze una deputazione egemonizzata da uomini di fede liberale moderata – tra questi Cosimo Ridolfi, Vincenzo Salvagnoli, Bettino Ricasoli – e sostenuta dal consenso del notabilato regionale. I preliminari di pace prevedevano, tra l’altro, il ritorno sul trono di Leopoldo II. Ma non se ne fece nulla. A reggere provvisoriamente le redini di una Toscana, che diversamente dalla Lombardia, strappata dai franco-piemontesi e dal volontariato nazionale agli austriaci con le armi, era passata in mano a forze antilegittimiste senza il minimo spargimento di sangue, salì dopo la partenza di Boncompagni un governo presieduto da Bettino Ricasoli, che rifiutò di piegarsi ai dispositivi previsti dall’accordo franco-austriaco e che nei mesi seguenti si trovò davanti all’alternativa tra sforzarsi di garantire la libertà politica della regione, conservando ad essa una autonoma sovranità all’interno di una erigenda confederazione di Stati indipendenti italiani, oppure premere per la pura e semplice confluenza della Toscana all’interno del Regno costituzionale sabaudo; lo stesso destino, in altre parole, che gli accordi di Villafranca avevano attribuito alla Lombardia.
Tra la fine di aprile e il mese di giugno, intanto, come era accaduto al potere granducale in Toscana, così si erano rapidamente venuti dissolvendo anche quelli sin lì esercitati dai duchi padani e dai legati pontifici in Emilia e in Romagna. Anche in questi casi le autorità in carica si erano ritirate quasi senza colpo ferire, soprattutto una volta che, dopo la sconfitta patita a Magenta dagli austriaci il 4 giugno, era risultato evidente come Vienna non fosse più in grado di assicurare ad esse alcuna ulteriore protezione militare. La duchessa di Parma, assediata dalle pressioni esercitate da parte del suo entourage per convincerla a schierare lo staterello a fianco dell’alleanza franco-piemontese, s’era risolta a imitare a distanza di qualche giorno l’esempio di Leopoldo II e il 1° maggio se n’era andata da Parma. Ma vi era rientrata qualche giorno più tardi, richiamata da un altro settore delle gerarchie militari del Ducato, che almeno per il momento continuavano ad attestarsi su posizioni di legittimismo filoaustriaco. Quando, però, ai primi di giugno, giunse in città la notizia dell’esito della battaglia di Magenta, esse si fecero da parte e la duchessa, dopo aver affidato le redini del governo alla Magistratura civica della capitale, rinforzata da un consesso notabilare allargato, lasciò di nuovo il Ducato. Non più tardi di due settimane dopo, con la carica di governatore plenipotenziario, giunse in città su richiesta delle autorità provvisorie l’emissario sabaudo Diodato Pallieri, che vi esercitò fino a Villafranca la stessa funzione di garante della posizione parmense nella virtuale nuova sfera d’influenza sarda, che a Firenze veniva assolta da Boncompagni.
Altro trapasso di poteri sostanzialmente incruento fu quello che ebbe luogo nel Ducato di Modena e Reggio nelle settimane successive a Magenta. Anche in questo caso, come in quello di Parma, il duca si allontanò dalla capitale subito dopo l’arrivo delle notizie sull’esito della battaglia e la gestione ordinaria del governo venne assunta da un gruppo di notabili cittadini, ai quali, qualche giorno più tardi, si sovrappose come governatore provvisorio delle province modenesi in nome di Vittorio Emanuele II il patriota emiliano Luigi Carlo Farini, che da oltre un decennio risiedeva a Torino e operava attivamente nella vita politica del Regno subalpino. Rifacendosi al precedente rappresentato da un plebiscito del 1848, i modenesi chiesero senza mezzi termini a fine giugno la pura e semplice annessione delle loro terre al Regno di Sardegna. Intanto, da qualche settimana anche Bologna e la Romagna s’erano emancipate a loro volta dal governo pontificio.
La svolta, in queste aree, ebbe luogo tra l’11 e il 12 giugno, quando le truppe austriache stanziate nella seconda città dello Stato della Chiesa e nella regione circostante smantellarono i propri casermaggi per andare a dar man forte ai commilitoni sul teatro di guerra. Dopo la loro partenza la Magistratura comunale, condotta per mano dai notabili moderati della città, non indugiò a seguire l’esempio della Toscana e dei Ducati e in capo a qualche giorno in tutte le città della Romagna andò in scena il medesimo copione: eclissi dei poteri costituiti; ingresso in scena delle élites liberali locali, con netta prevalenza dell’elemento moderato su quello democratico-repubblicano; invocazione della tutela piemontese in forma di dittatura. Nel caso di Bologna quest’ultima si presentò con il volto di Massimo d’Azeglio, che vi giunse il 5 luglio, quando ancora il contenuto dei preliminari di Villafranca non era conosciuto, e che rapidamente vi organizzò un governo provvisorio.
Un’onda inarrestabile? Per la verità, no. Mentre la porzione emiliano-romagnola dello Stato pontificio voltava infatti definitivamente le spalle al papa e ai suoi governatori, viceversa nell’Umbria e nelle Marche – dove pure in un primo momento la cittadinanza aveva indotto i legati a abbandonare i propri uffici – le truppe pontificie ripresero rapidamente possesso dei centri caduti in mano ai maggiorenti liberali locali, scatenando in qualche caso una repressione particolarmente aspra e cruenta; mentre, d’altro canto, nel Lazio non si verificò affatto quel fenomeno combinato di dissolvenza governativa e di protagonismo notabilare che si consumò invece in Emilia e in Romagna e che si arrestò a metà nell’Umbria e nelle Marche. Fatto sta che a fine giugno i confini dell’Italia entrata in seguito alla guerra di indipendenza nel campo di attrazione sabaudo si arrestavano, lungo la costa adriatica, alla città di Cattolica, mentre per quello che riguarda il versante tirrenico e le zone interne coincidevano con la frontiera tra Toscana e Stato pontificio.
Inoltre, anche nei luoghi nei quali il vecchio sistema era crollato, gli accordi di Villafranca, a inizio luglio, parvero rimettere tutto in discussione, prospettando come possibile il sostanziale ripristino dello status quo ante, che l’entusiasmo correlato alla guerra patriottica aveva scompaginato, ma che la diplomazia internazionale pareva intenzionata a ricostruire.
A Villafranca era stata pattuita infatti la cessione della Lombardia da parte dell’Austria alla Francia e da questa al Regno di Sardegna, ma anche l’immediata ricollocazione dei «piccoli principi» dell’Italia padana e della Toscana sui rispettivi troni, e così pure il ritorno all’ordine nelle province pontificie ribelli, nel quadro del rilancio di quel progetto di istituzione di una confederazione italiana sotto la presidenza del papa, di cui Napoleone III e Cavour avevano cominciato a parlare già a Plombières. Se ne sarebbe dovuto discutere ulteriormente in una conferenza internazionale di pace, da convocare di lì a poco.
Mentre l’accettazione, da parte di Vittorio Emanuele, dell’intesa stipulata tra Francia e Austria sollecitò per un verso le transitorie dimissioni di Cavour, per l’altro la cessazione della missione ufficiale svolta dal quartetto dei «governatori di guerra» sabaudi, nelle regioni di quella che potremmo chiamare l’Italia ribelle, la situazione entrò in una condizione di stallo. I notabili liberaleggianti che, una volta cessate le attribuzioni degli emissari piemontesi, reggevano in modo almeno formalmente autonomo le redini dei governi locali, non avevano infatti alcuna intenzione di consentire il ripristino degli antichi regimi. Le élites politiche insediate ora a Firenze, a Parma, a Modena, a Bologna erano in parte formate da esponenti o simpatizzanti della Società nazionale, in parte da maggiorenti più sfumati sotto il profilo ideologico; militanti del proprio campanile, piuttosto che dell’indipendenza o addirittura dell’unificazione italiana, i quali stavano però cominciando, nel vivo dell’incalzare degli eventi, a mutare pelle. L’ondata emozionale prodottasi nei mesi di preparazione e durante le prime battute della guerra aveva infatti sollecitato l’apertura di un orizzonte di aspettative inedito. L’esito immediato del conflitto – l’Austria battuta in campo; la dissolvenza repentina di teste coronate e poteri tradizionali – ne aveva confermato la fondatezza e la verosimiglianza. Non che mancassero, in ciascuna delle città dell’Italia ribelle, frange più o meno significative di legittimisti. Ma il nuovo ordine di cose le obbligava, almeno per il momento, a tacere e a calzare quella maschera del nicodemismo che sino a qualche settimana prima erano stati piuttosto i liberali e i patrioti a doversi sistematicamente calare sul volto. Ciò che risultava evidente era il fatto che, in assenza dello scudo militare austriaco, i poteri tradizionali non riuscivano a reggersi in piedi da soli, dal momento che le stesse istituzioni preposte alla tutela dell’ordine – esercito e polizia – erano in parte attratte dall’orbita liberale e patriottica. E anzi, come abbiamo visto, almeno a Firenze e a Parma erano stati per l’appunto settori consistenti dell’esercito a dare il via alle manifestazioni della cittadinanza che avevano provocato la fuga dei regnanti. Prima ancora che la «piazza» facesse sentire la sua voce, qui lo Stato s’era sfaldato dall’interno, come dimostra bene soprattutto il caso dei militari del Granducato, i quali s’erano mostrati pronti a puntare su un domani alternativo – indipendente, liberale, forse nazionale – allo stesso modo in cui l’avevano fatto qualche settimana prima i finanzieri toscani, nel momento in cui, erogando insieme ai loro colleghi lombardi il colossale prestito di guerra alla corona sabauda, avevano in qualche modo scommesso sul riscatto del proprio paese dal dominio o dall’egemonia austriaca.
In Toscana e a Parma, dunque – ma in tono minore anche nelle altre città e province dell’Italia ribelle del 1859 – i tutori dell’ordine s’erano fatti parte attiva nel disfarlo, affiancandosi ai settori più determinati della cittadinanza, al cui interno avevano a loro volta giocato un ruolo efficace gli emissari ufficiali e segreti della monarchia sabauda. Si era così assistito al transitorio approdo al governo di un notabilato locale che dalla responsabilità del municipio era passato quasi insensibilmente a quella dello Stato, convertendo la propria tradizionale vocazione all’esercizio di una più o meno convinta azione di contenimento dei pubblici poteri nell’assunzione in prima persona delle responsabilità politiche generali. Ma, posto che la cittadinanza assurta in questi luoghi al potere nella primavera del 1859 si mostrava decisamente recalcitrante di fronte all’idea di farsi imporre gli accordi prefigurati a Villafranca, il municipio fatto Stato – i notabili convertiti in governanti – di quale soluzione politica andava ora concretamente alla ricerca? Almeno per quanto riguarda i mesi del limbo estivo del 1859, la risposta non suona univoca. La guerra d’indipendenza, certamente, aveva dato grande risonanza emozionale a una prospettiva unitaria, la cui eventuale possibilità di realizzazione neppure Cavour mostrava di ritenere realistica ancora al momento dello scoppio delle ostilità con l’Austria. A crederci di più erano stati, semmai, i dirigenti della Società nazionale; e se ora dalle città dell’Italia ribelle giungeva un rifiuto ad accogliere di buon grado le ricette politiche suggerite dalla diplomazia del continente, il merito andava soprattutto a loro. Quel rifiuto, comunque, poteva alimentarsi di opzioni non necessariamente coincidenti. Durante l’estate, una volta venuta meno la copertura ufficiale sabauda, in sede locale i notabili approdati al vertice del governo nelle settimane precedenti si organizzarono rapidamente, invitando a schierarsi a conforto delle proprie scelte un elettorato socialmente selezionato, che ovunque espresse rappresentanze di segno prevalentemente moderato. Queste ultime, tuttavia – e qui sta il paradosso – si trovarono a giocare volenti o nolenti un ruolo sostanzialmente eversivo delle regole sancite dal diritto internazionale. Erano formate da figure d’ordine, ma la congiuntura le obbligò a intraprendere iniziative rivoluzionarie.
A Firenze si insediò un governo presieduto da Bettino Ricasoli. Prima a Modena, poi a Parma, investito di una carica di dittatore tutta segnata dall’incombenza dello stato d’eccezione, a reggere in una sorta di comando unificato i due ex Ducati salì quello stesso Luigi Carlo Farini che nelle settimane precedenti aveva esercitato per conto del re di Sardegna la funzione di governatore delle province modenesi. Farini smise, per l’occasione, gli abiti di inviato sabaudo e indossò in un battibaleno quelli ricamatigli addosso dal notabilato delle due città e subito dopo riconfermatigli «dal basso» dalla cittadinanza chiamata alle urne. Nelle Legazioni, dopo il rientro a Torino di Massimo d’Azeglio, i liberali offrirono a Leonetto Cipriani – corso come la famiglia Bonaparte e anche per questo individuato come possibile efficace mediatore tra gli umori indipendentisti della società locale e i piani di ristrutturazione dell’Italia coltivati dall’imperatore dei francesi – di dirigere il governo, ma alla presidenza dell’assemblea sortita dalla consultazione elettorale nominarono Marco Minghetti, figura tipologicamente simile a Farini, perché, come quest’ultimo, esule da anni a Torino e ben addentro alla politica subalpina, pur essendo originario dei luoghi in cui ora era tornato da privato cittadino per influire sul corso degli eventi. Minghetti affiancò Cipriani nella conduzione delle Legazioni fino a novembre, quando venne presa la decisione di congedare il secondo e unificare i territori pontifici ribelli con quelli sui quali Luigi Carlo Farini esercitava la dittatura. Nel frattempo, le assemblee insediate a Bologna, a Modena e a Parma s’erano espresse per l’immediata annessione al Regno sabaudo, approdando a una scelta che vanificava gli sforzi di restaurazione «leggera» profusi dalla diplomazia internazionale in attesa di una conferenza di pace che non ebbe poi mai luogo.
Per gli ex Ducati – staterelli di modesta superficie – quella di confluire all’interno di un più vasto Stato garante, una volta confermata l’indisponibilità ad accettare il ritorno dei governanti di prima, era del resto la sola prospettiva possibile, alla quale arrideva per di più il consenso riscosso dalla propaganda nazionale prima della guerra e consolidato dal montare dell’ondata patriottica nei mesi precedenti. In parte diverso fu, invece, il caso della Toscana. Il Granducato, certamente, non figurava prima del 1859 tra le potenze del panorama continentale; ma la sua tradizione statuale, non meno che la maggiore estensione della sua superficie, ne facevano comunque un soggetto di diritto internazionale più robusto dei Ducati o, a maggior ragione, delle Legazioni, semplici articolazioni territoriali di uno Stato sovrano. A Firenze, dunque, la confluenza della regione all’interno dello Stato sabaudo non era un’ipotesi accettata pacificamente da tutti. Al contrario, a molti piaceva decisamente di più immaginare una condizione di autonomia da godere, nel rispetto delle tradizioni amministrative locali, nel quadro di una confederazione degli Stati italiani organizzata in ragione delle forme costituzionali che i regimi anteriori al 1859 avevano revocato. Le loro opzioni, perciò, ancora nel cuore dell’estate, andavano molto di più nella direzione della salvaguardia dell’indipendenza che in quella della realizzazione dell’unificazione a guida sabauda. Qui fu, peraltro, soprattutto Bettino Ricasoli, in parte forzando la mano ai suoi corregionali, in parte vincendo le resistenze della stessa dirigenza sabauda, assai titubante dopo la temporanea uscita di scena di Cavour di fronte all’eventualità di reazioni internazionali negative, a imporre, alla fine, la scelta unitaria in cui credeva fermamente, prospettando la possibilità di un federalismo territoriale da realizzare in via istituzionale sotto lo scettro dei Savoia. Dal momento che i toscani non gradivano il centralismo sabaudo, si poteva anche pensare che il nuovo, grande regno si sarebbe ispirato ai modelli di governo locale praticati nell’ex Granducato; a una toscanizzazione, dunque, delle istituzioni sabaude, piuttosto che a una piemontesizzazione di quelle toscane.
Quando, comunque, nell’estate del 1859 giunse dalle assemblee dell’Italia centrale la richiesta di annessione al Regno sabaudo – in forma assertoria da parte di quelle riunite a Parma, Modena, Bologna, e più sfumata, invece, da parte di quella fiorentina – Vittorio Emanuele ritenne di non potersi esporre in ragione di modalità tanto impegnative da configurarsi come una sfida frontale all’orientamento della diplomazia continentale, che era al lavoro per una soluzione della questione italiana maggiormente rispettosa degli equilibri preesistenti. Per questo si pronunciò per un generico «accoglimento», non per l’incondizionata accettazione dei desiderata provenienti dall’Italia ribelle.
Per qualche mese i governi provvisori diretti da Farini e Ricasoli operarono di fatto al di fuori dei confini della legalità sancita dal diritto internazionale, facendosi forti del principio di autodeterminazione della cittadinanza. Pur evidentemente legati a doppio filo al governo sabaudo, e dipendenti dalla protezione che il Regno di Sardegna accordava ad essi in virtù dell’«accoglimento» dei loro voti, agirono come organi sovrani e dettero vita di concerto a una lega militare forte di un esercito di 50.000 uomini e comandato da Manfredo Fanti, altra figura di esule tornato in patria per difendere l’indipendenza e la libertà; modenese, mancava dalla sua città da 28 anni e, approdato a Torino e acquisita la cittadinanza sarda, aveva fatto carriera nell’esercito sabaudo fino ad arrivare al grado di generale.
All’inizio dell’autunno, grazie soprattutto ai nuovi orientamenti della politica estera britannica favoriti dall’approdo al governo del partito liberale, la situazione internazionale prese una piega decisamente favorevole alla causa dell’Italia ribelle. Napoleone III, a sua volta, si riavvicinò alla Gran Bretagna, che a questo punto auspicava un ulteriore rafforzamento del Regno di Sardegna sullo scacchiere italiano, tanto in funzione di rafforzamento del fronte liberale quanto, a ben vedere, anche in un’ottica di contenimento antifrancese, oltre che antiaustriaco. Tra le sdegnate proteste dell’Austria e dello Stato pontificio (e quelle più flebili dei sovrani spodestati), ma nella sostanziale tiepidezza della Prussia e della Russia – conferma dello sfilacciamento di quella che era stata un tempo la Santa Alleanza del legittimismo dinastico – nel marzo 1860, a suffragio universale maschile e a schiacciante maggioranza, i plebisciti tenuti in Emilia, in Romagna e in Toscana si espressero per l’annessione dei rispettivi territori «alla monarchia costituzionale di re Vittorio Emanuele II», scartando l’eventualità di costituirli in regno separato. Un mese dopo, un analogo plebiscito tenutosi a Nizza e in Savoia (ormai da mesi, per altro, occupate dall’esercito transalpino) sancì, pure a maggioranza pressoché assoluta, la volontà di quelle popolazioni di confluire nel corpo della nazione francese. E così anche Napoleone III poté andare all’incasso di almeno una parte del bottino che si era riproposto di conseguire in Italia da Plombières in avanti.
La prima sequenza del processo di unificazione nazionale italiana a questo punto era compiuta. Essa si configurava come l’esito della convergenza tra le iniziative di forze eversive di rango e di spessore diversi. Ve ne erano state di legali – i governi e i capi di Stato di due paesi del concerto europeo che avevano premuto per riformularne gli equilibri a proprio vantaggio – e di extralegali: il volontariato nazionale approdato sui campi di battaglia al fianco delle truppe regolari; gli animatori delle sollevazioni in Toscana, nei Ducati, nelle Legazioni. Il fatto che dagli sforzi congiunti di queste forze fosse scaturito un risultato che godeva del sostanziale consenso delle élites locali (non certo nella misura oceanica apparentemente sancita dai plebisciti, ma altrettanto certamente senza una opposizione interna di spessore apprezzabile) e che al tempo stesso l’Europa delle grandi potenze paresse disposta a metabolizzarlo nei propri equilibri, non poteva che incoraggiare nuovi possibili scenari di trasformazione del quadro politico della penisola italiana.
Quando, nel maggio 1860 – con il tacito benestare delle alte sfere sabaude e con la regìa più o meno occulta di Francesco Crispi – i Mille guidati da Garibaldi fecero vela per la Sicilia, Cavour era tornato a presiedere il governo del Regno di Sardegna da circa 4 mesi, e da circa 2 i plebisciti avevano sancito la confluenza dell’Italia ribelle sotto la corona sarda. Se la prima sequenza dell’unificazione nazionale si era avvalsa in sede internazionale del contributo determinante della Francia, la seconda – tra il maggio e l’ottobre 1860 – dovette parte del proprio successo alla copertura della Gran Bretagna.
Nel Regno delle Due Sicilie la lacerazione dei rapporti tra la corte di Napoli e settori consistenti della società isolana era fenomeno di radici lontane, che s’era via via inasprito prima e dopo il 1848. Quando Garibaldi approdò in Sicilia, da mesi gli emissari della Società nazionale vi stavano svolgendo un lavoro preparatorio paragonabile a quello effettuato l’anno prima in Toscana, nei Ducati, nelle Legazioni, e da tempo era in atto una agitazione antigovernativa che vedeva protagoniste squadre armate di contadini, in gran parte al servizio delle locali élites fondiarie, intenzionate, una volta di più, a conseguire una sostanziale autonomia da Napoli. È anche facendo leva su questi rinforzi locali che Garibaldi, nello stupore e nell’ammirazione di un pubblico europeo che ne seguiva ogni giorno le imprese narrate sulle pagine dei quotidiani, riuscì ad avere partita vinta sull’esercito borbonico e a metterlo in fuga dopo qualche settimana. È vero: non mancarono defezioni determinanti tra gli ufficiali delle Due Sicilie che avrebbero dovuto fermarlo, e questo facilitò l’avanzata garibaldina. Ma resta il fatto che anche in Sicilia (come un anno prima in Toscana, nei Ducati, nelle Legazioni) un fronte legittimista pronto a prendere le armi in difesa della dinastia non si creò. La collaborazione tra le camicie rosse e le squadre contadine, d’altro canto, proseguì anche dopo il tragico episodio di Bronte, nel quale emerse un malessere profondo della società rurale siciliana che poco o nulla aveva a che fare con gli obiettivi politici della spedizione e che non si lasciava acquietare neppure dalle misure che il dittatore in camicia rossa era venuto adottando per conquistare in pieno l’appoggio delle masse popolari isolane (per esempio l’abolizione della tassa sul macinato e la distribuzione di terre demaniali ai componenti delle squadre).
Nel frattempo, nella parte continentale del Regno Francesco II di Borbone, salito nel maggio 1859 al trono dopo la scomparsa del padre – il re «bomba» Ferdinando II –, giocava ormai fuori tempo massimo la carta della concessione della costituzione e dell’apertura di un dialogo con l’opposizione liberale. Era la stessa mossa tentata un anno prima da Leopoldo II di Toscana. Ma il tentativo del granduca s’era consumato nell’arco delle ventiquattro ore. A Napoli, invece, l’emanazione della costituzione qualche effetto lo sortì, anche se non valse ad arrestare il corso di eventi che stavano prendendo decisamente un’altra direzione. All’inizio ci furono, infatti, tanto tra i liberali originari del Regno domiciliati in esilio in Piemonte – potente lobby pubblicistica negli anni a cavallo dell’unificazione – quanto tra quelli residenti nelle Due Sicilie, parziali aperture di credito verso un nuovo corso che avrebbe potuto conciliare il desiderio di liberalizzazione delle istituzioni del Regno con quello di conservarlo in vita, all’interno di quell’assetto federale di un’Italia indipendente e costituzionalizzata che molti continuavano a ritenere preferibile ad una unificazione politica tout court della penisola.
La figura di Liborio Romano, che fu prima ministro costituzionale di Francesco II e che poi, quando Garibaldi assunse la dittatura di Napoli, esercitò al servizio di quest’ultimo la stessa funzione, per coronare infine poco più tardi, sotto il governo luogotenenziale piemontese, la sua carriera di notabile aperto ad ogni soluzione di sapore post-assolutista, è, in tal senso, pienamente emblematica di una perdurante ambivalenza, che Romano condivise con vasti settori dell’élite del Regno, alla ricerca di un orizzonte costituzionale, ma non necessariamente nazionale; o, meglio, anche nazionale, ove però la nazione da considerare era la «napoletana», piuttosto che l’italiana tutta intera. Ma la politica della speranza perseguita da Francesco II andò incontro a un naufragio, per il quale, certo, con il senno del poi si potevano intravedere presupposti corposi già almeno a partire dal 1856, ma sul quale, ancora all’immediata vigilia dell’incredibile iniziativa di Garibaldi, ben pochi sarebbero stati disposti a scommettere.
Apprestandosi a risalire la parte continentale del Regno per puntare su Napoli, i Mille – malgrado le perdite patite tra maggio e agosto – si erano intanto moltiplicati; non solo grazie agli uomini delle squadre contadine siciliane, ma anche in forza delle migliaia e migliaia di nuovi volontari che, una volta spalancata dall’isola la porta del Regno, erano accorsi da altre parti d’Italia ma anche dall’estero a dilatare i ranghi dell’esercito delle camicie rosse. Ad agosto Garibaldi cominciò le operazioni di sbarco sul continente e a settembre fece il suo ingresso a Napoli. Lungo la strada aveva incontrato una resistenza militare forse ancora più modesta di quella conosciuta nelle prime settimane in Sicilia; e anche sul continente s’era visto riconfermare il sostanziale appoggio delle élites locali. Tuttavia, mentre risalivano dalla punta dello stivale verso Napoli, i garibaldini avevano avuto anche modo di percepire come in quelle terre tanto a lungo fantasticate piantasse le sue radici un mondo inatteso, brutalmente intriso di malessere e di disperazione estrema. E il mutismo col quale quei volti contadini sembravano assistere al decorso di eventi che percepivano come estranei al proprio orizzonte primario non avrebbe tardato, già prima della conclusione della guerra in corso tra truppe legittimiste e volontariato nazionale, a convertirsi in ostilità.
A settembre, quando Garibaldi venne raggiunto a Napoli da Mazzini e da Cattaneo, parve che vi fosse un’ultima chance per una unificazione nazionale dai tratti, se non repubblicani, quanto meno più democratici di quelli con i quali essa ebbe poi luogo. Se nella prima fase del processo di unificazione l’iniziativa si era presentata prevalentemente dinastica e moderata, nella seconda, viceversa, a dare la propria impronta agli eventi erano stati soprattutto i patrioti militanti. E per quanto Garibaldi, con il suo appoggio alla Società nazionale, avesse contribuito negli anni precedenti a smussarne il radicalismo, pure gran parte di coloro che l’avevano seguito in Sicilia e nel Mezzogiorno continentale erano figure per ideologia e temperamento male assimilabili al protagonismo dinastico che intanto, facendo invadere all’inizio di settembre le Marche e l’Umbria dalle truppe regie, le dirigenze sabaude stavano rilanciando. Il fallimento dello sforzo esercitato in extremis dai due leader storici del repubblicanesimo italiano per convincere Garibaldi a imprimere una svolta in senso democratico al processo in corso e a sfilarsi, dunque, dai vincoli di subordinata sinergia con la corte torinese, dettò di fatto il copione messo in scena il 26 ottobre a Teano: la simbolica cessione delle armi, da parte di Garibaldi fresco reduce della vittoria riportata sui borbonici nella battaglia del Volturno, nelle mani di Vittorio Emanuele, che aveva appena conquistato l’Umbria e le Marche.
Anche in queste due regioni già appartenenti allo Stato pontificio, così come nel Mezzogiorno continentale e in Sicilia, furono dei plebisciti a suffragio universale – la tecnica di consultazione elettorale che in Italia consumò la sua stagione di gloria tra il 1859 e il 1860, per poi cedere il passo al suffragio censitario – a fornire un avallo formale ai risultati prodotti nei mesi precedenti dal conflitto armato. Che l’esito apparentemente inequivocabile del plebiscito meridionale (nel Mezzogiorno continentale poco più di 10.000 contrari all’annessione al Regno sabaudo rispetto a oltre 1.300.000 favorevoli; in Sicilia in tutto 667 contrari rispetto a 432.053 favorevoli) celasse una situazione decisamente meno univoca, lo rivelava per altro il fatto che già durante le fasi terminali dell’impresa garibaldina s’erano registrate, sia in Abruzzo sia in Campania, le prime avvisaglie di quella rivolta sociale popolare che nel primo quinquennio postunitario si sarebbe amplificata nel grande brigantaggio; una guerra contro il nuovo Stato, sulla quale i Borboni, dall’esilio romano, impressero il proprio timbro politico e che a conti fatti risultò ben più cruenta e lacerante – con le sue migliaia di morti e con il regime semipermanente di stato d’assedio che l’accompagnò – di quella combattuta tra lo sbarco dei Mille a Marsala e la battaglia del Volturno.
Il 7 marzo 1861, a qualche mese dall’incontro di Teano, Vittorio Emanuele II assunse ufficialmente il titolo di sovrano di un Regno – quello d’Italia – che per qualche tempo stentò a trovare riconoscimento da parte delle più conservatrici tra le potenze europee, che vedevano in esso l’anfibio risultato non solo di una avventurosa politica dinastica, ma anche della valorizzazione di quel principio di autodeterminazione dei popoli (o, quanto meno, delle loro élites) che seguitava a situarsi agli antipodi dei loro valori. Non ne faceva parte il Lazio, ovvero il nucleo centrale di quello che continuò a chiamarsi fino al 1870 lo Stato pontificio; e i suoi confini orientali si arrestavano sulla linea del Mincio, che tradizionalmente separava la Lombardia dal Veneto, regione che gli accordi di Villafranca avevano confermato, insieme a Mantova, tra i possedimenti dell’Impero asburgico. Fu soprattutto nel mondo della sinistra democratica, politicamente sconfitta dai modi prevalentemente dinastici dell’unificazione, ma non domata quanto a intensità del proprio sentimento nazionale, che negli anni seguenti venne alimentata una dolorosa e passionale affabulazione a proposito di un Risorgimento monco, che per compiersi davvero avrebbe dovuto risolversi nell’allontanamento dall’Italia dell’Austria e nel tacitamento delle pretese politico-statuali del papato: le due forze che nei decenni precedenti (salvo la breve stagione costituzionale di Pio IX) avevano rappresentato l’ostacolo più coriaceo al sogno dell’unificazione nazionale.
La «rancorosa Italia parallela» (Isnenghi, Cecchinato 2007, p. 717) delle camicie rosse tentò per due volte, nel corso degli anni Sessanta, di risolvere la «questione romana» allo stesso modo in cui nel 1860 il suo condottiero aveva affrontato il nodo delle Due Sicilie, ovvero con una mobilitazione dal basso, capace di coinvolgere, ancora al comando di Garibaldi, alcune migliaia di patrioti decisi a conquistare Roma. Ma in quelle occasioni ciò che restava del volontariato nazionale si trovò sbarrata la strada proprio dalle forze con le quali, nel 1859, aveva fatto fronte comune. Nel 1862 i militanti garibaldini vennero fermati sull’Aspromonte dall’esercito regio e nel 1867 a Mentana – in modo anche più drammaticamente cruento – a disperderli furono le truppe francesi, inviate da Napoleone III a proteggere il residuo dominio temporale del papa. Ma intanto, tra il primo e il secondo episodio, una nuova incrinatura negli equilibri politico-militari europei aveva portato in dote al Regno d’Italia l’acquisizione del Veneto.
La Prussia, ormai del tutto svincolata dall’antica alleanza reazionaria con l’Austria, e determinata a sostituire alla sua la propria egemonia nello spazio germanico, siglò nell’aprile 1866 un trattato di alleanza con l’Italia e poco dopo cominciò a organizzare la guerra che le avrebbe portato in dote l’incorporazione di alcuni Stati tedeschi alleati dell’Austria e la guida politica del Norddeutscher Bund. L’Italia, dal canto suo, cominciò ad ammassare truppe a ridosso del confine con il Veneto, mentre in vari luoghi del paese si tenevano manifestazioni che incitavano alla ripresa dello scontro con l’Austria interrotto a Villafranca nel 1859 dagli accordi tra Napoleone III e Francesco Giuseppe d’Asburgo. Si prefigurava così una manovra a tenaglia contro Vienna, che il governo austriaco cercò invano di disarticolare proponendo a quello italiano, in cambio della rescissione dell’alleanza con la Prussia, la cessione del Veneto in virtù delle modalità già sperimentate nel 1859 per la Lombardia: dall’Austria alla Francia, e da questa al Regno d’Italia. A giugno la macchina militare italiana schierata sul Mincio e sul Po contava un effettivo forte di 220.000 soldati regolari e 38.000 volontari, di nuovo guidati da Giuseppe Garibaldi, che per l’occasione aveva attenuato la sua vis polemica contro un’Italia legale nella quale faceva fatica a riconoscere quella patriottica e democratica di cui continuava ad essere il leader carismatico. Il 24 giugno si svolse a Custoza la prima grande battaglia di una guerra che il Regno d’Italia sostanzialmente perse sul campo, ma che, grazie alla schiacciante vittoria riportata dall’alleato prussiano, fruttò comunque l’acquisizione del Veneto. Il 20 luglio, alla sconfitta di terra patita a Custoza si aggiunse per gli italiani quella di mare subita a Lissa, in uno scontro navale di carattere per altro ormai solo simbolico, dal momento che, in seguito al trionfo ottenuto il 3 luglio dai prussiani nella battaglia di Sadowa, in Boemia, le sorti della guerra erano segnate: al punto che, pur vittoriosi a Custoza, gli austriaci si stavano ritirando dal Veneto per difendere Vienna dall’avanzata prussiana, e andavano replicando l’offerta di cessione «mediata» della regione all’Italia. Il 21 luglio, con la stipulazione di una prima tregua tra Prussia e Austria, il fragore delle armi cominciò ad acquietarsi e qualche giorno più tardi le ostilità cessarono anche sul fronte austro-italiano, dove nel frattempo si assisteva a un’avanzata di garibaldini e truppe regolari nelle valli del Trentino, altro tassello territoriale del Risorgimento «incompiuto», che a questo punto si pensava di poter aggiungere al bottino della guerra. Il 3 ottobre 1866, in base alla pace di Vienna, cessava di esistere quel regno Lombardo-Veneto che dal 1815 in avanti aveva rappresentato la testa di ponte della pressione austriaca sull’Italia e, il 21 ottobre, un plebiscito tenuto nelle province che dal 1859 avevano continuato a farne parte sanciva – con appena 60 contrari su 647.486 votanti – la volontà dei loro abitanti di divenire a tutti gli effetti italiani «sotto il governo monarchico-costituzionale di Vittorio Emanuele II e dei suoi successori». Il Trentino, viceversa, insieme a Trieste sarebbe rimasto fino al 1918 dominio di casa d’Austria.
Quella della terza guerra di indipendenza – ovvero del conflitto austro-prussiano e austro-italiano – fu l’ultima occasione nella quale ebbe modo di manifestarsi l’ambivalente sinergia tra la dinastia sabauda e il volontariato nazionale, che ha costituito il filo rosso della vicenda delineata in queste pagine. Anche la presa di Roma, nel 1870, destò naturalmente forti entusiasmi in ciò che rimaneva di una generazione di italiani che, soprattutto a partire dal 1848, aveva coniugato la propria esistenza al sogno della «nazione del Risorgimento» (Banti 2000). Ma a operare la breccia di porta Pia, che il 20 settembre rappresentò l’atto simbolico non solo della congiunzione di Roma con l’Italia, ma anche della riduzione ai minimi termini del potere temporale di un papato da alcuni ritenuto il nemico plurisecolare dell’unità d’Italia, furono le sole truppe regolari dell’esercito regio, che la coeva rovinosa sconfitta francese nel conflitto con la Prussia metteva ora in condizione di sottrarsi all’ingombrante tutela di Napoleone III, lo statista che dalla metà degli anni Cinquanta aveva di volta in volta solleticato le aspettative e raffreddato le pretese estreme del nazionalismo italiano. A lungo tormentato compagno di strada dello Stato sabaudo negli anni Cinquanta, e poi per una volta ancora di quello italiano nel 1866, il mondo del nazionalismo romantico democratico del Risorgimento, dopo Mentana, aveva infatti sciolto in maniera definitiva i suoi legami con un paese legale del quale, certo, molti suoi componenti erano nei lustri precedenti quasi insensibilmente entrati a far parte in modo stabile e organico, ma dal quale pure molti restavano tenacemente al di fuori, ritenendo che la «loro» nazione non fosse quella, costituzionale sì, ma censitaria, che gli eventi avevano prodotto.
Con la presa di Roma (seguita dal consueto plebiscito e dalla proclamazione, nel 1871, della città in capitale «di diritto e di fatto» del Regno), gli antichi Stati finivano di scomparire e il processo di unificazione nazionale, mentre si attutiva la risonanza pubblica della voce militante che a lungo ne aveva accompagnato il corso, si veniva completando in virtù di un nuovo episodio nel gioco di riassetto della politica di potenza sullo scacchiere europeo. A interpretarvi un ruolo arditamente eversivo rispetto agli equilibri pregressi era ora la Prussia, pronta a raccogliere il testimone tenuto in mano in precedenza dalla Francia, il paese che negli anni Cinquanta aveva assolto una funzione determinante nel far sì che la politica cavouriana portasse la dinastia sabauda a cingere la corona del Regno d’Italia.
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