Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra XIII e XIV secolo i regimi comunali non appaiono più in grado di offrire una stabile cornice istituzionale ai conflitti generati dall’allargamento della loro base sociale. Vari sono gli esiti di tale crisi: esclusioni delle famiglie magnatizie dagli uffici politici, affermazioni di regimi signorili, chiusure in senso oligarchico. Si delinea in tal modo un’Italia a un tempo sia comunale sia signorile, caratterizzata dalla selezione dei gruppi dirigenti verso assetti di potere più concentrati.
Dino Compagni
I, 11 – Ritornati i cittadini in Firenze, si resse il popolo alquanti anni in grande e potente stato; ma i nobili e grandi cittadini insuperbiti faceano molte ingiurie a’ popolani, con batterli e con altre villanie. Onde molti buoni cittadini popolani e mercatanti, tra’ quali fu un grande e potente cittadino (savio, valente e buono uomo, chiamato Giano della Bella, assai animoso e di buona stirpe, a cui dispiaceano queste ingiurie) se ne fe’ capo e guida, e con l’aiuto del popolo (essendo nuovamente eletto de’ Signori che entrarono a dì XV di febbraio 1292 [1293]), e co’ suoi compagni, afforzorono il popolo. E al loro uficio de’ Priori aggiunsono uno con la medesima balìa che gli altri, il quale chiamorono Gonfaloniere di Giustizia (Baldo Ruffoli per Sesto di Porta Duomo), a cui fusse dato uno gonfalone dell’arme del popolo, che è la croce rossa nel campo bianco, e mille fanti tutti armati con la detta insegna o arme, che avessono a esser presti a ogni richiesta del detto Gonfaloniere, in piaza o dove bisognasse. E fecesi leggi, che si chiamorono Ordini della Giustizia, contro a’ potenti che facessono oltraggio a’ popolani: e che l’uno consorto fusse tenuto per l’altro; e che i malifìci si potessono provare per due testimoni di pubblica voce e fama: e diliberorono che qualunque famiglia avesse avuti cavalieri tra loro, tutti s’intendessono esser Grandi, e che non potessono esser de’ Signori, né Gonfaloniere di Giustizia, né de’ loro collegi; e furono, in tutto, le dette famiglie [...]: e ordinorono che i Signori vecchi, con certi arroti, avessono a eleggere i nuovi. E a queste cose legarono le XXIIII Arti, dando a’ loro consoli alcuna balìa.
I, 12 – I maladetti giudici cominciorono a interpretare quelle leggi: le quali aveano dettate messer Donato di messer Alberto Ristori, messer Ubertino dello Stroza e messer Baldo Aguglioni. E diceano che, dove il maleficio si dovea punire con effetto, lo distendevano in danno dello adversario; e impaurivano i rettori: e se l’offeso era ghibellino, e il giudice era ghibellino; e per lo simile faceano i Guelfi: gli uomini delle famiglie non accusavano i loro consorti per non cadere nelle pene. Pochi malifìci si nascondevano, che dagli adversari non fussono ritrovati; molti ne furono puniti secondo la legge. E i primi che vi caddono furono i Galligai; che alcuno di loro fe’ uno malificio in Francia in due figliuoli d’uno nominato mercatante, che avea nome Ugolino Benivieni, ché venneno a parole insieme, per le quali l’uno de’ detti fratelli fu fedito da quello de’ Galligai, che ne morì. E io Dino Compagni, ritrovandomi Gonfaloniere di Giustizia nel 1293, andai alle loro case e de’ loro consorti, e quelle feci disfare secondo le leggi. Questo principio seguitò agli altri gonfalonieri uno male uso; perché, se disfaceano secondo le leggi, il popolo dicea che erano vili se non disfaceano bene affatto. E molti sformavano la giustizia per tema del popolo. E intervenne che uno figliuolo di messer Bondalmonte, avea commesso uno malificio di morte, gli furono disfatte le case; per modo che dipoi ne fu ristorato. Molto montò il rigoglio de’ rei uomini, però che i grandi, cadendo nelle pene, erano puniti; però che i rettori temeano le leggi, le quali voleano che con effetto punissono. Questo effetto si distendea tanto, che dubitavano se l’uomo accusato non fusse punito, che il rettore non avesse difensione né scusa: il perché niuno accusato rimanea impunito. Onde i grandi fortemente si doleano delle leggi, e alli essecutori d’esse diceano: “Uno caval corre, e dà della coda nel viso a uno popolano; o in una calca uno darà di petto sanza malizia a uno altro; o più fanciulli di piccola età verranno a quistione; gli uomini gli accuseranno: debbano però costoro per sì piccola cosa esser disfatti?” […].
D. Compagni, Cronica delle cose occorrenti né tempi suoi, introduzione e note di G. Luzzatto, Torino, Einaudi, 1968
L’evoluzione dei regimi politici urbani in Italia dalla seconda metà del XIII secolo è caratterizzata dalla crisi delle istituzioni comunali. Essa è determinata dalla difficoltà che i fragili assetti istituzionali comunali crescentemente incontrano nel disciplinare i conflitti emersi all’interno dei gruppi dirigenti. L’affermazione dei regimi di “popolo” non pacifica il gioco politico, segnando anzi un inasprimento dello scontro politico con l’emanazione, in alcune città, delle norme contro i “magnati”. Alcuni conflitti hanno una connotazione sociale, come quelli che oppongono appunto le forze di “popolo” alla vecchia aristocrazia militare urbana e alle famiglie recentemente magnatizzate, cioè escluse dalle cariche politiche maggiori. Altri germinano dalle divisioni interne alla nobiltà urbana e alle rispettive clientele di amici, parenti e vicini. Scontri di fazione si intrecciano alle divisioni in parti guelfe e ghibelline, che coinvolgono anche i comuni vicini. In molte città la lotta tra le fazioni suggerisce il conferimento straordinario di poteri a un signore ritenuto capace di sedare i conflitti. Questi vertono sull’accesso al governo e ai consigli del Comune, cioè al controllo delle risorse finanziarie e dei beni del Comune.
La crisi determina la ricerca di nuovi assetti di potere capaci di rendere più stabili le istituzioni e di pacificare il gioco politico. Tra gli ultimi decenni del Duecento e i primi del Trecento un po’ ovunque si attua un processo di selezione e di ricambio del gruppo dirigente urbano, che va nel senso di un restringimento in senso oligarchico dello spazio politico, con l’esclusione di alcune componenti e l’ammissione negoziata di altre. Esso porta al consolidamento di gruppi sociali tendenzialmente egemonici, quasi ovunque costituiti da cerchie ristrette di grandi famiglie di tradizione nobiliare o di recente fortuna mercantile. Questa trasformazione assume una varietà di configurazioni istituzionali: in molte città l’affermazione di poteri signorili determina l’occupazione degli uffici da parte delle loro fazioni clientelari, in altre le disposizioni antimagnatizie escludono dal governo numerose famiglie, in altre ancora gli uffici politici sono riservati a un gruppo sempre più ristretto di individui. Esito generale è il venir meno della partecipazione allargata a gruppi sociali diversi che ha caratterizzato per qualche tempo la vita politica di alcuni Comuni sotto la guida dei regimi di “popolo”. La nuova stabilità politica si sedimenta infatti intorno ad assetti del potere più gerarchizzati.
La varietà di configurazioni che possono assumere i regimi cittadini è bene esemplificata dal caso di Firenze, dove tra XIII e XIV secolo si alternano governi di “popolo”, esclusioni magnatizie, esperienze signorili e chiusure in senso oligarchico, a dimostrazione di come, per i gruppi in affermazione, le diverse forme istituzionali costituiscano delle risorse alternative del gioco politico, cui ricorrere a seconda delle opportunità e delle momentanee prevalenze. Tra il 1267 e il 1343 per ben 26 anni la città si dà infatti in signoria ai sovrani Angioini, che vi inviano propri vicari e ufficiali per periodi concordati. Un governo popolare delle arti è istituito nel 1282, e una severa legislazione antimagnatizia (che esclude 147 famiglie dagli uffici) è emanata tra 1293 e 1295. Le lotte di fazione, originate intorno alla faida tra le famiglie dei Cerchi e dei Donati, portano nel 1302 al bando dalla città – che colpisce anche Dante Alighieri – della parte filoghibellina. L’esito è la selezione di un gruppo dirigente guelfo e angioino, a guida mercantile, che tra 1328 e 1332 consolida a proprio favore i meccanismi elettorali di accesso ai consigli e agli uffici di governo.
L’alternanza tra regimi è esperienza ricorrente e riguarda anche altre città. A Modena, per esempio, governi di “popolo” si alternano tra 1249 e 1307 a predomini di tipo signorile: nel 1306 sono 80 gli individui dichiarati “magnati”. A Parma, al regime di “popolo” che emana una dura legislazione antimagnatizia nel 1279 fanno seguito la signoria di Ghiberto da Correggio (XIV sec.) dal 1303, un rinnovato governo popolare dal 1316 e l’elezione dei Rossi a signori nel 1328. A Bologna, la selezione del gruppo dirigente è perseguita attraverso una serie di misure antimagnatizie e di esclusione politica. Con il sostegno del “popolo”, nel 1274 la fazione guelfa dei Geremei si impone su quella ghibellina dei Lambertazzi con migliaia di provvedimenti di bando ed esilio. È poi il “popolo”, guidato dalla potente corporazione dei notai, a esautorare i capi della parte geremea, colpendoli tra 1282 e 1284 con appositi ordinamenti antimagnatizi (che escludono 92 individui appartenenti a 40 famiglie). Nel 1292 si procede a una complessiva revisione delle misure di proscrizione, rinnovando gli ordinamenti e aggiornando le liste dei banditi: moltissimi sono gli individui che negoziano poi la loro riammissione in un più ristretto gruppo dirigente.
L’affermazione di poteri signorili è più precoce nelle città padane rispetto a quelle dell’Italia centrale. Ciò è dovuto alla capacità di alcuni grandi signori, dotati di beni fondiari e investiture imperiali, di costituire dominazioni su costellazioni di città e di territori rurali sfruttando i conflitti tra le fazioni e le rivalità tra le diverse città. Il caso più noto è quello di Ezzelino dei conti da Romano, che dai suoi feudi trevigiani estende la sua autorità su Verona, Vicenza, Padova e Treviso tra 1226 e 1259. Simile è l’esperienza di Oberto dei Pallavicini, che trasforma la funzione di vicario di Federico II in una diretta signoria su alcune città emiliane e lombarde (Cremona, Pavia, Piacenza, Brescia, la stessa Milano, e altre) tra 1249 e 1269. Un’analoga dominazione signorile su alcuni Comuni piemontesi stabilita da Guglielmo VII dei marchesi del Monferrato viene dissolta tra 1290 e 1292 per la reazione dei Savoia e dei Visconti. Pur avendo mostrato la permeabilità delle istituzioni urbane ad adattarsi a poteri monocratici, queste prime costruzioni signorili si estinguono con i loro protagonisti, per la fragilità di domini ramificati sul territorio ma non radicati in alcuna città.
Più stabili e durature si rivelano invece le signorie che si sviluppano all’interno di singoli centri urbani per iniziativa di famiglie influenti. Peraltro, il loro profilo sociale può essere assai differente. Quello degli Este, per esempio, che si affermano su Ferrara sin dal 1240, è analogo a quello dei da Romano e dei Monferrato, e la loro autorità si affida molto ai legami feudali. Origini comitali hanno i Della Torre che si appoggiano invece alle organizzazioni di “popolo” a Milano per affermare la propria signoria dal 1259. Famiglia cittadina, ma non di milites, è quella dei Della Scala che cominciano ad affermarsi a Verona tra 1259 e 1262, legandosi alla corporazione dei mercanti e ai movimenti di “popolo”. Stirpe aristocratica, legata all’episcopato, è al contrario quella dei Visconti che nel 1277 si sostituisce ai Della Torre nell’esercizio del potere signorile a Milano. In Toscana, dove le signorie si affermano stabilmente solo dal primo Trecento, è pisana la famiglia dei Donoratico che si insignorisce della città dal 1317 al 1347, ed episcopale quella dei Tarlati, signori di Arezzo dal 1321 al 1337.
Dal punto di vista istituzionale il conferimento straordinario di poteri a un signore può passare attraverso il prolungamento della carica di anziano o di capitano del “popolo”, come nel caso di Martino Della Torre a Milano o di Mastino Della Scala a Verona nel 1259, oppure conferendo l’autorità per un periodo limitato, come nel caso di Carlo d’Angiò a Firenze nel 1267.
I discendenti riescono in genere a farsi attribuire cariche a vita in qualità di “signori generali e permanenti”, come Azzone VII d’Este a Ferrara nel 1264 o Guido Bonacolsi a Mantova nel 1299. Alcuni ottengono anche la facoltà di designare un successore, che deve comunque essere riconosciuto formalmente dagli organi del Comune. L’introduzione del principio ereditario consente di fondare vere e proprie dinastie signorili, come sono quelle dei Della Scala fino al 1387, dei Visconti fino al 1447, o dei Gonzaga a Mantova dal 1328 al 1707. Alcuni signori cercano di legittimare il proprio potere anche attraverso il titolo di “vicario” concesso dall’imperatore: è il caso, per esempio, dei Visconti nel 1294 e dei Della Scala nel 1311. La legittimazione imperiale costituisce una rottura con la tradizione politica comunale.
Pur istituzionalmente diversi, i regimi signorili non cancellano i tratti più tipici di quelli comunali. L’eredità comunale è semmai una delle caratteristiche delle forme assunte dai poteri signorili e poi dagli stati territoriali, che ne costituiscono in certo qual modo la loro evoluzione e superamento. Nei regimi signorili la partecipazione politica perde vigore propositivo e assume un tenore prevalentemente consultivo, ma molte istituzioni di origine comunale rimangono in vita. Il sistema delle corporazioni sopravvive in quasi tutte le città, e ben saldi si mantengono gli organismi mercantili. Lo stesso quadro normativo statutario viene modificato, ma non cassato, e ampio sviluppo hanno gli apparati amministrativi con le connesse pratiche di produzione e conservazione delle scritture documentarie.
Verso la metà del XIV secolo si sono ormai stabilmente affermati regimi signorili in quasi tutte le città. Solo in pochissime sopravvivono esperienze “repubblicane”, a costo di pronunciate ristrutturazioni in senso oligarchico. A Siena, per esempio, si consolida un nucleo di famiglie aristocratiche e popolane di omogeneo orientamento mercantile e finanziario, incentrato tra 1287 e 1355 intorno al governo dei Nove e capace di sviluppare un poderoso programma propagandistico.
A Venezia, dove il Comune è retto da un doge, le grandi famiglie di mercanti reagiscono al diffondersi di lotte di fazione e di congiure aristocratiche allargando nel 1297 il Maggior consiglio a “uomini nuovi”, per procedere poi dal 1323 ad ammissioni selettive: si forma così un’élite ereditaria, coerente per interessi economici, che esclude le casate aristocratiche e le famiglie popolane. Più instabili sono gli equilibri a Genova, dove un’informale oligarchia mercantile-finanziaria nel 1339 elegge doge a vita, sul modello veneziano, il ricco mercante Simone Boccanegra, affiancato da un collegio di anziani scelti fra i popolari, mentre i nobili sono esclusi dagli uffici più importanti.
Nella seconda metà del Trecento le repubbliche oligarchiche sono colpite da violente rivolte urbane: sommosse dei ceti popolari scoppiano a Lucca (nel 1369), Siena e Perugia (1371), Firenze (1378), Genova (1383 e 1399) e Verona (1399). Gli artigiani e i salariati in rivolta non contestano la legittimità dei governi urbani, ma aspirano a costituirsi in corporazioni e a garantirsi la partecipazione politica. Il tumulto più noto è quello che esplode a Firenze nel 1378 per iniziativa degli operai della lana che svolgono la parte meno qualificata della lavorazione e che sono chiamati spregiativamente “ciompi” per la loro trasandatezza. Essi definiscono le proprie richieste: partecipazione al governo del Comune con una propria arte, aumento dei salari, tutela dalle vessazioni giudiziarie della corporazione della lana. Insorti a migliaia, i ciompi ottengono inizialmente per i propri rappresentanti un terzo delle cariche di governo, ma come in molte altre rivolte, anch’essi sono duramente repressi dalla reazione degli imprenditori.