Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Novecento ha visto emergere una costellazione di nuovi generi museali. Mentre i musei naturalistici riformulano il loro ruolo sociale in relazione alla conservazione della biodiversità e all’educazione ambientale, la museologia tecno-scientifica è conquistata dal nuovo modello dei science center nei quali si rovesciano i presupposti della comunicazione e i canoni della museografia tradizionale. L’ingresso del sociale nei musei scientifici e l’evoluzione delle nuove tecnologie della comunicazione hanno concorso alla formazione di un universo museale dinamico a cui è riconosciuto un ruolo crescente nel dibattito pubblico su scienza e tecnologia.
I musei scientifici all’alba del Novecento
La massiccia convergenza di risorse umane ed economiche ha posizionato il Muséum National d’Histoire Naturelle di Parigi (fondato nel 1793) e il British Museum-Natural History di Londra (trasferito a South Kensington nel 1881) al crocevia internazionale degli studi di storia naturale. Le spedizioni naturalistiche associate all’impresa coloniale riversano in Europa milioni di esemplari su cui si esercita una titanica impresa di classificazione della natura: questa, a sua volta, fornisce basi e dati alle nuove teorie evoluzioniste. Il prestigio raggiunto dalla ricerca naturalistica alla fine dell’Ottocento è testimoniato dalla presenza di importanti musei in diverse città europee come Vienna, Berlino, Bruxelles, Leiden, Budapest, Praga.
Ma il museo è ormai anche uno spazio pubblico che partecipa delle norme sociali in virtù delle sue funzioni educative. Ciò che si offre allo sguardo del visitatore coincide, nella forma espositiva, con l’oggetto di studio del naturalista e con i risultati della ricerca. File di esemplari affollano le vetrine in modo ordinato rappresentando gli sforzi classificatori e i paradigmi causali della storia naturale e solo al volgere del secolo l’azione pionieristica di personaggi come William Henry Flower (1831-1899), direttore del Natural History Museum, introduce criteri museografici destinati a trasformare l’esposizione in un “libro” a capitoli, di cui gli esemplari rappresenteranno le illustrazioni. Contemporaneamente, dall’altra parte dell’Oceano e nei Paesi scandinavi, la crescente sensibilità per la conservazione dell’ambiente ha trovato espressione in un genere museale inedito. Forti dell’evoluzione dualistica della tassidermia (nelle sue valenze artistica e scientifica) i “musei biologici” concepiti da Gustaf Kolthoff (1845-1913) in Svezia esprimono una vocazione esclusivamente didattica, riproducendo attraverso la realizzazione di un plastico in scala più o meno predefinita gli ambienti naturali e i loro abitanti. Si tratta di una nuova modalità espositiva: il diorama.
Dalle grandi esposizioni internazionali che nella seconda metà dell’Ottocento celebravano i frutti della tecnologia e dell’industria, il nuovo secolo ha anche ereditato l’idea di un museo capace di alimentare una visione radiosa del progresso e delle relazioni tra le nazioni. Sulla linea inaugurata pionieristicamente dal Conservatoire National des Arts et Métiers a Parigi (1798), il South Kensington Museum (da cui prenderà origine il futuro Science Museum di Londra) nasce con una dichiarata vocazione didattica dal nucleo di oggetti assemblati in occasione della Grande Esposizione Universale (1851). Si concentrerà sul presente e sulle promesse del futuro promuovendo il progresso delle industrie e il commercio attraverso l’alfabetizzazione della popolazione e l’istruzione professionale.
Infine, sul versante della medicina, gli sviluppi dell’igiene e della propaganda sanitaria hanno inquadrato i confini di una nuova categoria che si affianca ai tradizionali musei di anatomia, quella dei musei di igiene. Orientandosi verso il vasto pubblico e attraendo decine di migliaia di visitatori la Allgemeine Deutsche Ausstellung fuer Hygiene und Rettungswesen di Berlino (1883), presenziata da Robert Koch in persona o l’International Health Exposition di Londra (1884) esprimono un impeto filantropico che vede nel museo uno strumento di innalzamento sociale e anticipano i toni, prescrittivi prima e persuasivi poi, dell’educazione sanitaria.
Musei storici di scienza, tecnologia e medicina
La nascita del Deustches Museum di Monaco, nel 1903, segna l’affermazione di una tipologia museale particolarmente prolifica durante il Novecento: quella dei musei storici di scienza e tecnica. Pur ereditando i temi del progresso delle esposizioni internazionali, il filone che ha origine con il Deutsches Museum ha infatti un elemento di novità che ribalta la retorica celebrativa: l’introduzione di una prospettiva storica. Scienza e tecnologia sono rappresentate al culmine di un processo “evolutivo” che si materializza, concretamente, in una successione cronologica di icone del progresso ordinate per tipologia.
La nascita del Deutsches Museum è sinonimo di innovazione anche sul piano museografico. I macchinari, gli strumenti e i modelli del museo erano, infatti, corredati da spiegazioni e diagrammi e gran parte degli oggetti poteva essere azionata dalle guide o dagli stessi visitatori per favorire la comprensione delle dinamiche dei meccanismi. La spiccata vocazione didattica esaltava le dimensioni nazionali del progresso tecnologico e si rivolgeva alla nazione con l’offerta di visite guidate, conferenze serali, stage per studenti e lavoratori: già prima della guerra, nel 1910, il successo del museo è testimoniato dalla presenza di oltre 300 mila visitatori.
La convinzione che la scienza e la tecnica rappresentino le forze propulsive dell’evoluzione sociale, delle capacità produttive e del successo di un Paese, e che al museo spetti una funzione didattica rivolta alla popolazione stimola per buona parte del Novecento la realizzazione di musei tecnico-scientifici: dal Technisches Museum di Vienna (aperto nel 1918) al Národní Techniké Muzeum di Praga (1909) dal Tekniska Museet di Stoccolma (1924) al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica “Leonardo da Vinci”, inaugurato a Milano nel 1953.
Con la Internationale Hygiene Ausstellung di Dresda, nel 1911, la prospettiva storica fa il suo ingresso anche nel museo medico, rappresentata da una sezione di oltre 20.000 oggetti. Come per i musei di scienza e tecnica, collezioni ingenti di strumenti, ferri chirurgici, vasi, suppellettili, arredi, recuperati da musei universitari e da musei ospedalieri ormai obsoleti, o assemblati da medici e industriali come Karl August Lingner (1861-1916) a Dresda o Henry Wellcome (1853-1936) a Londra costituiranno la base di numerosi musei di igiene e di storia della medicina, destinati a promuovere la salute della popolazione e a celebrare il sapere medico quale parte significativa dell’impresa umana.
Dal museo al science center
Tuttora una visione positivista e tecnicista egemonizza l’approccio comunicativo di molti musei di scienza e tecnica. Già dopo la seconda guerra mondiale le ferite aperte dalle degenerazioni etiche della ricerca (con il nazismo) e dalle derive delle sue applicazione tecnologiche (con Hiroshima e Nagasaki) decretano l’anacronismo dell’enfasi celebrativa che spesso caratterizza questo genere museale.
La critica si sarebbe radicata ulteriormente negli anni Sessanta con il divampare dei movimenti ambientalisti e antinucleari, inaugurando un lungo declino dei musei di scienza e tecnica e provocando una rottura nel percorso della museologia scientifica. Due elementi anticipano il sapore di tale rottura e introducono tratti propri del trentennio successivo.
Il primo è rappresentato dalla nascita del Palais de la Découverte inaugurato in occasione dell’Esposizione di Parigi nel 1937. Privo di collezioni, dichiaratamente didattico e orientato al presente, il Palais non si presenta come un museo di collezioni ma un centro dinamico, dove scienziati e studenti universitari dimostrano ai visitatori i “principi” della scienza e le loro applicazioni.
Il secondo elemento è rappresentato dall’approccio culturale della museologia etnografica di Georges Henri Rivière formulata già a partire dagli anni Quaranta, che nei decenni successivi avrebbe incorporato la storia della tecnologia preindustriale nell’ambito degli ecomusei diffondendo al tempo stesso una chiave di interpretazione dei processi sincronica e sociale.
Ispirandosi al Palais de la Decouverte, alla Children’s Gallery del Science Museum di Londra (1931) e agli exhibit in movimento del Deutsches Museum, il fisico Frank Oppenheimer crea nel 1969 l’Exploratorium di San Francisco. Insieme all’Ontario Science Centre di Toronto, nato nello stesso anno, questo inaugura una tipologia di museo tecno-scientifico rivoluzionaria: il science center.
La filosofia alla base del science center mira ad accrescere l’interesse per la scienza, la percezione positiva delle sue potenzialità e la comprensione delle modalità conoscitive proprie della disciplina attraverso un apprendimento esperienziale. Nel far questo abbandona il taglio storico e le collezioni per presentare principi scientifici “puri” attraverso la realizzazione di exhibit interattivi.
Tra gli anni Ottanta e Novanta i science center invadono il panorama europeo: cloni dell’Exploratorium, come nel primo allestimento del Museu de la Ciència di Barcellona (1980) o rielaborati nel design, come il Techniquest di Cardiff (1988), interdisciplinari come l’Heureka in Finlandia (1989), multifunzionali ed enfaticamente multimediali la Cité des Sciences et de l’Industrie di Parigi (1986), impegnati nello sviluppo dell’economia locale come la Città della Scienza di Napoli (1996) o infine piccoli e multimediali come il Science Centre Immaginario Scientifico di Trieste o L’Officina per la Scienza e la Tecnologia (POST) di Perugia.
Nonostante qualche insuccesso e diversi problemi gestionali il movimento dei science center è tuttora in espansione e solo in Gran Bretagna il nuovo millennio è stato celebrato con la nascita di 13 nuove realtà. Gli sviluppi del Public Understanding of Science e il dibattito museale hanno, tuttavia, messo in discussione il modello tradizionale sia sul piano dei contenuti (limitati a pochi ambiti disciplinari come la fisica e la chimica), sia sul piano della comunicazione che prevede un’unica modalità di accesso (l’hands-on) a una serie di contenuti frammentati e spesso decontestualizzati rispetto all’esperienza delle tecnoscienze nella vita quotidiana.
Le esperienze più recenti tendono quindi a recuperare la presenza degli oggetti e una visione tematico-sociale proponendosi quali spazi di mediazione culturale rispetto alle tecnoscienze contemporanee e come forum di dialogo, come avviene per la Wellcome Wing e il Dana Centre del Science Museum a Londra, affrontando controversie etiche con tecnologie multimediali d’avanguardia, come al Think Tank di Birmingham, collegandosi alle dimensioni territoriali dell’impresa scientifica come allo Space Centre di Leicester.
Se i musei scientifici orientati alle problematiche contemporanee si pongono al crocevia tra i mondi della ricerca, dell’industria, della politica e della società, i musei tecnico-scientifici e i musei medici di carattere storico stanno riconquistando una crescente rilevanza culturale. L’uso di tecnologie multimediali e di strategie prese in prestito dall’archeologia sperimentale sono, ad esempio, state usate pionieristicamente dall’Istituto e Museo di Storia della Scienza (1930) di Firenze per valorizzare le collezioni nell’ambito della ricerca storico-scientifica e favorire la comunicazione con il vasto pubblico.
Musei di collezioni e musealizzazioni d’ambiente
Se il movimento dei science center ha costituito, alla fine degli anni Sessanta, la risposta alla crisi del rapporto tra scienza e società, l’ingresso delle tematiche ambientali è nello stesso periodo il punto di rigenerazione del museo naturalistico.
La prima parte del secolo passa infatti senza grandi novità sul piano museografico se si eccettua la crescente diffusione dei diorami. Rappresentazione tridimensionale di un habitat naturale, il diorama illustra i rapporti tra gli organismi viventi e tra questi e l’ambiente, testimoniando appieno, già negli anni Trenta, l’affermazione di una visione ecologica e la crescente vocazione didattica del museo.
Mentre l’impresa coloniale continua ad alimentare la crescita delle collezioni, le esposizioni mantengono per lo più un’impostazione tassonomica e semiaccademica. Alla fine degli anni Cinquanta, tuttavia, iniziano a diffondersi gallerie dedicate a singoli soggetti (la botanica, gli insetti, i fossili) che affrontano in un taglio trasversale i diversi ambiti della ricerca contemporanea: dall’ecologia, alla citologia o all’evoluzione. L’attenzione per l’estetica dei disegni e dei modelli e una strutturazione dell’informazione idonea al target della scuola secondaria testimoniano un chiaro orientamento dell’esposizione verso il pubblico. Tuttavia, mentre dietro le quinte dei musei la ricerca si orienta verso nuovi e produttivi filoni, il museo naturalistico degli anni Sessanta ha perduto gran parte della sua credibilità e rilevanza sul piano sociale. La preoccupazione per l’impatto delle attività umane sull’ambiente, e in particolare per l’inquinamento, che negli Stati Uniti esplode con la pubblicazione di Silent Spring di Rachel Carson nel 1960, converge con il clima di critica sociale nel fare apparire il museo autoritario, distante, scollegato dalla realtà.
È proprio a partire dalle nuove problematiche ambientali che negli Stati Uniti e, con un certo ritardo, anche in Europa il museo naturalistico elabora un nuovo ruolo sociale. Abbracciando i tratti di un ambientalismo attento ai problemi dell’inquinamento, della crisi energetica e delle minacce che incombono sulla diversità della vita, il museo orienterà infatti la propria missione in relazione alla conservazione della biodiversità e all’educazione ambientale. Concretamente tale orientamento si materializzerà in un’enfasi della comunicazione museale e nell’affermazione dell’educazione quale funzione cruciale del museo.
Temi come l’ecologia, la foresta tropicale, la diversità della vita, l’impatto dell’uomo sull’ambiente si affiancano dagli anni Settanta alle classiche gallerie a soggetto e, mentre l’uso di modelli inizia gradualmente a sostituire l’esemplare naturalizzato, fanno la loro comparsa i temi della fisiologia e della genetica umana. La crescente attenzione agli sviluppi della pedagogia delle scienze e la realizzazione di studi relativi alla qualità dell’utenza e del pubblico accelera la trasformazione della comunicazione museale: l’esposizione “ontologica” degli anni Ottanta mirerà a sintetizzare in modo accattivante le teorie e le conoscenze acquisite su vari temi, attingendo da un lato all’esperienza dei centri visita dei parchi naturali, con l’“interpretazione” di Freeman Tindlen (1883-1980) e, dall’altro, alle modalità comunicative dei science center.
I grandi temi del Novecento – evoluzione, biodiversità, impatto dell’uomo sull’ambiente – sono tuttora centrali nella comunicazione museale. Sull’onda della diffusione di un approcio costruttivista le esposizioni più recenti tendono a sostituire la narrativa lineare a favore della costruzione di ambienti complessi, adottando un carattere spesso allusivo ed emozionale più che esplicitamente didattico, come avviene alla Grande Galerie de l’Évolution (1994) di Parigi.
Mentre alcune iniziative, come il Darwin Centre del Natural History Museum a Londra, rilanciano con forza il ruolo del museo nella ricerca e nella conservazione attraverso la musealizzazione dei depositi delle collezioni, sul territorio proliferano quasi inosservate numerose realtà di confine. Musei territoriali ed ecomusei portano le tematiche naturalistiche sotto il dominio del museo demo-etno-antropologico mentre, a metà tra il museo e il centro visita, le nuove musealizzazioni d’ambiente proliferano nei comuni delle riserve e dei parchi naturali.
La convergenza di temi e modalità comunicative ha oggi affievolito la distanza tra diverse tipologie museali: se i musei di esemplari naturali hanno gradualmente incorporato le modalità comunicative hands-on, i science center fanno vasto uso di reperti ed esemplari naturali, anche viventi.
At-Bristol e il Museu de la Sciencia di Barcellona rinnovato nel 2004 hanno superato il conflitto insito nel promuovere la conservazione della vita attraverso la presentazione di esemplari morti, con la ricostruzione di veri ambienti naturali come la foresta tropicale. In un’esperienza di “immersione” questi oltrepassano le ultime frontiere del diorama.