Dagli Orseolo al comune
La situazione di Venezia intorno al Mille
Alla scomparsa nel 1008 di Pietro II Orseolo, il doge che aveva consolidato la fisionomia di potenza marittima di Venezia affermandone il predominio di fatto sull'alto e medio Adriatico, i gruppi aristocratici e gli altri ceti sociali emergenti si trovarono di fronte ad una struttura di potere familiare estesa e ramificata - quella appunto degli Orseolo -, ben salda nel controllo delle funzioni-chiave all'interno del ducato. Si riproponeva così, in parte, lo stesso scenario del 976, quando il potere dei Candiano, la più grande famiglia ducale del secolo X, era stato stroncato con la violenza. Pur senza sottovalutare le differenze tra le due situazioni, è innegabile infatti che il ducato di Pietro II Orseolo, con la sua nomina a coreggente prima del figlio Giovanni e poi, morto questi prematuramente, del più piccolo Ottone, rendeva di nuovo attuale un problema che si era già posto con i Candiano: l'occupazione permanente del potere da parte di una famiglia, e il suo tentativo conseguente di trasformare la carica ducale in senso ereditario. Fu in primo luogo per bloccare questo tentativo che si scatenò allora una grave crisi politica, e si andò ad uno scontro interno molto duro (1).
Nello stesso periodo era in movimento anche il contesto esterno nel quale era inserito il ducato. La dimensione politica di Venezia nell'alto medio evo si era sempre costruita in rapporto ai due imperi, l'occidentale e l'orientale, e alla coesistenza o alla frizione tra le loro sfere territoriali e di influenza. Da questo punto di vista erano visibili molte novità rispetto al secolo X. A occidente, la presenza imperiale germanica in Italia - dunque ai margini immediati della realtà territoriale veneziana e ben dentro, per di più, alla sua sfera di interessi commerciali - si inseriva ormai in un quadro politico che vedeva il declino accelerato delle strutture istituzionali del regno italico, suggellato dall'incendio del sacrum palatium di Pavia nel 1024. Fino alla più corposa azione di Enrico III negli anni Quaranta del secolo, la presenza imperiale si fece sempre più discontinua (2). La stessa costante ripetizione dei pacta rilasciati da tutti gli imperatori ai dogi veneziani - con l'unica eccezione di Corrado II - tradiva, nell'immutabilità delle clausole che si ripetevano sempre uguali, da un privilegio all'altro, un sostanziale disinteresse per le cose veneziane (3). Solo l'appoggio imperiale dato ad Aquileia, nel contesto più generale della politica germanica verso l'ltalia (in un'età che vedeva nascere le premesse del futuro conflitto per le investiture ecclesiastiche), rese talvolta teso il rapporto tra l'impero occidentale e Venezia, senza che mai, tuttavia, esso raggiungesse toni veramente drammatici (4).
Se l'impero germanico vedeva allentarsi la sua presa sull'Italia, Bisanzio invece usciva appena allora da un periodo glorioso, segnato da grandi vittorie militari contro i Bulgari - le quali avevano restituito all'impero il controllo della penisola balcanica e contro i ribelli capeggiati da Melo nell'Italia del sud. Ma, una volta scomparso nel 1025 il grande imperatore Basilio II, artefice primo di queste vittorie, il declino militare bizantino riprese a ritmo accelerato. Nel Mezzogiorno, a partire dagli anni Quaranta, i Normanni cominciarono a disorganizzare seriamente le strutture bizantine; e anche nei confronti dei Balcani - di una zona cioè di importanza vitale per Venezia - molto presto, dalla seconda metà dell'XI secolo, la situazione di Bisanzio doveva di nuovo peggiorare (5). La perdita di fatto del dominio balcanico rese autonome le nuove formazioni politiche degli Slavi meridionali e più aggressiva la presenza degli Ungheresi, con conseguenze che dovevano farsi sentire sulle città romaniche della costiera dalmata e, quindi, sulla stessa Venezia.
Nei primi decenni del nuovo millennio l'Italia nord-orientale e l'area adriatico-balcanica erano caratterizzate, quindi, da una situazione politica al tempo stesso fluida ed estremamente concatenata. Da Aquileia alla Sicilia, da Zara a Bari, da Durazzo o Belgrado alla stessa Costantinopoli, ogni spostamento in questo ampio scacchiere - o anche ai margini esterni di esso - produceva contraccolpi a catena. E in questo scacchiere Venezia era profondamente inserita. Un po' rappresentante e un po' erede di Bisanzio nell'alto e medio Adriatico, dove fronteggiava le città costiere irrequiete e le ambizioni egemoniche degli Slavi meridionali e degli Ungheresi, il ducato, teoricamente parte dell'impero bizantino, aveva ancora i caratteri di una media potenza regionale. Tuttavia, come vedremo, era allora sul punto di aprirsi, tra XI e XII secolo, una fase più matura di espansione di Venezia, in sintonia con il volgersi verso oriente della cristianità nell'epoca delle crociate.
Il prezzo pagato alle novità della situazione fu il sacrificio degli Orseolo. Ciò si realizzò però solo a prezzo di violenti sussulti e di scontri non meno sanguinosi di quelli avvenuti alla caduta dei Candiano, in un arco di tempo per di più non brevissimo, dal 1008 al 1032.
2. La caduta degli Orseolo
Il sistema di potere creato da Pietro II si basava - secondo un metodo comune ad altri dogi prima di lui - sul controllo delle principali cariche politico-religiose dell'area veneziana. Accanto a Ottone, divenuto duca a soli quindici anni, alla morte del padre (che già prima, come abbiamo visto, lo aveva associato come condux al governo della città), agivano infatti altri due figli di Pietro: Orso, prima vescovo di Torcello e poi patriarca di Grado, e Vitale, che occupò la cattedra di Torcello dopo che il fratello (tra il 1013 e il 1017) l'ebbe lasciata libera (6).
Oltre a questo sistema, che era intatto e, anzi, ancora in espansione alla morte di Pietro II, va messo in conto, come ulteriore elemento positivo per gli Orseolo, il perdurante dinamismo esterno della politica ducale. Ne furono una prova evidente l'incursione su Adria, seguita dalla sottomissione a Venezia del vescovo Pietro e dei primates locali (1016), e, soprattutto, una nuova spedizione in Dalmazia, compiuta da Ottone sulle orme paterne, in seguito ad una richiesta d'aiuto da parte delle città costiere in pericolo di fronte alle incursioni croate (1018). La spedizione si concluse con un rafforzamento della presenza veneziana in quell'area delicatissima, che fu sanzionato in modo formale dalla sottomissione di alcune isole della Dalmazia settentrionale: i vescovi, il clero, i priori e il popolo di Arbe, Veglia e Ossero si impegnarono a pagare un tributo; più a sud, Zara, Spalato, Traù e Ragusa rinnovarono il loro giuramento di fedeltà (7). È significativa la coincidenza di date tra questa spedizione veneziana e due decisive vittorie riportate da Basilio II, una (che riconsegnò di fatto i Balcani a Bisanzio) sui Bulgari di Samuele e un'altra su Melo di Bari, entrambe avvenute in quello stesso anno 1018; mentre però, nel caso della seconda vittoria, la coincidenza rivela solo il quadro generale del momento - che vedeva ovunque all'offensiva le forze bizantine e quelle ad esse alleate -, la prima potrebbe far trasparire una qualche forma di collegamento, diretto o indiretto, tra l'offensiva imperiale all'interno della penisola balcanica e l'azione, quasi di polizia, del doge nei confronti della regione costiera (8).
Non è forse un caso che coincidenze analoghe fossero riscontrabili anche nell'azione svolta quasi vent'anni prima, sempre in Dalmazia, dallo stesso Pietro II. In effetti, il punto di riferimento esterno degli Orseolo era sempre stato rappresentato proprio dal saldo legame da essi stabilito con tutti e due gli imperi, e in primo luogo con l'orientale (con l'occidentale, d'altro canto, il legame era stato molto rafforzato all'età di Pietro II). In oriente, quindi, Venezia si muoveva ancora in perfetta sintonia con il suo teorico sovrano bizantino. La spedizione del doge Ottone in Dalmazia non provocò, infatti, alcuna reazione negativa sulle rive del Bosforo (9).
Al contrario è possibile che gli Orseolo siano stati indeboliti dai contrasti sorti tra Venezia e Enrico II, in conseguenza dell'appoggio che l'imperatore occidentale dava al nuovo patriarca di Aquileia, il carinziano Poppone, appartenente alla famiglia dei conti di Treffen. Entrato in carica nel 1019, Poppone costituiva uno dei principali punti di riferimento della politica imperiale in Italia, giacché il patriarcato di Aquileia - ricco di grandi possessi e di estesi diritti metropolitici sul Friuli e sulla marca di Verona occupava una posizione strategicamente vitale, in grado di garantire il transito dei valichi alpini tra la Germania e l'Italia. Di qui il sostegno di Enrico nell'aspra contesa giurisdizionale che vedeva Aquileia opporsi al rivale patriarcato di Grado; una contesa per la verità antichissima, che affondava le sue radici addirittura nell'età longobarda, ma che ora conosceva una nuova, brusca fase di crisi. E il patriarcato di Grado, direttamente controllato per di più dal fratello del doge, significava, in sostanza, Venezia, giacché i confini della giurisdizione del patriarca - al di là di periodiche, più ampie rivendicazioni - coincidevano più o meno con quelli del ducato. Lo scontro ecclesiastico Grado-Aquileia rischiava quindi di essere, in realtà, uno scontro politico tra Venezia e l'impero occidentale (10).
La valenza politica della contesa venne subito in primo piano. Nel 1024 una rivolta popolare cacciò sia il doge Ottone che il patriarca Orso: il motivo scatenante dei disordini interni veneziani era stato, forse, il rifiuto da parte del doge di far eleggere Domenico Gradenigo vescovo di Castello alla morte dello zio, suo omonimo (11). Si trattava dunque di un contrasto tra fazioni che facevano capo a schiatte illustri, entrambe radicate nella sfera delle istituzioni ecclesiastiche. Queste ultime si confermavano così del tutto coinvolte nel gioco politico condotto dal doge e dall'aristocrazia. Avuto notizia dei fatti veneziani, Poppone invase e devastò Grado, chiedendo subito dopo al pontefice Giovanni XIX la concessione dei diritti metropolitici sulla sede rivale: in pratica, il riconoscimento del fatto compiuto. Ebbe in risposta solo una generica conferma di ciò che per antiqua privilegia apparteneva al patriarcato aquileiese (12).
A Venezia (e a Grado), nel frattempo, gli Orseolo - tornati dall'Istria dove sierano rifugiati - avevano ripreso rapidamente le redini del potere, proprio sull'onda dell'indignazione suscitata dall'attacco di Poppone. La loro offensiva diplomatica contro Poppone doveva portare ben presto, in una sinodo lateranense tenutasi nel dicembre di quello stesso anno, alla condanna dell'azione violenta perpetrata contro Grado: Poppone dovette restituire tutto ciò di cui si era impadronito nella sua incursione, e le sue pretese su Grado furono respinte (13).
Il patriarca aquileiese continuò tuttavia a godere dell'appoggio imperiale anche quando sul trono salì Corrado II, che fu l'unico sovrano germanico di questo periodo a non rinnovare mai i pacca tradizionali con Venezia. Egli impose addirittura al papa, subito dopo la sua incoronazione imperiale nel 1027, di riconoscere i diritti di Aquileia su Grado, cosa che Giovanni XIX fece in un'altra sinodo in Laterano, sconfessando così il suo precedente operato (14). Benché rimasta senza effetto pratico, questa decisione indicava la volontà imperiale di indebolire la chiesa veneziana, che nel patriarcato di Grado trovava il cemento che la teneva unita, in un ambito territoriale che coincideva in sostanza con quello del ducato. Nel caso di attuazione del progetto imperiale, quindi, anche il ducato veneziano si sarebbe indebolito.
L'intervento di Poppone contro Grado aveva rappresentato un fattore di disturbo della lotta politica veneziana (la quasi perfetta sintonia temporale della rivolta veneziana con l'azione aquileiese è un elemento da non sottovalutare), compattando in un certo senso il ducato dietro ai suoi capi politici e religiosi. Ma ben presto le tensioni interne esplosero nuovamente: due anni dopo la prima rivolta, infatti, gli avversari degli Orseolo ebbero di nuovo la meglio, eleggendo alla carica ducale, nel settembre del 1026, Pietro Barbolano detto Centranico. Vero capo della rivolta - a stare almeno al racconto dell'Origo - sembra però essere stato Domenico Flabiano, eletto "caput supra omnem populum". In questa circostanza furono allontanati da Venezia solo il duca, che scappò a Bisanzio, e suo figlio Pietro, che si rifugiò invece in Ungheria (sua madre era sorella di re Stefano); i due prelati della famiglia rimasero al loro posto (15).
Non era evidentemente facile annullare del tutto il peso politico della prestigiosa stirpe ducale. Andrea Dandolo, il doge-cronista trecentesco, dice espressamente che il nuovo duca ebbe fin dall'inizio molti oppositori interni, e che la divisione in partiti spaccava ormai la città: "scisma in populo crebro exoritur". E in effetti, in capo a poco più di quattro anni, il Centranico fu rovesciato a sua volta, e - rasagli la barba e fattogli indossare l'abito monastico - inviato pure lui all'imperatore. Domenico Flabiano, invece, prudentissimus vir, fu cacciato "de patria" e dovette rifugiarsi "in Italia"; il patriarca Orso fu nominato reggente del ducato in nome del fratello, che fu richiamato a Venezia (16).
Le speranze di una restaurazione degli Orseolo naufragarono però ben presto, visto che Ottone morì durante il viaggio di ritorno, nella tarda primavera del 1032. A questo punto Orso lasciò definitivamente il potere, e il tentativo di un suo parente, Domenico Orseolo, di subentrare sul trono ducale, durato una sola notte, colorò semplicemente di farsa il tramonto politico - a quel punto veramente definitivo - della stirpe di Pietro II (17). Tuttavia gli Orseolo rimasero saldamente inseriti nel gruppo più eminente dell'aristocrazia del ducato, mantenendo a lungo il controllo, tra l'altro, del grande monastero femminile di S. Zaccaria (18).
3. Potere e istituzioni agli inizi del secolo XI
Gli eventi maturati negli anni 1026-1032, pur influenzati nella loro dinamica dalle vicende esterne, furono però essenzialmente un fatto interno veneziano. Essi furono espressione di una lotta politica intensa, della quale non è sempre facile cogliere motivazioni e individuare schieramenti. Il ricambio al vertice del ducato, con l'allontanamento degli Orseolo, può essere interpretato come una tappa sulla via della limitazione del potere ducale; ma si deve anche fare attenzione a non tentare di leggere tutta la storia politico-istituzionale veneziana di età precomunale come un'evoluzione costante e lineare verso il suo sbocco finale, ossia, appunto, la prima affermazione delle strutture comunali negli anni Quaranta del XII secolo. Al contrario, queste vicende - incluse anche trasformazioni precedenti a quelle legate agli avvenimenti dei quali ci stiamo occupando ora - sono suscettibili di interpretazioni che, talvolta, sono di segno diametralmente opposto. Le difficoltà sono accresciute dal fatto che nel ducato non vi era ancora un'attività legislativa produttrice di leggi scritte, pure se al suo interno vigeva già, senza dubbio, una forma di diritto territoriale basato su un diritto romano con forti venature longobardo-franche (19).
Questa carenza avvolge ancora di più nell'incertezza la primitiva costituzione politica veneziana. Al momento del tramonto degli Orseolo, essa conservava la fisionomia che si era andata formando tra IX e X secolo. Al vertice era il duca, il cui potere personale rappresentava il cardine della struttura politica, tanto che alcune promissiones (legate soprattutto al pagamento di tributi) da parte di comunità esterne al ducato vengono fatte, nella prima metà del secolo XI, solo al duca stesso e ai suoi successori (20); il duca era affiancato poi dagli iudices, che appaiono per la prima volta nelle fonti nell'anno 900. "Dibattutissima questione", questa dei giudici, per riprendere un'espressione di Roberto Cessi; e che per di più, per ciò che concerne il periodo delle origini - che è quello sul quale si è svolto il vero dibattito -, si colloca ampiamente fuori dei limiti cronologici di questo lavoro (21). E tuttavia va almeno sottolineato come gli iudices esprimessero inizialmente capacità e volontà di controllo dei poteri del duca. Se anche ormai, agli inizi del secolo XI, essi si stavano definitiva-mente evolvendo in una regolare carica politico-amministrativa, in qualità di stabili consiglieri ducali, all'inizio dovette essere prevalente l'aspetto più squisitamente politico della loro funzione: sembra cioè più plausibile pensare ad un'evoluzione che vada nel senso dell'assunzione progressiva di compiti di natura tecnico-giudiziaria da parte di un gruppo di persone, la cui natura originaria era piuttosto quella di controllori dei poteri del duca (anche in ambito giudiziario, è chiaro); e non il contrario (22). In tal modo non si forza troppo il parallelismo con la Terraferma, che peraltro non era certo assente, e anzi era reso esplicito, in un altro settore istituzionale, dall'introduzione dei gastaldi come funzionari ducali periferici al posto degli antichi tribuni (23); una Terraferma dove gli iudices assunsero invece già nella seconda metà del secolo IX il carattere prevalente di esperti di diritto.
Gli iudices veneziani, in sostanza, sono quelli che le fonti chiamano anche primates, nobiles, magni viri (24). Non è possibile, a lungo, identificarne il numero esatto: di solito la letteratura storica parla di cinque (o sei) giudici, ma in realtà questo numero è riscontrabile con una certa regolarità solo nella seconda metà avanzata del secolo XI. E anche l'uso di iudex come titolo personale, collegato cioè ad una carica specifica ricoperta, non è precedente all'inizio del XII secolo, e dapprima è molto sporadico (25).
Tutto parla quindi a favore di una natura inizialmente più politica che giudiziaria degli iudices, di una loro caratterizzazione come gruppo di potere uscito dall'aristocrazia tribunizia e capace di limitare in qualche modo l'autorità ducale (26). D'altra parte, la loro trasformazione in istituzione stabile dovette coincidere con una diminuzione della loro forza autonoma. Se è vero - ma su ciò mancano fonti specifiche - che essi furono, almeno a partire da un certo momento in poi, scelti dal duca (27), è chiaro che da quel medesimo momento cessarono di rappresentare un vero contraltare del potere del doge. Si vede cioè come anche i giudici possono essere interpretati, secondo il periodo, come oppositori o strumenti del doge; né il potere di quest'ultimo andò sempre modificandosi in senso lineare, visto che ad esempio gli Orseolo mantennero prerogative e modi di procedere, come la coreggenza, che erano già stati sperimentati dai dogi di età precedente (28).
Il luogo dove trovava espressione normale la dinamica politica veneziana era il placito, al quale oltre al doge e ai giudici partecipavano i vertici del clero - il patriarca, vescovi e abati - e il populus di Venezia. Mentre i primi tre protagonisti del placitum facevano tutti riferimento al ceto aristocratico, l'ultimo, il "popolo", è invece di collocazione sociale più difficile. Articolato e definito in vari modi - talvolta in modo totalizzante come populus, altrove come boni homines, mediocres et minores o in altri modi ancora esso - individua, probabilmente, un gruppo la cui connotazione sociale prevalente appare anch'essa abbastanza elevata; starebbe a provarlo un'analisi dei gruppi familiari ai quali appartengono i sottoscrittori dei diplomi ducali (29).
Si possono però fare delle riflessioni ulteriori. Senza voler accentuare contrapposizioni sociali difficili da provare ovunque, e in particolare nel contesto veneziano, tra "aristocrazia" (o "nobiltà") e "popolo", non si può in effetti escludere del tutto la presenza attiva, nel sommovimento politico degli anni 1026-1032, di ceti sociali in parte nuovi - nuovi almeno per i vertici del potere. L'uomo che subentrò agli Orseolo, Domenico Flabiano, appare infatti, accanto a un Bragadin e a un Morosini, in un'inquisitio ordinata dal duca Ottone sul commercio dei pallia - su quali fossero i mercati consentiti all'interno del regno d'Italia e a Venezia stessa, fra i testi interrogati "in publico placito": testi che erano tutti, evidentemente, esponenti di spicco del ceto mercantile (30). E non va neppure sottovalutata la sottolineatura, che nei cronisti è costante, del ruolo decisivo ricoperto dal populus nelle varie, convulse svolte della lotta politica. Tra Ottone e il popolo veneziano era sorta una magna contumelia, e questo determinò il suo allontanamento; e se il Flabiano era stato scelto come "capo del popolo", Orso poté cacciare lui e il doge da lui sostenuto proprio grazie alla decisione (collaudatio) del popolo veneziano. Domenico Orseolo, invece, fallì perché il suo tentativo era nato "absque Veneticorum populi voluntate". È il popolo di Venezia - e bisogna intendere, con tutta probabilità, quasi esclusivamente gli abitanti del centro di Rialto - a determinare la vittoria di un candidato o di un altro al trono ducale (31). La presenza sulla scena politica, con grande rilievo, del "popolo" sembra rivelare un allargamento parziale del ceto di governo. Populus, infatti, è termine certamente ambiguo, ricco di potenziali significati, e tuttavia possiede una coloritura sociale innegabile.
Ma, come abbiamo detto, è assai difficile distinguere tra "aristocrazia" e "popolo ". Il prevalente orientamento mercantile della popolazione veneziana, al di là delle differenze sociali, impedisce di applicare anche nella laguna il comodo (forse talvolta troppo comodo) schema bipartito "ceti militari-ceti mercantili", alla cui dinamica si fanno risalire di frequente i mutamenti politici connessi all'avviamento e allo sviluppo del regime comunale: laddove milites indica di solito un ceto di proprietari fondiari, caratterizzato da legami vassallatici con il potere localmente egemone, da una funzione militare e da un genere di vita nobile. Diversa è, però, la situazione veneziana, giacché prima di tutto (ed è una differenza radicale) nel ducato manca totalmente la ricezione degli istituti feudo-vassallatici, che tanta parte giocarono altrove - ad esempio nella stessa Italia settentrionale - nella definizione del ceto aristocratico-militare rispetto ad altri gruppi sociali in ascesa. Nonostante un certo incremento progressivo della proprietà fondiaria, in specie nella zona di Chioggia e verso il Brenta e l'Adige, da parte delle famiglie più potenti, le condizioni fisiche del territorio veneziano impedirono la costruzione di ampie signorie fondiarie; alla mancanza di legami feudali si unì così un orientamento nettamente prevalente dell'aristocrazia veneziana verso la residenza cittadina nel centro del potere, a Rialto, dove essa possedeva case e palazzi. Il possesso di saline, concesse in sfruttamento, e soprattutto il coinvolgimento in varia forma - come fornitori di capitale ma anche, nel caso soprattutto dei membri più giovani, come mercanti viaggianti - nelle attività commerciali completava il quadro delle basi economiche del ceto aristocratico (32), che, soprattutto a causa di questo suo coinvolgimento nel commercio, non si distingueva radicalmente dalle nuove famiglie in ascesa, le cui ricchezze erano accumulate proprio su basi commerciali. Nel corso del secolo XI la società veneziana fu caratterizzata da un'accentuata dinamica ascensionale, in sintonia con il progressivo decollo commerciale del ducato; e la mancanza di rigidi elementi istituzionali, sociali o legati alla fisionomia della ricchezza, atti a distinguere tra vecchia e nuova aristocrazia, favorì la compenetrazione tra i diversi elementi del ceto dominante.
Ma, poiché al binomio milites-cives proprio delle città della Terraferma il ducato lagunare non può rispondere efficacemente con una distinzione altrettanto chiara, ecco che la nostra interpretazione delle diverse convulsioni politiche veneziane è resa più difficile. È ipotizzabile - in mancanza, di fatto, di una netta contrapposizione di interessi economici tra due ben individuabili fazioni del gruppo dominante -anche una certa autonomia della dimensione politica, ossia un ruolo importante giocato da fazioni aristocratiche la cui rivalità si ricollegava esclusivamente o quasi ad una concorrente aspirazione al potere, a fronte sia di una scarsità di regole di competizione politica, soprattutto riguardo al problema-chiave della successione del doge, sia, forse, di una maggiore irrequietezza da parte di gruppi sociali inferiori che pure conservavano un qualche ruolo politico.
In effetti l'elezione del doge, a partire dalla fine del secolo IX, avveniva in un'assemblea (concio) teoricamente allargata a tutti gli uomini liberi del ducato. E anche se essa finiva per lo più con il comprendere solo gli abitanti di Rialto, ed era certo controllata dai magni viri, tuttavia rappresentava sempre un momento di presenza politica importante di strati non aristocratici. Non va sottovalutato quindi, sullo sfondo del contrasto interno al ceto dominante, il possibile ruolo ricoperto da altri gruppi sociali, mercantili-artigiani (33). Non è forse privo di significato che proprio sotto i dogi Pietro Barbolano e Domenico Flabiano ci sia stato il primo ricorso di cui si sia conservata notizia, relativo ai rapporti tra una corporazione e il potere ducale rappresentato dal gastaldo: si tratta del famoso ricorso del fabbro Giovanni Sagornino (34).
Nonostante l'importanza degli eventi politici degli anni 1026-1032, in conclusione, non si possono cogliere, come invece talvolta si è affermato con troppa fiducia, mutamenti netti sul piano istituzionale (35). La composizione degli embrionali organi di governo che affiancano il duca in questo periodo non muta al termine del dominio degli Orseolo. Gli iudices, espressione del ceto aristocratico, formano lo scheletro di una ancora rudimentale curia ducis; il luogo di discussione e di decisione, politico-amministrativa e giudiziaria, è sempre il placito, talvolta, come nel caso delle elezioni ducali, convocato in forma allargata, come concio, assemblea di tutti i liberi, senza che tra placitum e concio ci fosse una vera differenza istituzionale dai confini netti. Nemmeno altri cambiamenti sono chiaramente avvertibili; e la struttura statale, anche sul versante vitale dell'organizzazione fiscale (sia rispetto agli abitanti del ducato che alle comunità soggette), appare piuttosto rudimentale e priva di vera sistematicità (36).
L'unico dato importante, che appare ragionevole riferire proprio al ducato di Domenico Flabiano, è la redazione di uno statutum decisivo per lo sviluppo costituzionale di Venezia, che andava nella direzione di una forte limitazione del potere sovrano del duca. "Che un duca non crei un coreggente o successore, né permetta che, lui vivente, altri lo faccia", recitava infatti il salubre decretum, redatto probabilmente intorno al 1040 e destinato a lunga vita (37). La via alla formazione di stirpi ducali ereditarie era così sbarrata in modo inequivocabile.
4. L'occidente: tra impero e papato
Il governo del Flabiano, iniziato in maniera così tumultuosa, si concluse invece pacificamente caso - allora abbastanza raro - con la morte per cause naturali dell'anziano doge nell'estate del 1042/43 (38). Il suo successore, Domenico Contarini, ereditò la pericolosa situazione di contrasto con l'impero occidentale. Egli aveva di fronte Enrico III, la cui politica di favore verso i monasteri - un elemento della sua complessa azione di sovrano riformatore in campo ecclesiastico - lo aveva portato in verità alla conferma dei privilegi del monastero veneziano di S. Zaccaria. Ciò non significava però che Enrico rinunciasse all'appoggio del patriarcato aquileiese, che rimaneva un elemento chiave per la sua politica nell'Italia nord-orientale: nel 1044 Grado fu di nuovo presa e devastata da Poppone. La morte del patriarca, avvenuta poco tempo dopo, non cambiò radicalmente la situazione. Aquileia rimase controllata direttamente, anche dopo la scomparsa di Poppone, da prelati tedeschi, e lo scontro con Grado continuò. Ma l'imperatore dovette relativamente presto valutare i costi di una politica intransigente nei confronti del ducato di Venezia.
La politica di Poppone aveva infatti provocato una reazione importante. L'ambasciata inviata all'inizio del 1044 a Roma in rappresentanza del doge Contarini, del patriarca Orso e del populus Veneciarum chiese formalmente a papa Benedetto IX la conferma dei diritti patriarcali di Grado e della sua indipendenza da Aquileia. In aprile una nuova sinodo lateranense riconosceva la dignità patriarcale di Grado, annullando il privilegio emanato da Giovanni XIX diciassette anni prima. Alla base del mutamento della posizione papale c'era forse la consapevolezza che le tendenze riformatrici di Enrico III lo avrebbero portato ben presto ad intervenire contro l'Adelspapsttum romano, che era allora nelle mani dei conti di Tuscolo. Era, in sostanza, una manifestazione di indipendenza del papa dall'imperatore, un atto nettamente ostile verso quest'ultimo (39).
Con questo solenne riconoscimento, Venezia entrava in collegamento con il complesso schieramento politico che si stava allora formando attorno al pontefice e alla sua famiglia, in opposizione alle pretese egemoniche dell'imperatore in campo sia politico che religioso (40). Tutto ciò creava gravi problemi ad Enrico. Nonostante, infatti, la sua indubbia forza - che di lì a poco (dal 1046) gli consentì di imporre sul trono papale papi riformatori a lui legati -, l'imperatore, per valutare nella sua totalità la situazione italiana, doveva tenere conto del fatto che, al sud, si profilava la minaccia rappresentata dal nuovo potere normanno; verso il quale lo stesso Enrico nutriva velleità di alto dominio, in quanto si riteneva l'erede naturale di Bisanzio nel Mezzogiorno.
Con Venezia ci furono ancora delle schermaglie. L'imperatore favorì il vescovo di Treviso, Rotero, concedendogli tra l'altro il monastero veneziano di S. Ilario con le sue proprietà (1047); S. Ilario era legatissimo al potere ducale, e si trattava perciò di un colpo grave al prestigio del duca stesso e di Venezia, che comportò anche - se non l'effettiva sottomissione del monastero al vescovo trevigiano - la perdita delle corti di Bladino e di Ceresaria, delle quali la chiesa trevigiana riuscì a ottenere il controllo, grazie anche al logico sostegno della sede di Aquileia. Ma, come si è detto, i tempi erano ormai maturi per un riavvicinamento. Il Contarini ricorse al sovrano contro le decisioni favorevoli a Treviso; e stavolta Enrico favorì Venezia, cosicché per volontà imperiale si giunse - in un placito tenutosi ad Altino il 14 gennaio 1052 - al riconoscimento del diritto di S. Ilario sulle pievi contestate (41).
Alla base di questo nuovo rapporto instauratosi tra il ducato e l'impero c'erano dunque motivi di ordine generale, di equilibrio italiano e (come vedremo) europeo, che esulavano dalla politica religiosa del sovrano, o da quella stessa del doge, tradizionalmente a favore di Grado. Se così non fosse, se tutto si riducesse alla composizione di un contrasto la cui posta era esclusivamente religiosa - il conflitto di giurisdizione tra Aquileia e Grado - non si spiegherebbe infatti perché l'ancora più netta affermazione dei diritti di quest'ultimo patriarcato, fatta dal papa Leone IX nell'aprile dell'anno successivo (Grado come Nova Aquileia, cioè erede dei diritti e privilegi dell'antica Aquileia e seconda in occidente solo alla chiesa di Roma), non incontrasse invece il favore del Contarini (42), In quest'ultimo caso, è vero, si poteva anche scontare la volontà di contenere l'autorità di Grado entro i limiti dello stato veneziano, per evitare di doversi confrontare con un potere religioso troppo forte e prestigioso, e troppo subordinato ad un'autorità esterna (quella di Roma); in un'ottica, tipicamente veneziana, di subordinazione del religioso al politico. Un atteggiamento questo che determinerà anche più avanti, quando il movimento per la riforma ecclesiastica avrà preso un andamento più impetuoso, un'adesione tutto sommato tiepida del doge e dei circoli dirigenti del ducato agli ideali riformatori. Il patriarca di Grado in carica al momento della concessione del privilegio, Domenico Marango, era in effetti già un personaggio saldamente legato agli ambienti della riforma, in rapporto stretto con il cardinale Umberto di Silva Candida e con gli ambienti romani. Ma, anche scontando il peso di queste riserve, è indubbio che fu soprattutto la mutata situazione esterna a modificare la posizione di Venezia, inducendola a non appoggiare il patriarca di Grado nella ulteriore diminuzione del ruolo di Aquileia, che le decisioni papali - che non ebbero però applicazione concreta - riducevano di fatto a semplice vescovo del Friuli, con una giurisdizione che comprendeva solo il territorio veneto rimasto entro i fines Langobardorum ed escludeva, invece, l'Istria. Per Venezia il ritrovato accordo con l'impero era troppo importante per comprometterlo nella secolare disputa tra i due patriarcati.
Le relazioni scarsamente amichevoli con l'impero occidentale, infatti, rappresentavano da molti anni un handicap per Venezia, resa in tal modo insicura alle spalle e intralciata nel movimento commerciale verso il suo naturale hinterland padano. I motivi di oggettiva coincidenza di interessi delle due parti andavano inoltre irrobustendosi, giacché Enrico si andava allora volgendo in modo ostile contro l'Ungheria - ossia contro una forza rivale di Venezia -, che minacciava con la sua forza espansionistica l'impero nel suo stesso territorio germanico. Non stupisce, in questo contesto, il rinnovo dei pacta, avvenuto nel 1055, dopo un intervallo di più di cinquant'anni (43). Venezia e l'impero occidentale erano ormai dalla stessa parte, soprattutto nella valutazione dei problemi balcanici.
Temendo una possibile sollevazione dei principi del sud-est germanico, schierati su posizioni filo-ungheresi, negli ultimi anni del suo regno Enrico organizzò quindi un progressivo disimpegno dall'area italiana. In questo modo egli finì con l'entrare in attrito con Leone IX, nonostante che la natura di quest'ultimo, papa tedesco e riformatore, lo ponesse originariamente dalla parte imperiale. Leone infatti voleva dall'imperatore l'appoggio armato per eliminare i Normanni, contro i quali i papi rivendicavano - in alternativa, di fatto, agli stessi imperatori occidentali - il loro diritto di protezione nei confronti delle popolazioni meridionali gravemente colpite dalla violenta azione dei nuovi conquistatori (44). Il fatto nuovo rappresentato dal potere normanno cominciava a cambiare i dati della situazione politica italiana, così come farà, presto, anche per quella adriatico-balcanica.
L'appoggio dato a Grado contro Aquileia era proprio espressione di questo distacco di Leone IX dalla politica di Enrico III. Tutto questo si ripercuoteva su scala locale, con un raffreddamento dei rapporti tra il doge e il patriarca gradense; quest'ultimo era allora, come si è detto, un esponente di prima fila del clero riformatore. Non che ci fosse una volontà ducale di opporsi al clero: ma la concezione del rapporto tra la sfera politica e quella ecclesiastica rimaneva sempre la stessa dell'età de-gli Orseolo. Non era un caso che vescovo di Olivolo fosse allora un altro membro della famiglia Contarini, di nome Domenico come il doge, e che alla sua morte divenisse vescovo Enrico Contarini - il quale si intitolò per primo vescovo di Castello -, figlio del doge (45). Il monopolio di determinate cariche ecclesiastiche costituiva ancora un saldo puntello del potere laico nell'esercizio delle sue funzioni di governo civile. Ma questa concezione si scontrava con l'intransigenza dei riformatori, dei quali faceva parte il Marango, fedele partigiano di papa Leone IX e più tardi di Alessandro II e Gregorio VII.
In questa situazione non stupisce, quindi, il fatto che il doge favorisse S. Marco - l'antica cappella ducale sulla strada di diventare definitivamente, insieme al palazzo al quale era anche fisicamente connesso, il centro politico-religioso del ducato - e grandi monasteri come S. Zaccaria e S. Ilario (in mano al doge stesso e all'aristocrazia) piuttosto che il patriarcato, troppo legato a Roma. Di conseguenza in questo periodo (l'ultimo del Marango e quello del suo successore Domenico Cerbano) il patriarcato, come lascito delle due brutali invasioni operate da Poppone, versò in estrema povertà, senza che ci fossero interventi in suo favore da parte del potere politico (46). Bisognerà attendere il 1074, durante il dogato di Domenico Silvo, perché si arrivi - dietro sollecitazione di Gregorio VII - ad una conferma, che era anche una rimessa in vigore, dei diritti economici del patriarcato, ossia dei contributi che ad esso venivano dal palazzo ducale, dai vescovi e dalle abbazie del ducato. Essa, comunque, non modificò di molto la difficile situazione economica del patriarcato (47). A ciò si accompagnava una grave crisi della disciplina del clero veneziano, che era vista anch'essa con preoccupazione da parte del papato. Una dimostrazione della delicata fase dei, rapporti tra Roma e Venezia è pure la circostanza che nel 1063 Alessandro II dovette ricordare al doge Contarini che nessuno poteva annullare o modificare un giudizio del papa (48).
La stessa politica balcanica dei papi riformatori, infine, giacché tendeva a un allargamento della giurisdizione romana a spese sia della chiesa bizantina, considerata ormai (dopo il 1054) scismatica, sia delle aspirazioni separatistiche della chiesa croata, fu motivo di serio contrasto. Gli interessi di Venezia nel suo vitale scacchiere orientale - quello che in ultima analisi determinò sempre le sue scelte erano infatti quelli di mantenere un buon rapporto con i Bizantini. Domenico Contarini, il doge dell'accordo con Enrico III, non aveva trascurato di assumere già nel 1046, dietro concessione di Bisanzio, il titolo di patrizio imperiale: ed è nota l'importanza attribuita dalla corte imperiale ai titoli concessi ai capi di realtà statali a vario titolo inserite nel commonwealth bizantino, in quanto essi erano l'espressione di una relazione gerarchica (che talvolta sarebbe più appropriato definire, in realtà, un vero e proprio rapporto di alleanza) nei confronti dell'imperatore (49). È verso oriente che bisogna volgersi perciò per cogliere in pieno l'evolversi della situazione esterna veneziana nella seconda e decisiva metà del secolo XI.
5. La lotta per il controllo dell'Adriatico
Nel settore adriatico Venezia fu assente con azioni significative per parecchi decenni dopo la spedizione di Ottone Orseolo del 1018. Nello stesso periodo - siamo nella fase successiva alle grandi vittorie di Basilio II - si assistette invece ad una più vigorosa presenza dei Bizantini, la cui pressione si fece sentire in particolare nei confronti delle città della Dalmazia centrale (è del 1024 un deciso intervento contro il priore di Spalato, arrestato e mandato a Bisanzio), che facevano parte integrante, e non solo in senso teorico, del tema di Dalmazia (50). Le navi bizantine, insieme a quelle di Ragusa, combatterono i Saraceni nel vicino mar Ionio; alti esponenti della gerarchia politica e religiosa delle città dalmate si orientarono, spontaneamente o per forza, verso Bisanzio. Sul piano della rappresentazione del potere, il titolo assunto negli anni Trenta dell'XI secolo, in pieno accordo con Bisanzio, da un esponente zaratino del clan dei Madii - "protospatario e stratego di tutta la Dalmazia" - si poneva su un piano di serrata concorrenza con quello di "duca dei Veneziani e dei Dalmati" che il doge portava dall'età di Pietro II. In queste condizioni è probabile che i tributi e i giuramenti di fedeltà pretesi da Venezia in Dalmazia fossero di fatto caduti in disuso (51).
Un contenuto che, in prospettiva almeno, era ancora più minaccioso per Venezia (e per la stessa Bisanzio), era insito poi nella rivendicazione, analoga a quella del priore di Zara, contenuta nel titolo di re di Croazia e di Dalmazia assunto intorno al 1059 da Cresimir IV (52). Nuove forze politicamente organizzate premevano ormai alle spalle delle città costiere: il regno croato e quello d'Ungheria.
La situazione quindi si era fatta ben più complicata e difficile di qualche decennio prima. E invece Venezia, bloccata sia dai suoi rivolgimenti interni, sia dai difficili rapporti con l'impero occidentale, a lungo non fece sentire il peso della sua azione politico-militare nella regione. Si dovette attendere il 1062 (o, meno probabilmente, il 1050) perché una spedizione guidata dal doge Contarini intervenisse nella Dalmazia centrale e riaffermasse una qualche forma di supremazia veneziana su Zara, che a stare alla cronaca di Andrea Dandolo - era stata allora sottomessa dal re d'Ungheria (53).
Si tratta di una notizia che ha molti margini di incertezza, e non solo per quello che concerne la data: è dubbia infatti anche l'identificazione dell'aggressore (gli Ungheresi, o i Croati?) e, soprattutto, la natura stessa della spedizione, ossia se essa fu un atto autonomo da parte di Venezia o se si trattò di una semplice azione in appoggio di Bisanzio (54). È certo, in ogni caso, che Venezia avrebbe comunque preferito una Zara sottomessa a Bisanzio piuttosto che una Zara ungherese o croata. Forte di una struttura economica e politica notevole e di una ininterrotta tradizione di vita cittadina, capace di resistere alla pressione slava, Zara, insieme con Ragusa più a sud, era uno dei pochi centri romanici della costa adriatica in grado di impensierire, in prospettiva, l'ascesa di Venezia al di fuori della ristretta zona del Carnaro, già da essa saldamente controllata. I priori di Zara erano i governatori della Dalmazia bizantina cioè la Dalmazia centrale, perché nelle isole del nord era forte la presenza veneziana, e il sud con a capo Ragusa costituiva (probabilmente già dal 1018) un'entità separata -, con il titolo prima di stratego e poi di catepano; e, poiché in realtà di un vero apparato amministrativo e di una rete di funzionari bizantini in Dalmazia in questo periodo non è possibile parlare, la figura del priore di Zara finiva con il riassumere in sé quasi tutto il rapporto tra la provincia e Bisanzio. Infatti, analogamente ad altre regioni bizantine di frontiera, nella Dalmazia imperiale era in continuo aumento il peso dei dignitari locali (abbiamo già ricordato il caso dei Madii) nei confronti dell'amministrazione ordinaria (55).
In realtà la chiave per comprendere, in parte almeno, le circostanze in cui si svolse la spedizione zaratina del Contarini vanno ricercate proprio nell'azione dei papi riformatori nei Balcani (56). Cresimir IV, infatti, era un sovrano dalla legittimità dubbia, giacché si era impadronito del potere uccidendo il fratello. Al contrario di questi, filo-bizantino, Cresimir si volse allora verso occidente, trovando accoglienza favorevole nel papato - nella persona di Alessandro II -, che inviò un apocrisario, Mainardo: questi si accordò con il re e, per volontà papale, gli concesse la Croazia a parte sancti Petri apostoli; fu in quegli stessi anni che Cresimir cominciò a fregiarsi del titolo di "re di Croazia e Dalmazia". Intorno al 1062 egli tentò di rendere reale questa rivendicazione territoriale, attaccando Veglia ed esercitando una forte pressione su Zara, che in quella circostanza finì con il riconoscere, probabilmente, l'autorità del re croato e della chiesa romana. Di qui, l'intervento del Contarini, che sarebbe da collocare perciò di preferenza al 1062, e in funzione anticroata e non antiungherese (57). L'ultimo dilemma - il carattere della spedizione veneziana, autono ma o per conto di Bisanzio non può, invece, essere sciolto, poiché gli interessi di Bisanzio e di Venezia in questo caso (come del resto accadeva di solito in questo periodo) coincidevano.
Un fatto certo, comunque, è che Bisanzio ben presto lasciò la presa sulla Dalmazia, dove non si riaffacciò che circa un secolo dopo. Nel 1069 infatti la provincia fu ceduta alla Croazia, pure se l'impero conservò sempre su di essa la sua alta autorità. Alla base del brusco voltafaccia di Bisanzio, solo pochi anni prima impegnata nella strenua difesa delle sue posizioni locali, fu la catastrofe patita all'interno dei Balcani, dove alle ripetute incursioni dei nomadi Peceneghi se ne aggiunse nel 1064 un'altra ancora più rovinosa, quella degli Uzi, che giunsero fino in Grecia prima di essere decimati dalla peste. Il confine dell'impero sul basso Danubio aveva subito un collasso definitivo. E la Dalmazia, dunque, diventava sempre più lontana per un impero che guardava con crescente preoccupazione ad oriente, alla minaccia dei turchi Selgiuchidi: una minaccia destinata a concretizzarsi di lì a poco nel disastro di Manzikert (1071), che consegnò nelle mani della potenza turca tutta l'Asia minore bizantina (58).
Ecco spiegato, quindi, come Bisanzio nel breve volgere di qualche decennio, tra il 1018 e il 1 069, con una brusca accelerazione nell'ultimo periodo (a partire dagli anni Quaranta), passasse nel settore adriatico - come del resto altrove - da una effimera ripresa ad un crollo via via sempre più rovinoso, che la spinse infine a cautelarsi, coprendosi le spalle con l'appoggio croato comprato con la cessione della Dalmazia: una cessione che metteva direttamente di fronte, nell'Adriatico, Venezia e il regno croato. Ma in quella zona c'era anche un altro fattore da tenere in considerazione, e che spiega ulteriormente il declino accentuato di Bisanzio: i Normanni. La cronologia della crisi bizantina coincide perfettamente con quella delle conquiste normanne nell'Italia meridionale; e la presa di Bari, con la cattura dell'ultimo catepano d'Italia, è del 1071 come Manzikert (59).
6. I Normanni nell'Adriatico
Con l'apparizione dei Normanni la situazione adriatica cambiò radicalmente. È della primavera del 1075 l'appello delle città della Dalmazia al conte Amico, signore di Giovinazzo in Puglia, perché intervenisse per difenderle dalla spinta espansionistica dei Croati. Si trattava di un chiaro sintomo del rifiuto dalmata all'inglobamento nel regno vicino: nonostante la volontà di Bisanzio, l'autocoscienza romanica delle città costiere era ancora forte, e resisteva ad ogni ipotesi di assimilazione da parte delle realtà statali slave (60). E significativo che non sia stato richiesto l'intervento di Venezia: volontà, forse, di evitare l'intrusione di un vicino troppo scomodo, le cui ambizioni di egemonia erano ben note; ma anche obbedienza alle direttrici della politica papale, sempre più presente in Dalmazia.
Dietro l'intervento normanno infatti c'era Gregorio VII. Dal 1059 il papato, con un rovesciamento completo delle sue alleanze, si era legato ai Normanni in funzione anti-imperiale, concedendo in feudo a Roberto il Guiscardo le conquiste effettuate nel sud italiano. Questa spedizione militare in Dalmazia rappresentava la possibilità di dare finalmente corpo alle aspirazioni romane in fatto di giurisdizione ecclesiastica nell'area adriatico-balcanica, in modo ben più concreto, evidentemente, di quanto non fosse garantito dal legame lontano ed incerto con i Croati, dei quali si temeva oltretutto l'aspirazione all'autocefalia per la loro chiesa (61).
Amico intervenne e in breve tempo sconfisse i Croati nel Carnaro, ad Arbe, a Chissa e si insediò in Dalmazia. Per Venezia si profilava a questo punto un rischio gravissimo, l'imbottigliamento. Non era più in gioco soltanto l'egemonia politica nell'area adriatica: ora si trattava di un puro e semplice fatto di sopravvivenza. Il commercio veneziano verso il Levante sarebbe infatti dipeso dai Normanni, se questi avessero avuto sotto il loro dominio sia le coste pugliesi che quelle albanesi e dalmate. Di qui l'energica reazione veneziana. Nell'inverno 1075-76 il doge Domenico Silvo guidò una spedizione che ottenne un notevole successo, costringendo i Normanni a ritirarsi dalla Dalmazia. In quell'occasione, 1'8 febbraio 1076, Spalato, Traù, Zara, Belgrado giurarono di non "adducere Nortmannos aut extraneos in Dalmatiam", e riconobbero il doge come loro senior (62).
L'accenno agli extranei va inteso probabilmente - è questa, ad esempio, l'opinio ne di Ernesto Sestan - come riferito soprattutto agli Ungheresi. Verso i Croati, infatti, i Veneziani sembrano aver raggiunto in questa fase una forma di convivenza politica, grazie anche al più morbido atteggiamento papale, conseguente alla risoluzione del problema dell'autocefalia della chiesa croata. I legati di Gregorio VII - in quello stesso anno 1076 - incoronarono il nuovo re di Croazia, Demetrio Zvonimir, ribadendone il legame di vassallaggio con la chiesa romana. Da quel momento le difficoltà più gravi per Venezia si spostarono più a sud, perché il debole regno di Zvonimir - ormai politicamente orientato in modo deciso verso occidente non creò molti problemi al ducato nel centro-nord della Dalmazia e, anzi, funzionò ancora per un certo tempo come barriera nei confronti della spinta ungherese in direzione della costa adriatica (63). Più a sud, invece, nel basso Adriatico, l'azione normanna continuava, e con caratteri di ancora maggiore pericolosità.
Il problema vero di Venezia, dunque, era rappresentato dai Normanni: un problema del resto che la città condivideva con Bisanzio. Si inaugura così una fase guerriera della storia veneziana, vissuta dapprima in sintonia con gli antichi signori bizantini, ma che poi confluirà nell'alveo costituito dal periodo crociato, dove invece le traiettorie di Venezia e Bisanzio non coincideranno più. Sul metro del successo militare si giocheranno, d'ora in avanti, le sorti personali degli stessi duchi.
Così fu per lo stesso Domenico Silvo, il fortunato condottiero del 1076, di fronte all'esito negativo, per Venezia, di alcune fasi della gravissima crisi che si scatenò negli anni Ottanta dell'XI secolo. Sfruttando la sempre più difficile situazione di Bisanzio, il duca di Puglia Roberto il Guiscardo, insieme al figlio Boemondo, aveva attaccato i territori imperiali, puntando su Durazzo - da dove partiva la strada romana che portava fino a Costantinopoli: ed era appunto lì che voleva giungere il Guiscardo - e Corfù. Il nucleo della sua flotta era costituito da navi dalmate, tra le quali spiccavano quelle di Ragusa. L'imperatore bizantino Alessio I Comneno chiese allora aiuto a Venezia: e per circa quattro anni, a partire dal luglio 1081, la flotta veneziana e i Bizantini si batterono con i Normanni. Sul resoconto dettagliato degli avvenimenti bellici le fonti principali, che sono due - Guglielmo di Puglia e Anna Comnena, la figlia di Alessio -, divergono.
In particolare Anna Comnena sembra essere portavoce di una tradizione più favorevole a Venezia, che ne amplia la portata dei successi militari effettivamente ottenuti. Se talvolta infatti i Veneziani, che per un certo periodo occuparono anche Corfù, furono vittoriosi sul mare, tuttavia è certo che i decisivi scontri terrestri furono appannaggio dei Normanni. Comunque il grande impegno veneziano servì se non altro a ritardare l'azione normanna, definitivamente interrotta poi dalla morte del Guiscardo nel 1085 (64). Al di là dei suoi limiti, l'intervento di Venezia mostrò come - nonostante la partecipazione bizantina anche agli scontri marittimi - la difesa navale dell'impero fosse ormai in mano veneziana. E di ciò Alessio dovette tenere conto.
L'esito più vistoso della vicenda fu, per Venezia, la crisobolla del maggio 1082, con la quale l'imperatore bizantino concedeva amplissimi privilegi al commercio veneziano: un risultato di prima grandezza, che rovesciò i rapporti stessi - in termini economici - del nesso Venezia-Bisanzio, aprendo la seconda allo sfruttamento e al predominio commerciale della prima (65).
Facendo leva sulla crisobolla del 1082, Venezia iniziava la sua ascesa come forza politica di prima grandezza, superando progressivamente le incertezze e i ritardi che l'avevano inchiodata troppo a lungo nel suo piccolo angolo nord-italiano ed adriatico. La via del Levante cominciava ora ad aprirsi in una misura prima sconosciuta; e la vocazione di Venezia alla costruzione di un impero commerciale era, al tempo stesso, definitivamente corroborata.
E tuttavia, nonostante il saldo finale largamente positivo, i costi umani ed economici dell'impegno anti-normanno erano stati molto pesanti. La tensione con cui da parte veneziana si visse tutto questo periodo è provata dal modo con cui si reagì ad una dura sconfitta, accompagnata da un excidium stoli, subita a Durazzo ad opera dei Normanni: essa costò l'esilio al doge Domenico Silvo, dopo dodici anni di ducato. Il capo della rivolta, Vitale Falier, fu fatto duca al suo posto, e guidò l'ultima parte della spedizione contro il Guiscardo (66).
7. Il consolidamento esterno
In tutto questo periodo, la posizione di favore verso l'impero occidentale assunta da Venezia era rimasta salda, nonostante che il nuovo imperatore Enrico IV, in rotta aperta con il papato - ma anche Venezia, per la sua opposizione ai Normanni, si trovava di fatto nel campo avverso a Roma -, avesse mutato atteggiamento nei confronti del problema balcanico. Enrico infatti era passato ad un aperto appoggio della politica espansionistica ungherese incarnata da re Ladislao, che occupò (primavera 1091) la Croazia, approfittando di una rivolta che aveva eliminato il re Zvonimir (67).
La situazione nel nord adriatico non era quindi, neppure essa, delle più tranquille per Venezia. Si ha la sensazione che il ducato si muovesse allora entro margini stretti. Lo prova il fatto stesso che Vitale Falier assumesse proprio in quelle circostanze il titolo di dux Chroatiae, in aggiunta a quello tradizionale di duca di Venezia e di Dalmazia: un atto che - se andava contro le aspirazioni egemoniche sul regno croato della chiesa romana, che, in base all'atto del 1076, negava a Ladislao il riconoscimento della signoria sulla Croazia conquistata - non era neppure in sintonia piena con la politica imperiale di Enrico IV, che, come si è detto, in quella fase era favorevole all'Ungheria. Né l'atteggiamento veneziano mutò con il successore del Falier, Vitale I Michiel, che continuò da parte sua a intitolarsi duca di Croazia anche quando l'Ungheria, con il nuovo re Colomano, trovò finalmente un accordo con la sede romana, sanzionato dalla sua ascesa sul trono croato nel 1102 (68). D'altra parte, l'elezione nel 1091 a patriarca di Grado di Pietro Badoer, molto legato al papa Urbano II ed esponente quindi della corrente riformatrice del clero del ducato, non provocò reazioni negative da parte del doge, a dimostrazione del fatto che, diminuita la minaccia normanna, Venezia intendeva riallacciare migliori rapporti anche con Roma (69).
Un sintomo evidente, tuttavia, del persistente allineamento veneziano su posizioni filo-imperiali è, in questo periodo, il rinnovo dei pacta. È vero che anche Enrico III, nel 1055, aveva già compiuto lo stesso gesto, dopo una pausa di più di cinquant'anni; ma il testo relativo è andato perduto (ne abbiamo notizia da Enrico IV, che menziona il praeceptum patris nostri), e ciò non depone evidentemente a favore di un particolare valore innovativo del suo contenuto (70). Diverso invece è il caso del pactum di Enrico IV del 1095. Rilasciato quando l'imperatore era a Treviso e si trovava, non a caso, in un momento politicamente difficile, il patto non fa più nessun accenno alle sia pur vaghe pretese di sovranità su Venezia, che echeggiavano ancora nei pacta precedenti (71). Si sottolineano piuttosto, con grande evidenza, i rapporti personali tra l'imperatore e il doge: Enrico infatti era divenuto padrino di battesimo della figlia del Falier (72). Ma, soprattutto, il patto contiene una clausola commerciale di particolare valore: nel capitolo 10 dell'accordo infatti si stabilisce la libertà, per i Veneziani, di viaggiare "per terra e per i fiumi di tutto il nostro regno"; e si aggiunge: "e lo stesso varrà per i nostri [cioè i sudditi di Enrico> per mare, ma solo fino da voi e non di più". Con questa clausola si bloccavano di fatto i mercanti occidentali nei confronti dei mercanti del ducato, nel momento stesso in cui si confermava invece l'apertura piena del regno alla penetrazione dei mercanti veneziani; era una sorta di diritto di scalo esercitato verso l'impero e i suoi mercanti. Inizialmente forse soprattutto una dichiarazione di principio, questa clausola divenne però con il passare del tempo una realtà (73).
È questo, in sostanza, il testo che fu approvato anche dagli imperatori successivi, fino all'età di Federico II. Ma già dopo Enrico V - nonostante che si fosse trovato in contrasto con Venezia, tuttavia anch'egli rinnovò il patto nel 1111 - le concessioni imperiali persero sempre più importanza, in sintonia con la crisi del potere centrale nel regno italico a favore dell'emergere dei nuovi poteri comunali, verso i quali si indirizzò l'offensiva diplomatica di Venezia: è già del 1107 un accordo con Verona per regolare reciprocamente il movimento commerciale (74).
Tutto questo tuttavia apparteneva al futuro, seppure al futuro immediato. Per il momento, il capitolo 10 dell'accordo del 1095 dava, in prospettiva almeno, nuovo slancio al commercio veneziano diretto verso le terre dell'impero occidentale, cercando di chiudere l'oriente bizantino all'azione dei mercanti del regno italico e di favorire così il decollo commerciale dell'emporio di Rialto. Ed è significativa, a questo punto, la vicinanza temporale tra la crisobolla bizantina del 1082 e il pactum del 1095. Entrambi i documenti - sia pure a diverso livello - sanzionavano infatti, nello spazio di poco più di un decennio, il decollo commerciale e politico - due dimensioni strettamente congiunte nella storia veneziana - di Venezia nell'ultimo scorcio del secolo.
L'alleanza con i due imperi, nata dalla circostanza di avere dei pericolosi nemici in comune (gli Ungheresi in un caso, i Normanni nell'altro), aveva ripagato pienamente le aspettative del ducato, che, sia pure ancora minacciato dall'evoluzione complessa e mutevole delle vicende balcaniche, aveva comunque conservato, e anzi rafforzato, la sua egemonia marittima nell'Adriatico. Un'egemonia che significava alta signoria sulle città dalmate del nord e in parte anche del centro (fino a Spalato), e libertà di commercio e navigazione verso i vitali approdi bizantini, punti di partenza del commercio di transito tra oriente e occidente.
Nel dettaglio, la crisobolla del 1082 conferma questa valutazione. Essa superava ampiamente i precedenti accordi regolati da una concessione imperiale del 992 (75), non solo stabilendo donativi e titoli onorifici per duchi, patriarchi e chiese veneziane e concedendo un territorio a Venezia sul Corno d'oro, all'interno stesso di Costantinopoli, ma - fatto questo decisivo - liberando i mercanti veneziani dal pagamento del tributo che, sia pure in misura minore rispetto agli altri stranieri, essi pagavano dal 992 all'erario imperiale (76). Era chiaramente un atto che rispecchiava le necessità del momento e che configurava la volontà di consolidare l'alleanza tra Bisanzio e Venezia in funzione anti-normanna. Da esso Venezia trasse un ulteriore riconoscimento della sua autonomia politica - a fronte della semplice "estraneità" che risultava dal testo del 992 - e, soprattutto, una posizione di inestimabile vantaggio nei confronti dei suoi concorrenti commerciali: si trattava di una sorta di "clausola di nazione più favorita", che era destinata a incrementare ulteriormente il flusso commerciale veneziano con il levante bizantino. La crisobolla, infine, sanzionò ufficialmente l'esistenza della colonia veneziana di Costantinopoli, con le sue chiese, le botteghe, i depositi, il forno e il mulino, in una zona ricca di ben tre scali marittimi. Anche a Durazzo c'era, a stare sempre al testo del 1082, un insediamento, centrato intorno alla locale chiesa di S. Andrea (77). Il rovesciamento dei rapporti veneto-bizantini, che aveva la sua radice lontana nell'intervento in Dalmazia di Pietro Orseolo, era completo.
Il rafforzamento esterno di Venezia, conseguente al suo duplice allineamento filo-imperiale, era dunque evidente. A porre un suggello simbolico a questo favorevole momento della vita politica di Venezia intervenne - con una sintonia così perfetta da suggerire quasi una regia interessata - il ritrovamento delle reliquie di s. Marco, che erano andate perdute in occasione dell'incendio dell'antica cappella ducale nel 976: una invencio che, il 25 giugno del 1094, coronò degnamente l'inaugurazione della nuova chiesa ricostruita. Questa data rimase da allora in poi come festa di palazzo, a testimonianza del fatto che, sul piano della simbolica del potere, l'identificazione tra s. Marco e il ducato veneziano era ormai piena.
Era l'Evangelista il detentore dei diritti sovrani all'interno del ducato, e il duca un suo semplice delegato (78).
8. La prima crociata
I grandi successi veneziani nell'area adriatica e verso l'impero bizantino non possono però far dimenticare gli evidenti ritardi che, su un piano più vasto, stava accumulando in quello stesso periodo la politica veneziana nei confronti delle grandi novità che si andavano preparando. Dal suo osservatorio adriatico Venezia aveva assistito da spettatrice passiva allo snodarsi dei preparativi della crociata; complici anche i suoi freddi rapporti con il papato, non aveva, infine, partecipato alla prima parte della spedizione. In questa scelta dovette giocare un ruolo importante anche la volontà di non compromettere il libero accesso ai mercati bizantini: la crisobolla del 1082 cita la Siria, l'Asia minore, la Grecia, l'Epiro, la Tracia e la Macedonia come obbiettivi possibili del commercio veneziano, oltre, s'intende, alla stessa Costantinopoli; e i documenti superstiti del commercio veneziano confermano l'ampiezza del raggio d'interessi dei mercanti del ducato (79). Tutto questo poteva essere compromesso dal coinvolgimento in un'impresa, la crociata, che Alessio I vedeva con un favore sempre più scarso a mano a mano che se ne delineavano i caratteri, che non andavano affatto nel senso auspicato dai Bizantini, cioè in quello della consegna a loro dei territori strappati ai musulmani. Inoltre, un'altra conseguenza della crociata poteva essere, per i Veneziani, la chiusura dei porti egiziani, Alessandria in primo luogo, ed un rarefarsi quindi del fiorente commercio di armi e schiavi, che, dopo il declino di Amalfi, essa esercitava con quella piazza in condizioni di quasi monopolio (80).
Ma era pure evidente, d'altro canto, che Venezia non poteva rimanere estranea a un fatto così importante, che era destinato a cambiare profondamente i dati della situazione politica e commerciale dell'intero Mediterraneo orientale. La presenza di Pisa - il vescovo pisano Daimberto era stato addirittura nominato legato pontificio - e di Genova in Terrasanta ne era un sintomo inequivocabile. Sia pure in forma non ufficiale, senza chiamare in causa cioè il ducato, gruppi di Veneziani avevano del resto già preso parte alle prime fasi della crociata; il coinvolgimento di Venezia negli eventi di Terrasanta si profilava dunque inevitabile (81).
"Anno Domini millesimo nonagesimo nono, indictione septima, mense Iulio Venetici exierunt cum navigio ad sepulchrum Christi". Presentandola quasi sotto forma di un pellegrinaggio, gli Annales Venetici Breves registrano così il tentativo veneziano - certo piuttosto tardivo - di agganciarsi in extremis alla spedizione crociata (82). Il primo progetto doveva comunque risalire al 1097; Si era trattato, secondo Andrea Dandolo, di un'iniziativa del nuovo doge Vitale I Michiel (entrato in carica alla fine del 1096), che aveva dato l'esempio prendendo lui stesso la croce davanti all'assemblea cittadina. Il primo atto era stato quello di coinvolgere le città dalmate - Spalato, Traù, Zara in primo luogo - nella preparazione della spedizione, che partì però solo nel luglio 1099, forte di 200 imbarcazioni (83). Se l'intervento veneziano fu tardivo, quindi, non per questo fu poco impegnativo, se lo confrontiamo con le cifre, nettamente inferiori, della mobilitazione navale pisana e genovese. Fedeli alle loro priorità, comunque, i Veneziani sostarono a lungo nei porti dalmati per completare i loro rifornimenti in navi e uomini e per utilizzare lo spiegamento di forze messo in campo in quella circostanza eccezionale allo scopo di rinsaldare i legami di fedeltà e di subordinazione della Dalmazia.
La prima tappa fu Rodi, punto intermedio di grande importanza per il traffico commerciale verso la Terrasanta. Lo scopo ufficiale era quello di svernare nell'isola, ma in realtà il motivo principale consisteva nella volontà veneziana di assicurarsi il controllo di Rodi, contro le minacce di una flotta pisana avvistata nelle vicinanze (i Pisani avevano occupato Corfù); e in questa occasione i Veneziani giunsero addirittura ad uno scontro con i Pisani, che erano stati già sconfitti dai Bizantini. Secondo il racconto del Monaco del Lido - la cui cronaca è la fonte principale per gli avvenimenti legati alla partecipazione veneziana alla prima crociata -, senza subire perdite i Veneziani (che avrebbero utilizzato solo un terzo della loro flotta) catturarono ventotto navi pisane (84). I Pisani in seguito furono rilasciati, dopo che ebbero sottoscritto un patto secondo cui "se numquam [...> Romaniam causa mercimonii intraturos", né avrebbero più combattuto (se non a causa della devozione al Santo Sepolcro) contro altri cristiani (85). Tornano, anche in questo episodio, le priorità dei Veneziani: stavolta si tratta della protezione dei loro interessi nell'impero bizantino, l'esempio più macroscopico di una costante, ferrea difesa delle aree commerciali privilegiate di volta in volta create a proprio favore.
A metà giugno del 1100 i Veneziani sbarcarono a Giaffa e si accordarono con lo stesso Goffredo di Buglione. La flotta veneziana avrebbe collaborato con i crociati per due mesi, in particolare nell'assedio di Acri. In cambio i mercanti del ducato avrebbero avuto libertà di commercio, senza pagare dazi e senza sottostare al diritto consuetudinario dello ius naufragii, in tutto il territorio controllato dagli Europei; i Veneziani avrebbero avuto un terzo del bottino nelle città prese congiuntamente e in ogni città, inoltre, sarebbe stata donata loro una chiesa e un mercato. Infine sarebbe stata loro consegnata l'intera città di Tripoli (ancora da conquistare), con la metà del bottino accumulato in quell'occasione.
La successiva campagna, il cui comando era affidato a Tancredi, principe di Galilea, fu bloccata sul nascere dalla notizia della morte di Goffredo, e dai contrasti insorti tra i crociati su chi dovesse succedergli. La spuntò, alla fine, Baldovino di Edessa, ma nel frattempo la spedizione poteva dirsi fallita nei suoi obiettivi principali, che erano Acri e Tripoli. Ci si limitò, con il decisivo apporto veneziano, alla presa, in agosto, del piccolo porto di Caifa; un terzo della città fu donato ai Veneziani (86).
La flotta veneziana riprese ben presto la via del ritorno. Durante il viaggio di andata, comunque, i Veneziani avevano ottenuto un altro risultato, che poteva in qualche modo contribuire a riequilibrare, sia pure su un piano diverso, il magro bilancio della spedizione: si trattava della scoperta a Mira, sulle coste meridionali dell'Asia Minore, di spoglie attribuite a s. Nicola. In realtà già tredici anni prima, nel 1087, i Veneziani si erano fatti battere sul tempo dai mercanti di Bari, che avevano trasportato nella loro città, rivale di Venezia nell'Adriatico, le reliquie del santo. Ora i Veneziani riuscirono a trovare - torturando i custodi della chiesa di S. Zion - le spoglie dello zio, santo e omonimo, di s. Nicola e (così almeno sostennero) parte almeno delle spoglie del nipote, lasciate dai Baresi (87). Quindi essi pretesero di avere vinto la loro personale battaglia a colpi di reliquie contro la città pugliese; e da quel momento s. Nicola fu, dopo s. Marco, il secondo protettore di Venezia, almeno nella sua dimensione di città commerciale e pacifica.
Anche calcolando il prestigio delle sante reliquie trovate dalla flotta, i risultati rimanevano indubbiamente modesti, e ciò era dovuto anche al fatto che Venezia era intervenuta in un momento di stanca della spedizione, quando, finita la prima spinta propulsiva, stavano affiorando tensioni e gelosie tra i principi crociati (e tra loro e Daimberto), che infine esplosero all'improvvisa scomparsa di Goffredo. A parziale compensazione si può dire che almeno, nonostante incomprensioni e tensioni che erano affiorate qua e là - per esempio, Alessio Comneno era stato contrario alla liberazione dei Pisani catturati -, i rapporti del ducato con i Bizantini non si erano deteriorati del tutto. Quanto a Caifa, dopo la conquista crociata essa rimase quasi del tutto disabitata. Per i Veneziani, insomma, la spedizione era stata un semplice "investimento in possibilità future" (88).
9. Tra Dalmazia, Terrasanta e Romania
Venezia fu ben presto richiamata ad una massima attenzione nello scacchiere adriatico, per lei sempre vitale. Il perdurante dinamismo di Colomano, re d'Ungheria e di Croazia, nei confronti delle città dalmate e il periodico ritorno delle ambizioni dei Normanni la tennero impegnata per una decina di anni. Nel 1101 i Veneziani giunsero addirittura a coalizzarsi con lo stesso Colomano contro i Normanni, a riprova di quanto fosse grave la minaccia portata da questi ultimi, che - al comando di Boemondo di Taranto - qualche anno dopo, nel 1108, attaccarono ancora Bisanzio nel basso Adriatico, minacciando così di nuovo gli interessi di commercio e di libera navigazione di Venezia (89).
Dal punto di vista interno, il ducato in questo periodo - per quasi cinquant'anni, a partire dalla successione di Vitale Falier a Domenico Silvo - fu retto alternativamente dagli esponenti di due sole famiglie, i Falier e i Michiel. Nessuna delle due era apparsa sinora in grande evidenza sulla scena politica veneziana, e quindi esse potrebbero rivelare, con la loro ascesa, il progressivo allargamento del ceto di governo. Dalla fine dell'XI secolo, naturalmente, Falier e Michiel furono invece massicciamente presenti nei placiti ducali e nello stesso ristretto gruppo dei più vicini collaboratori del doge, gli iudices (90).
Il doge che dovette gestire la fase immediatamente successiva alla crociata fu Ordelaffo Falier. Eletto probabilmente verso la fine del 1101, il nuovo doge ebbe anche altri gravi problemi che si aggiunsero a quelli adriatici. La posizione di Venezia sul versante territoriale si andava infatti facendo insicura, a causa della grave instabilità politica del regnum Italiae nella fase conclusiva della lotta delle investiture. Venezia dovette appoggiare Matilde di Toscana nella sua azione di recupero della città di Ferrara, che era sfuggita al controllo del partito gregoriano e della stessa contessa (1101), per proteggere così il proprio interesse a mantenere libere le vie del commercio padano (91). Gli stessi motivi coinvolsero qualche anno dopo la città in una werra contro una coalizione formata da Ravenna, Padova e Treviso. Ciò avvenne nel 1107, nello stesso anno del patto con Verona che abbiamo già ricordato: un patto che, alla luce della più generale situazione dell'Italia del nord-est, assume un chiaro carattere difensivo, di tutela - ancora una volta - commerciale e politica al tempo stesso. L'instabilità politica del nord dell'Italia era accresciuta dal fatto che, sia nel campo imperiale che in quello papale, le città si muovevano in realtà con una forte autonomia politica, che spiegava le loro scelte di alleanza: così Verona, teoricamente imperiale, poté allearsi con Venezia, che pure si era schierata pochi anni prima dalla parte di Matilde, esponente di punta del partito papale (92). I concreti interessi locali delle nuove realtà cittadine prevalevano, così come prevalevano negli atteggiamenti dello stesso ducato veneziano: ma ciò determinava una complessità e pericolosità della situazione politica ancora maggiore.
È certo comunque che Venezia stentava a fronteggiare i problemi esterni su più fronti contemporaneamente, e che l'incertezza del suo retroterra padano, assorbendo le sue forze militari, la condannava ad un'azione più debole sul versante adriatico. Come se tutto ciò non fosse già sufficiente, a partire dal 1106 una serie di incendi, terremoti e maremoti provocò disastri enormi in laguna, distruggendo numerose chiese e abitazioni private, danneggiando S. Marco e il palazzo ducale e sommergendo l'antico centro di Malamocco, la cui sede episcopale dovette essere trasferita, nel 1110, a Chioggia (93).
Tutte queste circostanze - unite alla considerazione degli scarsi risultati raggiunti e alla perdurante ostilità bizantina contro i crociati - spiegano a sufficienza perché, dopo la presenza tutto sommato effimera del 1100, Venezia rimase a lungo estranea agli avvenimenti della Terrasanta. Una lontananza che il ducato pagò a caro prezzo, perché se i Pisani avevano perso molte posizioni in oriente dopo la
sconfitta delle ambizioni egemoniche del loro arcivescovo Daimberto - all'interno del complicato gioco politico apertosi nel regno di Gerusalemme per la successione a Goffredo di Buglione -, d'altro canto il loro posto era stato occupato dai Genovesi, che avevano aiutato il nuovo re Baldovino in alcune imprese (importante soprattutto la presa di Acri nel 1103) ed in cambio avevano ricevuto una serie di privilegi nel regno di Gerusalemme e nel principato di Antiochia. Venezia in quegli anni era stata presente invece solo in operazioni di trasporto di viveri e di pellegrini. Nel 1108 navi veneziane avevano anche partecipato, è vero, alle operazioni condotte senza successo contro la musulmana Sidone. Ma non si era trattato di una partecipazione ufficiale, dovevano essere più che altro equipaggi in cerca di fortuna, nel commercio come nella pirateria (94). Quanto all'esistenza di colonie commerciali permanenti, ve ne erano di veneziane solo ad Antiochia e ad Acri; in quest'ultima città, dopo la conquista cristiana, si erano insediati i Veneziani di Caifa, permutando le loro precedenti proprietà con un mercato e alcune strade (95).
Un primo ritorno di interesse ufficiale veneziano si ha solo nel 1110, quando Ordelaffo Falier - un doge di cui le fonti veneziane danno un chiaro ritratto guerriero, mettendone anche in rilievo la giovane età - guidò una flotta di cento navi all'assedio di Sidone, insieme alla flotta norvegese di re Sigurd e alle truppe di Baldo-vino. L'intervento risultò decisivo, perché respinse la flotta egiziana e garantì l'efficacia del blocco posto dai crociati alla città. Arresasi Sidone ai primi di dicembre, Venezia ottenne la conferma e l'estensione dei suoi privilegi ad Acri, dove, nono-stante l'opposizione dei Genovesi, si sviluppò un vicus Venetorum, all'interno del quale i sudditi di S. Marco potevano usare i loro pesi e le loro misure. Anche se il sovrano per il momento non rinunciò alle sue bannalità, prova tangibile del suo superiore dominio, la giurisdizione sui Veneziani ivi residenti fu riservata agli ufficiali veneti (96). Era un primo passo verso un cambiamento di fisionomia dell'insediamento veneziano, fino a quel momento puramente commerciale e che adesso invece si avviava ad acquistare una fisionomia istituzionale più precisa ed autonoma.
Era anche la premessa per un maggiore coinvolgimento di Venezia nell'oriente crociato. La condizione necessaria perché questo si realizzasse pienamente, però, era l'esistenza di una situazione più tranquilla in Dalmazia. Fu questa la preoccupazione degli ultimi anni del Falier, che, sfruttando la morte di Colomano, poté recuperare molte delle posizioni perdute dopo gli insuccessi iniziali. Nonostante che lo stesso Falier cadesse in battaglia pro honore totius Venecie (1116 o 1117), la Dalmazia negli anni successivi fu recuperata dai Veneziani. Al posto della vaga e instabile fidelitas del periodo precedente, nelle città dalmate iniziò ad organizzarsi ora un vero e proprio controllo diretto, affidato a esponenti veneziani (97). Fu a questo punto che il successore del Falier, Domenico Michiel, accettò l'appello che nel 1119 re Baldovino rivolse, tra le altre potenze cristiane, ai Veneziani, perché accorressero in aiuto del regno latino: uno dei maggiori pericoli per il dominio crociato, infatti, era sempre la flotta egiziana. L'appello era stato rafforzato da una lettera di papa Callisto II, che doge e patriarca lessero solennemente nell'assemblea cittadina in S. Marco (98).
Il problema, a questo punto, era l'atteggiamento di Bisanzio. Che Venezia si aspettasse ritorsioni per il suo nuovo e più massiccio impegno in Terrasanta lo prova, probabilmente, l'appello (publica promissionis cartula) lanciato nel 1120 o 1121 dal doge Michiel a tutti i Veneziani residenti nell'impero, con il quale ordinava loro di tornare a Venezia per partecipare ai preparativi per l'allestimento della flotta per la crociata (99). Testimonianza certo della serietà dell'impegno del ducato nella spedizione, l'appello - che prevedeva addirittura la confisca di tutti i beni per gli eventuali inadempienti - è anche una misura difensiva; si voleva impedire che Bisanzio avesse nelle sue mani troppi ostaggi (uomini e beni) da giocare nella fase pesante-mente conflittuale che si andava aprendo. Cinquant'anni dopo, gli eventi del 1171 dovevano mostrare quanto questi timori fossero giustificati (100).
L'imperatore Giovanni Comneno sospese subito i privilegi veneziani, annullando di fatto la Bolla d'oro del 1082. In risposta la flotta veneziana, salpata per il Levante nell'agosto del 1122, pose l'assedio a Corfù. Le notizie che giunsero nella primavera seguente, e che annunciavano che lo stesso Baldovino era caduto nelle mani dei musulmani, costrinsero però la flotta a sospendere l'assedio. Nel maggio 1123 i Veneziani erano ad Acri. Il 30 dello stesso mese riportavano, grazie anche ad uno stratagemma, una brillante vittoria sulla flotta fatimida al largo di Ascalona, un successo importantissimo perché facilitò ai cristiani le comunicazioni con l'Europa, garantendo la sicurezza della costa da Giaffa ad Acri.
I Veneziani furono molto festeggiati per la loro vittoria. A questo punto, però, nel campo crociato si aprirono le discussioni sul successivo obbiettivo militare. Tra le due maggiori piazzeforti siro-palestinesi rimaste ai musulmani fu scelta Tiro, la fortezza del nord, la più difesa, rispetto ad Ascalona, al sud, vicina alla frontiera egiziana. Se anche non è vero (non ci sono prove oggettive di ciò) che fu il doge a decidere - la scelta finale sarebbe stata addirittura affidata alla sorte, se stiamo al racconto di Guglielmo di Tiro (101), è tuttavia certo che i Veneziani furono assai contenti che le operazioni coinvolgessero un centro molto lontano dal dominio di quei Fati-midi con i quali, nonostante lo scontro navale appena svoltosi, essi speravano di poter ricucire dei rapporti tali che consentissero il mantenimento del traffico commerciale veneziano con il vitale porto di Alessandria (102).
Verso la fine del 1123, prima di iniziare la campagna, gli onori e le promesse ricevuti da parte dei maggiorenti del regno latino si concretizzarono in un atto fondamentale, il cosiddetto pactum Warmundi, così chiamato dal nome del patriarca di Gerusalemme, che rappresentava re Baldovino, tenuto allora prigioniero paganorum laqueo (103). Il pactum Warmundi poteva davvero ripagare i Veneziani di molte delle perdite che essi avessero eventualmente subito sul versante del commercio egiziano. Il patto estendeva i loro privilegi a tutte le città del regno (con la concessione di una chiesa, una strada, un forno, un mercato), compresa l'esenzione da tasse, la possibilità di usare pesi e misure propri e di esercitare giurisdizione sui Veneziani stessi (anche nei casi in cui fossero implicati non Veneziani). Il patriarca e i grandi del regno si impegnavano inoltre a far sì che i medesimi regalia promissionis foedera fossero validi anche per il territorio del principato di Antiochia. Accanto ad altre disposizioni minori (come un contributo di 300 bisanti d'oro), però, era soprattutto la concessione di un terzo delle città di Tiro e di Ascalona - entrambe, come si è detto, ancora da conquistare - a segnare una svolta radicale nella presenza veneziana nel regno di Gerusalemme. Il trattato sanzionava in tal modo la nascita di vere e proprie aree extraterritoriali all'interno del regno; sviluppando le premesse del 1110, esso ratificava insomma il passaggio di Venezia dal semplice possesso di punti di controllo commerciale alle colonie di stanziamento: una specie di "stato nello stato ", i cui rapporti con la struttura del regno latino - così come quelli delle altre colonie delle città italiane - furono in seguito regolati in modo minuzioso (104). L'assedio di Tiro fu durissimo e, tra sospetti e accuse reciproche tra baroni franchi e Veneziani, si trascinò dal febbraio all'estate del 1124. D'altra parte, la gioia per la vittoria fu tale che - secondo una notizia, peraltro poco attendibile, riportata dall'Historia Ducum Veneticorum - al doge Michiel sarebbe stata addirittura offerta la corona in sostituzione del re prigioniero. Al di là di ogni enfasi eccessiva, è certo che il contributo veneziano fu rilevante, e che i patti furono rispettati dai crociati: un terzo di Tiro fu consegnato ai Veneziani (105). Fu, questa, l'ultima impresa bellica compiuta da una spedizione navale veneziana contro i musulmani nel XII secolo.
Il viaggio di ritorno della flotta veneziana fu impegnativo quanto la sua presenza in Terrasanta, se non di più. Chiudendo il cerchio aperto con l'attacco a Corfù di due anni prima, il Michiel, prendendo a pretesto il rifiuto bizantino di far rifornire a Rodi la sua flotta, mise a sacco la città. Dieci fra isole e città greche subirono la stessa sorte (Samo, Chio, Mitilene, Lesbo ed altre). I Veneziani attaccarono il Peloponneso, devastarono Cefalonia e infine puntarono di nuovo verso l'Adriatico, dove ne approfittarono per riaffermare la sottomissione delle irrequiete città di Spalato, Traù, Zara e Sebenico. Con un enorme bottino (e con molti ostaggi, nobili dalmati e ungheresi), infine, la flotta rientrò in patria (106). La risposta veneziana alla sospensione dei privilegi commerciali da parte dell'imperatore c'era finalmente stata, e si era rivelata pesantissima. Per tre anni i Veneziani, che pure - come scrive con un pizzico di ipocrisia l'Historia Ducum (107) - "defensores Romanie semper extiterant", continuarono a depredare le terre bizantine, finché Giovanni Comneno, sopraffatto, non acconsentì a togliere il blocco al commercio veneziano, rinnovando tutti gli antichi privilegi (108). L'unica ombra sul successo veneziano, gravida di conflitti futuri, era gettata dal fatto che ormai anche i Pisani e i Genovesi erano penetrati nell'orbita commerciale bizantina: uno scotto pagato da Venezia per la sua partecipazione all'avventura crociata e all'edificazione degli stati latini d'oriente.
10. Venezia in ascesa: le trasformazioni interne
Gli anni del passaggio dal dogato di Domenico Michiel a quello di Pietro Polani, suo genero - entrato in carica intorno alla primavera del 1130, allorché il Michiel si ritirò nel monastero di S. Giorgio -, non sono carichi di avvenimenti significativi (109). La battaglia di Ascalona aveva rivelato in Venezia la più forte potenza marittima del Mediterraneo orientale, forte ormai di basi coloniali in oriente, e i successivi eventi avevano provato la sua capacità di difendere i suoi interessi nell'area bizantina; al tempo stesso essa andava consolidando il suo potere in area adriatica, dove la Dalmazia era ormai sfuggita a Bisanzio e, per il momento almeno, la spinta croata (o croato-ungherese) era stata contenuta.
Venezia appariva in netta ascesa, una potenza di raggio e capacità d'intervento assai ampio. Lo conferma anche l'accordo raggiunto, dopo decenni di ostilità aperta o latente, con i Normanni, anch'essi in una fase di consolidamento territoriale in seguito all'incoronazione di Ruggero II a re di Sicilia. Nel 1139 un trattato commerciale assicurava ai Veneziani il vitale approvvigionamento dei cereali provenienti dalle terre del regno meridionale. Anche sul fronte dell'impero occidentale, spentosi il conflitto delle investiture, la tranquillità della situazione era sanzionata dal rinnovo dei pacta (110).
Pietro Polani, "vir strenuus et sapiens", "vir curialis et largus", eletto dall'assemblea generale del popolo dietro consilium del duca uscente, è presentato dall'Historia Ducum - opera cronachistica da interpretare però in chiave essenzialmente politica - sotto una luce non solo favorevole, ma pacifica: un duca uomo di pace, dopo due duchi guerrieri (111). Ma la tranquillità finì nella seconda parte del suo periodo di governo, quando si accese prima un conflitto con Padova intorno al problema del corso del Brenta, e poi si guastarono nuovamente i rapporti con i Normanni in seguito all'attacco a Corfù da parte di Ruggero II (112). L'intervento in aiuto dei Bizantini, voluto fortemente dallo stesso doge, ebbe per effetto non solo di guastare i rapporti con il papato (il Polani fu scomunicato e sul ducato veneziano fu lanciato l'interdetto), ma anche di far salire pericolosamente la tensione all'interno del ducato. La successiva presa di Corfù da parte di Veneziani e Bizantini, intorno alla primavera-estate del 1148, concluse la campagna; al suo ritorno, la flotta trovò il doge già morto (113).
I contrasti sorti per la spedizione anti-normanna sono rivelatori di una lotta politica interna così vivace da lasciare traccia esplicita nelle fonti. Ancora una volta, come già dopo il periodo dei grandi successi degli Orseolo, l'accresciuto prestigio del ducato - nel 1141 si ha anche la sottomissione di Fano (114) - portava con sé il riaccendersi violento dei conflitti interni, ponendo al tempo stesso il regime politico di fronte alla necessità di adeguare le sue strutture alla mutata situazione, garantendo un più stabile coinvolgimento di tutto il ceto aristocratico nella gestione del ducato.
Nell'aprile del 1147 nacque una grande "discordia" tra il patriarca Enrico Dandolo e il duca "cum tota Venecia"; alla fine il Dandolo fu scacciato dalla città "cum omni parentella sua et multis clericis" (115). L'uscita allo scoperto di un'opposizione interna, capeggiata dal patriarca Dandolo, può essere spiegata in molti modi. Del primo si è già parlato: l'ostilità del Dandolo a un sostegno dato agli scismatici Bizantini contro i cattolici Normanni, fedeli alla Chiesa di Roma.
Questa posizione contraria alla politica del doge si innestava su contrasti precedenti, che avevano la loro radice in una lite per un problema di giurisdizione ecclesiastica, lite aggravata poi dalla più generale politica ecclesiastica del Polani. Ma, su un piano ancora più vasto, c'era anche l'opposizione di alcuni gruppi familiari aristocratici ai tentativi in senso dinastico messi in atto dalla famiglia Michiel-Polani (116).
Il contrasto clamoroso tra i Dandolo (e i Badoer) e il Polani va letto anche sullo sfondo del profondo mutamento che si era verificato qualche anno prima nella struttura politica veneziana. Questo mutamento è la nascita di istituzioni di tipo comunale: nel 1141 appaiono per la prima volta nelle fonti dei personaggi chiamati sapientes; due anni più tardi si parla già dell'esistenza, accanto al doge, di un consilium sapientium al quale il populus ha giurato di obbedire (117). Quale sia il senso di questo mutamento lo chiarisce, senza ombra di dubbio, il fatto che gli ambasciatori inviati da Venezia a Costantinopoli nel 1147 parlarono a nome sia del doge che "totius nostri communis" (118). La transizione dalla struttura del ducato altomedievale a quella del commune Veneciarum, in sintonia con i grandi cambiamenti vissuti da Venezia in quegli anni era, se non completata, comunque avviata a ritmo accelerato. Acquisterebbe significato, allora, l'ipotesi - sostenuta da Agostino Pertusi (119) - secondo la quale il Polani fu il primo doge ad essere investito con il vexillum di s. Marco e non più con il baculus (che era il simbolo dell'antico potere del duca), e anche il primo a dover pronunciare una promissio - che poi diverrà usuale - al momento della sua entrata in carica. Si era così consumata, all'interno di un duro scontro politico tra doge e aristocrazia, una prima frattura con la tradizione altomedievale, che aveva espresso per secoli una concezione di tipo regale del potere del duca (120).
11. Verso il "commune Veneciarum"
Il tratto più evidente dell'evoluzione delle istituzioni politiche veneziane nel corso del secolo XI appare senza dubbio la continuità. Nessun nuovo organo si aggiunge a quelli esistenti già dal secolo precedente. Per ciò che concerne la figura del doge e la natura del suo potere, può essere forse significativo analizzare la cerimonia dell'elezione, sulla base dell'unico testo dell'XI secolo in grado di fornircene un resoconto particolareggiato. Si tratta di un testo notissimo, la relazione stesa dal chierico Domenico Tino nel 1071, al momento dell'elezione di Domenico Silvo (121).
Morto il doge Domenico Contarini, una moltitudine di popolo si riunì, "armatis navibus", sulla spiaggia di S. Nicolò al Lido per eleggere il doge con la solita procedura, mentre il clero e i monaci, con alla testa i vescovi, pregavano nella vicina chiesa di S. Nicolò per il buon esito dell'elezione. Nel racconto del chierico veneziano la scelta del neo-eletto è presentata in forma drammatica, come un maximus populorum clamor che improvvisamente sgorga dalla folla e arriva fino al cielo: "Dominum Silvum volumus et laudamus". Preso e portato a spalla da molti nobiles viri, Silvo è allora fatto salire su una nave, che lo deve trasportare a S. Marco. Subito gli vengono tolti i calzari, perché scalzo dovrà entrare in chiesa per ricevervi umilmente l'investitura ducale. Non appena la nave si stacca dalla riva del Lido, si levano i canti di giubilo; fu lo stesso Tino a intonare il Te Deum. Tra il fragore dei remi delle imbarcazioni che lo accompagnano e il suono delle campane, Silvo arriva a S. Marco. Sono i sui proceres ad accompagnarlo in chiesa, dove è accolto dal clero e dai cappellani, che pure intonavano canti solenni. Scalzo, Silvo si getta ai piedi dell'altare del santo, poi finalmente prende il baculus come simbolo dell'investitura del potere ducale. Accompagnato da un immenso exercitus, il nuovo duca si reca subito a palazzo dove riceve i fidelitatis iuramenta da parte del popolo, distribuendo in cambio doni generosi. Il suo primo e immediato atto di governo fu quello di restaurare il palazzo stesso dai danni subiti per il saccheggio seguito alla scomparsa del doge precedente (122).
La ricchezza insolita di questo testo consente alcune considerazioni. La facies tutto sommato arcaica della struttura politica veneziana emerge abbastanza chiaramente. Il persistente valore dell'assemblea popolare, innanzitutto, anche se è evidente che l'improvviso clamore che designa Silvo dovette essere ben manovrato: la concio stessa nel suo insieme, come si è detto, era controllata dall'aristocrazia. Il ruolo di quest'ultima, in particolare, è evidentissimo: non appena si alzano, senza trovare opposizione alcuna, le grida che individuano in Silvo il doge prescelto, sono i nobiles ad impadronirsene fisicamente, quasi a voler dare l'immagine simbolica del legame esistente tra doge e ceto dominante; mentre separato, ma ugualmente eminente, appare il ruolo del clero, tutto teso nel suo ruolo esclusivo di mediazione tra il divino e l'umano. Ridotto il popolo a puro elemento di contorno, i nobili portano Silvo a S. Marco, fin dentro la chiesa. A questo punto interviene di nuovo il clero, e poi l'Evangelista stesso mette un suggello carismatico sull'intera cerimonia, trasmettendo a Silvo la continuità del potere attraverso il baculus. Silvo si trasferisce allora al palazzo accompagnato da un "esercito": e qui bisognerebbe chiedersi se questo termine sia davvero del tutto casuale, oppure se esso ci suggerisca che l'elemento della partecipazione alla guerra poteva diventare un fatto anche politico. Non si deve dimenticare che a Venezia non si era sviluppato un ceto di professionisti della guerra, come era avvenuto nell'entroterra padano, per i motivi (la peculiarità dell'ambiente fisico, la mancanza di legami feudali) che abbiamo già ricordato in precedenza (123). Il ruolo politico del popolo in parte si potrebbe collegare alla sua natura, almeno potenziale, di exercitus. La stessa arcaicità delle istituzioni politiche veneziane potrebbe confermare quest'ipotesi: basti pensare al saccheggio del palazzo ducale, la cui brutalità è evidenziata dal fatto che Domenico Silvo dovette far riparare sale, porte e sedili, il che significa che si erano verificati veri atti vandalici. Questo saccheggio potrebbe essere la spia di un costume più o meno stabile, a somiglianza di quello che avveniva altrove in casi analoghi (124).
Ma questa periodica riappropriazione del potere (simbolica, al di là dei vantaggi materiali del saccheggio) da parte del popolo rappresentava uno spazio concesso dall'aristocrazia, una semplice trasgressione lecita. Nonostante la presenza attiva del popolo, il predominio aristocratico appare saldo. Caso mai, il popolo poteva fornire un elemento di manovra al duca, costituire cioè un contrappeso nei confronti dei suoi rivali aristocratici. Lo scambio reciproco di fidelitas e doni che intercorre tra doge e popolo è, in questo senso, emblematico di un rapporto che si innesta sulla partecipazione del popolo stesso all'elezione; un rapporto tuttavia non paritario sul piano del diritto, come avverrà invece quando - al più tardi a partire dal 1148 - il duca stesso dovrà giurare una promissio. Ma poco dopo, nel 1172, l'elezione ducale sfuggirà all'assemblea: pur in un quadro di maggiore chiarezza del diritto, il predominio aristocratico rimase allora ben saldo (125).
Se insomma, con l'attenzione rivolta soprattutto agli aspetti simbolici del potere dogale, c'è chi parla ancora di ducare alla fine del secolo XI, il forte condizionamento aristocratico del potere del duca è comunque evidente (126). L'aristocrazia, del resto, mantenne il predominio delle alte cariche ecclesiastiche: le stesse famiglie fornivano i dogi, gli iudices e i vescovi, patriarca di Grado compreso. Si trattava ovviamente di quell'aristocrazia larga, dai contorni istituzionali fluidi, che abbiamo già descritto (127). Il punto di raccordo tra duca e aristocrazia, al di là dei tumulti dell'assemblea popolare, era ancora e sempre costituito dalla figura dei giudici.
La funzione di questi ultimi si specializza in senso giuridico. Talvolta li vediamo agire, in questo ambito, in maniera sostanzialmente autonoma rispetto al duca, che si limita ad essere presente al giudizio, oppure li invia sul posto per dirimere una controversia. Ma bisogna evitare la tentazione di vederli esclusivamente in quest'ottica tecnico-specialistica. Nel settembre 1112, in un documento emanato dal doge Ordelaffo Falier, il giudice Andrea Michiel è detto, infatti, "princeps nostri navali exercitus " (128).
Il numero dei giudici oscilla tra cinque (che è il più testimoniato) e sette; ma non sempre sono presenti tutti contemporaneamente al placito. Duravano in carica solo un limitato numero di anni: dei cinque giudici in carica nel settembre del 1089, ad esempio, undici anni dopo, nel luglio del 1100, su quattro nominati solo due appaiono ancora in carica, Giovanni Badoer e Giovanni Morosini; ma dei due nuovi, uno appartiene alla stessa famiglia (Aurio) di uno di quelli che sono stati sostituiti, e il quinto giudice, che è testimoniato cinque anni dopo, Pietro Gradenigo, sostituisce pure un suo parente, Giovanni (129). C'è da dire ancora che, nel frattempo, il doge è cambiato - da Vitale Falier a Vitale Michiel - senza, quindi, grandi scosse avvertibili nella composizione del gruppo dei giudici. Infine va notato che alcuni sottoscrittori, senza titolo, dei placiti appaiono successivamente come giudici; e che inversamente alcuni, che prima sottoscrivono come giudici, successivamente compaiono di nuovo, ma senza titolo. Più problematico è il caso di Pietro Gradenigo, che non sembra essere più giudice nel settembre 1108, ma che così si intitola ancora in una donazione al monastero di S. Benedetto del febbraio dell'anno seguente, dove ricorda, al tempo stesso, di essere figlio di un padre omonimo, anch'esso giudice (130). Si tratta di sintomi della trasformazione della carica in un titolo, che può in una certa misura aderire alla persona anche dopo l'esaurimento della carica, nel caso almeno del membro di una stirpe profondamente inserita nel ceto dei giudici come erano i Mocenigo - e lo stesso può dirsi per gli Aurio; non dobbiamo però pensare né a cariche ereditarie in senso stretto né a vita (131).
Molto di più non si può dire. I placiti conservatisi, infatti, sono relativamente pochi, in questo periodo, e ciò complica lo studio dell'evoluzione della figura degli iudices. Il fatto di non conoscere le modalità della loro elezione (spettava al doge da solo? Con i giudici uscenti? O in altri modi ancora?) lascia indubbiamente in ombra parecchio della loro natura. I giudici sono, comunque, dei funzionari ducali, e in parte si sovrappongono ai gastaldi nel governo locale: in un documento del 1096 si ricorda Badoer Aurio di Burano, iudex e gastaldo di Torcello (132). Sempre nella direzione dello sviluppo di una maggiore articolazione della struttura politica, infine, va ricordato che nel caso di un patto importante, il già ricordato trattato con Verona del 1107, accanto a doge e giudici appaiono anche vicedomini e riparii, la cui collaudatio al trattato viene esplicitamente sottolineata (133). Si trattava evidentemente dei funzionari più coinvolti nell'applicazione pratica del patto stesso.
La traccia di istituzioni vassallatiche nel ducato rimane quasi inesistente; né la concessione, da parte di Vitale Falier, del permesso di costruzione di un castrum a Loreo, presso l'Adige, a un gruppo di persone capeggiate da un pievano e da un gastaldo (ottobre 1094), è molto di più della testimonianza della tradizionale preoccupazione di proteggere il transito commerciale sulle vie d'acqua dell'entroterra: la fidelitas lì menzionata si inserisce agevolmente nel quadro dei rapporti pubblici tra doge e abitanti del ducato (134).
Che senso ha l'emergere, di fronte a questo quadro istituzionale, del comune? Non è certo possibile, in questa sede, affrontare a fondo il problema rappresentato dal comune e dalla sua struttura sociale di riferimento, "mercantile" o "aristocratica", giacché valicheremmo di troppo, stavolta in avanti, i nostri limiti cronologici (135). Ma alcune osservazioni di ordine generale vanno fatte. La prima è che il comune nasce dentro, e non fuori, la vecchia struttura: tutto dentro, per l'esattezza. È stato poi giustamente notato che a Venezia esisteva già "un solido concetto di stato" (136), che non si deve sviluppare quindi attraverso un faticoso processo di maturazione. Era questa l'eredità statuale del ducato altomedievale, che grazie alle sue origini e ai suoi legami con Bisanzio aveva preservato - proprio per la non diffusione al suo interno dei legami feudali - il carattere funzionariale di tutte le sue cariche, compresa in parte, nonostante tutti i tentativi contrari, quella ducale. Si tratta di due importanti differenze rispetto all'entroterra.
Anche se si ammette questo, non è tutto risolto. La nuova figura, quella dei sapientes, rimane inizialmente confusa, e pure in questo caso vanno frenati troppo spinti parallelismi con la situazione norditaliana. Poco chiare sono soprattutto le circostanze della loro prima apparizione: sono una magistratura di emergenza, che affianca il doge durante un momento difficile, la guerra con Padova, e che poi diviene permanente, oppure nascono fin dall'inizio come struttura stabile (137)? Nemmeno il dettato del primo documento che ce ne parla in modo un po' più diffuso - steso per sanare la grave controversia sorta in occasione della processione di santa Maria - è chiarissimo (138).
È certo comunque che i sapienti vanno ad affiancarsi ai giudici, e arricchiscono la curia ducale: ad essi, lo si è detto, il popolo appare legato da giuramento. Lasciando da parte i problemi legati all'evoluzione futura del consilium sapientium, va detto che i suoi membri escono dallo stesso ceto dei giudici. E se le cause del rivolgimento del 1141 possono, ancora una volta, essere cercate forse nella lotta politica, nel tentativo cioè di alcune stirpi aristocratiche di contrastare l'edificazione di un potere dinastico da parte della famiglia Michiel-Polani, sembra difficile riscontrare con esattezza, in vece, un reale contrasto di interessi economici tra le fazioni in lotta (139).
L'esito del mutamento costituzionale del 1141-1143 fu duplice. La nascita del comune veneziano liquidò la partecipazione del clero alla gestione degli affari politici. L'adesione di quest'ultimo alla riforma lo aveva reso meno controllabile nel tradizionale gioco di scambi di cariche politiche e religiose; di qui la sua estromissione (140). In secondo luogo, la natura del potere ducale si modificò in senso più marcatamente funzionariale (pur trattandosi sempre di un funzionario anomalo, a vita). Ma, accanto a ciò, è importante sottolineare che il nesso tra doge e aristocrazia superò indenne la crisi: il carattere aristocratico della costituzione politica veneziana rimase forte e anzi si stabilizzò in forme permanenti; pur tenendo sempre presente la riflessione importante - già più volte fatta - che con il termine aristocrazia (preferibile, per il suo carattere fluido, a quello di nobiltà) va inteso un gruppo ampio e dinamico, niente affatto chiuso, in via di arricchimento da par-te di famiglie nuove in ascesa e avente in comune con queste il coinvolgimento nel commercio per mare (141).
1. Gherardo Ortalli, Venezia dalle origini al ducato di Pietro II Orseolo, in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, I, Longobardi e Bizantini, Torino 198o, pp. 339-438; vedi anche il con-tributo del medesimo autore che compare in questo stesso volume.
2. Sulla situazione dell'Italia del nord v. Giovanni Tabacco, La storia politica e sociale, in AA.VV., Storia d'Italia, II, I, Dalla caduta dell'impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, pp. 142-194 (pp. 3-274).
3. Gerhard Rosch, Venezia e l'Impero. 962-1250. I rapporti politici, commerciali e di traffico nel periodo imperiale germanico, Roma 1985, pp. 29-39.
4. Cinzio Violante, Venezia fra Papato e Impero nel secolo XI, in AA.VV., La Venezia del Mille, Firenze 1965, pp. 45-84.
5. Georg Ostrogorsky, Storia dell'impero bizantino, Torino 1968, pp. 260-323, e Vera Von Falkenhausen, Untersuchungen ilber die byzantinische Herrschaft in Siiditalien vom 9. bis ins Il. yahrhundert, Wiesbaden 1967, pp. 51-102.
6. C. Violante, Venezia fra Papato e Impero, pp. 49-50.
7. Andrea Dandolo, Chronica, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, I, 1938-1958, p. 204, e Ernesto Sestan, La conquista veneziana della Dalmazia, in AA.VV., La Venezia del Mille, Firenze 1965, p. 104 (pp. 85-I16).
8. Cf. la citazione di Ostrogorsky a n. 5 e Dimitri Obolensky, The Byzantine Commonwealth. Eastern Europe, 500-1453, London 1971, pp. 132-133.
9. G. Ortalli, Venezia dalle origini al ducato di Pietro II, Pp. 424-426.
10. C. Violante, Venezia fra Papato e Impero, pp. 50-52.
11. Il racconto della caduta degli Orseolo è riportato per esteso in Origo civitatum Italiae seu Veneciarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di Roberto Cessi, Roma 1933 (Fonti per la Storia d'Italia, 73), pp. 139-141; sul problema Gradenigo v. invece A. Dandolo, Chronica, p. 206.
12. C. Violante, Venezia fra Papato e Impero, p. 52.
13. Ibid., p. 53.
14. Ibid., pp. 53-56 e G. Rosch, Venezia e l'Impero, p. 37.
15. Pietro Orseolo, figlio del doge Ottone e di Ma-ria, figlia di Stefano I, divenne re d'Ungheria nel 1038 alla morte dello zio.
16. Origo civitatum, p. 140; A. Dandolo, Chronica, p. 207.
17. Ibid., p. 208. La cronologia delle successioni ducali è in gran parte ricavata da Heinrich Kretschmayr, Geschichte von Venedig, I, Gotha 1905; con l'avvertenza però che essa appare fon-data su basi non saldissime, e che quindi richiederebbe un puntuale lavoro di verifica e revisione, impossibile peraltro da svolgere in questa se-de.
18. Cf. per es. A.S.V., Codice Diplomatico Veneziano, a cura di Luigi Lanfranchi, I I, 131-133 (1055). Trattandosi di materiale preparatorio, e non ancora di un'edizione critica, l'uso del Codice del Lanfranchi comporta senza dubbio qualche rischio; ma, d'altra parte, esso offre un mezzo eccellente per un rapido sguardo d'insieme - bisognoso, certo, di ulteriori approfondimenti - del-la produzione documentaria veneziana del periodo 1000-1199, e come tale sarà utilizzato in questo saggio.
19. Gina Fasoli, Comune Veneciarum, in AA.VV., Venezia dalla prima crociata alla conquista di Costantino-poli, Firenze 1965, p. 81 (pp. 71-102), con bibliografia ulteriore.
20. A.S.V., Codice Diplomatico Veneziano, I, 26, 29, 30, 31 (1o16-Io 18), ecc. Sul potere ducale in questo periodo: G. Fasoli, Comune, pp. 79-90; Giovanni Cassandro, Concetto caratteri e struttura dello stato veneziano, "Rivista di storia del diritto italiano", 36, 1963, pp. 27-28 (pp. 23-49) ; Gerhard Rosch, Der venezianische Adel bis zur Schlief ung des Grof en Rats. Zur Genese einer Fiihrungsschicht, Sigmaringen 1989, pp. 47-52. Per una verifica delle posizioni tradizionali sul problema delle istituzioni politiche veneziane si veda Giuseppe Maranini, La costituzione di Venezia dalle origini alla Serrata del Maggior Consiglio, I-II, Milano 1927. Per l'età più antica, Carlo Guido Mor, Aspetti della vita costituzionale veneziana fino alla fine del X secolo, in AA.VV., Le origini di Venezia, Firenze 1964, pp. 121-140.
21. Roberto Cessi, Venezia ducale, I, Duca e popolo, Venezia 1963, p. 257. Prima testimonianza documentaria: Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al mille, a cura di Roberto Cessi, II, Padova 1942, 25, del febbraio del 900, dove gli iudices sono menzionati con riferimento all'età del duca Orso Particiaco (864-881).
22. G. Ortalli, Venezia dalle origini al ducato di Pietro II pp. 402-404. G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 58-61, mette giustamente in luce come, dal punto di vista sociale, vi sia continuità tra le famiglie della più antica aristocrazia tribunizia e le famiglie di giudici, mentre vi sia invece una frattura tra il ruolo istituzionale dei tribuni (continuato piuttosto dai gastaldi) e quello dei giudici. Meno convincente invece è il rapporto istituito da Rösch tra gli stessi iudices e i due tribuni che, a suo avviso, erano posti regolarmente accanto al duca sin dal IX secolo (p. 39). Infatti i passi di Giovanni diacono citati (Cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890 [Fonti per la storia d'Italia, 9>, pp. 98 e 106), non sembrano parlare a favore dell'esistenza di un'istituzione stabile, creata allo scopo di controllare i poteri ducali (cf. anche G. Ortalli, Venezia dalle origini al ducato di Pietro Il, pp. 371-372).
23. G. Ortalli, Venezia dalle origini al ducato di Pietro II, pp. 371-372, e G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 54-55. Sul ruolo direttivo dei gastaldi all'interno delle comunità locali si veda ad esempio, all'inizio del periodo qui considerato, A.S.V., Codice Diplomatico Veneziano, I, 5 (999/1002) e 7 (1005), per i gastaldi di Cavarzere e di Pieve di Sacco.
24. Documenti relativi alla storia di Venezia, II, 25 (900), 31 (919), 41 (960), 49 (971), 57 (978); e A.S.V., Codice Diplomatico Veneziano, I, 7 (1005), dove peraltro giudici e magni viri sono presentati gli uni accanto agli altri, come due gruppi funzionalmente distinti (i primi pronunciano una sentenza a favore degli abitanti di Sacco davanti a Pietro II e Ottone Orseolo) ma - almeno sembra - socialmente identici. Non appare del tutto convincente (in quanto un po' troppo rigida e definitoria) l'interpretazione di G. Rösch, Der venezianische Adel, p. 38, a favore di un preciso valore tecnico-istituzionale del termine primas. Sui giudici in Terraferma: Charles M. Radding, The Origins of Medieval Jurisprudence. Pavia and Bologna, 850-1150, Yale University Press, New Haven - London 1988, pp. 44-54.
25. A.S.V., Codice Diplomatico Veneziano, I, 39 (1023), 85 (1038), II, 153 (1064), 3 giudici; III, 294 (1089), 5 giudici; da questo momento il numero cinque diventa frequente, ma appaiono anche solo quattro o addirittura sei giudici contemporaneamente: IV, 480 (1112). Sull'utilizzazione come titolo: IV, 452 (1109), 503 (1115).
26. G. Rösch, Der venezianische Adel, p. 58, sostiene invece che le competenze dei giudici dapprima erano "auf die Rechtsprechung beschränkt".
27. G. Fasoli, Comune, p. 81; ma G. Rösch, Der venezianische Adel, p. 61, sottolinea giustamente che ignoriamo le circostanze della nomina o elezione degli iudices.
28. A. Dandolo, Chronica, pp. 201-202.
29. Il testo del placito, purtroppo frammentario, è edito dal Monticolo in appendice alle sue Cronache veneziane antichissime, pp. 178-179: i testi sono Badoer Bragadin, Maurizio Morosini e, appunto, Domenico Fiorenzo Flabiano; il duca fa la sua inchiesta "in publico placito cum maiores, iudices nostrae terrae, mediocres et minores".
30. G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 55-57.
31. Origo, pp. 139-141; A. Dandolo, Chronica, p. 207, sottolinea, come si è detto, che al momento della presa del potere da parte di Pietro Barbolano detto Centranico "scisma in populo crebro exoritur": quasi un'anticipazione del futuro allontanamento del nuovo duca dal trono. E subito dopo (p. 208), a proposito del fallimento di Domenico Orseolo, ricorda che il pretendente aveva dalla sua solo modica pars populi.
32. G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 69-73.
33. Ciò era emerso probabilmente già nell'età di Pietro II: G. Ortalli, Venezia dalle origini al ducato di Pietro II, pp. 418-420.
34. Anche questo documento è edito in appendice alle Cronache veneziane antichissime, pp. 175-176. Al fabbro viene riconosciuto il diritto di "in nostras mansiones laborare [...> ferrum" e non "in curte", come voleva invece il gastaldo, e la possibilità di lavorare il ferro "secundum quod ceteri fabri laborant".
35. G. Fasoli, Comune, p. 87.
36. G. Rösch, Der venezianische Adel, p. 62. Testimonianze di tributi per esempio in A.S.V., Codice Diplomatico Veneziano, I, 7 (1005, accenno a dazi sul commercio e tributi pagati in lino), II (994/1008, decime), 29 (1018, in seta), 30 (1018, in pelli di volpe), 31 (1018, in pelli di martora), 39 (1023, protesta dei Chioggiotti contro i tributi), 41 (1024, servitù di caccia).
37. A. Dandolo, Chronica, p. 209: "ut dux creandus consortem vel sucesorem non faciat, nec fieri permittat eo vivente".
38. Ibid.
39. C. Violante, Venezia fra Papato e Impero, pp. 57-59. Sulla situazione del papato nell'età del predominio delle grandi famiglie romane, Pierre Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe à la fin du XIIe siècle, II, Rome 1973, pp. 1015-1038.
40. C. Violante, Venezia fra Papato e Impero, pp. 59-60, considera all'interno di questo schieramento anti-imperiale Guaimario di Salerno e Bonifacio di Tuscia e di Canossa.
41. M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, V/1, Diplomata Heinrici III, a cura di Harry Bresslau - Paul F. Kehr, 1931, 201 b, pp. 258-261, interpolazione di un documento di Enrico II, per la concessione al vescovo di Treviso; C. Violante, Venezia fra Papato e Impero, pp. 60-62.
42. C. Violante, Venezia fra Papato e Impero, pp. 62-67.
43. G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 37-38.
44. C. Violante, Venezia fra Papato e Impero, pp. 65-66; Stefano Gasparri, Il ducato e il principato di Benevento, in AA.VV., Storia del Mezzogiorno, 11/ 1, Napoli 1989, pp. 85-146.
45. A. Dandolo, Chronica, pp. 215. Siamo comunque già negli anni di governo di Domenico Silvo.
46. Das Register Gregors VII, a cura di Erich Caspar, I, Berlin 1955, libro II, 39 (31.12.1074), pp. 175-176.
47. A.S.V., Codice Diplomatico Veneziano, II, 194; e cf. pure IV, 458 (1109/1115), una lettera di Pasquale II ai Veneziani, scritta per ribadire l'intollerabile situazione di inopia della chiesa gradense, nella quale si minaccia addirittura di trasferirla "alioquin [...> a vestra provincia".
48. Italia Pontificia, VII/2, 31, p. 19 (regesto).
49. Vittorio Lazzarini, I titoli dei dogi di Venezia, in Id., Scritti di Paleografia e Diplomatica, Venezia 1938, pp. 192-193 (pp. 183-219).
50. Jadran Ferluga, L'administration byzantine en Dalmatie, in ID., Byzantium on the Balkans. Studies on the Byzantine Administration and the Southern Slavs from the VIIth to the XIIth Centuries, Amsterdam 1976, p. 147 (pp. 141-149).
51. Jadran Ferluga, Bisanzio e Zara, ibid., pp. 188-190 (pp. 173-192), e Ernesto Sestan, La conquista veneziana della Dalmazia, in AA.VV., La Venezia del Mille, Firenze 1965, p. 105 (pp. 85-1 16); V. Lazzarini, I titoli dei dogi, pp. 189-191.
52. E. Sestan, La conquista veneziana, pp. 105-106. Cresimir era figlio di Stefano I re di Croazia e di Icela, figlia di Pietro II Orseolo: Giuseppe Praga, recensione a Ferdo Sisic, Povijest Hrvata u vrieme nardonih vladara (Storia dei Croati al tempo delle dinastie nazionali, Zagabria 1925, "Atti e Memorie della Società dalmata di Storia patria", 2, 1927, pp. 227-232 (pp. 213-236).
53. A. Dandolo, Chronica, p. 211; cf. E. Sestan, La conquista veneziana, pp. 106-107.
54. Lujo Margetic, Venezia, Bisanzio e l'occupazione di Zara nel 1062, "Studi Veneziani", n. ser., 4, 1980, pp. 279-290, propende per una spedizione compiuta in appoggio di Bisanzio.
55. J. Ferluga, L'administration byzantine en Dalmatie,
pp. 141-147, e Id., Bisanzio e Zara, pp. 173-192.
56. Cf. qui sopra, il luogo corrispondente alla n. 49.
57. L. Margetiã, Venezia, Bisanzio e l'occupazione di
Zara, pp. 279-290.
58. D. Obolensky, The Byzantine Commonwealth, pp. 213-214 e 219-220.
59. V. Von Falkenhausen, Untersuchungen iiber die byzantinische Herrschaft, p. 95.
60. E. Sestan, La conquista veneziana, p. 107.
61. C. Violante, Venezia fra Papato e Impero, pp. 70-72.
62. A.S.V., Codice Diplomatico veneziano, II, 203. Su tutta questa fase della politica veneziana, cf. pure Giorgio Cracco, Venezia nel medioevo: un "altro mondo", in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, VII/I, Comuni e signorie nell'Italia nordorientale e centrale. Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Torino 1987, pp. 30-33 (pp. 1-157).
63. E. Sestan, La conquista veneziana, p. 108.
64. G. Cracco, Venezia nel medioevo, p. 34. Agostino Pertusi, Venezia e Bisanzio nel secolo XI, in AA.VV., La Venezia del Mille, Firenze 1965, pp. 135-140 (pp. 117-165).
65. Gottlieb L.F. Tafel-Georg M. Thomas, Urkunden ziir tilteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig mit besonderer Beziehung auf Bysanz und die Levante. Vom neunten bis zum Ausgang des fiinfzehnten Jahrhunderts, I (814-1205), in Fontes Rerum Austriacarum, XII, Wien 1856, 23, pp. 51-54; A. Pertusi, Venezia e Bisanzio, pp. 128-130.
66. Sulla scorta delle fonti, sia di parte normanna (Lupo Protospatario, Guglielmo di Puglia, ecc.) che veneziane (A. Dandolo, Chronica, p. 218), A. Pertusi, Venezia e Bisanzio, p. 139, attribuisce a Vitale Falier una grave sconfitta navale nel novembre 1084 a Corfù, che invece G. Cracco, Venezia nel medioevo, p. 34 (che si rifà peraltro proprio a Pertusi) riferisce a Domenico Silvo, vedendo in ciò la causa del suo allontanamento dal potere ad opera precisamente di Vitale Falier. Sembra invece più probabile che la successione violenta di quest'ultimo a Domenico Silvo vada fatta risalire al 1082-83, in conseguenza della resa di Durazzo - forse dietro tradimento di un nobile veneziano - e della strage che ne seguì (cf. A. Dandolo, Chronica, p. 216).
67. Giuseppe PragA, Storia di Dalmazia, Padova 1954, p. 73, e E. Sestan, La conquista veneziana, p. 110.
68. C. Violante, Venezia fra Papato e Impero, p. 75, E D. Obolensky, The Byzantine Commonwealth, p. 220.
69. C. Violante, Venezia fra Papato e Impero, p. 77, e G. Cracco, Venezia nel medioevo, pp. 32-37.
70. G. Rösch, Venezia e l'Impero, p. 38.
71. Ibid., pp. 29-38. Il testo del diploma è in M.G.H., Legum sectio IV, Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, I, a cura di Ludwig Weiland, 1893, nr. 72, pp. 121-124.
72. Ibid., p. 121.
73. Ibid., p. 123: "et licentiam habeant homines ipsius ducis ambulandi per terram sive per fiumina tocius regni nostri, similiter et nostri per mare usque ad vos et non amplius".
74. G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 38-47.
75. A. Pertusi, Venezia e Bisanzio, pp. 124-128, con edizione del testo del 992 in appendice, pp. 155-160.
76. Ibid., p. 129.
77. G.L.F. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, 23, p. 52 per Durazzo, e A. Pertusi, Venezia e Bisanzio, p. 129.
78. Annales Venetici Breves, in M.G.H., Scriptores, XIV, 1883, p. 70. II corpo fu ritrovato "de una columpna eiusdem ecclesie".
79. Cf. la nota precedente e le carte edite da Raimondo Morozzo Della Rocca e Antonino Lombardo in Documenti del commercio veneziano dei secoli XI XIII, Roma-Torino 1940.
80. Steven Runciman, L'intervento di Venezia dalla prima alla terza crociata, in AA.VV., Venezia dalla prima crociata alla conquista di Costantinopoli del 1204, Firenze 1965, p. 9 (pp. 1-22).
81. Donald E. Queller- Irene B. Katele, Venice and the Conquest of the Latin Kingdom of Jerusalem, "Studi Veneziani", n. ser., 12, 1986, pp. 17-18 (pp. 15-43).
82. Annales Venetici Breves, p. 70.
83. A. Dandolo, Chronica, p. 221; per la datazione dell'episodio, cf. pure Monachus Anonymus Littorensis, Historia de translatione Magni Nicolai, in Recueil des Historiens des Croisades. Historiens Occidentaux, V, 1895, p. 255, e Roberto CesSI, Storia della Repubblica di Venezia, I, Milano-Messina 1944-46, pp. 134-137, per tutta la partecipazione veneziana alla crociata. G.L.F. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, 26, pp. 63-64, per il giuramento degli Spalatini di collaborare alla spedizione in Terrasanta.
84. D. E. Queller - I. B. Katele, Venice and the Conquest, pp. 16-21, sulla falsariga del racconto del monaco del Lido, secondo il quale l'ostilità tra i Pisani ("imperialia signa usurpantibus") e i Bizantini era giunta a tal punto, che i rappresentanti locali dell'imperatore avrebbero chiesto addirittura la consegna dei prigionieri, che erano circa quattromila, per giustiziarli (Monachus Anonymus Littorensis, Historia, pp. 257-258). G. Cracco, Venezia nel medioevo, pp. 36-37, ritiene invece che i Pisani fossero inviati dai Bizantini.
85. Monachus Anonymus Littorensis, Historia, pp. 258-259.
86. D. E. Queller - I. B. Katele, Venice and the Conquest, pp. 23-26.
87. Ibid., p. 22; R. Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, I, p. 137, dove si mette in luce il valore del ritrovamento. Cf. pure Agostino Pertusi, Ai confini tra religione e politica. La contesa per le reliquie di s. Nicola tra Bari, Venezia e Genova, "Quaderni Medievali", 5, 1978, pp. 6-56.
88. D. E. Queller - I. B. Katele, Venice and the Conquest, p. 26: "an investment in future possibilities".
89. Ibid., p. 27; A. Dandolo, Chronica, p. 224-226, e G.L.F. Tafel - G. M. Thomas, Urkunden, I, 29, pp. 65-66. Nella circostanza Colomano riconoscea Vitale Michiel il titolo di duca di Venezia, Dalmazia e Croazia, ma soltanto pro serranda ami citia. Il re supera così, momentaneamente, i dubbi dei suoi principes et seniores, riservando al tempo stesso sia a lui che al doge la possibilità di rivedere la questione in futuro mediante una certa comprobatione.
90. Cf. per esempio A.S.V., Codice Diplomatico Veneziano, III, 298 (1090), 362 (1098), IV, 438 (1107), 441 (1107), 447 (1108), ecc. In IV, 442 (1107), Maria Falier è badessa di S. Zaccaria, a riprova dell'avvenuto consolidamento, a tutti i livelli (si ricordino gli Orseolo), della sua famiglia. V. anche la tabella degli iudices di età precomunale in G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 59-60.
91. Augusto Vasina, L'area emiliana e romagnola, in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, VIII I, Comuni e signorie nell'Italia nordorientale e centrale. Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Torino 1987, p. 380 (pp. 359-559), e Andrea Castagnetti, La marca veronese-trevigiana (s. XI-XIV), ibid., pp. 199-200 (pp. 159-357).
92. A.S.V., Codice Diplomatico Veneziano, IV, 438 (maggio 1107); cf. pure i lavori citati alla nota precedente.
93. G. Cracco, Venezia nel medioevo, pp. 39-41; Annales Venetici Breves, pp. 70-71. In A.S.V., Codice Diplomatico Veneziano, IV, 463, c'è la concessione del doge Ordelaffo Falier al vescovo di Malamocco (e al gastaldo di Chioggia) dell'autorizzazione a trasferire in Chioggia Maggiore la sede episcopale "pluribus periculis diruta, marisque profligationibus et incendii devastationibus miserabiliter submersa".
94. D. E. Queller - I. B. Katele, Venice and the Conquest, p. 28 Joshua Prawer, Colonialismo medievale. Il regno latino di Gerusalemme, Roma 1982 (prima edizione inglese 1972), pp. 56-58.
95. S. Runciman, L'intervento di Venezia, pp. 13-14.
96. D. E. Queller - I. B. KatelE, Venice and the Conquest, pp. 28-29. L'Historia Ducum Veneticorum, a cura di Henry Simonsfeld, in M.G.H., Scriptores, XIV, 1883, p. 73, afferma esplicitamente che il Falier fu fatto duca "licet iuvenis".
97. Joshua Prawer, I Veneziani e le colonie veneziane nel regno latino di Gerusalemme, in AA.VV., Venezia e il Levante fino al secolo XV, 1/2, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1973, pp. 632-633 (pp. 625-656). L'interpretazione dei mutamenti intervenuti in Dalmazia in conseguenza dell'azione del Falier è quella di Roberto Cessi, Politica, economia, religione, in AA.VV., Storia di Venezia, II, Dalle origini del ducato alla IV crociata, Venezia 1958, p. 359 (pp. 67-476)
98. D. E. Queller - I. B. Katele, Venice and the Conquest, p. 29.
99. Famiglia Zusto, a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1955 (Fonti per la storia di Venezia, sez. III, Archivi privati), pp. 26-27.
100. L'allusione è alla cattura dei Veneziani e al sequestro dei loro beni (navi comprese) su tutto il territorio imperiale, ordinato il 12 marzo del 1171 da Manuele Comneno: G. Cracco, Venezia nel medioevo, pp. 49-51.
101. Willermus Tyrensis Archiepiscopus, Historia rerum in partibus transmarinis gestarum, in Recueil des Historiens des Croisades. Historiens Occidentaux, I, 1844, pp. 549-550.
102. D. E. Queller - I. B. Katele, Venice and the Conquest, pp. 30-34. S. Runciman, L'intervento di Venezia, p. 15, afferma invece che la decisione fu presa dal doge.
103. Ibid., pp. 15-16; D. E. Queller- I. B. Katele, Venice and the Conquest, p. 35; il testo del patto in G.L.F. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, 40, pp. 84-89.
104. J. Prawer, Veneziani e colonie veneziane, pp. 633-638.
105. D. E. Queller - I. B. Katele, Venice and the Conquest, pp. 36-38, che cita l'Historia Ducum Veneticorum, p. 74.
106. D. E. Queller - I. B. Katele, Venice and the Conquest, pp. 38-39; Annales Venetici Breves, p. 71; Historia Ducum Veneticorum, p. 74.
107. Historia Ducum Veneticorum, p. 73.
108. G. Cracco, Venezia nel medioevo, p. 47.
109. A. Dandolo, Chronica, pp. 237-238.
110. G. Cracco, Venezia nel medioevo, p. 47; G. Rösch, Venezia e l'Impero, p. 39.
111. Historia Ducum Veneticorum, pp. 74-75 ; Girolamo Arnaldi - Lidia Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana dalle origini alla fine del secolo XIII, in AA. VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 409-41 I (pp. 387-423), e Giorgio Cracco, Società e stato nel medioevo veneziano, Firenze 1967, pp. 99-100.
112. A. Dandolo, Chronica, pp. 239-240: i Padovani avevano fatto delle incisiones sul corso del Brenta, deviandolo verso Venezia. La successiva breve guerra si concluse con la completa vittoria veneziana.
113. Ibid., p. 243; Historia Ducum Veneticorum, p. 75.
114. A. Dandolo, Chronica, p. 239; Walter Lenel, Die Entstehung der Vorherrschaft Venedigs an der Adria. Mit Beiträgen zur Verfassungsgeschichte, Straß-burg 1897, pp. 27-29.
115. Annales Venetici Breves, p. 71; A. Dandolo, Chronica, pp. 242-243, il quale aggiunge che insieme ai Dandolo fu esiliata la Baduariorum progenies.
116. Margarete Merores, Der venezianische Adel. Ein Beitrag zur Sozialgeschichte, "Vierteljahrschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte", 19, 1926, p. 219 (pp. 193-237)
117. G. Fas0li, Comune Veneciarum, pp. 93-94, e G. Rösch, Der venezianische Adel, p. 81.
118. G.L.F. Tafel-G.M. Thomas, Urkunden, I, 49, pp. 107-109: Domenico Morosini e Andrea Geno, "legati domini nostri Petri Polani, gloriosi ducis, totiusque nostri communis" (p. 107).
119. Agostino Pertusi, Quaedam regalia insignia. Ricerche sulle insegne di potere ducale a Venezia durante il medioevo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 115-116 (pp. 3-123).
120. Ibid., pp. 23-24.
121. Ibid., pp. 68-70, e G. Fasoli, Comune Veneciarum, pp. 87-90.
122. A. Pertusi, Quaedam regalia insignia, pp. 67-68, per il testo di Domenico Tino.
123. G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 69-80.
124. Il saccheggio del palazzo ducale, se si trattava veramente di un evento che avveniva regolar mente o quasi, accomunerebbe infatti il doge al papa, ai vescovi, ad alcuni sovrani: cf. Reinhard Elze, Sic transit gloria mundi. Zum Tode des Papstes im Mittelalter (1978), in Id., Pàpste-Kaiser-Kdnige und die mittelalterliche Herrschaftssymbolik, Vario-rum Reprints, London 1982, pp. 118 (IV); né - vista la scarsità di fonti relative al di fuori dell'ambiente papale di un uso, che pure doveva essere diffuso - l'unicità della testimonianza del 1071 può essere fatta valere come prova dell'unicità dell'evento in sé (che spesso a Venezia poté rimanere celato, nelle fonti, anche a causa dell'effettiva violenza delle circostanze nelle quali, spesso, avveniva il trapasso del potere da un doge all'altro).
125. A. Pertusi, Quaedam regalia insignia, pp. 24-25 e 117-118. Sui fatti del 1172 (l'assassinio del doge Vitale II Michiel e la riforma elettoriale), G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 105-107.
126. Ibid., pp. 81-88.
127. Cf. qui sopra, il luogo corrispondente alle note 29-33.
128. A.S.V., Codice Diplomatico Veneziano, II, 221 (1079). Il documento del 1112 - dove, a conferma di una persistente non specializzazione di ruoli, si ricorda anche l'ambasceria a Costantinopoli effettuata dal patriarca Giovanni Gradenigo - è sempre in A.S.V., Codice Diplomatico Veneziano, 1V, 480.
129. Cf. sopra, n. 25, e A.S.V., Codice Diplomatico Veneziano, III, 294, 1V, 375, 405 e 480. Un elenco dei giudici in età precomunale è in G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 59-60.
130. A.S.V., Codice Diplomatico Veneziano, IV, 447 e 452.
131. G. Rösch, Der venezianische Adel, p. 61.
132. A.S.V., Codice Diplomatico Veneziano, III, 351.
133. Ibid., IV, 438.
134. Ibid., III, 332. Il castello sorgerà presso un punto di intenso transito di navi, e nelle vicinanze di un bosco di cui viene concesso lo sfruttamento. La comunità, che avrà il diritto di scegliersi autonomamente i suoi capi, il gastaldo e il pievano, pagherà un censo, ma in cambio i suoi membri non andranno all'esercito e saranno esenti da altri tributi. In cambio la comunità assicurerà la viabilità minacciata dai latrones.
135. G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 81-111.
136. G. Arnaldi - L. Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana, pp. 410-411.
137. G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 81-83; A. Pertusi, Quaedam regalia insignia, pp. 119-120, e G. Cassandro, Concetto caratteri e struttura dello stato veneziano, pp. 30-31; R. Cessi, Politica, economia, religione, p. 374.
138. Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, I, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1950, Acta, 1, pp. 235-236: si tratta della risoluzione di una grave contesa, sorta a causa del tentativo di cambiare il tragitto della processione che si teneva in occasione della festa della purificazione di Maria.
139. G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 81-88.
140. G. CRACCO, Venezia nel medioevo, pp. 19-22 e 43, sui rapporti tra doge ed ecclesiastici e sul conflitto al momento della nascita del comune.
141. G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 89-90.