Dai primi insediamenti al fenomeno urbano. Aspetti e forme dell'organizzazione del territorio
di Mario Liverani
Durante tutta l'età del Bronzo e del Ferro, l'organizzazione del territorio nel Vicino Oriente e in Egitto rimane legata a una dimensione "cantonale" (accentrata su una città e includente insediamenti minori e spazi produttivi agro-pastorali), entro cui si coordinano le attività produttive e di scambio locale. In alcuni casi (Egitto e, a tratti, Mesopotamia) questa dimensione cantonale viene ricompresa entro unità politiche più ampie; in altri casi tende a coincidere con le unità politiche. Le gerarchie insediamentali, desumibili dalla documentazione archeologica (ricognizioni regionali), sono integrabili per l'età storica da informazioni testuali che distinguono anche le città capitali (cinte di mura e sede di palazzi, templi, magazzini centrali), le città minori (anch'esse fortificate), gli anonimi villaggi. Il rapporto numerico varia nel tempo e nello spazio, ma si può suggerire un modulo-tipo con una capitale, una decina di cittadine e un centinaio di villaggi. I collegamenti (rete viaria) tendono a disporsi a raggio in pianure a regime pluviale; si correlano ai canali in pianure irrigue; seguono l'andamento vallivo delle aree montane. Negli stati estesi le unità cantonali permangono come "province": è il caso dei nòmi della valle del Nilo (20 nel Delta e 22 nella valle, per un'estensione media dell'ordine dei 1000 km²), delle province del regno neosumerico di Ur III (20 ca. nell'ordine dei 2000 km²), delle province dell'impero neoassiro (anch'esse nell'ordine dei 2000 km²). In generale si tratta di vecchi stati cantonali conglobati in entità più vaste e mantenuti come strutture amministrative di base.
La delimitazione delle unità territoriali risulta archeologicamente visibile nel caso di stele confinarie, in forma di cippi mobili o di rilievi rupestri. I cippi sono raramente conservati (si pensi alla stele urartea di Kelishin), mentre le stele rupestri lo sono di norma. Tra i casi più noti occorre citare le stele confinarie di el-Amarna, che delimitano il territorio della nuova capitale e assicurano che non verrà ampliato ulteriormente; le stele neoassire che segnano il punto estremo raggiunto dal sovrano nelle sue campagne di conquista e che spesso sono collocate in luoghi simbolicamente pregnanti (alle sorgenti del Tigri o anche di fiumi minori, oppure su vistose montagne, dall'Amano al Judi Dagh). Il valore delle stele confinarie oscilla tra i due estremi di un preciso valore giuridico-catastale e di una simbolica affermazione di sovranità. Dai testi che definiscono la delimitazione dei confini emerge una doppia natura del confine stesso: c'è una concezione ideologica del confine dinamico, che il sovrano deve continuamente spingere in avanti per farlo coincidere col bordo estremo del mondo (e questa prevale nei testi celebrativi, specie egiziani e assiri), e c'è una concezione giuridica del confine come delimitazione dei territori tra due stati contigui (e questa concezione prevale nei trattati interstatali). Nella pratica si hanno confini sfumati, di tipo zonale, coincidenti con montagne, foreste, deserti, e si hanno confini lineari molto precisi nelle zone a insediamento denso. Di questi, si hanno esempi soprattutto in ambito hittita (Tarhuntasha) e siriano del Tardo Bronzo (Ugarit).
L'assetto agrario del territorio nelle grandi vallate alluvionali è legato alla rete dei canali e alle modalità dell'irrigazione. In ogni caso la distribuzione e il controllo delle acque determinano un assetto compatto (su scala cantonale, nel senso definito sopra), ma con varianti a seconda delle diverse caratteristiche ecologiche. In Egitto, dove la coltivazione avviene sull'umidità residuale dopo il ritrarsi della piena, gli insediamenti si concentrano nelle zone alte (argini, margini della vallata), lasciando alla coltivazione i terreni bassi; le necropoli si accentrano sulle pareti rocciose fuori alluvio. In Bassa Mesopotamia, dove l'acqua deve essere trattenuta in bacini per essere poi erogata lungo tutto l'arco di tempo tra semina e raccolto, gli insediamenti si concentrano lungo fiumi e canali (anche per i collegamenti fluviali), le colture sono situate sul lieve declivio ai lati dei canali e le zone più basse restano paludose per l'eccedenza di acqua. In zone marcatamente aride l'assetto territoriale è segnato da dighe e bacini di raccolta, da cui deriva una rete di canali di forma dendritica. La dimensione varia dalle enormi dighe (anche in pietra) sudarabiche, tra le quali quella di Marib è la più celebre e monumentale, e i modesti sbarramenti sul fondo degli widyān dell'area palestinese (Negev, Transgiordania). In zone montane (Urartu, Iran) si scavano canali sotterranei (qanāt) per trasferire l'acqua nelle piane più fertili, evitando la dispersione per evaporazione e superando rilievi collinari. La sistemazione irrigua del territorio, oltre a variare regionalmente, si scagliona diversamente nel tempo: l'irrigazione "residuale" egiziana risale almeno al IV millennio (mentre grandi canali di tipo asiatico saranno introdotti solo col Medio Regno); la rete dei canali in Bassa Mesopotamia è ancora di raggio locale alla fine del IV millennio e assumerà dimensione regionale alla fine del III e inizi del II millennio, per entrare poi in crisi per crescente salinizzazione, impaludamento e drammatici spostamenti nel corso del basso Eufrate. I sistemi di aridocultura (dal Negev allo Yemen) sembrano iniziare con l'età del Ferro, intorno al 1000 a.C.; lo stesso vale per i sistemi di canalizzazione sotterranea delle aree montane. Fuori dell'alluvio la sistemazione territoriale ha scala più modesta; le zone insediate e coltivate rimangono come isole divise da boschi e montagne per tutta l'età del Bronzo. Con l'età del Ferro iniziano più massicci interventi di disboscamento e terrazzamento dei declivi montani, la cui datazione archeologica resta ancora problematica. Mal databili sono anche i pozzi, la cui distribuzione segna il territorio vicino-orientale specie nelle steppe semiaride di pascolo invernale.
A livello microanalitico l'assetto territoriale è legato alla forma dei campi. In Egitto i campi sono ridisegnati annualmente dopo le piene. In Bassa Mesopotamia si distingue l'area più meridionale, "delta", con irrigazione a solco che determina il prevalere dei campi lunghi, disposti a spina di pesce ai lati del canale, e l'area centrale, "valle", con irrigazione per sommersione che determina il prevalere di campi quadri di dimensioni ridotte. Nelle zone di coltura pluviale (Siria, Alta Mesopotamia, Anatolia) prevale il campo quadro che però si frammenta in strisce sottili per effetto di successive spartizioni ereditarie. Tra tutti i sistemi, quello che comporta un intervento umano più drastico, e maggiore visibilità archeologica, è quello basso-mesopotamico dei campi lunghi. La colonizzazione pianificata (necessaria, dato il disporsi dei campi in blocchi compatti di strisce col lato corto sul canale) comporta interventi di ingegneria idraulica assai cospicui: sono attestati, dall'età neosumerica a quella neobabilonese, campi lunghi oltre 1 km, larghi pochi metri e dalla pendenza leggera ma continua. Se le ricognizioni archeologiche (e le immagini satellitari) rivelano un palinsesto di successive reti di canali, databili in base ai periodi di occupazione dei siti collocati sugli argini, dalle fonti vengono informazioni di dettaglio. I testi "catastali" relativi alle proprietà pubbliche (templari e palatine) e le descrizioni di campi privati, inseriti in atti di vendita o di trasmissione ereditaria, danno le misure dei quattro lati (ciò che consente precise restituzioni grafiche), oltre a notizie sui confinanti (altri campi, oppure strade, canali, aree incolte) utili per la ricostruzione del paesaggio agrario. Queste informazioni sono più diffuse in Mesopotamia, ma per l'Egitto si ha il maggiore testo catastale (Papiro Wilbour, di età tardoramesside), oltre ad una documentazione iconografica che è invece carente nelle altre zone.
Il villaggio "orientale" antico - Durante il XIX secolo si affermò nella storiografia europea il concetto del villaggio "orientale", basato sulle descrizioni inglesi del villaggio indiano di età precoloniale e coloniale. Al villaggio orientale si attribuiva remota antichità (in connessione con l'idea di un Oriente immutabile) e dunque lo si paragonava al villaggio europeo pre- e protostorico quale si veniva ricostruendo su base archeologica. Il villaggio orientale, con struttura autosufficiente per la presenza di specialisti vari e con conduzione comune delle terre, si configurava diversamente da quello occidentale per un particolare rapporto tributario rispetto alla città-capitale, sede di un sovrano "despotico". Se le teorie storiografiche sul villaggio orientale ebbero notevole peso, peraltro l'attività archeologica nel Vicino Oriente si concentrò per un secolo (1850-1950 ca.) quasi esclusivamente sulle città e anche, all'interno della città, su palazzi e templi. Lo studio delle "comunità rurali" venne portato avanti (I.M. Diakonoff e altri studiosi sovietici) in base ai documenti scritti (tavolette cuneiformi di carattere amministrativo). Con gli anni Cinquanta iniziò lo studio archeologico del villaggio vicino-orientale per le fasi preistoriche (R. Braidwood) e talvolta si scavarono villaggi anche di età storica, se non altro perché stratigraficamente sovrapposti a più allettanti edifici monumentali. In contrapposizione alla città, sede di attività specialistiche e gerarchizzate (V.G. Childe), si affermò l'immagine del villaggio come struttura semplice e omogenea, dedita alla produzione primaria del cibo. Gli studi recenti tendono invece a rivalutare la "complessità" del villaggio: gli indicatori archeologici delle attività specialistiche (aree di lavorazione) sono in effetti presenti anche in insediamenti minori e alcune produzioni artigianali sono per motivi tecnici decentrate al di fuori della città. Non sussiste una correlazione univoca tra dimensione e complessità, potendosi avere grossi borghi agricoli e piccoli centri amministrativi extraurbani. Resta acquisito il prevalente ruolo del villaggio come sede della produzione primaria e la sua diversa organizzazione socio-politica rispetto alla città, per l'esistenza di organismi collegiali (anziani, assemblea) contrapposti alla dirigenza centralizzata e gerarchizzata della città palatina.
Tipologia ed evoluzione del villaggio - Nel corso dei millenni e sugli ampi spazi del Vicino Oriente, il villaggio muta per natura, struttura interna e per il rapporto con la città. Una distinzione va stabilita tra il villaggio neolitico, di età preurbana, autonomo, e quello di età storica, economicamente tributario della città e politicamente dipendente dal palazzo reale. In varie forme si assiste ad un flusso di risorse (cibo, manodopera) dal villaggio verso la città, cui corrisponde un flusso contrario, spesso modesto, in termini di protezione, servizi e tecnologie. Nelle zone di alluvio irriguo (Egitto, Bassa Mesopotamia) la centralità della città e la sua crescita demografica portano ad una crisi del villaggio, visibile nelle zone in cui siano state effettuate ricognizioni regionali dettagliate. Attorno alla città, il territorio degli alluvi irrigui si popola piuttosto per fattorie isolate e nuclei amministrativi decentrati, con perdita delle forme di autogoverno che caratterizzano le comunità di villaggio. Più vitale è il villaggio nelle zone ad agricoltura pluviale (Alta Mesopotamia, Siria, Palestina, Anatolia), come risulta dai testi e dall'evidenza archeologica. Il villaggio vicino-orientale dell'età del Bronzo ha una dimensione che va dalle poche case (poche decine di persone) alle centinaia di nuclei familiari (con oltre 1000 persone). Perso l'autogoverno e ridotto ad unità di computo per l'amministrazione centrale, il villaggio mantiene comunque i suoi organi collegiali, con competenze giudiziarie e di gestione interna, e mantiene forme comuni di gestione di certe risorse (pozzi, pascoli, boschi) e forme di limitazione nell'alienabilità delle terre di proprietà familiare. La presenza della città palatina, oltre che nei prelievi tributari e nel lavoro coatto, si sostanzia nell'assegnazione di terre a funzionari centrali (proprietari "assenteisti"). Con la prima età del Ferro la distanza tra città e villaggio diminuisce: i maggiori villaggi sono fortificati e dunque meglio protetti, si irrobustiscono le competenze di autogoverno e negli ambienti a forte componente tribale (il caso meglio noto è quello palestinese) si identifica il villaggio con un eponimo in modo da collocarlo nella griglia genealogica mediante la quale lo stato "etnico" si autoidentifica con una comunità gentilizia. L'espansione imperiale assira sin dal IX sec. a.C. porta a distruzioni e saccheggi di villaggi, con spopolamento delle zone interessate e perdita di ruolo dei villaggi. Verso la metà dell'VIII sec. a.C. si assiste anche a processi di ricolonizzazione, con creazione di nuovi villaggi che però per genesi e modalità di popolamento (deportati) sono semplici unità produttive palatine decentrate, senza tradizioni né possibilità di autogestione. Questo asservimento delle campagne alla struttura politica centrale (in Egitto completo dall'età ramesside, cfr. la Lettera di Wermai) prosegue fino ad età achemenide e determina la situazione che troveranno Alessandro e i suoi successori.
Altri insediamenti rurali e pastorali - Se il villaggio è la forma insediamentale rurale prevalente, non mancano altre forme legate allo sfruttamento agro-pastorale. Centri di raccolta e inoltro delle messi sono attestati già in Alta Mesopotamia preaccadica (Ninive V). Soprattutto dai testi emerge il tipo della "fattoria palatina" (Ugarit, ma anche altrove in Siria-Palestina del Tardo Bronzo) dotata di un frantoio per olio e dall'aspetto di torrione ben munito. Nell'Anatolia hittita il territorio agricolo ospita fattorie palatine (assegnate a maggiorenti) e "case del sigillo" cioè magazzini di smistamento. Specie nella Mesopotamia sumerica la terminologia diversificata degli insediamenti rurali fa sospettare una varietà tipologica che non si può ancora correlare alle realtà archeologicamente visibili. In Egitto la struttura "aperta" delle città del Nuovo Regno rende difficile distinguere tra "ville" urbane, attestate soprattutto ad el-Amarna, ed extraurbane (archeologicamente sfuggenti). Gli insediamenti pastorali erano certamente più diffusi di quanto la documentazione (archeologica e testuale) farebbe pensare. Si tratta di campi stagionali che seguono il ritmo della transumanza caprovina, per tutta l'età del Bronzo, e poi anche del nomadismo cammelliero, con l'età del Ferro; dunque, campi estivi in altura per la transumanza "verticale" sul Tauro e gli Zagros, campi invernali nella steppa per la transumanza "orizzontale" in Siria e Palestina. I campi pastorali dispersi nel territorio sono meglio conservati (e talvolta immediatamente visibili) in ambiente arido e sono particolarmente studiati nel Negev, Sinai e Transgiordania, mentre in ambiente montano sono documentati al meglio quando eccezionalmente "catturati" entro una stratificazione urbana.
Insediamenti speciali - Oltre ad insediamenti per la produzione primaria (agropastorale), si hanno insediamenti extraurbani che ospitano specifiche attività artigianali: villaggi di minatori, metallurghi e vasai possono essere attestati sia dall'archeologia sia dalla toponomastica antica. Il caso di gran lunga più importante viene dall'Egitto (viceversa povero di villaggi rurali effettivamente conservati), col villaggio di Deir el-Medina (Tebe ovest) che ospitava gli artigiani occupati nella decorazione delle tombe reali (nelle vicine valli dei Re e delle Regine) durante il periodo compreso fra la XVIII e la XX Dinastia. La pianta del villaggio, chiuso da un muro di cinta e con case ai due lati di un'arteria centrale, il contenuto delle abitazioni e la ricca documentazione epigrafica consentono di delineare la struttura socio-economica e la vita quotidiana di una comunità peraltro assai atipica, ma di grande interesse archeologico. Altri "villaggi operai" egiziani sono caratterizzati da pianta a griglia ortogonale e da modulo abitativo standardizzato: Illahun durante la XII Dinastia ospitava gli addetti alla costruzione delle piramidi, mentre ad el-Amarna durante la XVIII Dinastia vi era un quartiere di operai ricompreso nell'ambito urbano.
Nòmi egiziani:
W. Helck, Die altägyptischen Gaue, Wiesbaden 1974. Province di Ur III: F.R. Kraus, Provinzen des neusumerischen Reiches von Ur, in ZA, 51 (1955), pp. 45-75.
Province assire:
E. Forrer, Die Provinzeinteilung des assyrischen Reiches, Leipzig 1920; M. Liverani (ed.), Neo-Assyrian Geography, Roma 1995.
Sulla concezione del confine:
E. Hornung, Zur zweierlei Grenzen im alten Ägypten, in Eranos-Jahrbuch, 49 (1980), pp. 393-427; M. Liverani, Prestige and Interest, Padova 1990, pp. 33-112.
Stele di el-Amarna:
W.J. Murnane, The Boundary Stelae of Akhenaten, London 1993.
Stele assire:
D. Morandi, Stele e statue reali assire: localizzazione, diffusione e implicazioni ideologiche, in Mesopotamia, 23 (1988), pp. 105-55.
Assetto agrario, in generale:
M. Liverani, Agricoltura e irrigazione nell'antico Oriente, in V. Castronovo (ed.), Storia dell'economia mondiale, I, Roma - Bari 1996, pp. 43-59; - Egitto: K.W. Butzer, Early Hydraulic Civilization in Egypt, Chicago 1976; - Mesopotamia: R.McC. Adams, Heartland of Cities, Chicago 1981; J.N. Postgate - M. Powell, Irrigation and Cultivation in Mesopotamia, I-II, Cambridge 1988-90; - Palestina: O. Borowski, Agriculture in Iron Age Israel, Winona Lake 1987.
Forma dei campi:
C. Zaccagnini, The Rural Landscape of the Land of Arraphe, Roma 1979; M. Liverani, The Shape of Neo-Sumerian Fields, in BSumAgric, 5 (1990), pp. 147-96; Id., Reconstructing the Rural Landscape of the Ancient Near East, in JESHO, 39 (1996), pp. 1-41.
Catasto ramesside:
A.H. Gardiner, The Wilbour Papyrus, I-III, Oxford 1948; B. Menu, Le régime juridique des terres dans le papyrus Wilbour, Lille 1970.
Tendenze recenti:
G.M. Schwartz - S.E. Falconer (edd.), Archaeological Views from the Countryside. Village Communities in Early Complex Societies, Washington 1994.
Forme sociopolitiche:
I.M. Diakonoff et al., The Rural Community in the Ancient Near East, in JESHO, 18 (1975), pp. 121-88; Les communautés rurales, II. Antiquité, Paris 1983.
Insediamenti pastorali:
R. Cribb, Nomads in Archaeology, Cambridge 1991 (Anatolia); I. Finkelstein, Living on the Fringe, Sheffield 1995 (Negev). Deir el-Medina: B. Bruyère, Rapport sur les fouilles de Deir el-Médineh, I-XVII, Le Caire 1924-53; J. Černý, A Community of Workmen at Thebes in the Ramesside Period, Cairo 1973.
di Amodio Marzocchella
La possibilità che delimitazioni preliminari dell'area da destinare alla coltivazione siano esistite nell'ambito delle più antiche comunità agricole si può ammettere sul piano esclusivamente teorico, dal momento che le prime concrete testimonianze di "sistemi agrari" si datano al III millennio a.C. e in maggior misura al II millennio a.C. Sembra verosimile che una più razionalizzata sistematicità nell'organizzazione dell'area agricola sia connessa all'introduzione e alla diffusione dell'aratro il cui uso si generalizza proprio nel corso del III millennio a.C. In alcuni siti, inoltre, al di sotto di delimitazioni agrarie sono presenti impronte di arature. Ciò induce a supporre che delimitazioni territoriali in forma consistente siano state precedute da una fase in cui spesso potevano essere indicate da strisce di terreno non arate, come è attestato a Store Vildemose nello Jutland (Danimarca) e, forse, a Gricignano in Campania. In diverse regioni, prevalentemente dell'Europa nord-occidentale, esiste poi una stretta relazione tra campi indicati da impronte di aratura e tumuli funerari. Questi, sebbene spesso sia stata ipotizzata un'aratura rituale delle aree destinate a riceverli, potevano essere costruiti, marcandone il possesso, su appezzamenti agricoli abbandonati; in altri casi erano integrati in sistemi di delimitazione e suddivisione agraria. L'ubicazione delle aree coltivabili, la consistenza materiale delle opere realizzate (strade e percorsi, siepi, staccionate, muretti, fossati) e le trasformazioni fisiche avvenute in ciascun territorio per eventi naturali o a seguito dell'attività dell'uomo (sistemi meccanizzati di aratura ed erosione delle superfici, formazioni di strati di torba e copertura con sedimenti alluvionali o eruttivi) hanno influito sullo stato di conservazione di questi antichi "paesaggi" o strutture agricole del territorio. Così, aree caratterizzate da un'insistente pressione demografica e da morfologie fisiche pressoché stabili negli ultimi millenni possono risultare non idonee alla sopravvivenza di testimonianze siffatte rispetto ad altre aree ove esse sono invece rimaste sepolte al di sotto di più recenti formazioni geologiche o fossilizzate nel paesaggio attuale per l'assenza di una incisiva riutilizzazione dei luoghi. L'indagine e il rilevamento di queste strutture, già notate nel 1660 da J. Picardt nel Drenthe (Olanda) e a lungo osservate e studiate nel corso del XIX e all'inizio del XX secolo in Scandinavia, Olanda e Gran Bretagna, si sono sviluppati in queste stesse regioni nel periodo tra le due guerre mondiali a seguito dell'uso delle foto aeree verticali. Attualmente nuove tecniche di rilevazione e fotointerpretazione aerea, nonché l'analisi di immagini da satellite, così come prospezioni sul terreno, studio dei toponimi e della cartografia storica, concorrono ad una più soddisfacente ricognizione di tali evidenze pre- e protostoriche. La diffusione di questi sistemi si riteneva inizialmente limitata ai Paesi bagnati dal Mare del Nord, dove essi sono stati designati con nomi diversi: field systems, plot systems e Celtic fields in Gran Bretagna, heidensche legerplaatsen in Olanda, eisenzeitliche Fluren in Germania, oldtidsagre in Danimarca. Successivamente la loro diffusione è risultata più estesa, interessando anche le regioni dell'Europa centrale, il Massiccio Centrale (Linguadoca, Francia), le Alpi (Aosta, Italia) e, nell'Italia meridionale, l'area circostante Napoli. Quello che poteva sembrare un fenomeno peculiare dell'Europa settentrionale durante la protostoria e nei primi secoli dell'Impero romano appare ormai un'evidenza diffusa, non relegabile in un ambito cronologico limitato o in una tradizione storica regionale. Ampie differenze esistono nella forma e nella dimensione di questi sistemi così come nelle suddivisioni interne. Queste ultime, spesso di limitata estensione, considerate singolarmente, non sono sempre da intendere quale definizione del totale arativo di singole unità di produzione quanto piuttosto accorgimenti finalizzati ad un miglioramento della resa produttiva dei terreni, in relazione ai condizionamenti ambientali (spietramento dei terreni, controllo dell'umidità e dell'erosione, ecc.) e alle pratiche agricole (rotazione delle colture, maggese, stabbiatura). A un livello di classificazione generale si possono distinguere i sistemi a terrazza dai sistemi regolari (i cd. Celtic fields). I sistemi a terrazza sono prevalentemente attestati in zone di montagna e consistono in piccoli appezzamenti irregolari delimitati da bassi argini sinuosi di pietre o terra che spesso si snodano tra cumuli di pietre e talvolta tra tumuli funerari. Essi non raggiungono mai dimensioni notevoli, in pochi casi superano 40 ha, spesso si estendono su 10 ha circa e talvolta coprono un'area inferiore a 5 ha. La forma e la dimensione dei singoli appezzamenti variano in ragione della topografia e anche quando, come nelle testimonianze dell'età del Ferro della Gran Bretagna, essi assumono forme geometriche quadrangolari, non si perviene mai alla realizzazione di schemi planimetrici ripetitivi. I sistemi regolari presentano generalmente una suddivisione in piccoli campi di forma quadrata o rettangolare delimitati da basse siepi, muretti o fossati e si estendono, in genere, su grandi superfici, spesso di alcune centinaia, talvolta anche di alcune migliaia di ettari. Quando sono tracciati secondo lunghi assi approssimativamente paralleli e non condizionati dalla locale morfologia del suolo, si determinano i grandi sistemi "coesivi" o "coassiali" o, anche, quelle che sono state definite "campagne coassiali" (gruppi estesi di territori organizzati in modo coassiale su più assi di orientamento). In questi casi può ipotizzare una vera e propria pianificazione territoriale. In altri casi invece essi sembrano determinati da un graduale accrescimento di blocchi di campi e danno origine a sistemi "complessi". Le dimensioni dei campi variano moltissimo, da regione a regione e all'interno di ciascun sistema. In Danimarca e Gotland (Svezia), ad esempio, sono attestati appezzamenti compresi tra 600 e 4500 m²; in Olanda e Gran Bretagna sono comuni sia appezzamenti di gran lunga inferiori a mezzo ettaro sia lotti estesi su uno, due o più ettari. Alcune indagini hanno tentato di individuare delle unità di misura. Nel Gotland, ad esempio, sembra venisse utilizzata un'unità lineare di 7 m e un modulo di area di 195 m²; ad Aosta è stata ipotizzata un'unità lineare corrispondente a 0,31 m. In genere però questo campo di indagine è reso difficile dallo stato della documentazione che quasi sempre riflette planimetrie modificate da interventi successivi al tracciato originario. Un problema rilevante riguarda la datazione di questi sistemi che complessivamente investono un arco cronologico molto ampio; compreso tra il III millennio a.C. e la metà del I millennio d.C. In genere essa è stabilita in base a correlazioni con probabili abitati, con vicine testimonianze funerarie oppure alla relazione con altre strutture antropiche o naturali che caratterizzano la storia del paesaggio; si dispone quindi spesso di una cronologia relativa, di un'attribuzione di massima, ma non mancano datazioni incerte o controverse. Le rare e limitate indagini di scavo sono certamente insufficienti rispetto all'estensione dei sistemi. Gli esempi di seguito riportati, in tre casi riferibili a sistemi assiali, sono selezionati tra le evidenze più significative per antichità del tracciato e grado di attendibilità della cronologia e illustrano alcune caratteristiche di questi sistemi agrari in regioni tra loro molto distanti quali la penisola italiana e le Isole Britanniche. In Irlanda nord-occidentale, nella contea di Mayo, l'estrazione della torba ha permesso di individuare più di 30 siti con resti di delimitazioni agrarie anteriori alla formazione della torba. Indagini a Behy/Glenulra hanno accertato l'esistenza di muri paralleli su un'area di 1200 × 800 m² corrispondente a circa 1 km² (100 ha). Resti di muri scoperti occasionalmente durante l'estrazione della torba o individuati con sondaggi attestano un'estensione del sistema, in senso est-ovest, di gran lunga maggiore rispetto a quanto documentato nella planimetria edita. Resta inoltre non definito il prolungamento degli allineamenti in direzione sud. I muri, costruiti con due filari di pietre che contenevano un riempimento di piccole pietre, sono collocati ad una distanza che varia da 150 a 200 m e determinano lunghe strisce suddivise internamente da muri perpendicolari al tracciato sud-ovest/nord-est. Sono così definiti appezzamenti rettangolari che variano da 2 a 7 ha circa e in quattro di essi sono attestati recinti di forma ovale o circolare considerati contemporanei ai campi. Lo scavo di un recinto e di una tomba megalitica (forse posteriore al tracciato delle delimitazioni), presente nell'angolo di un campo, ha restituito materiali di età neolitica, mentre misure radiometriche indicano una datazione tra la fine del IV e la metà del III millennio a.C. Il sistema, per la presenza dei recinti, era probabilmente destinato a forme di allevamento stabile, ma ciò non impedisce di ipotizzare un'utilizzazione agricola attuata mediante una rotazione dei campi. Impronte di aratura, stratigraficamente correlabili alle testimonianze di Behy/Glenulra, sono infatti presenti in altri siti della stessa contea. Sulle colline di Dartmoor, nel Devon (Gran Bretagna sudoccidentale), esiste il più notevole sistema di organizzazione agropastorale e di pianificazione territoriale attualmente conosciuto. Visibile ancora in modo esteso e dal 1951 tutelato con l'istituzione di un Parco Nazionale, consta di argini di pietra, alti circa 0,5 m e larghi 1,5 m, localmente chiamati reaves. Questi, in parte o interamente coperti da uno strato di torba con spessore compreso da 0,1-0,2 m a 1 m, determinano una divisione globale del distretto collinare in una decina di unità territoriali la cui grandezza varia da 20 a 70 km². Queste unità territoriali, che corrispondono nel Dartmoor meridionale e occidentale a valli fluviali, erano abitate da comunità residenti in villaggi e/o distribuite in piccoli agglomerati collocati in diversi punti della zona messa a coltura. Ciascuna comunità, secondo una recente interpretazione, sembra possedesse un proprio sistema agrario, in parte destinato alla coltivazione, e una propria area di pascolo talvolta separata da quella pertinente alle comunità confinanti con reaves intercomunitari. La parte più alta del distretto collinare costituiva un territorio di pascolo comune, distinto e delimitato da quello appartenente a ciascuna comunità mediante lunghi reaves perimetrali (il Great Western Reave sembra raggiungesse una lunghezza massima di 17 km). I sistemi agrari determinati da reaves paralleli terminanti su un singolo reave trasversale, sono in genere estesi 200-300 ha, ma esistono due sistemi con estensione superiore a 1000 ha, e altri due, il Dartmeet e il Rippon Tor, che rispettivamente coprono 3000 e 4500 ha circa. Le fasce territoriali così ottenute, estese su più ettari, sono internamente suddivise in appezzamenti da reaves trasversali, ma lo studio della dimensione dei singoli campi è qui ostacolato dalla accertata esistenza di suddivisioni trasversali realizzate con staccionate e dalla lunga durata dei sistemi che certamente ha determinato locali modifiche e parziali aggiustamenti del tracciato originario. L'intera pianificazione territoriale, forse attuata a seguito di un progetto globale che implica una decisione di tipo "federale", è datata a poco prima della metà del II millennio a.C. (1700- 1600 a.C.), ma non mancano testimonianze di più antiche delimitazioni (inizi del II millennio a.C.) realizzate mediante singoli reaves, fossati e palificazioni con il concorso di monumenti megalitici a carattere funerario o rituale. Nell'arco alpino nord-occidentale, a Saint-Martin de Corléans (Aosta), lo scavo dei livelli sovrastanti le strutture megalitiche del III millennio a.C. ha portato in luce una successione di delimitazioni agrarie comprese tra Bronzo Medio e Bronzo Finale (metà del II - inizi del I millennio a.C. ca.) associate ad impronte di aratura orientate nord-ovest/sud-est. Nella piccola area esplorata sono stati distinti appezzamenti paralleli di forma rettangolare allungata dei quali è stato possibile determinare solo l'ampiezza, corrispondente a 24,8 m, forse multiplo di un'unità lineare di 0,31 m. I campi indicano una divisione permanente dello spazio arativo, forse racchiuso in un sistema a terrazze, con delimitazioni periodicamente rinnovate mediante l'apprestamento di semplici creste terrose sormontate da un filare di grossi ciottoli. In un'ampia regione circostante Napoli, le coltri eruttive dei sistemi vulcanici del Somma-Vesuvio e dei Campi Flegrei hanno ripetutamente interrotto o solo coperto sistemi insediativi i cui aspetti, diacronicamente scanditi dagli eventi vulcanici, possono essere studiati in effettiva relazione sincronica. Nel comune di Gricignano, nella pianura che si estende tra Caserta e Napoli, impronte negative di arature incrociate e superfici cristallizzate da sedimenti vulcanici nella forma coltiva a solchi e porche o semplicemente zappettate si susseguono nell'arco di circa mille anni, tra l'inizio del III e l'inizio del II millennio a.C. Per le età più antiche, la limitata estensione delle indagini non ha restituito evidenze di un sistema di delimitazioni; alla metà del III millennio, però, la disposizione planimetrica delle superfici arate potrebbe suggerire appezzamenti delimitati da solchi e separati da strisce di terreno incolto. Tra il XIX e il XVII sec. a.C. un'eruzione pliniana del Somma-Vesuvio ha fissato la forma di un esteso paesaggio agrario caratterizzato da terreni sfruttati in modo intensivo e specializzato. Ai due lati di un battuto stradale orientato nordest/ sud-ovest si estende un areale agricolo organizzato in lunghi appezzamenti separati da lievi dossi terrosi (cd. "bauletti"). Dell'intera estensione, valutabile in oltre 100 ha, è stata esplorata con campionatura areale una porzione di 20 ha circa, ad ovest del battuto stradale. In quest'area, per interpolazione delle evidenze, sono stati riconosciuti 10 appezzamenti, 4 dei quali larghi 30 m circa e i restanti poco meno di 60 m. Resta da determinare la lunghezza dei campi, comunque non inferiore a 460 m. All'interno di ciascun appezzamento erano presenti, con sviluppo parallelo ai bauletti, varie canalette disposte a distanze variabili da 7 a 9 m circa. La presenza di rare canalette ortogonali alle precedenti, che ne interrompevano talvolta la continuità, avvalora l'ipotesi di una funzionalità irrigua o di drenaggio dell'intero sistema di canalette. La superficie di ciascun campo risultava inoltre manipolata da probabili zappettature. Le testimonianze di Gricignano e di un'ampia parte della Campania offrono, rispetto a quelle più significative dell'Europa centrale e settentrionale, la possibilità di riconoscere nella reale funzionalità e nell'arco di una sola stagione, l'intera organizzazione produttiva di un abitato e di ricostruire, mediante la rete di percorsi che da esso si diramano, le relazioni con l'ambiente circostante. Nell'ambito dell'arte preistorica, particolare importanza rivestono alcune incisioni rupestri della Val Camonica interpretate come rappresentazioni topografiche di paesaggi rurali. A Cemmo, nel comune di Capo di Ponte (Lombardia), è stato individuato un insieme di incisioni databili tra l'inizio e la metà del II millennio a.C. realizzato su una roccia di 5 × 3 m, la cosiddetta "mappa di Bedolina". Incisioni formanti quadrati campiti a punteggio, talvolta contenenti cerchi, sono state interpretate come campi coltivati con abitazioni o strutture agricole. Alcuni recinti potrebbero rappresentare luoghi di pascolo o di stabbiatura. Linee diritte o sinuose potrebbero indicare strade che conducono ai campi, altre corsi d'acqua o canalizzazioni. Questa articolazione del paesaggio può forse costituire, per l'ambiente montano in cui è inserita, una rappresentazione schematica dei piccoli sistemi a terrazza. Rispetto a tali sistemi, articolati su estensioni limitate di territorio, talvolta corrispondenti a singole fattorie o a piccoli agglomerati, l'ipotesi di un possesso e di una conduzione individuale delle aree coltivabili non ha probabilmente alternative. Per i sistemi di Dartmoor, il cui tracciato sembra riflettere un progetto di pianificazione complessiva che coinvolge un insieme di comunità, è stata avanzata l'ipotesi di una proprietà collettiva e di una conduzione produttiva dei terreni regolata da un indirizzo economico assunto a livello comunitario. Il sistema di Gricignano con l'uniformità del suo aspetto coltivo, nonostante sia stato indagato in modo limitato, può offrire un sostegno all'ipotesi avanzata per Dartmoor. In generale, però, lo stato attuale della documentazione non consente ancora di approfondire questa problematica.
A. Beltran, Los grabados rupestres de Bedolina (Val Camonica), in BCamuno, 8 (1972), pp. 121-58; S. Caulfield, Neolithic Fields: the Irish Evidence, in H.C. Bowen - P.J. Fowler (edd.), Early Land Allotment, Oxford 1978, pp. 137-43; J. Guilaine, Vers une Préhistoire agraire, in J. Guilaine (ed.), Pour une archéologie agraire, Paris 1991, pp. 31-80 (con bibl. prec.); A. Fleming, Landscape Archaeology in the British Upland: Opportunities and Problems, in M. Bernardi (ed.), Archeologia del paesaggio, Firenze 1992, pp. 67-88; R. Mollo Mezzena, L'età del Bronzo e l'età del Ferro in Valle D'Aosta, in Atti XXXI RiunScientIIPP, Firenze 1997, pp. 139-223; A. Marzocchella, Tutela archeologica e preistoria nella pianura campana, in P.G. Guzzo - R. Peroni (edd.), Archeologia e vulcanologia in Campania, Napoli 1998, pp. 97-133.
MONDO EGEO IL FENOMENO DELL'URBANIZZAZIONE: LA NASCITA DELLA CITTÀ E IL RAPPORTO CON IL TERRITORIO Per la trattazione sul territorio in area egea, v. Dai primi insediamenti al fenomeno urbano. Mondo egeo.
di Giovanni Uggeri
Nella Grecia arcaica era diffusa la piccola proprietà con una casa isolata e pochi servi, come quella documentata dalla figura del vecchio Laerte, che vive nella parte padronale della dimora rurale (Od., XXIV, 391). Via via il costituirsi della grande proprietà terriera dà vita a strutture aristocratiche, la cui ricchezza dipende essenzialmente dallo sfruttamento di latifondi, che non vengono più coltivati direttamente, ma attraverso amministratori (come nella situazione più recente rappresentata da Odisseo, che ha il fido Eumeo) e servi, per cui il proprietario può dedicarsi liberamente alle occupazioni cittadine, innescando un contrasto, destinato ad accentuarsi nel tempo, tra la vita urbana e quella rurale ed anche tra i due tipi insediativi. L'agricoltura non di sussistenza fu caratterizzata dalla produzione di olio (Attica) e di vino (isole egee) per l'esportazione. La colonizzazione greca rappresenta un salto qualitativo, talora rivoluzionario, rispetto alle situazioni che i coloni si erano lasciate alle spalle in madrepatria. Il fatto nuovo, rispetto a centri sviluppatisi progressivamente e caoticamente, è la città fondata, realizzata ex novo e in maniera organica, da parte di una spedizione, che spesso raccoglie "la miseria di tutta la Grecia" (come cantava nella prima metà del VII sec. a.C. il poeta pario Archiloco, che partecipò ad una colonia nell'isola di Taso, stanco degli stenti in patria: "basta Paro, coi tuoi fichi e la vita di mare"). Benché spesso guidata da un aristocratico caduto in disgrazia in patria (come Archia ecista di Siracusa e Falanto ecista di Taranto), l'impresa coloniale impone un'organizzazione della società e del territorio su base paritetica e funzionale. Un quadro coevo ce ne ha lasciato l'Odissea nel descrivere come ecista di una colonia il nonno di Nausicaa, che soccorre il naufrago Odisseo. Nausitoo ha fondato la città, circondandola di mura, costruendo abitazioni, innalzando i templi agli dei e distribuendo la terra ai coloni. Questa nuova esperienza produrrà in Occidente la democrazia e i codici legislativi, ma anche una precoce e originale elaborazione urbanistica. Dopo un primo contatto con la regione nella quale si intendeva impiantare la nuova colonia, si individuava un fertile distretto agricolo, che potesse ripagare dagli stenti patiti nella madrepatria, come canta Archiloco. Si passava quindi all'occupazione definitiva del sito prescelto, talora pacifica, talora violenta per la reazione degli indigeni, e si procedeva a organizzare lo spazio e a dividerlo. Si definiva il perimetro della città; si delimitavano subito un'area sacra ed un'area pubblica; si destinava il restante spazio, sempre molto ampio, all'edilizia privata. Solo al di fuori di una fascia di rispetto era lecito seppellire. Tutto il territorio circostante giudicato adatto alle colture veniva allora disboscato e ripartito in lotti regolari tra i coloni. Probabilmente l'uniformità di orientamento e di dimensione furono a fondamento di queste divisioni agrarie sin dall'inizio, anche se solo più tardi abbiamo testimonianze esplicite dell'isomoiria, ossia dell'uguaglianza del kleros, che è la parcella di terreno assegnata al singolo colono nell'ambito della chora occupata. Horoi, ossia cippi, definivano i confini; la selva circostante era destinata agli usi comunitari, tranne i boschi sacri, nei quali era anche proibito pascolare. In Crimea ne abbiamo avuto le prime evidenze archeologiche nelle colonie di Chersoneso e Olbia, dove sono state riconosciute sistemazioni agrarie regolari, anche se basate su criteri differenti. Alle spalle del Chersoneso la chora si estende per tutta la larghezza della penisola ed è divisa in una maglia omogenea di larghi rettangoli orientati a sud-est, mentre piccoli villaggi rurali si dislocano ancora più all'interno. Le fattorie presentano impianto rettangolare chiuso; gli ambienti si allungano sui quattro lati e si affacciano sul cortile centrale; di solito il complesso è difeso da una torre angolare aggettante. Ad Olbia abbiamo una maglia di rettangoli più irregolari e non perfettamente orientati, mentre nella penisola di Taman, sempre sul Mar Nero, i lotti diventano spesso dei trapezi e gli orientamenti sono differenti nei vari settori, aderendo ad assi viari. In Italia ne possediamo una testimonianza esemplare nell'agro di Metaponto, che ha conservato fino ad oggi le divisioni agrarie della colonia greca, riconoscibili nei canali di drenaggio, paralleli tra di loro, che solcano tutto il tavolato della chora scendendo perpendicolari al litorale. Nella parte immediatamente alle spalle della città, tra i fiumi Bradano e Basento, le distanze tra i canali sono di 210 m, mentre nell'espansione successiva al di là del Basento fino al Cavone (l'Acalandro di Licofrone) l'intervallo è di 240 m, segno di una maggiore possibilità di terra e compenso alla maggior distanza dall'abitato. Ai lati dei canali sono state recentemente scavate le fattorie dei singoli kleroi, che cominciano intorno alla metà del VI sec. a.C., quando maggiore si fece la sicurezza alle spalle della polis, non più minacciata dagli indigeni, e quando il territorio era stato stabilmente drenato. Ma anche prima i contadini dovevano disporre di un rifugio sul campo per ripararsi dalle intemperie e depositare gli attrezzi, evidentemente una capanna con tettoia in materiale deperibile. Infatti nell'ambito dell'ampio lotto ottenuto in città l'abitazione costruita dai coloni dell'epoca delle fondazioni era minima, essendo costituita da un semplice vano quadrato, che ‒ anche se già orientato secondo le strade che saranno sistemate più tardi ‒ ha una dimensione esigua di 4 × 4 m, come è stato riscontrato a Naxos, Megara, Siracusa ed Eloro, Gela: indizio di una vita che si svolgeva all'aperto, prevalentemente nei campi, per cui la casa era solo un deposito di pochi beni e un rifugio per la notte. La tecnica costruttiva è quella della madrepatria, la cosiddetta "muratura lesbia" con fondazioni in opera poligonale, che garantiva maggiore stabilità alle costruzioni. L'alzato doveva essere abitualmente in mattone crudo, la copertura straminea. Un problema sentito dai Greci nella loro fame di ampie distese di terre da destinare alla coltura cerealicola fu quello della bonifica delle pianure alluvionali esposte allo spogliamento dei fiumi. È sintomatico al riguardo il culto di Acheloo o di Gelas, il fiume rappresentato come un impetuoso mostro taurino, ma che assume volto umano e dalla originaria fase distruttiva passa a quella di benefico collaboratore dell'uomo. Il mito di Dedalo ne fa un bonificatore idraulico in Sicilia, a Megara e ad Agrigento, come alle foci del Po. Diomede canalizza, bonifica e mette a coltura gli sterminati Campi Diomedei della cerealicola Daunia. La tradizione celebra anche l'intervento soprannaturale di Aristea per la bonifica di Metaponto e quello di Empedocle per Agrigento. Selinunte celebra sulle monete la bonifica dell'Hypsas. A Camarina, la mefitica palude nella quale ristagnava alla foce il fiume Ippari si trasforma nella benefica aura velificans della ninfa Camarina che compare sulle monete dopo la massiccia bonifica, della quale P. Orsi scavò la colmata. Negli anni 336-323 a.C. Cratete di Calcide riprosciugò il lago Copaide, ripulendo gli antichi emissari, e poco dopo furono prosciugate le paludi di Eretria. Nella fattoria greca si individuano alcune parti essenziali con funzioni nettamente distinte, ossia: andronion, thalamos, la residenza; kleistion, l'alloggio dei servi; boustasis, la stalla per gli animali; probaton, il recinto per ovini; moulion, il mulino, di solito raggruppati attorno ad una corte centrale. Nella fattoria si provvede all'elaborazione e conservazione delle derrate alimentari con opportuni frantoi, torchi, mulini, tini e magazzini; si affiancano spesso altre attività produttive, almeno per gli usi interni, come fornaci per la produzione di tegolame e ceramiche e forge per riparare gli attrezzi in ferro. Nelle fattorie ellenistiche di solito ragioni di sicurezza impongono la costruzione di torri angolari, almeno una, che ritroviamo fino in Palestina. A Metaponto le fattorie del periodo classico sono caratterizzate di solito da un recinto rettangolare in muratura, aperto verso sud e su tre lati del quale si dispongono gli ambienti, differenziati per dimensione e funzioni, con alloggi, cucina, stalla, deposito, fornace, sterquilinium. In età ellenistica molte fattorie vengono abbandonate, mentre altre si dotano di una torre; pochissime sopravvivono in età romana. A Camarina sono state scavate due fattorie suburbane, costruite dopo la rifondazione geloa del 461 a.C., quando si ebbe una ridistribuzione della terra ai nuovi coloni (Diod. Sic., XI, 76). Esse presentano la solita tipologia a recinto rettangolare con ambienti distribuiti sui tre lati e specializzati nelle funzioni. Le fattorie di Montegiordano (Cosenza; seconda metà del IV sec. a.C.) ospitavano al massimo due famiglie e avevano all'esterno la fornace per ceramiche. Analoghe sono le fattorie del monte Aipos a Chio, come una villa ellenistica di Erythrae (25 × 18 m). Per il mondo greco orientale, anche se in epoca più tarda, siamo informati da Galeno, che descrive una fattoria nel territorio di Pergamo e fa acute considerazioni sulla distribuzione degli ambienti e sull'igiene. L'insediamento rurale nel mondo greco non si esaurisce ovviamente nelle fattorie distribuite ordinatamente nella chora suburbana. Nel territorio più lontano dalla città sorgevano i villaggi rurali (polichne, kome), forse sopravvivenza dei piccoli abitanti indigeni, ed inoltre phrouria disposti in funzione strategica a difesa della chora e delle principali vie di penetrazione o di controllo della navigazione, come quelli costruiti da Falaride nel VI secolo attorno ad Agrigento o quelli attorno a Taranto. Piccoli nuclei demici nella campagna erano anche polarizzati dai numerosi santuari extraurbani e dai santuari rurali del mondo greco. I santuari si sviluppano attorno ad un luogo di culto, con un loro temenos, complessi architettonici e ricche proprietà terriere, per cui possono assumere un'incidenza rilevante nel territorio, fino a diventare entità autonome, spesso distinte dall'economia delle città. In Magna Grecia è esemplare il caso di Eraclea, poiché grazie alle iscrizioni su lamine di bronzo, ora conservate nel Museo di Napoli, vi conosciamo l'articolazione dei terreni di due santuari (IG XIV, 645). Così di quello di Zeus ad Aizanoi e di quello di Zeus Temenite ad Arcesine d'Amorgo, ove si affittano le terre con vigneti cinti di muri (IV sec. a.C.; IG XII, 7, 62). Un tipico paesaggio agricolo suburbano, quello che è stato definito il giardino mediterraneo, emerge in Sicilia dall'unico documento organico di assetto fondiario sopravvissuto in un'iscrizione, che fu rinvenuta ad Alesa ai tempi del Fazello e poi dispersa; le due colonne di testo, parzialmente conservatesi, descrivevano i confini di diversi lotti e di un contiguo querceto, costituiti dal fiume, da canali e strade, edifici ed alberi, fontane, santuari ed edicole (IG XIV, 356); sono ricordati l'oliveto e campi per cereali, leguminose ed ortaglie.
A contatto intimo con i Greci della Campania sin dal periodo orientalizzante, gli Etruschi progredirono notevolmente nello sfruttamento agricolo delle loro terre e furono in grado di alimentare l'esportazione di cereali, vino ed olio. Provetti idraulici, essi procedettero anche ad estese bonifiche, come lungo l'Arno, che divisero in tre canali, e nella Val di Chiana tra il Tevere e l'Arno. Anche nell'Italia settentrionale il loro intervento è documentato nella bassa pianura del delta del Po tra Adria e Spina. Dalla loro tecnica agrimensoria i Romani conobbero lo squadro con il termine groma, che rappresenta una mediazione etrusca dal termine greco gnomon. L'unica applicazione di ripartizione geometrica che noi possiamo oggi riscontrare è però in ambito urbano, negli impianti ortogonali delle città di Spina e di Marzabotto. Accanto alle grandi città che caratterizzano l'Etruria arcaica, sono testimoniati tuttavia insediamenti rurali sparsi e centri di grandi domini fondiari aristocratici, come nel caso di Marsiliana o di Murlo, ma anche semplici fattorie isolate. Anche nel resto dell'Italia antica le popolazioni indigene avevano sviluppato la loro agricoltura, influenzate dai contatti con i Greci e con gli Etruschi, come ad esempio i Liguri, che avevano trasformato una costa per natura inospitale in un giardino, tagliando la roccia per creare i terrazzamenti, come sottolineava ammirato Posidonio (Strab., V, 2, 1). Essi fertilizzavano i terreni con la pratica del debbio e vivevano dispersi in villaggi; ne possediamo una testimonianza epigrafica nella sentenza dei Minucii, che ricorda l'esistenza di comunità montane disperse vicatim, in pagi e vici. Anche quelle popolazioni che praticavano la transumanza appenninica vivevano disperse e i grandi recinti dell'Abruzzo, che erano situati in altura e circondati da mura, servivano soltanto ad ammassarvi la popolazione e il bestiame in momenti di particolare pericolo.
Centuriazione - Molto più dettagliate sono le nostre conoscenze sulla cultura agricola latina e sull'insediamento rurale di epoca romana, grazie soprattutto ad una serie di fonti tecniche, che trattano di agronomia e di agrimensura. Abbiamo vaghe notizie sulla conoscenza di dottrine agrimensorie e sulla loro applicazione pratica già per il periodo regio di Romolo e Numa Pompilio, certo come riflesso delle vicine esperienze etrusche e sabine. Ma la tipica centuriazione, che accompagnò la colonizzazione romana, e le connesse teorie e tecniche agrimensorie ci sono note solo dai tardi estratti da trattatisti della fine del I e degli inizi del II sec. d.C. (Frontino, Balbo, Siculo Flacco e Igino), condensati in una epitome di V sec. d.C., che raccoglie norme sia tecniche che giuridiche (Libri gromatici). Assai più vivida è tuttavia l'evidenza che si offre ai nostri occhi nella regolarità della campagna, ad esempio in Campania o in Emilia, ancor meglio percettibile sulle carte topografiche, che sin dall'inizio della cartografia scientifica permisero appunto di scoprirla, mentre poi la fotografia aerea, che presenta un maggior numero di elementi allineati, anche in zone vuote nella cartografia usuale, ha consentito di riconoscerla su scala vastissima, specialmente in Tunisia. Ne sono caratteristica saliente ed impressionante l'assoluta regolarità ed ortogonalità delle tracce e la loro perfetta equidistanza secondo le misure agrarie romane. Ulteriori conferme si sono avute dall'epigrafia, ad esempio dai cippi confinari, come i Termini Graccani, che sono anche serviti a dimostrare la reale operatività della commissione triumvirale graccana. Lungo gli allineamenti centuriali si trovano anche cippi anepigrafi, detti "termini muti". La teoria agrimensoria prevedeva l'orientamento astronomico subordinato a precise norme sacrali, ma più tardi la profonda conoscenza dell'ambiente suggerì una disposizione basata prevalentemente sulla necessità di drenaggio dei terreni e sulla bisettrice di valle. In Italia le tracce della centuriazione sono risultate più ampiamente diffuse in alcune regioni di pianura dove lo sfruttamento agricolo è stato intenso ed ha avuto continuità nel corso dei due ultimi millenni, in particolare la regio I (Campania), la VIII (Aemilia) e la X (Venetia). Sul piano metrico, gli agrimensori partivano dall'unità di misura agraria romana, che era l'actus (corrispondente all'incirca allo schoinos dei Greci) di 120 piedi (35,6 m) di lato; due actus formavano lo iugero e due iugeri affiancati l'heredium (ossia la proprietà individuale a pieno titolo), che risultava così un quadrato di 240 piedi di lato (71,2 m). All'origine 100 proprietà costituivano una centuria e da qui deriva il nome dato al procedimento agrimensorio. La centuria normalmente assumeva la forma di un quadrato di 2400 piedi di lato (712 m); essa è attribuita dalla tradizione alla divisione romulea e comunque la riscontriamo anche in età storica nel caso dell'assegnazione dei terreni ad ovest di Terracina (329 a.C.), colonia maritima romana di 300 coloni. In prosieguo di tempo e con l'estendersi delle conquiste i lotti dati ai coloni furono sempre più grandi ed in età triumvirale la centuria venne suddivisa tra solo quattro coloni, che ottennero quindi un lotto quadrato di 50 iugeri (centuria triumviralis, lato 356 m, ossia 12,6 ha). La materializzazione dei confini lungo i limiti delle divisioni agrarie era ottenuta anzitutto con le strade poderali, che risultavano pertanto tutte equidistanti, parallele e perpendicolari; esse erano indispensabili per raggiungere i singoli lotti e soprattutto per il trasporto delle derrate. Nei terreni asciutti dei muretti separavano i campi (Istria, Salento), mentre nelle pianure servivano allo stesso scopo gli indispensabili canali di drenaggio, che assicuravano la bonifica agraria e la corretta profondità della falda. Questi elementi si sono spesso perpetuati fino ad oggi, soprattutto dove ci sono stati continuità d'uso, manutenzione e volontari riutilizzi. Va ricordato che la colonizzazione comportò massicci disboscamenti ed estese arginature, che per guadagnare terreno irreggimentarono le acque originariamente divaganti; opere che andarono perdute con l'abbandono dei campi e le variazioni climatiche alla fine dell'antichità. Dalla centuriazione vennero escluse le aree non adatte alle normali colture ed utili alla comunità nel suo complesso, come i saltus, specialmente territori di montagna, con prati adatti al pascolo e boschi necessari per ricavare legna. Una buona documentazione epigrafica di queste sistemazioni fondiarie ci ha restituito i frammenti marmorei che raffigurano il catasto della colonia di Orange (Arausio) nella valle del Rodano e le liste di proprietà contenute nelle lastre bronzee della Tabula alimentaria di Veleia e di quella dei Ligures Baebiani del Sannio. Anche nel Lazio arcaico si era avuta la piccola proprietà coltivata direttamente dal tipico Cincinnato con l'aiuto di pochi servi della famiglia rustica; il proprietario era molto presente sul fundus, pur senza trascurare gli obblighi politici e militari. Dopo le guerre puniche assistiamo ad una profonda trasformazione dell'economia rurale, con la formazione della grande proprietà e si cominciano a scrivere trattati agronomici, a partire da Catone, un conservatore, ma attento alle novità economiche del mondo mediterraneo nelle sue raccomandazioni al figlio; più organici sono i trattati di Varrone e di Columella, mentre Vitruvio si sofferma sulle soluzioni architettoniche e Plinio sulle varie colture; condizioni profondamente mutate riflette più tardi Palladio. Ma non vanno trascurati i tanti riferimenti letterari ed in particolare il contributo tecnico datoci da Virgilio con le Georgiche. Le coltivazioni più frequenti erano di miglio, segala, orzo, avena, panico. La frutta aveva interesse nel suburbio oppure per il consumo locale. Con il diffondersi della monocoltura ad olivo o vigneto, salici e canne servirono per aggiogare le viti. Lo sfruttamento della selva e l'allevamento di animali da cortile erano sempre praticati nella fattoria, mentre la pastorizia transumante, che cadde presto in mano di grandi latifondisti e degli imperatori, alimentava il commercio laniero e le industrie tessili. A partire dalla tarda Repubblica il centro del fundus era costituito da un nucleo di edifici funzionali, spesso associati ad una villa. Dopo le guerre puniche si assiste infatti all'organizzazione capitalistica delle monocolture specializzate, legate a forme di sfruttamento intensivo e razionale orientato all'esportazione e ispirate alla Sicilia (un trattato aveva scritto Gerone di Siracusa) e a Cartagine (fu tradotto il trattato di Magone): nasce allora la distinzione nella villa tra pars rustica e pars urbana, nuovo luogo di evasione già per Scipione Africano, insieme rifugio per l'otium, manifestazione di ricchezza, contrapposizione alla vita di città.
Mondo greco:
J. Bradford, Ancient Landscapes, London 1957; G. Chouquer - F. Favory, Contribution à la recherche des cadastres antiques, Paris 1960; D. Asheri, Distribuzioni di terre nell'antica Grecia, Torino 1966; G. Uggeri, Kleroi arcaici e bonifica classica nella chora di Metaponto, in PP, 125 (1969), pp. 51-71; A. Wasowicz, Traces de lotissements anciens en Crimée, in MEFRA, 84 (1972), pp. 199-229; J. Benoît, L'étude des cadastres antiques, in DocAMérid, 8 (1985), pp. 25-48; S.J. Saprykin, Ancient Farms and Land-plots on the chora of Khersonesos Taurike, Amsterdam 1994; A. Wasowicz, Deux modèles d'aménagement de l'espace dans les colonies grecques, in Archéologia, 46 (1995), pp. 7-18.
Mondo romano:
A. Deleage, Les cadastres antiques jusqu'à Dioclétien, in Études de Papyrologie, II, 2, 1933, pp. 73-228; F. Castagnoli, Le ricerche sui resti della centuriazione, Roma 1958; O.A.W. Dilke, The Roman Land Surveyors, London 1971; J.J. Rossiter, Roman Farm Buildings in Italy, Oxford 1978; H. Mielsch, Die römische Villa. Architektur und Lebensform, München 1987 (trad. it. Firenze 1990); P. van Ossel, Établissements ruraux de l'Antiquité tardive dans le nord de la Gaule, Paris 1992; G. Tate, Les campagnes de la Syrie du Nord du IIe au VIIe siècle, I, Paris 1992; R. Foertsch, Archäologischer Kommentar zu den Villenbriefen des jüngeren Plinius, Mainz a. Rh. 1993; Ph. Leveau - P. Sillières - J.-P. Vallat, Campagnes de la Méditerranée romaine. Occident, Paris 1993; E. Scott, A Gazetteer of Roman Villas in Britain, Leicester 1993; Y. Hirschfeld, The Palestinian Dwelling in the Roman-Byzantine Period, Jerusalem 1995.
di Giuliano Volpe
Le forme dell'insediamento nelle campagne romane furono molteplici a seconda delle epoche e delle particolari condizioni ambientali dei vari territori dell'Italia e dell'Impero. I differenti modelli di insediamento rurale sono infatti da mettere in relazione diretta non solo con le specifiche situazioni storico- economiche, geomorfologiche e climatiche ma anche con i tipi di coltura e di sfruttamento del suolo prevalenti in un certo momento e in un determinato spazio fisico (le produzioni specializzate come l'olivicoltura e la viticoltura, le colture estensive come la cerealicoltura, le attività silvo-pastorali, ecc.), poiché esisteva certamente uno stretto legame tra le forme della produzione e le forme del popolamento. Volendo schematizzare, si possono individuare due grandi categorie di insediamento rurale, ciascuna articolata al proprio interno in una molteplicità di tipi: a) l'abitato minore, il "villaggio", cioè l'agglomerato costituito da più edifici sparsi; b) l'edificio isolato, costituito sostanzialmente da un'unica costruzione, sia pure di dimensioni e natura variabili. Nei diversi territori sottoposti a indagini archeologiche sistematiche si è potuto peraltro verificare non solo la frequente trasformazione ‒ anche in uno stesso sito, con o senza soluzione di continuità ‒ di un tipo in un altro (ad es. una fattoria in una villa, o una villa in un vicus), a seconda delle epoche, ma anche la compresenza di diversi tipi di insediamento (ad es. in un paesaggio dominato dalle grandi villae possono essere contemporaneamente attivi alcuni villaggi o alcune piccole fattorie). Già da queste semplici considerazioni preliminari emerge quanto sia difficile elaborare una tipologia precisa, che possa essere fondata sia su dati archeologici certi sia sulle notizie fornite dalle fonti letterarie ed epigrafiche. Anche gli archeologi dei paesaggi rurali hanno non poche difficoltà nel definire criteri precisi che consentano di distinguere e denominare i vari siti individuati in superficie nel corso delle ricognizioni: per questo motivo normalmente si utilizzano come elementi distintivi le dimensioni dell'area di dispersione e il tipo dei reperti rilevabili in superficie. Ad esempio, in uno studio esemplare, come quello condotto da T.W. Potter (1979) in Etruria meridionale, sono stati distinti agglomerati minori, articolati in più nuclei, cioè villaggi, ed edifici isolati più o meno grandi; i secondi sono stati a loro volta divisi in: "capanna" (laterizi e frammenti ceramici sparsi in un'area di 300 m² ca.), "fattoria", casa (laterizi, blocchi squadrati, frammenti ceramici, tessere di mosaico e mattoncini per pavimenti in opus spicatum in un'area di 1200 m² ca.), "piccola villa" (come la precedente, ed inoltre frammenti di intonaco dipinto, marmi, strutture termali, ceramiche più pregiate, in un'area di 2200 m² ca.), "grande villa" (come la precedente, ed inoltre elementi architettonici, in un'area di 4700 m² ed oltre). Questi criteri non sono però equiparabili a quelli adottati da altri archeologi, tanto che quasi per ogni territorio indagato sono stati utilizzati sistemi diversi. Una notevole indeterminatezza si riscontra inoltre a livello lessicale, tanto nel latino quanto nelle lingue moderne: il termine latino che indica genericamente un edificio è aedificium, mentre per le strutture abitative minori sono utilizzate le definizioni di casa e di tugurium. Più specifico e tecnico è il termine villa, anche se esso non è affatto privo di problemi interpretativi ed è da tempo oggetto di un intenso dibattito storiografico. Nel linguaggio storico-archeologico villa indica un tipo di azienda agricola, descritta (anche se con sfumature e caratteri diversi) dagli autori di opere agronomiche Catone, Varrone e Columella, caratterizzata da dimensioni medio-grandi e da una notevole articolazione planimetrica e produttiva e sviluppatasi in Italia nella fase di massima espansione del cosiddetto "modo di produzione schiavistico" (II sec. a.C. - II sec. d.C.): in tal senso alcuni studiosi hanno proposto di affiancare a villa l'aggettivo "schiavistica", particolarmente appropriato per le grandi aziende agricole dell'Italia centrale tirrenica, ma più difficilmente riferibile ad altre realtà italiche e, soprattutto, provinciali, in cui pure le villae furono ampiamente diffuse. Per tali motivi è preferibile evitare di tradurre il termine villa, che altrimenti andrebbe reso con fattoria, parola troppo generica per indicare questa peculiarità del mondo romano. In età tardoantica prevalse la dizione, preferita anche da Palladio, di praetorium, termine desunto dal linguaggio militare poi passato ad indicare la residenza dell'imperatore, della guardia e dei funzionari, successivamente il palazzo e la villa imperiali fino ad essere esteso ad ogni tipo di residenza d'alto rango. Non manca negli autori latini anche l'indicazione di villulae, cioè edifici rurali di minori dimensioni, come ad esempio, in età tardoantica, le 60 villulae, abitate da schiavi, distribuite all'interno di possedimenti della gens Valeria nel territorio di Messina (Vita Melaniae, 18). In assenza di elementi più precisi, è preferibile riservare alle strutture abitative e produttive rurali minori le definizioni di "fattoria" o "casa" e, quando è possibile (ad es. per quegli edifici posti all'interno di territori centuriati di colonie latine o romane), di "casa colonica".
"Si definiscono vici gli insediamenti rurali come quelli che si trovano presso i Marsi e i Peligni che non hanno le villae; tra i vici, alcuni formano una comunità ed hanno un diritto di giurisdizione, altri non hanno nessuna di queste prerogative; essi funzionano comunque come luoghi di mercato..." (Fest., p. 502 s. Lindsay). Questa celebre definizione di Pompeo Festo, desunta da Verrio Flacco, è alla base di ogni trattazione sul vicus. In essa, sia pure in maniera problematica, sono contenuti alcuni elementi interessanti: intanto il vicus sarebbe stato caratteristico di quegli spazi rurali non interessati dalla diffusione delle villae (anche se nella realtà tale presunta contrapposizione fu molto più sfumata); inoltre, dalla relazione stabilita tra vici e villae sembra desumersi che entrambe queste realtà abbiano costituito, sia pure in maniera alternativa, l'unità insediativa elementare di un territorio. Complesso è infatti il problema del rapporto tra vici e pagi, questi ultimi costituiti, sempre secondo Festo, da quanti utilizzavano le stesse risorse idriche (p. 247 Lindsay). In generale si ritiene che il pagus costituisca un distretto territoriale più o meno ampio comprendente uno o più vici, organizzati in aderenza alle caratteristiche geomorfologiche della zona e in particolare tenendo conto della disponibilità di un elemento essenziale come l'acqua. Almeno in alcuni casi, poi, questi insediamenti minori godevano di autonomia amministrativa ed erano dotati di propri magistrati (magister pagi, magister vici, magister castelli), come ricorda lo stesso Festo e com'è confermato da una serie di documenti epigrafici. Nella tarda testimonianza di Isidoro di Siviglia (che sicuramente dipende da fonti più antiche) gli elementi che accomunano vici, pagi e castella sarebbero invece la mancanza di dignità cittadina e di autonomia e l'afferenza ad una civitas (Isid., Etym., 15, 2, 11 Lindsay). L'uso del termine "villaggio" resta in ogni caso fortemente problematico ed impreciso e la stessa categoria di vicus rischia di essere quasi un'invenzione semantica degli archeologi, utile solo per indicare genericamente un agglomerato abitativo rurale minore. Mentre i villaggi di età romana sono ben noti nei territori orientali dell'Impero (Egitto, Siria, ecc.), solo di recente la ricerca archeologica, soprattutto per quel che riguarda l'Italia romana, ha cominciato ad occuparsi di questo tipo di abitato, per sua natura difficile anche da individuare sul terreno e da indagare mediante lo scavo: si tratta infatti di realtà insediative sparse costituite da case e da altri tipi di strutture edilizie, spesso realizzate con materiali deperibili, disseminate nella campagna. A volte l'indizio per ipotizzare l'esistenza di un villaggio è fornito solo dai resti di una necropoli e dalla presenza di aree discontinue più o meno vaste (ma difficilmente inferiori a 1 ha) con materiali archeologici in superficie. Il sistema insediativo paganico-vicano era stato caratteristico di ampie zone dell'Italia preromana, le cui popolazioni vivevano katà komas (o, nella lingua latina, vicatim), soprattutto in quei territori interni dominati dall'economia pastorale (oltre ai Marsi e Peligni indicati da Festo, anche i Sabini, Marrucini, Vestini, Frentani, Hirpini, ecc.). In alcune di queste realtà il processo di romanizzazione, che comportò più o meno dappertutto l'imposizione di nuovi modelli insediativi urbani e rurali, incise meno, per cui l'insediamento paganico-vicano si perpetuò a lungo in età romana (Laffi 1974). Anche in molti territori extraitalici le comunità indigene erano organizzate in villaggi (gli oppida celtici, i castella africani, ecc.). Nelle regioni galliche, nell'età della romanizzazione, generalmente agli abitati d'altura preromani, oppida, più facilmente difendibili, si sostituirono abitati di pianura, vici, ma al tempo stesso si andarono diffondendo altre forme di insediamento, le villae e le fattorie. Le ricognizioni archeologiche effettuate in vari territori francesi hanno dimostrato che i vici continuarono spesso ad essere abitati fino ad età tardoantica, come dimostra il caso esemplare di un villaggio individuato nel territorio di Lunel: sorto in pianura nel 50-60 d.C. su una superficie di 3 ha, caratterizzato da una pianta regolare e dotato di edifici pubblici, l'abitato fu occupato fino ad età tarda, quando, nel VI secolo, subì uno spostamento di circa 200 m a nord. Nella Penisola Iberica, dopo la conquista romana, pur diffondendosi ampiamente l'insediamento in villae e fattorie, numerosi villaggi sopravvissero, come ad esempio quelli individuati nei territori di Carmo (Carmona), o di Sevilla (dove sono attestati 9 vici rispetto a 90 villae e 133 fattorie); diversamente, in Catalogna i villaggi preromani, tranne poche eccezioni, furono progressivamente abbandonati in età romana. Anche i documenti epigrafici ne confermano la diffusione in territorio ispanico: ad esempio, la dedica a Vespasiano fatta dai pagani pagi Carbulensis (CIL II, 2322) o la tavola bronzea di Bonanza che menziona il pagus Olbiensis dell'ager Venerensis. Nelle regioni nordafricane i villaggi (vici o castella), come quelli noti nella regione di Sitifis in Mauretania (Sétif, in Algeria), costituirono una peculiarità dei paesaggi rurali, come e ancor più delle villae, anche se rari sono ancora gli scavi. A volte essi presentano piante regolari ed altri elementi (edifici pubblici, epigrafi, ecc.) che ne denotano una fisionomia pseudourbana. In età tardoantica, nell'ambito di un generale ritorno a forme più naturali di sfruttamento del territorio e di una più marcata differenziazione regionale, il sistema paganico-vicano ritornò ad essere prevalente, ovviamente all'interno di un quadro di relazioni funzionali del tutto nuovo, soprattutto nelle province italiane centromeridionali ed insulari, anche in relazione all'incremento delle produzioni cerealicole. Assai frequente fu la ripresa degli stessi siti in precedenza occupati da villae e, in alcuni casi, anche da insediamenti preromani. Stretto fu il legame tra la geografia dei vici e l'organizzazione della grande proprietà terriera aristocratica, imperiale ed ecclesiastica, costituita da agglomerati di fondi (massae fundorum) non necessariamente contigui e diversi per dimensione e destinazione produttiva. Inoltre, un particolare impulso allo sviluppo degli agglomerati minori fu impresso dall'organizzazione viaria, specialmente lungo le strade servite dal cursus publicus. Durante il suo viaggio in Terrasanta il pellegrino di Burdigala (Bordeaux) nel 333/4 d.C. registrò puntualmente le tappe effettuate oltre che in civitates, anche in mansiones, mutationes, vici, castra. Allo stesso modo la Tabula Peutingeriana indica la presenza di una fitta rete di vici-stationes. Spesso nei villaggi con funzione di stazione di posta furono installate, oltre a magazzini (horrea) per la conservazione dei prodotti agricoli, anche infrastrutture che potevano garantire una sosta più confortevole, come ostelli e impianti termali. Un esempio per più versi significativo è costituito dal vicus situato in località Sofiana, ad alcuni chilometri dalla Villa del Casale di Piazza Armerina, identificabile con la mansio Philosophiana registrata dall'Itinerarium Antonini lungo la strada Catania-Agrigento: il villaggio, sviluppatosi soprattutto tra IV e V secolo, risulta composto da modeste abitazioni, da un impianto termale e da una chiesetta-martyrion con annesso cimitero. Inoltre, anche nelle province occidentali dell'Impero tardoantico i villaggi, secondo un modello già adottato in Oriente, in particolare in Egitto, furono considerati l'unità di base per l'esazione delle imposte, come dimostra una costituzione di Valentiniano I, databile al 368-375 d.C., conservata in Puglia nella Tavola di Trinitapoli (anche Cod. Theod., I, 16, 11): questa disposizione prescriveva ai praepositi pagorum l'obbligo di redigere rendiconti mensili e ai governatori provinciali di percorrere per pagos et vias i territori affidati alle loro cure in modo da verificare personalmente la regolarità del prelievo fiscale ed evitare abusi ai danni dei contribuenti. Un'organizzazione in pagi è documentata anche in Lucania et Bruttii dal catasto di Volcei del 323 d.C. (CIL X, 407) e in Sardinia da una costituzione di Giuliano del 362 (Cod. Theod., VIII, 5, 16). Agli inizi del V secolo una costituzione di Onorio pare proporre una sorta di gerarchia insediativa in cui compaiono, in ordine discendente, civitates, municipia, vici e castella (Cod. Theod., XI, 20, 3). Le fiere rurali, le nundinae, costituivano un elemento essenziale della vita dei piccoli agglomerati. In Africa settentrionale sono ben noti i mercati installati in castella e vici: ad esempio, un'epigrafe di el-Begar in Tunisia (CIL VIII, 270) riporta un decreto del 138 che attribuiva al senatore Lucillius Africanus il diritto di tenere un mercato, che doveva svolgersi a intervalli regolari, a Casae Beguenses, un villaggio situato nella regione di Begua. Oltre che nei territori interni e lungo le strade, i vici erano dislocati anche lungo le coste, con una specifica funzione portuale ed uno stretto legame con le attività tipiche dello sfruttamento delle risorse marine, come la pesca, la salagione del pesce e la confezione di salse (garum, ecc.) o la produzione del sale o della porpora. La Tabula Peutingeriana e l'Itinerarium Maritimum segnalano infatti numerosi piccoli villaggi posti lungo le strade litoranee e dotati di approdi, vere e proprie stationes maritimae in grado di garantire una sosta lungo le rotte di cabotaggio (cfr., ad es., It. Mar., 497, 9 - 508, 2 a proposito della rotta tra Roma e Arles). Un buon esempio di villaggio portuale è quello di Kaukana (Punta Secca nel territorio di Santa Croce Camerina, Ragusa), abitato dalla metà del IV agli inizi del VII secolo, dal quale partì la flotta di Belisario diretta in Africa nel 533 (Procop., Bell. Vand., I, 14): qui sono stati individuati oltre 20 edifici, comprendenti abitazioni e magazzini, oltre ad una piccola chiesa paleocristiana. Alla fine dell'antichità, infatti, in stretta connessione con l'insediamento paganico-vicano va posta la progressiva diffusione delle chiese nelle campagne, un fenomeno che condizionò fortemente la morfologia del popolamento rurale tardoantico e altomedievale. Soprattutto a partire dal V secolo si andò formando una vera e propria topografia cristiana rurale che si sovrappose alla geografia dei vici, con il chiaro intento di conquistare al culto i rustici e i pastores, abitanti di vici e pagi, dove più radicati erano appunto i culti pagani. Pur trattandosi prevalentemente di oratori privati o di chiese, spesso battesimali, con funzione parrocchiale, non mancarono anche casi di vere e proprie diocesi rurali (ad es., a Vicohabentia nella valle padana, in varie stationes del territorio laziale, o a Tropea e Nicotera in Calabria e a Turenum e nel saltus Carminianensis in Puglia), nonostante le disposizioni conciliari proibissero l'istituzione di diocesi in vico aut in modica civitate (Concilio di Serdica del 343). Numerosissimi sono ormai i casi archeologicamente noti di chiese e monasteri rurali diffusi in tutto il mondo romano. Limitandoci all'Italia si possono ricordare alcuni esempi relativi in particolare a scavi recenti: Mola di Monte Gelato nell'Etruria meridionale, dove, nello stesso luogo di un insediamento rurale romano, in età tardoantica (metà del IV - metà del VI secolo), all'interno di un vicus fu impiantata una piccola chiesa (in età altomedievale dotata anche di un battistero); a San Vincenzo al Volturno accanto ad una villa tardoantica fu realizzata una chiesa, che è stata ipoteticamente messa in relazione con il vescovo Marcus Samninus attestato agli inizi del VI secolo; a San Giusto, nei pressi di Lucera, a pochi metri da una grande villa, forse di proprietà imperiale, fu costruito tra V e VI secolo un imponente e ricco complesso paleocristiano composto da una chiesa doppia e da un battistero, molto probabilmente sede di Probus episcopus Carmeianensis, noto tra la fine del V e gli inizi del VI secolo. Altre forme di insediamento, in qualche modo assimilabili al villaggio, furono quelle legate a specifiche attività produttive, come le cave, le miniere, le saline, le fornaci. Un villaggio artigianale di età romana è da molti anni sistematicamente scavato a Sallèles d'Aude, nella fertile campagna della Francia meridionale: accanto ad una quindicina di fornaci, utilizzate tra il I e il III sec. d.C., adibite prevalentemente alla produzione di anfore galliche vinarie di vario tipo, e anche di ceramiche comuni e laterizi, sono stati individuati le abitazioni dei ceramisti e delle loro famiglie, i depositi dell'argilla, dei legnami, dei prodotti finiti, gli scarichi di lavorazione. Ancora più particolari furono gli insediamenti stagionali occupati dai pastori transumanti: un esempio significativo è costituito dalle decine di ricoveri, bergeries, individuati nella pianura costiera de La Crau d'Arles, costituiti da capanne, recinti per le pecore, pozzi, focolari, riuniti in gruppi più o meno densi, in una zona della Provenza interessata dalla grande transumanza già in età romana, e più tardi anche in età medievale e moderna (Badan - Brun - Congès 1995). In generale, quindi, possiamo considerare i vici, intesi nella loro accezione più ampia, come abitati rurali nei quali erano garantiti alcuni aspetti tipici della socialità antica, come la solidarietà di vicinato e di parentela, e si potevano svolgere varie attività, dallo stoccaggio delle derrate alimentari che erano destinate alla commercializzazione e all'annona, allo svolgimento di mercati agricoli (nundinae), dalla produzione artigianale alla sosta nel corso del viaggio, dalla cura animarum al pagamento dei canoni nonché delle imposte.
La villa è da includere tra i caratteri peculiari della civiltà romana. Pur avendo desunto alcuni elementi dalle esperienze agronomiche più antiche maturate nelle realtà greche, magnogreche, siceliote e puniche, con le quali Roma venne a contatto, essa fu infatti un prodotto originale dei Romani. Diffusa in tutto il mondo romano, la villa, nella sua espressione classica, si sviluppò in un territorio e in un periodo precisi, cioè nell'Italia centrale tirrenica tra il II sec. a.C. e il II sec. d.C., grazie ad una serie di condizioni particolarmente favorevoli: il processo di concentrazione della proprietà e la formazione di grandi ricchezze, la disponibilità di enormi masse di schiavi a seguito delle guerre di conquista, l'apertura di vasti mercati mediterranei, lo sviluppo di un efficiente rete di comunicazioni, una situazione di sostanziale stabilità e di pace. Lo schiavo, vero e proprio "strumento pensante dei Romani" (Carandini 1988), costituì l'elemento essenziale di questo modello di sviluppo. Nelle varie attività produttive furono infatti impiegate grandi quantità di schiavi, in alcuni casi favorendo anche le capacità imprenditoriali degli elementi più intraprendenti (è stata proposta l'efficace definizione di "schiavo manager" ). La villa a conduzione schiavile costituì il campo di applicazione più sofisticato di questo tipo di organizzazione, i cui requisiti fondamentali erano: il controllo diretto del dominus, la disponibilità di capitali da investire, la scelta di un sito favorevole (prossimità al mercato e alla viabilità terrestre e marittima, facile difendibilità, salubrità, ecc.), l'autosufficienza (bisognava evitare o limitare gli acquisti per sostenere l'esportazione), la possibilità di conservare i prodotti per poterli immettere sui mercati nel momento in cui i prezzi erano più favorevoli. Figura centrale era il vilicus, lo schiavo cui era di fatto affidata la gestione, con la collaborazione della vilica e dei monitores, i capisquadra degli schiavi divisi in decuriae o turmae. Nell'azienda agricola l'aspetto della fatica e dell'utilità, pur prevalente, doveva coniugarsi a quello del lusso e dei piaceri, in modo da invogliare il padrone, abituato agli agi della città, a soggiornare il più a lungo possibile nella residenza di campagna, evitando in tal modo il rischio principale di questo sistema, e cioè proprio l'assenteismo del dominus. In questo tipo di organizzazione agraria, i fundi dovevano essere sufficientemente grandi ma non immensi, tali da essere adatti ai ritmi e ai modi delle produzioni specializzate, in particolare quelle dell'olio e del vino, derrate liquide, trasportate in anfore a bordo di navi e destinate a mercati anche molto lontani dai luoghi di produzione. Non è stata mai elaborata una tipologia delle villae, che tenga conto delle numerose variabili regionali, particolarmente vistose soprattutto se il fenomeno viene analizzato considerando tutte le province dell'Impero romano, dalle Isole Britanniche all'Africa, dalla Penisola Iberica alle estreme regioni orientali. Le vere e proprie villae schiavistiche non sono peraltro da confondere con i molti altri tipi di edifici rurali più antichi, coevi e più recenti, come le case coloniche o come i praetoria tardoantichi. Riprendendo e adattando una suddivisione elaborata già da Varrone (Rust., III, 2, 1 ss.), A. Carandini (1989) ha proposto la seguente tipologia: 1) ville rustiche, distinte in ville con agri cultura e pastio agrestis (allevamento di ovini, suini, bovini) = tipo 1; ville con pastio villatica (allevamento di volatili, pesci, ecc.) = tipo 2; ville con agri cultura, pastio agrestis e pastio villatica = tipo 5 (non contemplato da Varrone); 2) ville con pars rustica e pars urbana, distinte in ville con agri cultura e pastio agrestis = tipo 3; ville con agri cultura, pastio agrestis e pastio villatica = tipo 4; ville con pastio villatica = tipo 6 (non previsto dall'agronomo romano). Nei tipi 1, 2 e 5 sono da riconoscere le fattorie più o meno grandi, mentre i tipi 3, 4 e 6 sono da identificare con le villae vere e proprie. In particolare il tipo 6 sembra riferibile alle lussuose villae maritimae, mentre il tipo 4, quello più completo, corrisponde alla villa perfecta descritta da Varrone e da Columella. Quest'ultima trova una significativa materializzazione nella villa di Settefinestre, nell'ager Cosanus nell'Etruria meridionale, appartenente alla potente e ricca famiglia aristocratica dei Sestii e oggetto di scavo (Carandini 1985). Costruita nella seconda metà del I sec. a.C., la villa era costituita da un corpo centrale a pianta quadrata, nel quale coesistevano la lussuosa pars urbana, con i vani residenziali per il dominus, la sua famiglia e gli ospiti, eleganti sale da pranzo, oltre all'alloggio del vilicus, organizzati intorno ad un atrio e ad un peristilio, e le partes fructuaria e rustica, con gli ambienti per la produzione dell'olio e, soprattutto, del vino, i magazzini degli attrezzi e dei prodotti agricoli. Intorno al corpo centrale si disponevano un cortile con gli alloggi servili e le stalle, e un loggiato che si affacciava su orti e giardini; separati dal complesso erano un granaio ed anche un piccolo belvedere. In età traianea la villa fu notevolmente ristrutturata, anche a seguito di un cambio di proprietà: nel corpo centrale si ricavò l'alloggio del procurator, mentre gli impianti vinari e oleari furono smantellati e si costruì una stalla per l'allevamento dei maiali; si realizzarono inoltre nuovi alloggi per gli schiavi, anch'essi ora allevati sul posto; si edificò infine un grande impianto termale. La villa, così ristrutturata, non superò però l'età degli Antonini. Pur evitando di considerare la villa di Settefinestre un modello valido dovunque, non c'è dubbio che essa consente non solo di farsi un'idea abbastanza precisa della natura e dell'organizzazione di una villa schiavistica romana, ma anche di ripercorrere le fasi di sviluppo e crisi di questo sistema nell'Italia centrale tirrenica. Tra I e II secolo, infatti, diventò sempre più forte nella produzione agricola e nella commercializzazione delle derrate alimentari la concorrenza delle province, prime fra tutte quelle galliche e ispaniche, di più antica romanizzazione, cui fece seguito lo straordinario sviluppo economico dell'Africa settentrionale. Numerosi sono ormai i casi di villae noti in Italia. Una particolare concentrazione si registra in area campana e soprattutto nella zona vesuviana, dove le villae, in genere installate nel I sec. a.C., furono distrutte dall'eruzione del 79 d.C.: si possono ricordare, ad esempio, la villa di Boscoreale; quella di P. Fannio Sinistore sempre a Boscoreale; quella di Gragnano, contrada Carità; quella di Poppea Sabina, moglie di Nerone, a Torre Annunziata; quella cosiddetta "di Arianna" a Castellammare di Stabia. In territorio campano due esempi significativi, anche perché ben indagati, sono quelli costituiti da due villae poste a poca distanza l'una dall'altra nei pressi di Cales, a Francolise, rispettivamente nelle località San Rocco e Posto: la prima, di maggiori dimensioni, sorse nell'80-50 a.C. e fu abbandonata alla fine del II sec. d.C.; la seconda, più modesta, fu costruita tra la fine del II sec. a. C. e l'80 a.C. e fu utilizzata fino al IV sec. d.C.; anche sotto il profilo produttivo le due strutture si differenziano, poiché quella di San Rocco fu dotata fin dagli inizi di un oletum (cui si affiancava anche una fornace per i laterizi), mentre quella di Posto inizialmente ebbe una destinazione policolturale, con prevalenza cerealicola, e venne dotata di alcuni impianti oleari solo tra I e II sec. d.C. (Cotton 1979; Cotton - Metreaux 1985). In Italia centrale si deve menzionare la grande villa dei Volusii Saturnini a Lucus Feroniae, costruita nella seconda metà del I sec. a.C. e probabilmente entrata a far parte delle proprietà dell'imperatore verso la fine del I sec. d.C.: il complesso, lussuoso e di notevoli dimensioni, è composto da numerosi vani residenziali e produttivi disposti intorno ad un peristilio e ad una corte rustica, circondata dall'ergastulum per gli schiavi (il più grande finora noto). In Puglia sono da segnalare la villa di San Vito di Salpi (tardo II-I sec. a.C.), con atrio, peristilio, giardino porticato ed oletum, posta nei pressi delle salinae litoranee, e i numerosi edifici disposti lungo le coste del promontorio garganico, come le villae di Agnuli a Mattinata e di Santa Maria di Merino nei pressi di Vieste, rispettivamente destinate alle produzioni olearia e vinaria ed entrambe utilizzate, con varie trasformazioni, dal I sec. a.C. al V-VI sec. d.C. (Volpe 1990; 1996). Nell'Italia padana è da ricordare la villa di Russi: costruita in età augustea e utilizzata fino ad almeno il III sec. d.C., visse in funzione del vicino porto di Ravenna; la villa, con ambienti residenziali e produttivi disposti intorno ad un peristilio e ad un atrio, era dotata di horrea per il grano ed altri prodotti ed anche di una fornace e forse di una fonderia. Questa rassegna, sia pur necessariamente breve e lacunosa, è sufficiente per sottolineare l'estrema varietà delle ville italiche a livello tanto planimetrico e architettonico quanto organizzativo e produttivo. A tale proposito A. Carandini (1994) ha proposto una suddivisione fondamentale in due grandi categorie, che, pur necessitando di ulteriori approfondimenti e precisazioni, risulta utile per la costruzione di una futura tipologia generale: 1) la cosiddetta "villa centrale", tipica della suburbana regio Italiae e delle zone centrali dell'Italia, era normalmente vicina a città, a porti e/o a grandi vie di comunicazione, situata su terreni fertili e in ambiente salubre con fondi non molto grandi, prevedeva alti investimenti di capitale ed era orientata verso colture specializzate e intensive, era facilmente controllabile dal padrone ed impiegava schiavi soluti, con una rara e ridotta presenza di contadini liberi, per lo più stagionali; 2) la cosiddetta "villa periferica" (meno nota dal punto di vista archeologico), tipica della longinqua regio, era normalmente lontana da città, porti e grandi vie di comunicazione, situata su terreni meno fertili e in ambiente meno salubre, con fondi molto estesi, prevedeva minori investimenti di capitale ed era prevalentemente orientata verso le colture estensive, era più difficilmente controllabile dal padrone ed impiegava a volte schiavi vincti e più spesso coloni, che vivevano in villaggi o in piccole case rurali. Ovviamente la centralità e la perifericità non vanno riferite esclusivamente a Roma, poiché esistevano centralità imperniate su centri minori, per cui bisogna sfumare l'opposizione centro-periferia. Più che come elementi di una tipologia, le ville "centrale" e "periferica" vanno infatti intese come polarità ideali all'interno delle quali si dispongono numerosi tipi reali. In ogni caso, mentre la "villa centrale" costituiva un organismo più raffinato ma al tempo stesso più fragile, che infatti andò in crisi nel momento in cui vennero meno quelle condizioni che ne avevano sostenuto lo sviluppo, la "villa periferica" risultava più elastica e capace di adattarsi alle modificate situazioni storiche, economiche e sociali. Si è anche pensato che questo secondo tipo di villa, per le sue caratteristiche, sia sopravvissuto alla crisi dell'economia italica tra II e III secolo e abbia avuto una prosecuzione in età tardoantica. In realtà, l'abbandono delle ville non fu generalizzato in età medioimperiale e soprattutto la "villa tardoantica" non costituì una semplice prosecuzione di un tipo classico, ma fu il risultato di una completa trasformazione del sistema agrario (Vera 1995). Un esempio di "villa periferica", tra i vari casi riscontrabili nelle regioni meridionali, potrebbe essere considerato la villa di San Giovanni di Ruoti, nella Lucania interna. La villa ebbe una lunga durata, pur attraverso sostanziali modifiche, dalla fine del I sec. a.C. alla metà circa del VI sec. d.C.; il primo nucleo, di modeste dimensioni, restò in vita fino al III sec. d.C., mentre intorno alla metà del IV secolo si sovrappose un complesso di più grandi dimensioni, dotato di terme, a sua volta sostituito agli inizi del V secolo da una grande costruzione, nella quale emergevano un'ampia sala absidata e un nuovo impianto termale, cui fece seguito, poco dopo la metà dello stesso secolo, una ulteriore ristrutturazione che raddoppiò le dimensioni della villa, provvista ora di una nuova sala di ricevimento con abside poligonale e di una torretta; prevalente nella villa di Ruoti, che nelle fasi più tarde probabilmente apparteneva ad un dominus barbaro, era l'allevamento dei maiali, affiancato da altre attività produttive (Small - Buck 1994). Oltre che nelle campagne le villae si dislocarono anche lungo le coste, sfruttando come risorsa produttiva il mare. Non soltanto lungo le coste tirreniche, in particolare quelle etrusche, laziali e campane, ma anche in Adriatico (ad es., nei pressi di Trieste a Barcola, le cosiddette Villa della Statua e Villa della Terma, e all'Isola San Simone, oppure in Istria a Brioni- Val Catena e a Val Bandon nei pressi di Pola) si svilupparono infatti grandi villae maritimae, dotate di piscine all'interno delle quali si allevavano varie specie di pesci e di molluschi. Volgendo rapidamente lo sguardo alle province, sia pur limitatamente a quelle mediterranee occidentali (Leveau - Sillières - Vallat 1993), si può sostenere che la diffusione delle villae fu direttamente proporzionale all'intensità del fenomeno di romanizzazione. Nella Gallia meridionale fu solo con la piena età augustea che questo tipo di insediamento rurale cominciò ad affermarsi. Tra i casi più antichi, databili ai primi anni del I sec. d.C., si possono citare le ville di Saint-Julien a Martigues e di Près-Bas a Loupian (quest'ultima ebbe un importante sviluppo in età tardoantica, quando furono realizzati i celebri mosaici). Una regione ben studiata (Brun 1986) è quella del Var, dove sono state individuate e scavate numerose villae adibite alla produzione dell'olio e del vino: tra queste, si possono citare quelle di Pardigon 1-3, dotata di un deposito con ben 130 dolia, di Pardigon 2, utilizzata a lungo tra il I sec. a.C. e il VII sec. d.C., di Saint-Michel a La Garde nei pressi di Tolone e di Grand-Loou a La Roquebrussanne. Nella Penisola Iberica, le vere e proprie villae furono ancora più recenti, poiché un'ampia diffusione si ebbe solo a partire dall'età flavia. Particolarmente significativi sono i casi di grandi ville tardoantiche, caratterizzate da notevoli manifestazioni di lusso, come la villa di Els Munts d'Altafulla, nei pressi di Tarragona, con ninfei, terme, giardini, gallerie di statue, stucchi, mosaici, appartenente verosimilmente a Caius Valerius Avilus, un ricco cittadino di Augustobriga attivo in età antonina. L'esempio più significativo è quello di São Cucufate in Portogallo: la lussuosa villa tardoantica realizzata intorno alla metà del IV secolo (sovrapposta ad una fattoria del I sec. d.C., cui fece seguito una villa a peristilio, datata agli anni 120-130 d.C.) presentava una complessa planimetria, con una facciata a loggiato che intendeva riprodurre una scena teatrale, ed era dotata di imponenti impianti termali ed anche di notevoli settori produttivi, separati dall'edificio padronale. Un altro modello interessante è quello della villa fortificata. Un esempio è fornito dal robusto edificio a pianta quasi quadrata di Castelo da Lousa, in Portogallo, databile nella prima fase al 70-60 a.C. Le ville fortificate furono però particolarmente diffuse nelle regioni nordafricane, soprattutto in età tardoantica. Ce ne forniscono un'immagine vari mosaici africani, in cui le ville, provviste di torri e mura, sembrano imitare in miniatura le città, che dal IV secolo erano normalmente cinte da mura (forse fu proprio questa volontà mimetica, più che presunti motivi di sicurezza, ad ispirare queste architetture rurali). Uno scavo effettuato in Mauretania, al Nador, tra Tipasa e Caesarea (Cherchel), mette a disposizione un ottimo esempio: ad una fattoria del I sec. d.C. si sovrappose nel IV secolo un edificio fortificato, un castellum, dotato di torchi oleari. Sempre in Mauretania, un altro caso molto ben noto è quello di Henchir-Kaoua, una struttura fortificata con corte centrale circondata da una doppia cerchia muraria ellittica. I toponimi e le epigrafi attestano spesso questi complessi fortificati, denominati turres. Altro fenomeno tipico dei territori nordafricani fu quello delle villae maritimae, risalenti a volte già ad età augustea e legate ad una delle attività economiche peculiari di queste regioni, la produzione di salsamenta: è il caso ad esempio della villa dell'isola di Mogador in Marocco e dei molti edifici disposti lungo la costa noti in Tripolitania nei pressi di Leptis Magna, tra cui quella cosiddetta "dell'Odeon marittimo". In età tardoantica, in Italia e altrove, le ville furono generalmente meno numerose ma di più grandi dimensioni rispetto al passato (tra I e III sec. si è potuto registrare nei vari territori italici un abbandono medio del 50-60% con oscillazioni tra il 20 e il 90%): questo fenomeno costituisce un esito del processo di concentrazione della proprietà, che comportò scelte di razionalizzazione mediante l'abbandono di alcune ville e la ristrutturazione di altre. Funzioni principali della villa, ormai divenuta un vero e proprio centro direzionale, non erano più la produzione e la gestione del personale, ma piuttosto la percezione della rendita e la conservazione delle derrate destinate al mercato. Le ville accentuarono l'aspetto lussuoso, dotandosi spesso di grandi vani absidati adibiti a funzioni cerimoniali. Oltre alla nota Villa del Casale di Piazza Armerina, particolarmente significativa ma per certi aspetti unica, si possono ricordare, sempre in Sicilia, i casi delle ville di Patti Marina e Caddeddi sul Tellaro, oppure in Italia settentrionale, quello della villa di Desenzano.
Come si è detto, in questa categoria sono normalmente inclusi tutti quegli edifici rurali di piccole-medie dimensioni, in cui l'aspetto utilitario era prevalente. Spesso si trattava di case di coloni insediati all'interno di reticoli centuriati o, comunque, di piccoli proprietari. Le costruzioni erano in genere molto semplici, a volte realizzate con materiali deperibili, ad esempio legno e terra, come nel caso di Vallelunga nell'ager Faliscus. Anche dal punto di vista planimetrico prevaleva un'impostazione essenziale, spesso limitata ad un unico vano rettangolare; è il caso della fattoria di località Nocelli nell'ager Lucerinus, inserita nella più antica centuriazione risalente al momento della fondazione della colonia latina (315/4 a.C.), anche se la costruzione dell'edificio fu effettuata nel tardo II sec. a.C.: la fattoria aveva forma rettangolare, con una tettoia ed un cortile su un lato. Edifici simili sono noti in Campania settentrionale e in Etruria meridionale, a Monte Forco nei pressi di Lucus Feroniae, dove è stata indagata una fattoria costituita da un unico vano di 55 m², datata ad età cesariana ed occupata ancora nel II sec. d.C. Nelle regioni meridionali dell'Italia, gli esempi più antichi, risalenti già alla fine del IV-III sec. a.C., dimostrano chiare analogie con i prototipi greci e magnogreci, ad esempio le numerose fattorie individuate nella chora di Metaponto ed anche quelle dell'Attica, le cosiddette "fattorie a pastàs", come le famose Dema House (fine del V sec. a.C.) e Vari House (IV sec. a.C.). Si possono richiamare i casi delle fattorie di Monte Moltone a Tolve (IV-III sec. a.C.) e di Mancamasone nei pressi di Banzi (fine del IV - inizi del I sec. a.C.). Al II sec. a.C. si datano alcune case coloniche a pianta quasi quadrata che risentono ancora di questa tradizione, come quella di Posta Crusta nell'ager Herdonitanus in Puglia, collocata all'interno di una centuriazione di età graccana: dotata di alcuni semplici ambienti residenziali, con pavimenti in opus signinum, di magazzini e di impianti di produzione olearia, la fattoria fu utilizzata fino al II-III sec. d.C. per poi essere sostituita da un più grande edificio rimasto in vita fino al V-VI secolo. Molto simili sono le fattorie centroitaliche di località Sambuco (Blera), della fine del II sec. a.C., e di località Giardino Vecchio nell'ager Cosanus, datata tra gli inizi del II e la fine del I sec. a.C. (per quest'ultima è stato ricostruito un fundus di 16 iugeri, da mettere a confronto nello stesso territorio con il fundus di 500 iugeri ipotizzato per la più tarda villa di Settefinestre). Una fattoria può essere considerata anche l'edificio posto sulla via Gabinia a poca distanza da Roma, la cui prima fase è databile al III sec. a.C.; nella sua seconda fase, in età giulio-claudia, l'edificio assunse l'aspetto di villa con atrio (o "protovilla"). Fuori dall'Italia, nella Gallia Narbonese un esempio particolarmente prezioso è fornito dallo scavo di l'Ormeau a Taradeau, dove sono state individuate due fattorie (denominate A e B), caratterizzate da piante estremamente irregolari, poste a pochi metri di distanza l'una dall'altra, quasi a formare un minuscolo villaggio, databili tra la metà del I sec. a.C. e il II-III sec. d.C. (solo la Fattoria B conobbe una qualche rioccupazione tardoantica): la produzione prevedeva cereali, ma anche olio, vino, oltre al piccolo allevamento di bovini, ovini e maiali. Anche nella Penisola Iberica i paesaggi agrari conobbero a lungo la compresenza di villae e fattorie: tra queste ultime si può ricordare almeno quella di Els Tolegassos nei pressi di Ampurias, databile alla metà del I sec. d.C. In generale, le piccole fattorie e le case coloniche, sia pure con caratteri diversi, furono diffuse in tutto il mondo romano, in relazione sia alla persistenza, più o meno significativa, della piccola proprietà contadina sia all'affermazione del sistema delle affittanze agrarie e, successivamente, del colonato tardoantico.
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di Francesca Romana Stasolla
Nel passaggio tra il mondo romano e quello medievale il concetto stesso di territorio subisce una serie di modificazioni, legate al mutamento della concezione urbana, cui lo spazio aperto si relaziona e si contrappone. Esistono indubbi fenomeni di continuità, soprattutto per quanto riguarda l'assetto fondiario tardoantico, in merito alla dislocazione delle fattorie, al prosieguo d'uso e alle modifiche funzionali delle villae, al sistema vicale, le cui vicende vanno considerate nel quadro dei mutamenti politici e sociali della Tarda Antichità ed in quelle regioni dell'Impero caratterizzate da evidenti fenomeni di urbanizzazione e dall'organizzazione territoriale ben marcata. Ben diverse appaiono le vicende delle aree limitanee o addirittura estranee all'opera agglutinante della romanizzazione, dove gli stanziamenti di popolazioni fino ad allora nomadi crearono nuove dinamiche nella ripartizione del territorio e nella parcellizzazione di aree altrimenti disabitate. Il fenomeno veramente innovativo rispetto alla tradizione classica fu tuttavia costituito dalla diffusione del cristianesimo e dalle modifiche insediative che l'inserimento degli edifici di culto determinò sia nelle aree immediatamente suburbane ‒ con la conseguente alterazione delle dinamiche di organizzazione urbanistica ‒ sia nei più ampi spazi rurali, dando luogo ad una gerarchia degli spazi ben diversa rispetto a quella di tradizione romana. Nelle aree d'Oltralpe le indagini archeologiche hanno consentito di ricostruire, almeno in alcuni ambiti territoriali, le dinamiche insediative delle etnie non autoctone che nella Tarda Antichità vi si stanziarono in modo duraturo. Tali ricerche hanno evidenziato un'occupazione per piccoli nuclei, determinata dallo sfruttamento agricolo o pastorale delle zone prescelte e caratterizzata da modelli edilizi semplici, con ampio uso di materiali deperibili, nei quali coesistono gli spazi abitativi con quelli produttivi, collegati a modesti appezzamenti di terreno. Nell'area fra l'Elba e il Reno, le popolazioni germaniche con economia di sussistenza, fondata principalmente sull'allevamento e in minor misura sulla coltivazione di cereali, vivevano in modesti insediamenti determinati da poche masserie, una quindicina al massimo. Votati in primo luogo all'agricoltura, gli Slavi dovevano avere medesime modalità di occupazione del territorio, come sembra attestato da ricerche archeologiche (bacini dell'alto Dnestr e del Boh). Abbastanza chiare sono anche le dinamiche ricostruite per la Penisola Scandinava, dove il modello insediativo prevedeva singole abitazioni con annessi locali per le attività legate alla coltivazione dei campi. Tali cellule erano almeno idealmente collegate da aule di culto con funzione di cura animarum e funeraria, mentre invece nelle aree montane (ad es., nel ben indagato Rogaland, in Norvegia) prevaleva la dislocazione di masserie isolate. Le presenze cristiane, che già nel corso della Tarda Antichità avevano connotato l'immediato suburbio delle principali città sedi di diocesi, nell'Alto Medioevo costituiscono una nota caratterizzante del paesaggio rurale. Se i santuari martiriali rimangono comunque collegati, nella maggior parte dei casi, alla realtà urbana, rispetto alla quale sovente costituiscono poli complementari e talora alternativi, l'istituzione delle chiese rurali contribuì a determinare un nuovo assetto nella geografia extraurbana. A partire dal V secolo si nota infatti il diffondersi di piccole aule di culto, generalmente dotate di un battistero e di una modesta area funeraria, in zone isolate e chiaramente destinate ‒ anche per la loro funzione battesimale ‒ alla cura animarum di una popolazione dispersa, per la quale queste chiese costituivano spesso l'unico punto di aggregazione. Tali strutture, chiamate "plebane" (plebi rurali), vengono promosse dall'autorità vescovile e la loro dislocazione risponde ad una pianificazione accurata del territorio e del popolamento e a sua volta ne rivela la consistenza, così da costituire, nel loro insieme, un vero e proprio sistema che nel IX-X secolo appare essere pienamente organizzato. Verso la metà del IX secolo, in piena età carolingia, si assiste alla moltiplicazione delle pievi rurali e delle cappelle da loro dipendenti, oltre a monasteri, ricoveri per poveri e viandanti, in un processo di "sacralizzazione del territorio" con ampi effetti sulle dinamiche insediative. L'assetto dell'intera organizzazione plebana è ben noto per i secoli del pieno Medioevo dalle fonti scritte, ma si deve ai risultati delle indagini archeologiche la possibilità di retrodatare edifici di culto rurali altrimenti noti nelle fattezze romaniche o ancor più recenti, così da vederne la spia della preoccupazione ecclesiastica per la cristianizzazione delle campagne e della precoce diffusione del cristianesimo in ambito rurale. Direttamente al vescovo di Roma fanno capo alcune istituzioni rurali molto particolari del Lazio altomedievale, le domuscultae. Si tratta di fattorie organizzate, vere e proprie aziende agricole i cui proventi erano destinati all'assistenza dei poveri e alle vendite, per lo più a prezzi calmierati, nei periodi di necessità. La funzione caritativa si esplicava nelle diaconie e soprattutto nel patriarchio lateranense, come ben noto anche dal Liber Pontificalis, e nel corso delle sovvenzioni alla plebe romana. Oltre che dalle fonti letterarie, in qualche caso le domuscultae sono note archeologicamente grazie agli scavi inglesi (ad es., l'azienda di S. Cornelia) I monasteri extraurbani, sorti inizialmente in aree disabitate per favorire il ritiro dei monaci, finirono con l'essere determinanti nella definizione del popolamento rurale, grazie alla loro organizzazione agricola e al loro potere agglutinante. Nell'area compresa tra Senna e Reno, nel periodo dal V all'XI secolo, una proliferazione di monasteri in un territorio scarsamente popolato facilitò la nascita di nuovi insediamenti. Stesse funzioni, in questa zona come in altre, vennero assolte dalle grandi aziende fondiarie, su iniziativa regia e nobiliare. Di particolare valenza ai fini dello sfruttamento agricolo, e comunque di un'organizzazione delle terre e delle persone ad esse legate in diversa misura, sono le grandi strutture abbaziali, proprietarie di vastissimi territori non sempre collegati tra loro e promotrici di attività artigianali anche di alto livello produttivo ed artistico. Della loro organizzazione siamo a conoscenza grazie alle fonti documentarie, come nei casi di Farfa e di Bobbio, oppure alle indagini archeologiche, come più di recente è avvenuto per San Vincenzo al Volturno. In alcune zone nord-europee scarsamente urbanizzate (ad es., Irlanda, Northumbria, ecc.) i monasteri, fondati a partire dal V secolo sotto la spinta della pressione vichinga che imponeva un'organizzazione politica e territoriale più serrata, nel corso del IX-X secolo divennero nuclei di aggregazione di abitati dispersi e costituirono veri e propri poli protourbani. Nel monachesimo orientale si diffusero, accanto alle forme di ascetismo individuale, sistemi cenobitici complessi e di più semplice organizzazione, le lavre. Queste ultime prevedevano piccole cellule abitative e lavorative disseminate nel territorio e luoghi di riunione comuni. Su questo schema vennero realizzati i monasteri di Kellia, in Egitto, le cui costruzioni tra la fine del IV e il VII secolo si disseminarono in un'area di 16 km², di Maale Addummin, tra Gerico e Gerusalemme, che a partire dalla metà del V secolo si arricchì di costruzioni destinate anche agli ospiti e ai pellegrini. Parallelamente, grandi santuari martiriali diventarono veri e propri nuclei propulsori di insediamenti nel territorio, come nei casi di Qalat Seman, edificato alla metà del V secolo attorno alla colonna di s. Simeone Stilita, e del coevo cenobio Alahan, in Turchia, sviluppatosi a partire da un nucleo rupestre. Per quanto concerne la diffusione di insediamenti rupestri, la Cappadocia rappresenta un vero e proprio unicum, con impianti di origine religiosa che sotto il profilo delle dinamiche insediative non presentano soluzione di continuità con il periodo romano, ma che tra il IX e la metà dell'XI secolo si svilupparono in forme anche molto articolate (ad es., Zelve, Açık Saray, presso Gülşehir). In altri casi, gli impianti monastici vennero edificati in posizioni strategiche ai fini della difesa del territorio, rivestiti quindi della duplice funzione cultuale e difensiva, come il celebre impianto di S. Caterina nel Sinai, fondazione giustinianea. La ricerca dei luoghi d'altura, con conseguenze interessanti ai fini dell'antropizzazione di aree limitanee e della distribuzione demografica, appare caratteristica degli impianti sui "monti santi", con esemplificazioni caratteristiche nei monti Athos, Latmos, Gelesio, sempre in Grecia. Altri impianti rispondono invece alle esigenze di sfruttamento del territorio anche a fini agricoli. In ambito monastico, determinante ai fini dell'organizzazione rurale fu la riforma cistercense. Nella regola riformata, infatti, la pianificazione del territorio venne prevista sin dall'inizio, come evidenziato anche dagli Statuti del 1134, dall'Exordium Cistercii e come canonizzato dal Libellus definitionum del 1204. Tale processo venne attuato mediante la costruzione di vere e proprie strutture satelliti, le grange, disseminate nell'area di competenza di ciascun monastero e destinate allo sfruttamento agricolo. In alcuni casi per la costruzione di grange vennero evacuati interi villaggi (in Germania e in Gran Bretagna nel XII sec.), in altri casi vennero disboscati e bonificati terreni altrimenti inutilizzabili sotto il profilo agricolo. Infatti il termine grangia (dal lat. granarium) venne riferito al complesso di edifici necessari all'amministrazione e alla cura di un appezzamento di terreno agricolo e, progressivamente, passò ad indicare l'intera proprietà rurale. L'edificio principale, edificato sul principio della ripetitività modulare tipico dell'Ordine, era in genere a due piani coperti a crociera; altri locali funzionali al deposito delle derrate erano a più navate e prevedevano accessi carrai. Nei casi in cui i terreni non avevano una destinazione cerealicola, le strutture ad essi connesse erano di minori dimensioni, mentre più articolate risultavano le grange vinicole (Clos Vougeot in Borgogna) o per la produzione della birra (abbazia di Villers nel Brabante), a motivo delle esigenze di lavorazione di conservazione del prodotto, oppure la grange d'eau di Hautecombe, direttamente collegata con i canali, o le manifatture saline (Chiaravalle della Colomba) o ancora i più complessi edifici fortificati (Fontcalvi). Ai Cistercensi si deve anche l'applicazione delle più attuali tecniche di ingegneria idraulica, che consentirono la realizzazione di bonifiche, dighe e canalizzazioni, oltre che di reti di distribuzione idrica e di vivai per l'allevamento ittico, realizzate, oltre che a Clairvaux, a Fontenay, Obazine, Alcobaça, Eberbach, Roma (abbazia delle Tre Fontane), Fossanova, ecc. Nelle aree soggette al dominio carolingio si diffonde tra la fine dell'VIII e il X secolo una forma di organizzazione economica che va sotto il nome di curtis. Il termine ricorre per la prima volta nell'Editto di Rotari (643) ad indicare un "recinto", lo spazio custodito che identificava la prima forma di azienda agricola. Questa struttura fondiaria prevede la divisione dell'azienda in una pars dominica (domocoltilis, dominicata), gestita direttamente dal padrone, ed una pars massaricia, a sua volta spesso suddivisa in lotti di più modeste dimensioni (mansi, colonicae, sortes) a conduzione autonoma da parte di servi o liberi, in genere costretti a prestazioni d'opera nella parte dominicale. L'originalità di tale formula, che prevede anche la dispersione di grandi proprietà in curtes non contigue ed anche molto distanti tra loro, consiste principalmente nella coesistenza e nell'integrazione dell'organizzazione latifondistica con la piccola proprietà. Abbiamo notizie del sistema curtense mediante il Capitulare de villis, voluto nell'VIII secolo presumibilmente da Carlo Magno, e da svariati polittici. La documentazione si riferisce, oltre che agli impianti produttivi, quasi esclusivamente agli edifici residenziali, in particolar modo alla villa sede, sia pure non stabile, del dominus, detta dalle fonti palatium più per trasposizione terminologica della realtà franca che per analogie strutturali con i veri e propri palazzi. Accanto alla parte residenziale erano comprese le strutture per l'immagazzinamento, ambienti di servizio e produttivi (frantoi, mulini, ecc.). Le abitazioni dei coloni erano generalmente in legno e materiali deperibili o comunque reimpiegabili in altro modo. Nella curtis vivevano anche artigiani specializzati di condizione servile, così che l'azienda diventava anche un centro di produzione di manufatti di quantità maggiore rispetto agli stessi laboratori urbani; solo nell'XI secolo la consistenza delle manifatture tornerà ad essere prevalente nei centri cittadini. La tipologia distributiva e costruttiva delle curtes ne ha comportato la scarsa conservazione dei resti materiali, con le conseguenti lacune sul piano della documentazione archeologica. Il sistema curtense rappresenta in un qualche modo l'ultima evoluzione delle aziende rurali tardoantiche, una soluzione per non compromettere l'estensione o addirittura il mantenimento del fondo di fronte alla scarsità di manodopera schiavistica. Tale sistema è precoce nella proprietà ecclesiastica rispetto a quella laica, vista la prevalenza nella prima di appezzamenti non sempre raggruppati, talora anche molto distanti gli uni dagli altri, frutto di donazioni private spesso di piccola entità. Tali aziende agricole (curtes in Italia, villae nei Paesi d'Oltralpe) già dall'VIII-IX secolo attaccarono l'autonomia delle comunità di villaggio, sostanzialmente mediante l'occupazione delle aree incolte altrimenti sfruttate comunitariamente, perno dell'indipendenza economica e della solidarietà del gruppo e che rappresentavano per i piccoli proprietari la valvola di sicurezza in caso di carestia. A questo seguirono ampi disboscamenti per ampliare le superfici coltivabili (ad es., nell'Italia settentrionale), in un processo ben studiato anche in Francia, Germania, Inghilterra. I fenomeni di espropriazione, promossi in primo luogo da monasteri, chiese cittadine, esponenti della nobiltà ed assecondati dal potere regio con ampie donazioni a monasteri e abbazie, si esasperarono nel corso del X-XI secolo, in concomitanza con l'indebolimento dei poteri centrali. Nelle regioni d'Oltralpe, la moltiplicazione delle residenze reali comportò la realizzazione di palatia in centri minori o addirittura di nuova occupazione. Sia che si conservino evidenze architettoniche, come nel caso della sede carolingia di Aquisgrana (780-800 ca.), sia che le indagini archeologiche abbiano consentito la restituzione di modesti alzati, quando non della sola articolazione planimetrica (Nimega e Paderborn, fine dell'VIII sec.; Francoforte, 820 ca.), appare evidente come il fenomeno sia frutto di una nuova e specifica elaborazione progettuale. Tali complessi palaziali comprendono infatti un'aula regia e una cappella non congiunte, ma collegate e circondate da edifici residenziali, il tutto eretto in aree aperte e pianeggianti, secondo uno schema architettonico proprio dei palazzi carolingi. Questa articolazione trova per ora un'unica ma molto significativa eccezione nello sviluppo del palazzo di Ingelheim, voluto da Carlo Magno sul Reno, che prevede una serie di ambienti con funzione abitativa e di rappresentanza, priva dell'aula di culto, assemblati attorno a una corte quadrata, in un progetto raccolto e turrito. Per quanto concerne i più tardi palazzi ottoniani (Magdeburgo, Werla, Tilleda, ecc.), le risultanze delle indagini archeologiche evidenziano un'articolazione analoga a quella dei complessi carolingi, ma con una maggiore preoccupazione per le esigenze difensive, sia nella scelta del sito, sia nella frequente presenza di una cinta fortificata. Gli esiti dell'edilizia palaziale dalla duplice funzionalità abitativa e di rappresentanza sono visibili nei donjons normanni che soprattutto nell'XI e nel XII secolo si diffondono a partire dalla Francia nord-occidentale (Loches, Montbazon, ecc.) e che inglobano in un'unica struttura a torre la molteplicità di funzioni e di ambienti previsti nei complessi palaziali, pur nella permanenza dell'articolazione spaziale tradizionale, come ad esempio a Westminster.
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di Laurent Feller
Viene definito "incastellamento" il complesso movimento mediante il quale si sono operati in Italia, tra il 920 ed il 1030, l'accentramento umano in abitati d'altura, chiusi e raggruppati, la ricomposizione dei terreni e la loro gerarchizzazione all'interno di vere e proprie circoscrizioni, portando così alla nascita di un paesaggio caratteristico e duraturo. La causa profonda del fenomeno è costituita dal mancato adattamento delle strutture fondiarie ed agrarie ereditate dal periodo carolingio al movimento della crescita demografica ed economica percepibile a partire dal IX secolo. La grande proprietà, la curtis, così come esisteva in Italia, ha consentito di avviare questo movimento di espansione, che tuttavia non è stata in grado di sostenere oltre un certo limite. La frammentazione delle aziende signorili e la presenza degli allodi contadini resero difficile razionalizzare la valorizzazione del suolo. Le ricostituzioni intraprese nel corso di tutto il IX secolo hanno prodotto effetti positivi, ma hanno avuto un'ampiezza insufficiente per consentire il prosieguo della crescita in vista di una riorganizzazione generale dell'assetto della proprietà fondiaria. In mancanza di progressi tecnici di rilievo o di un miglioramento sostanziale delle tecniche agricole, solo la ricomposizione delle aziende è, in effetti, in grado di consentire l'accrescimento del volume della produzione. È in questa prospettiva che si può risolvere la questione alimentare e cominciare a disimpegnare riserve che possano essere reinvestite. A questa struttura, caratterizzata da una grande frammentazione della proprietà e da una minuta parcellizzazione di aziende, corrisponde un abitato estremamente disperso, nel quale le abitazioni contadine erano edificate sui luoghi stessi delle aziende agricole. È verosimile che queste forme di abitato non fossero stabili, ma fossero comunque considerate come provvisorie, tanto che le case erano edificate con materiali leggeri e di scarso valore. Questo abitato, non ancora realmente strutturato, può tuttavia essere considerato come incentrato attorno a poli privilegiati: le chiese rurali private, ad esempio, che attiravano le attività di scambio e, più in generale, la vita sociale, appaiono come i luoghi di questi primi abbozzi di raggruppamento. Dalla metà del X secolo, questa organizzazione ostacola lo sviluppo e ne impedisce la piena fioritura. Inoltre, la dispersione dell'abitato non autorizza la costituzione di un controllo sociale efficace all'interno della signoria fondiaria. Essa favorisce al contrario lo sviluppo e la riproduzione dell'allodio, che può condurre a termine la costituzione ed il consolidamento di comunità contadine autonome difficili da tenere sotto controllo e suscettibili di impadronirsi di terre lasciate incolte: esiste infatti una concorrenza tra signori e comunità rurali per l'occupazione e la valorizzazione dell'incolto. Infine, il X secolo è anche un periodo di concorrenza accresciuta tra i signori sia per il controllo delle terre già valorizzate sia per quelle ancora da dissodare. Dopo la metà del X secolo, diventa sempre più difficile garantire la stabilità della proprietà privata. L'insieme di queste contraddizioni gioca un ruolo differenziato nel favorire un reale cambiamento strutturale: l'incastellamento è una risposta da parte delle classi dirigenti ad un blocco economico prevedibile e ad incessanti conflitti territoriali. Riveste tuttavia l'aspetto di una decisione politica ponderata e, in ogni caso, pronta all'avanzata di un leader sociale. Gli scopi perseguiti dai promotori dell'incastellamento sono necessariamente complessi. Si tratta soprattutto di aumentare la produzione agricola e, contemporaneamente, di incrementare i redditi fondiari moltiplicando le occasioni di prelievi. Sullo sfondo si profila inoltre la volontà, mai chiaramente espressa ma sempre presente, di integrare l'insieme dei contadini all'interno di un'organizzazione sociale controllata. Eppure non si tratta di aggravare le condizioni giuridica, sociale ed economica di coloro ai quali si deve la produzione: al contrario, tutti i documenti sull'incastellamento che ci sono pervenuti garantiscono agli abitanti la libertà personale ed il pieno godimento delle loro proprietà. Da questo punto di vista, l'incastellamento è paradossalmente uno dei modi attraverso i quali si consolida la libertà dei contadini nel X secolo, ma consente tuttavia di collocare gli uomini all'interno di un'organizzazione economica, politica e sociale che può, nell'XI secolo, diventare oppressiva. Il secondo obiettivo è la sicurezza. Va infatti tenuto conto della necessità di proteggere dal punto di vista militare i beni mobili e gli uomini che la loro stessa dispersione espone alla rapacità di vicini aggressivi. Questo fattore deve tuttavia essere analizzato per rendersi conto del fenomeno e per spiegarne la cronologia: là dove non esiste alcuna minaccia, o non è prevedibile a breve termine, l'incastellamento inteso anche come una militarizzazione dello spazio non riveste alcun interesse ed i signori lo riconoscono. Possono essere presentati due complessi differenti. In alcune regioni, come in Molise o sicuramente in parte dei patrimoni di Montecassino, si tratta di intraprendere un ripopolamento della regione. In questi casi, gli amministratori dei patrimoni sono portati ad organizzare spostamenti della popolazione talora molto ingenti. Così, alcuni castra dell'area di Isernia vengono fondati dall'abate Aligerno nella seconda metà del X secolo, grazie alla migrazione pianificata degli abitanti della regione di Termoli. Allo stesso modo, gli abati di San Vincenzo al Volturno fanno venire dai dintorni di Sulmona una parte dei contadini destinati ad assicurare il ripopolamento delle terre dell'abbazia. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, l'incastellamento vedeva innanzi tutto una ridistribuzione della popolazione già presente. L'operazione era comunque costosa: i signori laici o ecclesiastici che intraprendevano la costruzione dei castra dovevano disporre in primo luogo di ingenti capitali mobili. In effetti, alcune operazioni non potevano essere effettuate senza la mediazione monetaria. In particolare, la costruzione di un muro o, quando era il caso, di abitazioni durature implicava la presenza di operai specializzati che dovevano essere stipendiati, oltre al pagamento dei materiali che non erano necessariamente presenti sul sito ritenuto idoneo alla fondazione dell'abitato. Di contro, poteva essere necessario procedere all'acquisto di terreni per facilitare la ricomposizione. Per ottenere tale denaro, i possessori dei terreni facevano ricorso a procedimenti differenti, spesso combinati fra loro. Il più frequente era il prestito con garanzie fondiarie. Allo stesso modo, la terra poteva essere mobilitata per il gioco dei contratti agrari a durata molto lunga, concessi in corresponsione di diritti molto stabili di possedimenti feudali. Questa procedura consentiva di concretizzare la volontà di riorganizzazione dei terreni; concedendo terre marginali, i signori contribuivano a ristrutturare le aziende contadine, concentrando i loro mezzi al centro dei propri domini. Infine, la ripartizione della signoria a livello paritario tra laici ed istituzioni ecclesiastiche consentiva la realizzazione delle operazioni. Simili politiche fondiarie non erano evidentemente possibili a meno che esistesse già un risparmio contadino e che gli acquirenti delle terre avessero la garanzia della stabilità dei contratti da loro stipulati. Era necessario però che l'espansione fosse già cominciata e che l'ordine pubblico fosse mantenuto; comunque, anche a queste condizioni il ricorso all'incastellamento escludeva le forme più arbitrarie e più violente della signoria. Uno dei punti ancora oggi in discussione riguarda il carattere graduale o, al contrario, immediato della concentrazione dell'abitato. Gli archeologi ed alcuni storici ritengono attualmente che, per giungere ad una descrizione più precisa del fenomeno, sia necessario dissociare la fase dell'accentramento degli uomini da quella della costruzione dei castra propriamente detti. L'incastellamento viene a coronare e a perfezionare una fase di raggruppamento demografico più o meno spontanea. L'esame degli aspetti materiali del castrum ha permesso, in effetti, di risolvere un certo numero di problemi. Si è ritenuto a lungo che i nuovi insediamenti fossero stati costruiti sin dall'inizio in pietra, secondo un impianto predefinito e di tipo urbano. Al centro si sarebbero trovate la struttura militare signorile e la residenza nobiliare, la rocca. Lo spazio contadino si sarebbe organizzato in seguito a partire dal centro, le case sarebbero state edificate in funzione della rete viaria e disposte in circoli concentrici fino alla cinta muraria. Il materiale utilizzato per le costruzioni sarebbe stato fondamentalmente litico. Gli scavi archeologici condotti negli anni Ottanta hanno contribuito a correggere tale visione. Sia in Sabina (Caprignano) che in Toscana (Montarrenti), in effetti, le indagini realizzate sui siti castrali abbandonati nel Basso Medioevo hanno mostrato l'esistenza di due distinte fasi di occupazione. La più recente è caratterizzata dai resti in pietra, corrispondenti allo schema appena descritto. La novità è venuta dalla scoperta di una prima fase, caratterizzata da costruzioni in legno, le cui tracce sono costituite da un numero impressionante di buchi di pali e la loro presenza stabilisce che la pietra non è stato il primo materiale scelto per edificare il castrum. Allo stato attuale delle loro ricerche, gli archeologi ritengono che prima degli abitati indagati siano esistiti villaggi aperti, sugli stessi siti più tardi occupati dai castra. La concentrazione demografica e la costruzione di un abitato chiuso costituirebbero quindi due fasi distinte e successive. L'incastellamento propriamente detto non avrebbe avuto inizio che al momento del passaggio dal legno alla pietra come materiale da costruzione; andrebbe quindi ridimensionato e ricondotto ad una riorganizzazione di abitati preesistenti. Questa ristrutturazione è comunque importante e corrisponde infatti ad una vera e propria seconda fondazione. Queste indicazioni non devono tuttavia portare a minimizzare l'ampiezza e la profondità del mutamento castrale. Riguardando in primo luogo l'abitato, si occupa allo stesso modo delle strutture fondiarie ed agrarie, dell'inquadramento politico e religioso ed anche dell'incidenza nell'organizzazione familiare: raggiunge e modifica tutti gli aspetti della vita sociale. Appare anche come uno dei più profondi rivolgimenti strutturali conosciuti nell'Europa mediterranea nel corso del Medioevo.
P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe au XIIe siècle, I, Rome 1973, pp. 303-447; P. Delogu - L. Travaini, Aspetti degli abitati medievali nella regione sublacense, in ArchStorRom, 101 (1978), pp. 17-34; R. Comba - A.A. Settia (edd.), Castelli. Storia e Archeologia. Atti del Convegno (Cuneo, 6-8 dicembre 1981), Cuneo 1984; A.A. Settia, Castelli e villaggi nell'Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fra IX e XIII secolo, Napoli 1984; C. Wickham, Il problema dell'incastellamento nell'Italia centrale: l'esempio di S. Vincenzo al Volturno. Studi sulla società degli Appennini nell'alto medioevo, II, Firenze 1985; F. Bougart - E. Hubert - G. Noyé, Du village perché au castrum: le site de Caprignano en Sabine, in G. Noyé (ed.), Structures de l'habitat et occupation du sol dans les pays méditerranéens. Les méthodes et l'apport de l'archéologie extensive. Actes du Colloque (Paris, 12-15 novembre 1984), Rome - Madrid 1988, pp. 433-65; F. Menant, Campagnes lombardes du Moyen Âge. L'économie et la société rurales dans la région de Bergame, de Crémone et de Brescia du Xe au XIIIe siècle, Rome 1993, pp. 46-69; L. Feller, Les Abruzzes médiévales.Territoire, économie et société en Italie centrale du IXe au XIIe siècle, Rome 1998, pp. 211-303; E. Hubert (ed.), Une région frontalière au Moyen Âge. Les vallées du Turano et du Salto, entre Sabine et Abruzzes, Rome 2000.
di Vincenzo Strika
Nella concezione universalistica propria dell'Islam, il territorio della umma (comunità musulmana) costituisce un'unità distinta dal resto del mondo e le suddivisioni all'interno di questa unità fanno riferimento soltanto ai confini naturali. L'assetto tribale della società musulmana delle origini rese inoltre molto vaghi tali confini: ogni tribù era retta da uno šayḫ che controllava un territorio impreciso e soltanto in zone coltivate poteva avere una dimora fortificata; non appena si delineava una forma statale più ampia, lo šayḫ diveniva governatore di provincia. Tracce di questa organizzazione si trovano ancor oggi in Arabia Saudita. Ma al di là di queste nozioni generali, l'estensione del territorio islamico all'epoca delle conquiste e le vicissitudini storiche portarono a una versione più realistica nell'organizzazione del territorio, soprattutto per ragioni fiscali: in tale senso nacque la ḍay'a, una proprietà rurale di una certa entità. I conquistatori arabi non alterarono molto la situazione preesistente: ben presto si delineò una sola sostanziale distinzione tra "terre di ḫarāǧ ", appartenenti a non musulmani e terre soggette alla zakāt (elemosina legale), appartenenti a musulmani. Al secondo califfo Omar (634-644) viene fatta risalire la creazione di un dīwān, per porre ordine nell'amministrazione del territorio. L'emergere di una casta militare e di alti funzionari aumentò le terre concesse agli Arabi, specialmente ai membri della nascente aristocrazia, più o meno legata alla corte. Tale fenomeno diede vita nel periodo omayyade (661-750) alla costituzione della bādiya, uno stabilimento agricolo che ricorda la villa romana e che a giudicare dagli impianti idraulici circostanti voleva rilanciare l'agricoltura. Si trattava di appezzamenti di terra dominati dal castello o palazzo del proprietario, che potevano appartenere al califfo (Qasr al-Hair al-Gharbi in Siria e Khirbet al-Mafgiar in Cisgiordania), ma anche includere villaggi preesistenti (Gebel Seis in Siria) o essere affidati a un clan tribale (Qasr al-Tuba in Giordania). Dal punto di vista architettonico, si partì da un edificio fortificato per arrivare a veri e propri complessi, come Khirbet al-Mafgiar, in cui l'assetto militare scompare in una varietà di strutture (palazzo, moschea, bagno e giardini), il tutto al centro di un latifondo, sicuramente di proprietà califfale. Sappiamo in effetti che esistevano terre dello Stato e proprietà private del califfo, oltre a proprietà private. Molto raramente comunque i proprietari risiedevano nei rispettivi latifondi. Accanto alle terre appartenenti alla corte o acquistate per meriti militari, si sviluppò molto presto l'istituto del waqf, fondazione pia destinata alla costruzione, gestione e manutenzione di una moschea o altra opera di pubblica utilità per la quale il fondatore dedicava il reddito di un bene, spesso un terreno o un latifondo. Benché l'istituzione venga fatta risalire a Maometto, la diffusione cominciò verso la fine del periodo omayyade ed ebbe grande successo, dando vita a un'intera categoria di terreni gestiti dall'amministrazione religiosa. Le terre waqf erano spesso esonerate dalle tasse e con l'andar del tempo non mancarono abusi e intrusioni delle autorità dello Stato. Varie, confuse e talvolta contraddittorie sono sia le denominazioni dei funzionari preposti all'amministrazione sia l'organizzazione territoriale. Va premesso che lo Stato islamico tendeva alla centralizzazione, per la quale venne creato l'ufficio del barīd, centro d'informazioni che richiama i moderni servizi segreti; tuttavia nel periodo omayyade se da Damasco venivano nominati i governatori delle Città Sante, da Bassora partivano le nomine dei governatori del Golfo, segno di un certo decentramento rispetto alla capitale. Al-Muktafi (902- 908) creò tre dīwān distinti ai quali facevano capo il Mashreq, il Maghreb e al-Sawad, cioè il territorio della capitale, Baghdad. Queste tre aree erano divise in province e queste, a sua volta, in distretti, ciascuno dei quali aveva un capoluogo (qaṣaba) L'unità di base, il rustāq, poteva essere una sede di mercato alla quale facevano capo i villaggi. A capo della provincia c'era un governatore per riscuotere le elemosine e raccogliere le imposte: di fatto tutto l'apparato territoriale ruotava intorno al fisco. Al vertice c'era un amīr, figura che compare già nei primi secoli, con connotati piuttosto militari, come il mantenimento dell'ordine, funzione che di fatto ne accentuava il potere. Suo compito era amministrare la provincia, provvedere alle opere pubbliche, la manutenzione delle opere d'irrigazione, ecc. L'estensione del territorio e l'indebolimento del potere centrale portarono a un graduale decentramento, e in taluni casi gli amīr crearono dinastie, come gli Aghlabiti in Tunisia, i Tulunidi in Egitto, i Tahiridi in Iran, ecc. Accanto a questa organizzazione non va trascurata una sorta di feudalesimo proprio dell'Islam: nel periodo delle conquiste si diffuse, come abbiamo visto, la ḍay'a, dalla quale si sviluppò l'iqṭā', assegnazione territoriale non ereditaria a beneficio dei capi militari. Un ulteriore sviluppo del sistema si ebbe nel periodo selgiuchide (1038-1194), quando l'iqṭā', spesso di grandi proporzioni, portò alla creazione di vere e proprie dinastie, guidate dagli atabek. Analogo fenomeno può osservarsi dopo la conquista mongola nel XIII secolo, quando le terre potevano essere ereditarie o assegnate per un tempo definito. L'impero ottomano sviluppò una propria organizzazione territoriale. Le terre potevano essere concesse a musulmani e a non musulmani, ma potevano anche essere terre demaniali e chi le coltivava, mediante contratto, non ne era il proprietario. Gli Ottomani inoltre crearono il tīmār, un ulteriore tipo di proprietà feudale con accentuato carattere militare. Altrove, come in Egitto, le assegnazioni di terreni erano chiamate iltizām, rette da un multazim, che con la decadenza del potere centrale acquisiva su detti terreni proprietà ereditarie. Bisogna però ricordare che i muqtā e i multazim, il più delle volte risiedevano in città. A gestire le loro proprietà erano gli šayḫ locali mediante contratto.
M. van Berchem, La propriété territoriale et l'impôt foncière sous les premiers Califes (Diss.), Leipzig 1886; A.K.S. Lambton, Landlord and Peasant in Persia, Oxford 1953; W. Juwaideh, The Introductory Chapter of Yāqūt's Mu'jam al-Buldān, Leyden 1959; S.J. Shaw, The Financial and Administrative Organization and Development of the Ottoman Egypt, Princeton 1962; A. Miquel, La géographie humaine du monde musulman, Paris - Le Haye 1967; A. Birken, Die Provinzen des Osmanischen Reiches, Wiesbaden 1976; I.M. Lapidus, A History of Islamic Societies, Cambridge 1988; X. De Planhol, Les nations du Prophète. Manuel géographique de politique musulmane, Paris 1993; G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Torino 1996.
di Basema Hamarneh
La conquista islamica della Siria e della Palestina e la conseguente affermazione della dinastia omayyade (661-750 d.C.) portarono ad una nuova politica insediativa sul territorio, dettata dalla necessità di mantenere il controllo delle terre, ritenute in gran parte bottino di guerra. I califfi omayyadi infatti distribuirono le proprietà acquisite ai membri della loro famiglia e ai loro alleati principali, le tribù beduine stanziate nelle regioni desertiche della Siria sud-occidentale e centrale, presso le rive dell'Eufrate e nell'al-Balqa. La spartizione portò ad una graduale trasformazione dei territori in numerosi latifondi passati in proprietà all'emergente aristocrazia musulmana. Pertanto, nel periodo compreso tra gli anni 685 e 750 d.C., furono edificate, direttamente dai califfi, numerose residenze distribuite nella steppa dell'al-Balqa (Giordania) e nella Siria sud-occidentale, note inizialmente come balaṭ (dal lat. palatium), anche se prevalse successivamente il termine arabo qaṣr, quṣayr, ḥayr, ḥāyāt. La forma architettonica dei qaṣr deriva, secondo un'ipotesi verosimile, dalle ville rustiche ovvero dai castra romani e bizantini, che venivano spogliati della loro importanza difensiva per diventare centri di ritiro, appoggio e propaganda nel territorio tra le tribù alleate, principali sostenitrici della dinastia omayyade. Ricerche approfondite e campagne di scavo hanno contribuito ad una maggiore comprensione di tali sistemi insediativi: le residenze erano circondate da una serie di edifici e di infrastrutture che, seppure distanti, costituivano un unico complesso. Il loro inserimento nel territorio le vedeva sorgere in prossimità delle vie pubbliche secondo intervalli regolari lungo un asse ovest-est (per la Giordania), a volte su siti di precedenti insediamenti romani o bizantini (ad es. Rusafa, Bostra), ai limiti dei widyān o delle vaste depressioni che permettevano, attraverso dighe appositamente costruite, di raccogliere l'acqua piovana assicurando il costante approvvigionamento idrico. Ne risultavano grossi latifundia dotati di complessi sistemi idraulici come dighe, cisterne e canalizzazioni (ad es., al-Qastal, al-Muwaqqar, Qasr Mushash, Qasr al-Hallabat, Qusair Amra, Gebel Sais), caravanserragli (ad es., Qasr al-Hair al-Sharqi, Umm al-Walid), moschee, bagni e magazzini. Le residenze stesse, di varie dimensioni, spesso di pianta quadrangolare, sommariamente cinte da mura dotate di torri e contrafforti semicircolari, tuttavia del tutto prive di funzioni militari (ad es., Qasr Kharana, Qasr al-Hallabat, Gebel Sais), presentavano un cortile centrale circondato da vani di servizio, locali di residenza e di rappresentanza. I vani inoltre erano riccamente ornati con affreschi, stucchi e mosaici (Qusair Amra, 712-715; Qasr al-Hair al-Gharbi, 728), altri infine erano circondati da aree cinte da mura come ad esempio quella di circa 7 km sorta nei pressi di Qasr al-Hair al-Sharqi a nord-est di Palmira adibita all'allevamento di animali, oppure come a Qasr al-Hair al-Gharbi tra Palmira e Damasco dove il recinto era coltivato a giardino (detto appunto ḥāyāt o ḥayr). Alcuni qaṣr servivano infine come punti di raccordo tra la popolazione beduina della zona e il potere centrale, come soste per le carovane o come stazioni di posta (barīd). Le residenze inoltre hanno svolto un ruolo importante nell'urbanizzazione "privata" dei territori, in particolare quelli con maggiori potenzialità agricole e commerciali; non mancano, infatti, esempi di agglomerati composti da più residenze come ad esempio a Rusafa (724- 743) dove sorgono quattro qaṣr ed una trentina di altri edifici distribuiti su un vasto territorio fuori le mura della città tardoantica; il complesso di cinque qaṣr di Umm al-Walid e Khan el-Zebib (presso Madaba in Giordania) e forse il complesso stesso di Qasr al-Hair al-Sharqi, dove un'iscrizione (ora scomparsa) rinvenuta presso l'edificio noto come caravanserraglio menziona l'insieme come madīna-città (composta da sette edifici, una moschea, bagni, sūq e quartiere residenziale). Altri esempi sono Angiar nella valle della Beqaa in Libano, Amman e Aqaba in Giordania; ciascuna di queste località ingloba un piccolo insediamento fortificato sorto intorno ad una residenza centrale. Le residenze islamiche sorsero inoltre nelle aree rurali prevalentemente cristiane e pur sottolineando marcatamente lo stato sociale elevato dei suoi abitanti e la loro appartenenza religiosa (attraverso la costante presenza di moschee) ebbero una breve esistenza. Infatti numerosi qaṣr sembrano abbandonati prima ancora dell'avvento della dinastia abbaside nel 750, situazione confermata anche dalle tipologie ceramiche rinvenute negli scavi e dovuta forse a ragioni economiche e non politiche. Inoltre, le residenze rappresentano su scala minore un primo tentativo di sperimentazione urbanistica sul territorio, esperienza utilizzata probabilmente sia nella fondazione di città come Ramla in Palestina, sorta prima del 717 d.C. (il nucleo originario era composto da un palazzo, una moschea, una tintoria [dār al-ṣabbāġīn], un acquedotto e numerose cisterne), sia nella impostazione degli amṣār (campi militari dotati di funzioni residenziali, religiose e politiche) come Kufa, Bostra, al-Fustat e Kairouan.
M. Rosen-Ayalon, Ramla Excavations: Finds from the VIIIth Century C.E., Jerusalem 1969; M. Almagro, Qusayr Amra. Residencia y baños omeyas en el deserto de Jordania, Madrid 1975; O. Grabar, The Architecture of Power: Palaces, Citadels and Fortifications, in G. Michell (ed.), Architecture of the Islamic World, London 1978, pp. 48-79; D. Schlumberger, Qasr el-Heir el Gharbi, Paris 1986; P. Carlier - F. Morin, Qastal al-Balqa'. Un site omeyyade complet (685/705 ap. J.-C.), in Contribution Française à l'Archéologie Jordanienne 1989, Amman 1989, pp. 132-40; S. Helms, Early Islamic Architecture of the Desert: a Beduin Station in Eastern Jordan, Edinburgh 1990; A. Almagro, Building Patterns in Umayyad Architecture in Jordan, in Studies in the History and Archaeology of Jordan, IV, Amman 1992, pp. 351-56; G. Bisheh, The Umayyad Monuments between Muwaqqar and Azraq: Palatial Residences or Caravanserais?, in The Near East in Antiquity. German Contributions to the Archaeology of Jordan, Palestine, Syria, Lebanon and Egypt, III, Amman 1992, pp. 35-41; A. Northedge, Les Omeyyades et leurs résidences, in Syrie. Mémoire et Civilisation, Paris 1993, pp. 374-77; D. Witcomb, The Misr of Ayla: New Evidence for the Early Islamic City, in Studies in the History and Archaeology of Jordan, V, Amman 1995, pp. 277-88; J. Bujard, Umm al- Walid et Khan az-Zabib, cinq qusur omeyyades et leurs mosquées revisités, in AAJ, 41 (1997), pp. 351-74.
di Maria Adelaide Lala Comneno
Gli insediamenti rupestri nel mondo islamico non sono frequenti. Li si trova, generalmente in numero limitato, solo in alcune zone circoscritte, in villaggi posti tutti ad una certa altitudine, caratterizzati da terreno per lo più calcareo nel Maghreb, un'oasi in Egitto, in Iran (qualche villaggio), nel Caucaso (pochi villaggi nel Daghestan), oltre a casi isolati e non esclusivamente islamici, come in Andalusia. I Berberi, popolazione sedentaria dedita alla pastorizia e all'agricoltura, stanziata nella fascia mediterranea e atlantica dell'Africa settentrionale dal Marocco alla Libia, islamizzata da molti secoli, hanno spesso, secondo un'usanza che risale ad epoca preistorica, abitazioni trogloditiche, che invece non si trovano presso le popolazioni arabe delle stesse regioni. I monti di Matmata in Tunisia e il Gebel Nefusa, in Libia, gli uni continuazione dell'altro, prendono il nome dai gruppi berberi ivi stanziati e rappresentano la massima concentrazione di insediamenti rupestri. A Matmata, a sud di Gabès, il più settentrionale tra i villaggi rupestri della Tunisia, le numerose abitazioni trogloditiche hanno forma di pozzi scavati nel terreno (6-10 m di profondità e 8-12 m di diametro) e sono accessibili da una galleria, presentano celle scavate nelle pareti verticali, in due o tre piani sovrapposti, adibite ad alloggi e a granai. Nella zona ci sono altri agglomerati rupestri simili: Haddej, con centinaia di abitazioni del tipo a corte a cielo aperto, Tidjma, Beni Alssa, Beni Zeltene; sono conservati anche frantoi scavati nella roccia, formati da più ambienti. A Mèdenine, poco più a sud-est, del villaggio trogloditico detto ksar non rimane più nulla, mentre esistono ancora, sebbene in rovina, depositi per cereali, parzialmente rupestri, alti fino a cinque piani (ġurfa). Più a sud-ovest si trovano Beni Keddache, con abitazioni rupestri scavate nella roccia e nel sottosuolo (molte altre sono state distrutte dopo il 1958); Ksar Haddada, con tracce di elaborate abitazioni trogloditiche; Ghurmassen, con ġurfa scavati nella montagna e abitazioni rupestri nelle quali vive parte della popolazione; Guermessa, villaggio montano con abitazioni scavate in una scarpata; Chenini, altro villaggio montano con abitazioni trogloditiche e ġurfa rupestri, a breve distanza dal quale si trova anche una moschea sotterranea; ancora più a sud Duirat, villaggio quasi completamente berbero con abitazioni parzialmente trogloditiche dotate di un cortiletto lastricato delimitato da un muro. In questa regione le abitazioni rupestri presentano, generalmente, un solo piano, vani di forma allungata e una parte in muratura. Anche nella vicina Libia tra i Berberi del Gebel Nefusa erano in uso fino agli anni Venti del XX secolo abitazioni sotterranee per più gruppi familiari intorno a un cortile scoperto, simile ad un pozzo. Sono numerosi anche i cosiddetti "castelli berberi", magazzini per derrate alimentari e suppellettili, talvolta semirupestri. Già a Bir el-Ghanem, poco a sud di Tripoli, erano diffuse fino a qualche decennio fa abitazioni semitrogloditiche e nella regione di Gharyan erano frequenti gli insediamenti trogloditici, intorno ad una fossa squadrata abbastanza profonda (6-8 m), dove trovavano alloggio quattro famiglie in vani scavati nelle pareti di roccia. Alcuni particolari sembrerebbero rivelare una certa ricerca di tipo architettonico, quali piante trapezoidali oppure ovali, nonché il soffitto ad imitazione di una volta a botte. Tra i numerosi villaggi berberi, formati generalmente da più agglomerati, le varie frazioni, a diverse altezze, erano costituite da insediamenti trogloditici: vanno ricordati Tighrinna, dove un tempo un quartiere ebraico trogloditico aveva anche la sua sinagoga sotterranea, er-Riyayina, ez-Zintan, Tmizda (Mezgura), villaggio dove fino agli anni Settanta la popolazione utilizzava durante l'estate le tradizionali case ipogee, dotato di una moschea sotterranea e di un'altra moschea nelle vicinanze, quella di Abu Zakariya, un tempo parte di un complesso trogloditico di fondazione molto antica dove erano reimpiegati, caso non infrequente in Libia, anche spolia romani. A Thumayat, poco a ovest di Kabaw, la moschea ipogea (XII sec.) è una delle meglio conservate della zona e costituisce un raro esempio di architettura rupestre, con dieci pilastri che sorreggono la volta, anch'essa scavata nella roccia. Ancora più a ovest si trova il paese di Nalut, con un quartiere di case rupestri dotate di copertura in muratura, caratterizzato dal cosiddetto "castello berbero" già in rovina negli anni Trenta, grande deposito di derrate in gran parte scavato nella roccia calcarea; all'interno centinaia di piccoli vani, in più piani sovrapposti, sono collegati da cunicoli strettissimi. Ultimo villaggio con abitazioni trogloditiche è quello di Wazen, a ridosso del confine con la Tunisia. Abitazioni analoghe erano diffuse anche in Cirenaica e nel Fezzan. Nel Deserto Orientale egiziano, nell'oasi di Siwa, cinque villaggi, tutti abitati in maggioranza da Berberi, sono caratterizzati da abitazioni trogloditiche ipogee del tipo "a cratere", con ambienti scavati intorno. Anche in alcune regioni dell'Iran esistevano insediamenti rupestri. Nell'Azerbaigian persiano era frequente tra i nomadi azeri il trogloditismo invernale di uomini e animali e le stalle sotterranee erano assai diffuse. A Khandedjan, vero villaggio rupestre, le abitazioni sono state scavate nella roccia tenera con formazioni a guglia, molto simili a quelle della Cappadocia. Nelle regioni centrali, la stessa Teheran era nel XIII secolo un grosso villaggio in parte trogloditico. A Bafram nella provincia di Nayn, dove si erano rifugiate popolazioni locali rimaste zoroastriane all'arrivo degli Arabi, gli insediamenti rupestri erano così numerosi che venne costruita una fortezza per la loro difesa. A Meymand, abitazioni scavate nel fianco della montagna, a suo tempo più sicure in caso di invasione, erano ancora utilizzate negli anni Settanta. Sono rari i casi di tombe rupestri di epoca islamica (Siraf ), mentre la tradizione achemenide delle cisterne sotterranee, che servono anche a rinfrescare la sovrastante abitazione, è stata largamente continuata. Nel Caucaso orientale, in Daghestan, in alcuni villaggi di montagna le case erano parzialmente scavate nel terreno e coperte da una terrazza. Va infine citato un esempio non strettamente islamico, ma comunque assai prossimo, quello di Guadix, in Andalusia, dove un antico insediamento semitrogloditico costituisce il quartiere di San Giacomo, ora abitato da Zingari; altre abitazioni trogloditiche sono presenti nel vicino sito di La Alcudia de Guadix, a ben 1115 m di altitudine.
In assenza di bibliografia specifica, si può far riferimento per quanto riguarda l'apparato iconografico a M. Nicoletti, L'architettura delle caverne, Roma - Bari 1980.
di Ciro Lo Muzio
Con la caduta dei Kushana (III sec. d.C.) l'Asia Centrale entra in un periodo di instabilità politica, caratterizzato dall'avvicendarsi di potentati di origine nomadica (Chioniti, Kidariti, Eftaliti), al quale pone fine l'ascesa della potenza turca (VI sec. d.C.). Questo periodo storico resta in gran parte ancora oscuro; è tuttavia ipotesi unanimemente accettata che nel III-IV secolo l'urbanesimo centroasiatico abbia attraversato una fase di declino, mentre aveva luogo una transizione verso un'economia, e un modello di gestione politica e territoriale, di tipo feudale. Il castello fortificato divenne il fulcro del potere e conservò il suo ruolo politico anche quando, alla vigilia della conquista islamica, la città centroasiatica conobbe una nuova fase di rigoglio economico e culturale. Le nostre conoscenze sui castelli centroasiatici sono in larga parte debitrici dell'archeologia sovietica. Tuttavia, le classificazioni tipologiche e le tesi interpretative che sono prevalse negli ultimi decenni, in particolare quelle formulate da V.A. Nil´sen (1966), sono state riprese in esame e in parte riviste (Chmelnizkij 1985; 1989). Si è cercato, in particolare, di definire con maggiore chiarezza la connotazione sociale, oltre che architettonica, della rocca feudale, onde distinguere da essa altre forme insediative che in precedenza venivano genericamente ricondotte al fenomeno dell'"incastellamento", come i siti fortificati abitati da famiglie di agricoltori (ad es., quelli della Chorasmia afrigide), le fortezze di destinazione prettamente militare (ad es., il "castello" del Monte Mug e Tirmizak Tepa) o ancora gli edifici con funzione amministrativa e di rappresentanza (ad es., Kala-i Kakhkakha II). Queste precisazioni rendono possibile circoscrivere il numero di testimonianze monumentali che in tal modo possono essere legittimamente ricondotte alla tipologia del "castello". Più correttamente, tale tipologia si identifica con la residenza di un "signore", della sua famiglia e della servitù, che è al tempo stesso centro amministrativo di una proprietà fondiaria di estese dimensioni. In posizione isolata o affiancate da abitati rurali, queste costruzioni imponenti, la cui mole è in genere accentuata da un alto basamento, sono riconducibili a diverse tipologie, a seconda dell'organizzazione spaziale del loro settore più importante, quello residenziale. I diversi modelli planimetrici, in alcuni casi geneticamente correlati, sono attestati contemporaneamente nel territorio centroasiatico. Monumentali testimonianze sono state riportate alla luce in Margiana (Kyz Kala, Nagim Kala), in Chorasmia (Berkut Kala, Ayaz Kala, Teshik Kala, Yakke Parsan), in Tokharistan (Balalik Tepe, Jumalak Tepe), in Sogdiana (Kafir Kala, Aul Tepa), nell'Ustrushana (Chilkhujra, Urtakurgan), nel Chach (Ak Tepe). È opportuno infine ricordare che il fenomeno interessa verosimilmente un areale ben più vasto di quello esplorato dall'archeologia sovietica (in particolare, l'Afghanistan e il Xinjiang, dove la documentazione è, tuttavia, ancora lacunosa) e che, da un punto di vista cronologico, esso si prolunga ben oltre l'invasione araba, come viene testimoniato dalle fonti dell'epoca.
G.A. Pugačenkova, Puti razvitija architektury južnogo Turkmenistana pora rabovladenija [Linee di sviluppo dell'architettura del Turkmenistan meridionale nell'età schiavistica], Moskva 1958; V.A. Nil´sen, Stanovlenie feodal´noj architektury Srednej Azii (5.-8. Jh.) [Sviluppo dell'architettura feudale dell'Asia Centrale], Tashkent 1966; S. Chmelnizkij, Zur Klassifikation der frühmittelalterlichen Burgen in Mittelasien, in G. Gnoli - L. Lanciotti (edd.), Orientalia Iosephi Tucci Memoriae Dicata, I, Roma 1985, pp. 25- 47; Id., Zwischen Kuschanen und Arabern, Berlin 1989, pp. 65-114; M.I. Filanovič, Les relations historiques, culturelles et idéologiques et les échanges entre le Čâč, la Sogdiane et la Chorasmie au début du Moyen-Âge, d'après les données de l'étude des résidences fortifiées au VIe-VIIIe s. de notre ère, in P. Bernard - F. Grenet (edd.), Histoire et cultes de l'Asie Centrale préislamique, Paris 1991, pp. 205-12.
di Filippo Salviati
In tutti i Paesi dell'area estremo-orientale, il processo che ha portato alla graduale organizzazione del territorio, alla sua definizione in termini di confini, suddivisioni interne, sfruttamento ed articolazione amministrativa ha percorso un sentiero sostanzialmente analogo: si registra cioè un graduale passaggio, documentabile soprattutto in epoca storica, da piccole unità territoriali verso macroregioni a mano a mano che si andava formando e consolidando la struttura statale centralizzata in Cina, Corea e Giappone. Questo processo di definizione geopolitica del territorio e della sua articolazione prende corpo prima in Cina, durante l'età del Bronzo, ma soprattutto all'epoca delle dinastie Qin e Han, e successivamente, intorno al VII sec. d.C., nei restanti Paesi estremoorientali che adottano il modello cinese di ripartizione amministrativa del territorio.
In Cina, scarne informazioni sulla organizzazione territoriale in tarda epoca Shang (XIII-XI sec. a.C.) ci provengono dalle iscrizioni sulle ossa oracolari. Secondo quanto rilevato da D.N. Keightley (1983), in esse si fa riferimento ai domini Shang con l'espressione i "nostri territori" (wo tian) visti principalmente, secondo quanto desumibile dal contesto linguistico, in termini di resa agricola o in quanto oggetto di ispezione da parte del sovrano. La prima visione del territorio riflette le logiche preoccupazioni di una società arcaica che fonda gran parte della sussistenza sull'economia agricola e per la quale la produttività del territorio costituisce la preoccupazione principale; la seconda rivela un aspetto rituale e politico della funzione del sovrano Shang, il quale estende la propria autorità sino ai territori più lontani dal luogo di residenza anche attraverso visite ed ispezioni effettuate di persona, così da rimarcare l'appartenenza di quei territori alla enclave Shang. La caccia regale, cui di frequente le iscrizioni oracolari fanno riferimento, è anch'essa parte delle attività simboliche attraverso le quali il sovrano afferma la propria autorità su terre, in questo caso, selvagge, secondo una concezione rituale del potere che ricorrerà anche in epoche successive, come durante il periodo Han (206 a.C. - 220 d.C.). Più difficile è, invece, determinare gli effettivi confini politici del territorio controllato dagli Shang, la loro reale estensione, percepibile in negativo, quando nelle iscrizioni oracolari viene fatto riferimento ad altre entità politiche o etniche che interagivano, a vario livello, con gli Shang, sia riconoscendone l'autorità sia confrontandoli militarmente: ricorre con una certa frequenza il termine bi ("bordo", "confine"), senza tuttavia ulteriori specificazioni, riconosciute probabilmente, nella realtà dei fatti, dall'assetto del territorio, dalla sua organizzazione e dalle relazioni intercorrenti tra gli Shang e gli altri gruppi attraverso l'emissione di ordini, i viaggi d'ispezione, il sostegno militare, le campagne di conquista, o ricevendo doni e tributi anche da regioni assai distanti dai territori in cui gli Shang erano insediati. Nel successivo periodo dei Zhou Occidentali il rapporto tra sovranità e territorio si rafforza, con la piena maturazione del processo di sviluppo statale attraverso l'istituzione, a partire dal medio Zhou, di quello che è stato definito il "feudalesimo cinese", meccanismo di controllo politico ed amministrativo di un territorio estremamente vasto, abitato da popolazioni etnicamente, culturalmente e linguisticamente diverse. Tale meccanismo sembra basato su una rete di rappresentanti del sovrano, spesso direttamente imparentati con la casa regnante. Il sistema prevedeva l'istituzione di autorità delegate e subordinate al re Zhou, che nei territori conquistati e amministrati imponevano la propria autorità sulle popolazioni locali. L'appartenenza alla compagine statale e territoriale Zhou di tali "feudi" veniva sottolineata da atti simbolici codificati in una rigorosa ritualità: l'istituzione di un tempio ancestrale nel luogo di residenza dei "signori feudali", l'elargizione di doni regali (utensili rituali in giada e in bronzo), che servivano a sottolineare il legame di dipendenza e vassallaggio con la casa regale e, di contro, l'appartenenza ad essa di regioni anche lontane. Il forte legame tra l'autorità centrale ed il territorio trovava una traslazione simbolica nella zolla di terra che il re Zhou, prelevandola dall'altare del dio del suolo, consegnava al vassallo in segno dello stretto legame rituale e politico che si veniva a stabilire tra il re e il "signore feudale" con l'affidamento dell'incarico. Sembra, dunque, che il territorio fosse definito, da un punto di vista istituzionale, proprio dal fatto che in esso risiedesse il delegato dell'autorità centrale a cui si doveva rispondere dell'amministrazione delle terre concesse. Nel lungo termine questo assetto, favorito dalla ereditarietà dei titoli e possedimenti nobiliari, portò ad un indebolimento dei legami con l'autorità centrale e all'emergere di realtà politiche locali e autonome organizzatesi in forma di Stati indipendenti dalla sovranità Zhou. È da notare come proprio in questo momento di frammentazione dell'unità politica si sviluppi un interesse verso la cartografia, o la descrizione quasi catastale del territorio, della sua articolazione, degli insediamenti in esso presenti, come evidenziato da una serie di reperti quali: i contrassegni in bronzo della fine del IV sec. a.C. da Qiujiahuayuan (Shouxian, Prov. di Anhui), dove è meticolosamente descritto il tragitto che imbarcazioni e carri dovevano effettuare per il trasporto delle merci in un'area del territorio di Chu; la tavoletta lignea dalla tomba n. 1 del sito di Fangmatan (Prov. di Shaanxi) del III sec. a.C. con uno schematico tracciato della regione di Tian Shui; le mappe rinvenute nella sepoltura n. 2 a Mawangdui (Changsha, Prov. di Hunan) di epoca Han. Sono tutti ritrovamenti indicatori di una crescente conoscenza ed attenzione verso il territorio che porterà, nel II sec. d.C., in epoca Han, all'invenzione della cartografia quantitativa, strumento ottimale per la conoscenza e l'amministrazione di un territorio vastissimo, la cui gestione centralizzata richiedeva una articolazione in unità territoriali minori, ma strettamente controllate. Era il principio della suddivisione in province e distretti secondo il sistema jun-xian che, iniziato dagli Han, fu portato a maturazione con la dinastia Tang e sul quale ancora oggi sostanzialmente si basa l'assetto amministrativo della Cina.
Le particolarità geografiche dei due Paesi, caratterizzati da scarsi terreni pianeggianti e da numerose catene montuose, che frammentano il paesaggio separando tra loro i luoghi più adatti all'insediamento umano, hanno favorito lo sviluppo di culture regionalmente differenziate e profondamente radicate sul territorio occupato, spesso ininterrottamente, per generazioni. Queste particolari condizioni spiegano, in parte, il ritardo nella formazione di compagini statali unitarie in Corea e Giappone. Il lungo periodo di frammentazione politica dei due Paesi trova una delle sue motivazioni proprio nella segmentazione sul territorio delle comunità umane e in un forte senso di identità derivante da una lunghissima continuità insediamentale. Con l'emergere delle prime forme protostatali intorno al IV sec. d.C., ma più ancora con i primi Stati nazionali, che si affermano in Corea e Giappone nel corso del VII sec. d.C., l'originale frammentazione si trasforma in una suddivisione amministrativa; questa adatta alle realtà locali i modelli della ripartizione amministrativa del territorio elaborata dalla tradizione confuciana che permea la struttura dell'impero cinese Tang (618-907 d.C.). In Corea, con il regno Silla Unificato (668-935 d.C.), nel 685 d.C. vennero istituite 9 province, ciascuna con una propria capitale. Anche il Giappone adottò il modello della amministrazione Tang, ripartendo il territorio in 3 isole e 58 province, con autorità locali preposte alla riscossione dei tributi, connesse tra di loro da strade per il trasporto delle merci, ma prive di capitali provinciali. Le province erano a loro volta divise in contee (500-600 ca.) formate da comunità di villaggio. Un centro amministrativo provinciale del tardo VII-VIII secolo, quello della provincia di Omi (Pref. di Shiga), è stato recentemente oggetto di indagini archeologiche, durante le quali l'intera struttura degli uffici sede del governo è stata messa in luce su una superficie quadrangolare di circa 300 m per lato, circondata da un muro a tegole e da un fossato. All'interno la successione degli edifici sembra ripetere quella dei palazzi imperiali della capitale. Meno elaborata, dal punto di vista rituale, era la struttura delle sedi dei funzionari di contea, di cui più di 50 sono i siti fino ad oggi indagati, tra i quali il sito di Ogori (Pref. di Fukuoka) è forse l'esempio più noto. Strutture a pianta rettangolare disposte a formare un quadrilatero sono state riconosciute ad Ogori come gli uffici della contea; ad ovest del quadrilatero erano le residenze dei funzionari e a nord era la ragione stessa di quei funzionari: i magazzini in cui venivano raccolti i tributi frutto delle tassazioni.
D.N. Keightley, The Late Shang State: When, Where, and What?, in D.N. Keightley (ed.), The Origins of Chinese Civilization, Berkeley 1983, pp. 523-64; Cho-yun Hsu - K.M. Linduff, Western Chou Civilization, London 1988, pp. 147-85; A. Waldron, La Grande Muraglia, Torino 1993 (trad. it.).
di Rodolfo Fattovich
Le modalità di organizzazione, divisione e assetto del territorio nell'Africa subsahariana, come altrove, riflettono le strategie di adattamento all'ambiente naturale e il diverso grado di complessità sociale delle singole popolazioni. Nonostante le ovvie differenze regionali, che dipendono da fatti storici specifici, si possono riconoscere alcuni modelli generali di occupazione del territorio nei principali ecosistemi dell'Africa tropicale (foresta, savana o prateria e deserto), corrispondenti alle diverse forme di economia di sussistenza. Le popolazioni di cacciatori-raccoglitori, di cui sopravvivono alcuni gruppi residui in aree marginali subdesertiche o di foresta tropicale, tendono a distribuirsi su aree molto vaste con accampamenti isolati. I !Kung del Botswana, in particolare, si disperdono in campi stagionali nella stagione umida e si raggruppano in nuclei di accampamenti in prossimità dei corsi d'acqua nella stagione secca. Questo modello è sicuramente antico, essendo ben documentato archeologicamente nell'Africa australe, dove i siti attribuibili a cacciatori e raccoglitori della Late Stone Age risultano per lo più localizzati lungo i fiumi. Le popolazioni dedite all'agricoltura o alla vegecoltura presentano modelli di occupazione del territorio diversi nella foresta e nelle savane o praterie. I coltivatori stanziati nelle zone a foresta umida tendono a disporsi con casolari o piccoli villaggi sparsi al margine delle aree coltivate, mentre quelli nelle zone a savana o prateria si concentrano in villaggi più o meno vasti al centro delle aree sottoposte a coltivazione. Gli allevatori nomadi o seminomadi si spostano su territori molto ampi, anche di alcune centinaia di chilometri, praticando in genere transumanze lungo direttrici abbastanza costanti. Talvolta, come nel caso dei gruppi seminomadi dell'Eritrea settentrionale, che praticano spostamenti stagionali tra i bassopiani aridi e l'altopiano temperato, due accampamenti maggiori vengono posti ai terminali delle vie di transumanza, quali residenze dei capi. Modelli di occupazione del territorio più complessi e caratterizzati da una chiara gerarchia per dimensioni e densità di materiali degli insediamenti sono apparsi in varie regioni dell'Africa subsahariana come conseguenza dell'emergere di società urbane con forme di organizzazione di tipo statale. Indagini archeologiche finalizzate ad identificare gli antichi modelli di insediamento sono state condotte in varie regioni dell'Africa subsahariana, permettendo in alcuni casi di delineare i mutamenti avvenuti in una stessa regione nel corso del tempo. A Kassala (Sudan orientale) è stata ricostruita la sequenza di sistemi di insediamento delle popolazioni qui stanziate su un arco temporale di quasi 5000 anni (IV millennio a.C. - I millennio d.C.); essa offre un quadro abbastanza preciso dei diversi modelli di occupazione del territorio da parte di popolazioni rurali in una zona a savana, con forme di organizzazione sociale che si sono evolute fino a un livello di tipo protostatale. Il sistema più antico (4000-2500 a.C. ca.), attribuibile a una popolazione che praticava principalmente la caccia ai grandi Mammiferi di savana e la raccolta di Graminacee selvatiche, era caratterizzato da insediamenti di notevoli dimensioni, con superficie di circa 9-10 ha, localizzati lungo i principali corsi d'acqua. Nella fase successiva (2500-1400 a.C. ca.), il modello di insediamento riflette chiaramente l'emergere di una società complessa. Gli abitati infatti si distribuiscono secondo una chiara gerarchia di dimensioni articolata in cinque livelli, con due siti maggiori di circa 10-12 ha, in posizione centrale rispetto a quelli circostanti, che presentano dimensioni decrescenti, variabili da 7-8 a 1-2 ha. Tali abitati sono attribuibili a una popolazione sedentaria o semisedentaria che coltivava cereali, allevava bestiame, praticava il commercio ed era dotata di forme di amministrazione centralizzata. A tale modello fece seguito (1400-800 a.C. ca.) un sistema di insediamento che può essere attribuito a una popolazione agropastorale con società relativamente complessa, divisa in due settori specializzati, rispettivamente, nell'agricoltura e nell'allevamento. Gli abitati presentano una gerarchia di dimensioni a quattro livelli, con una netta distinzione tra villaggi residenziali (4-5 ha), disposti attorno a due siti di circa 8 ha nelle aree con terreno fertile, e piccoli accampamenti temporanei di pastori (0,5-1 ha) sparsi nella savana circostante. Infine, nel I millennio a.C. apparve un modello di insediamento tipico di popolazioni nomadi, che era caratterizzato da semplici accampamenti stagionali di piccole dimensioni (1 ha ca.), ad eccezione di alcuni più estesi (3-5 ha) nelle zone di pascolo della savana. Sull'Altopiano Etiopico settentrionale, nella regione tra Aksum e Adua nel Tigrè, sono state delineate le trasformazioni nel modello di occupazione del territorio avvenute tra il I millennio a.C. e il I millennio d.C., in concomitanza con l'emergere e il progressivo consolidarsi di una società urbana di tipo statale. Nella fase più antica, nella prima metà del I millennio a.C., gli insediamenti avevano dimensioni comprese tra 1 e 3 ha ed erano distribuiti in maniera abbastanza regolare a una distanza media di 2-3 km, secondo il modello proprio delle popolazioni di agricoltori stanziatesi in zone a foresta umida. Successivamente, alla metà circa del I millennio a.C., apparvero alcuni insediamenti di dimensioni maggiori (7-10 ha), che attestano l'affermarsi di una prima forma di società urbana di tipo sudarabico. Questo primo modello di insediamento urbano sembra declinare nella seconda metà del I millennio, sostituito alla fine del I millennio da un sistema di insediamento caratterizzato da villaggi organizzati attorno a centri maggiori, con residenze di élite che suggeriscono l'emergere di piccoli principati. Quindi, nel I millennio d.C., si affermò un sistema di insediamento caratterizzato da un grande centro urbano, con aree residenziali per l'élite e aree cerimoniali e funerarie, con dimensioni di circa 100 ha (Aksum), circondato da villaggi tra 4 e 10 ha e da casolari e ville sparse, secondo un modello di insediamento urbano di tipo pienamente statale (regno di Aksum). Alla fine del I millennio d.C. il sistema di insediamento subì una nuova trasformazione in seguito al declino del regno aksumita, riducendosi alla sola capitale, con dimensioni inferiori a circa 40 ha, e ad alcuni villaggi circostanti. Modelli di occupazione del territorio caratterizzati da una gerarchia basata sulle dimensioni degli insediamenti sono ben attestati anche in altre regioni dell'Africa subsahariana in cui si sono sviluppate società di tipo urbano, come ad esempio Djenné-Djeno (Mali) e Great Zimbabwe (Zimbabwe).
C.G. Sampson, The Stone Age Archaeology of Southern Africa, New York 1974; K. Sadr, The Development of Nomadism in Ancient Northeastern Africa, University Park 1991; J.W. Michels, Regional Political Organization in the Axum-Yeha Area during the Pre-Axumite and Axumite Eras, in C. Lapage (ed.), Études éthiopiennes, Paris 1994, pp. 61-80.
di Michael E. Smith
Presso gli Aztechi i principi di organizzazione del territorio erano complessi e gerarchici. Al più alto livello stava l'altepetl, o città-stato; al di sotto erano il calpolli, il chinamitl e una serie di altre unità che svolgevano anch'esse importanti ruoli nell'organizzazione socioterritoriale. L'uso e la gestione della terra dipendevano fondamentalmente dall'appartenenza a determinati gruppi sociali, così come dalla condizione di dipendenza da un nobile. L'altepetl, ad esempio, era costituito da un gruppo di individui soggetti a un sovrano ereditario (tlatoani) e dai loro terreni agricoli e non da un territorio circoscritto entro confini esatti. A causa di questo principio, un altepetl non sempre occupava aree contigue chiaramente separate dalle terre di quelli adiacenti; in alcuni casi i singoli villaggi e le terre degli altepetl vicini si intrecciavano in maniera complessa. L'organizzazione del territorio rifletteva dunque l'organizzazione sociale e politica dell'impero. Il cuore dell'altepetl era costituito da una capitale con un palazzo reale, un tempio-piramide dedicato al dio tutelare, un mercato e le residenze di nobili e cittadini comuni. Tale centro urbano era circondato da terreni agricoli. Più che all'impero azteco, il popolo era fedele al proprio altepetl. La maggior parte degli abitanti era subordinata a capi locali, i quali erano a loro volta vincolati al re, anche se alcuni cittadini comuni erano direttamente soggetti al sovrano. La maggioranza della popolazione dell'altepetl era divisa in calpolli. Ciascun calpolli era costituito da un insieme di famiglie che vivevano le une vicine alle altre, erano legate allo stesso nobile, controllavano uno stesso appezzamento di terreno e spesso si dedicavano alla stessa occupazione. Le terre del calpolli erano coltivate dai componenti delle famiglie, sotto il controllo di un consiglio, a sua volta subordinato al nobile regnante. Un calpolli era generalmente costituito da 100-200 famiglie e i suoi membri vivevano in parte nel centro urbano dell'altepetl, in parte nelle aree rurali. Il calpolli era a sua volta composto da unità sociali più piccole (chinamitl ); nelle aree rurali queste corrispondevano ai villaggi, mentre negli insediamenti urbani erano spesso rappresentate da quartieri. Un chinamitl era formato da 10-30 famiglie, tutte soggette a un nobile locale. La famiglia, consistente in uno o più nuclei che condividevano un'abitazione e un lotto di terreno, era la più piccola unità territoriale. Nelle aree rurali i lotti di terreno ad uso familiare potevano essere abbastanza grandi da ospitare orti. In alcuni insediamenti due o più abitazioni individuali erano raggruppate attorno a una corte aperta comune e costituivano gli ithualli, o recinti domestici. I residenti di tali unità venivano definiti cemithualtin, "gruppo di una corte". Uno dei capi di questi nuclei familiari era il capo dell'intero ithualli e tutti gli altri ricevevano la terra da lui in cambio di tributi e servizi. Ciascuno dei gruppi sociali gerarchici sopra menzionati (altepetl, calpolli, chinamitl, ithualli) aveva un capo che governava sugli altri membri; ad ogni livello gerarchico, eccetto che nell'ithualli, si trattava di un nobile a cui venivano versati tributi in beni e servizi. I tributi in prestazioni lavorative erano assolti a rotazione dai nuclei familiari componenti il gruppo, che dovevano vivere nei pressi della residenza del capo per compiere il loro turno mensile di lavoro. Questo sistema di corvées spiega forse perché spesso i nobili vivevano vicino ai sudditi, piuttosto che all'interno di aree residenziali isolate. L'impero azteco si espanse attraverso conquiste, incorporando i vari gruppi territoriali sopra descritti. La maggior parte degli altepetl conquistati venne organizzata in province tributarie e obbligata a versare regolarmente tributi che venivano registrati in documenti pittorici come il Codice Mendoza. Altre province erano considerate regni-satellite e tra i loro doveri vi era la difesa dei confini dell'impero dai nemici. L'impero azteco esercitava la propria egemonia mediante il governo indiretto: le dinastie locali venivano conservate ed erano concessi particolari onori e privilegi a sovrani e nobili affinché essi collaborassero nell'organizzazione e nella raccolta dei tributi. Il controllo diretto sulla politica locale e sull'organizzazione del territorio era minimo e l'altepetl continuò ad essere la più importante unità territoriale. L'estensione di una provincia tributaria azteca corrispondeva a quella degli altepetl che la formavano. L'importanza degli altepetl nella società azteca è attestata dal fatto che tali unità continuarono ad esistere e a regolare l'appartenenza territoriale anche dopo la Conquista. Durante il dominio spagnolo, in molte zone i possedimenti terrieri chiamati encomiendas furono delimitati in base all'ambito territoriale degli antichi altepetl aztechi. A differenza del sistema azteco, comunque, quello spagnolo si fondò su unità ben circoscritte e chiaramente delimitate. Gli insediamenti indigeni vennero inglobati nella più vicina encomienda, non tenendosi in conto l'originario altepetl di appartenenza. Ne derivarono così innumerevoli dispute legali sulla corretta giurisdizione di molte comunità indigene. Ad ogni modo, queste unità di organizzazione territoriale mostrarono una grande stabilità attraverso il tempo, tanto che in molte zone del Messico centrale i moderni municipios seguono l'antica estensione dell'altepetl azteco.
C. Gibson, The Aztecs under Spanish Rule: a History of the Indians of the Valley of Mexico, 1519-1810, Stanford 1964; J.A. Licate, The Forms of the Aztec Territorial Organization, in W.V. Davidson - J.J. Parsons (edd.), Historical Geography of Latin America, Baton Rouge 1980, pp. 27- 45; M.G. Hodge, Aztec City-States, Ann Arbor 1984; J. Lockhart, The Nahuas after the Conquest: a Social and Cultural History of the Indian of Central Mexico, Sixteenth through Eighteenth Centuries, Stanford 1992; P. Gerhard, A Guide to the Historical Geography of New Spain, Norman 1993; P. Carrasco, La Triple Alianza: organización política y estructura territorial, in S. Lombardo - E. Nalda (edd.), Temas mesoamericanos, México 1996, pp. 167-210; M.G. Hodge, When is a City-State? Archaeological Measures of Aztec City-State and Aztec City-State System, in D.L. Nichols - T.H. Charlton (edd.), The Archaeology of City-States: Cross-Cultural Approaches, Washington (D.C.) 1997, pp. 209-28.
di Marco Curatola Petrocchi
Gli Inca chiamarono il loro impero Tahuantinsuyu, parola Quechua composta dal numerale tahua, "quattro", dal suffisso nti, che indica "l'insieme, la totalità", e dal sostantivo suyu, che significa "parte, regione": dunque "le quattro regioni (del mondo) assieme". In effetti, l'intero impero era diviso in quattro grandi regioni o suyu (Chinchaysuyu, Antisuyu, Collasuyu e Cuntisuyu), al centro delle quali stava il Cuzco, la capitale, "l'ombelico del mondo". I quattro suyu dovettero essere originariamente concepiti sulla base dei quattro differenziati macro- ecosistemi esistenti attorno alla regione del Cuzco, vale a dire la sierra con le sue montagne e le sue valli, la foresta tropicale, il vasto altopiano del Titicaca (con un'altitudine media di 4000 m) e la costa pacifica con deserti e oasi fluviali. Di fatto furono il controllo e lo sfruttamento congiunto delle diverse risorse offerte da queste regioni naturali ad assicurare la prosperità e lo sviluppo dell'impero Inca. Agli inizi del XVI sec. d.C., data la notevole espansione territoriale del Tahuantinsuyu in direzione nord-ovest e sud, i quattro settori avevano assunto dimensioni assai diseguali e corrispondevano ormai solo molto parzialmente a precise zone ambientali. Gli esatti limiti fra un suyu e l'altro non sono stati ancora del tutto definiti: grosso modo, comunque, il Chinchaysuyu comprendeva i territori a nord-ovest della capitale, ossia tutta la sierra e la costa dalla valle di Chincha in su, sino all'Ecuador settentrionale; l'Antisuyu era la regione forestale immediatamente a nord/nord-est del Cuzco; il Collasuyu si estendeva a sud/sud-est, abbracciando l'altopiano boliviano, il Nord-Ovest argentino e il territorio cileno, dalla valle di Azapa a nord sino a quella del Maipo a sud; infine, il Cuntisuyu era la regione compresa fra il Cuzco e le valli costiere dell'Ica a nord e del Moquegua a sud. Ciascun suyu era posto sotto la responsabilità di un comandante generale, chiamato capac apu. I suyu erano divisi in numerose province, o huamani, affidate al controllo di governatori (tocricoc), che erano generalmente scelti tra i nobili Inca. Ogni huamani veniva costituito dagli Inca tenendo conto sia delle realtà etnico-territoriali che della consistenza demografica. Infatti ogni provincia doveva essere composta, soprattutto a fini amministrativo-tributari, da almeno un hunu, ossia 10.000 nuclei familiari (come lo furono in effetti quelle di Yauyo e di Huánuco), o preferibilmente da suoi multipli (come quelle di Chincha e dei Huanca, formate da tre hunu). Anche se alcune fonti riportano il numero di quattro hunu come quantità ideale, la maggior parte delle province sembra aver avuto due o tre hunu, corrispondenti ad altrettanti distretti. A tal fine, in taluni casi gli Inca divisero i territori di grandi formazioni sociopolitiche preesistenti in varie province, mentre in altri casi unirono in un'unica provincia diversi curacazgos (domini) locali. Così, ad esempio, il regno di Chimor venne suddiviso in varie province, mentre a Chachapoyas i territori di diversi curacazgos furono riuniti in una sola provincia di 20.000 unità familiari. Anche se l'unità-base di 10.000 nuclei domestici (un hunu) e suoi multipli dovettero rappresentare un semplice ordine ideale di riferimento, nondimeno gli Inca si sforzarono di approssimarvisi il più possibile, come indica ad esempio il censimento effettuato nel 1567 dall'ispettore reale Garci Diez de San Miguel nell'antica provincia Inca di Chucuito, ove risultarono esservi 20.280 famiglie nucleari. Ogni provincia era a sua volta generalmente divisa in due o tre distretti (saya), posti sotto il controllo e la responsabilità di capi locali (curaca). All'interno di ciascun distretto vigeva infine una divisione decimale della popolazione in huaranga e pachaca (rispettivamente 1000 e 100 famiglie), sovente residenti in vari insediamenti e frazioni, affidati alla responsabilità di capi e sottocapi locali. Per quanto concerne propriamente l'organizzazione territoriale delle principali province, va rilevato come lungo la grande strada imperiale (Capac-Ñan) della sierra gli Inca crearono una serie di monumentali centri amministrativi, quali Vilcashuaman, Hatun Xauxa, Pumpu, Huánuco Pampa, Cajamarca, Tomebamba e Hatun Cañari. Edificati per lo più in territori pianeggianti o comunque non molto inclinati e secondo canoni architettonico-urbanistici piuttosto standardizzati, questi siti fungevano soprattutto da centri di raccolta sia di materie prime e di manufatti, come attestano le numerose strutture destinate allo stoccaggio e alla conservazione dei prodotti, sia di uomini, come indicano le immense piazze dove avevano periodicamente luogo grandi cerimonie civico-religiose di carattere redistributivo, alle quali era chiamata a partecipare l'intera popolazione locale. Quale che fosse il loro originario modello di occupazione del territorio, gli abitanti delle varie regioni dell'impero vivevano in genere dispersi in piccoli insediamenti rurali e in villaggi situati verso il fondovalle, in prossimità dei coltivi di mais, la principale risorsa dello Stato. Così, ad esempio, non appena i signori del Cuzco conquistarono la valle del Mantaro (sierra centrale del Perù), costrinsero la maggior parte dei Huanca, il gruppo etnico dell'area, ad abbandonare i loro grandi centri fortificati d'altura, ubicati nella zona di produzione di patate e altri tuberi, per disperderli in numerosi piccoli insediamenti posti in luoghi aperti delle zone più basse, propizie per la produzione del mais. Inoltre, a quanto pare, gli Inca si preoccuparono di creare attorno al capoluogo Hatun Xauxa una zona di sicurezza scarsamente popolata: infatti in un raggio di 5 km da tale centro amministrativo, nonostante vi fossero i migliori terreni agricoli della regione, è stata rilevata l'esistenza di solo nove piccoli insediamenti, con una densità demografica complessiva di gran lunga inferiore rispetto a quella delle zone circostanti. L'organizzazione territoriale della regione del Cuzco, il cuore dell'impero, era alquanto diversa. Il territorio attorno alla capitale era amministrativamente diviso in una serie di distretti (chapa), corrispondenti ad altrettante zone agricole servite da reti di canali d'irrigazione e controllate da determinati gruppi corporati di discendenza, detti panaca se di stirpe reale Inca, e ayllu se di genti non appartenenti a gruppi di discendenza Inca. Tanto nella valle del Huatanay che in quella del Vilcanota- Urubamba, i segni dell'occupazione Inca sono a tutt'oggi presenti: estesi e monumentali terrazzamenti, perfezionate e capillari opere idrauliche, strade, palazzi gentilizi, santuari e innumerevoli insediamenti rurali pianificati. In effetti, i vari imperatori Inca che si succedettero nel tempo crearono nella regione del Cuzco una serie di grandi tenute agricole, la cui produzione era fondamentalmente destinata ad assicurare, anche dopo la loro morte, il mantenimento e il lustro della loro panaca e della loro corte. Così, ad esempio, fonti etnostoriche riportano che i monumentali siti di Pisac, Ollantaytambo e Machu Picchu furono i centri di altrettante proprietà terriere di Pachacuti Inca Yupanqui, il fondatore dell'impero, il quale regnò approssimativamente fra il 1438 e il 1471, mentre Chinchero e Urquillos sarebbero stati possedimenti del suo successore Topa Inca Yupanqui (1471-1493 ca.) e della sua panaca. Nelle tenute imperiali e della nobiltà del Cuzco, come ad esempio a Callachaca, associati ad estesi terrazzamenti si ritrovano non di rado insediamenti rurali di carattere pianificato, caratterizzati da file ordinate di strutture a pianta rettangolare, con il vano d'accesso rivolto verso il fondovalle. In esse dovevano risiedere i contadini, in genere yana (servitori personali permanenti della nobiltà Inca), ma anche mitmac (coloni tradotti da altre zone dell'impero), incaricati non solo della produzione agricola, basata essenzialmente sul mais, ma anche della costruzione e del mantenimento delle stesse opere di terrazzamento e irrigazione. Va infine ricordata l'esistenza, sempre nella regione del Cuzco, di innumerevoli santuari e luoghi sacri (huaca), idealmente disposti lungo i cosiddetti ceque, le 41 linee immaginarie che dipartivano a raggiera dal Coricancha, il grande tempio dedicato al Sole. Tali santuari, ubicati sia in più ampi complessi insediativi che in luoghi isolati e particolari della natura, come sorgenti, cime montane e grotte, erano connessi con determinati eventi della mitologia Inca ed erano centro di intense pratiche rituali: custoditi e mantenuti dalle differenti panaca e dai differenti ayllu, di fatto essi definivano lo spazio sociale, politico, economico e territoriale di ciascun gruppo. Tra i huaca più sacri degli Inca vi erano Pacarictampu (Pacariqtambo) e Huanacauri. Pacarictampu è il nome di una località a una ventina di chilometri in linea d'aria a sud del Cuzco (nell'attuale provincia di Paruro), da una grotta della quale gli Inca ritenevano fossero usciti Manco Capac e Mama Ocllo, la coppia fondatrice del Cuzco e della dinastia imperiale, e altri sei loro fratelli e sorelle. Nella zona in effetti esistono una grotta, conosciuta come Puma Orco, nei pressi della quale si trovano varie rocce intagliate e piccole costruzioni Inca, e un vasto complesso archeologico, Maucallacta (Maukallaqta), con oltre 200 strutture e una piazza centrale circondata da edifici in conci accuratamente squadrati, con portali e nicchie monumentali: con ogni probabilità tali siti corrispondono all'antico huaca di Pacarictampu e alle infrastrutture templari e cerimoniali ad esso connesse. Huanacauri è invece un'altura ubicata una dozzina di chilometri a sud/sud-est del Cuzco, nei pressi della cui sommità J.H. Rowe (1944) ha rilevato l'esistenza di un piccolo complesso di strutture tipicamente Inca. Secondo la storia mitica degli Inca, fu proprio dalla cima del Huanacauri, ove uno dei suoi fratelli rimase convertito in pietra, che Manco Capac, dopo una lunga peregrinazione per la regione, giunse per la prima volta in vista della valle del Cuzco, la sua terra promessa. In quel luogo, considerato uno dei più sacri del Tahuantinsuyu, si svolgevano i riti di iniziazione dei giovani Inca e altre importanti cerimonie dell'élite governante. Numerosi santuari della regione del Cuzco erano poi connessi con il culto dell'acqua. Fra questi spicca, per l'architettura decisamente monumentale e raffinata, Tambomachay (Quinoapuquio), un complesso ubicato pochi chilometri a nord dell'antica capitale imperiale, non lontano da Sacsahuaman, il quale comprendeva una grandiosa fontana a più livelli con muri poligonali, una grotta, un edificio conosciuto come Pucara (o Pucapucara) e una serie di terrazze agricole.
J.H. Rowe, An Introduction to the Archaeology of Cuzco, Cambridge (Mass.) 1944; Å. Wedin, El sistema decimal en el imperio incaico. Estudio sobre estructura política, división territorial y población, Madrid 1965; T. Zuidema, La civilisation inca au Cuzco, Paris 1986; S.A. Niles, Callachaca. Style and Status in an Inca Community, Iowa City 1987; J. Hyslop, Inka Settlement Planning, Austin 1990; B.B. Bauer, The Development of the Inca State, Austin 1992; T.N. D'Altroy, Provincial Power in the Inka Empire, Washington 1992; I.S. Farrington, Ritual Geography, Settlement Patterns and the Characterization of Provinces of the Inca Heartland, in WorldA, 3 (1992), pp. 368-84; M.E. Moseley, The Incas and their Ancestors, London 1992; M. Pärssinen, Tawantinsuyu. The Inca State and its Political Organization, Helsinki 1992; S.A. Niles, The Provinces in the Heartland: Stylistic Variation and Architectural Innovation near Inca Cuzco, in M.A. Malpass (ed.), Provincial Inca. Archaeological and Ethnohistorical Assessment of the Impact of the Inca State, Iowa City 1993 pp. 145-76.
di Gaetano Cofini
Consistenti indizi sui modelli di organizzazione del territorio provengono dalle maggiori isole polinesiane, in cui si assiste, dopo i primi secoli del II millennio d.C., a mutamenti sociali ed economici di rilievo; tra i più significativi vi sono la crescita della popolazione, l'intensificazione delle economie primarie, l'aumento della competizione per il controllo di aree altamente produttive e l'istituzione di gerarchie sociali e di forme centralizzate di governo (chiefdoms). Le modificazioni apportate all'assetto del territorio interessarono soprattutto l'organizzazione degli insediamenti e delle zone rurali e richiesero presumibilmente forme di cooperazione lavorativa tra nuclei familiari o tra sezioni più ampie della comunità, coordinate dalle autorità locali. Grazie ad approfondite ricerche è stato possibile ricostruire l'assetto delle principali unità territoriali (ahupuaa) che suddividevano radialmente le principali isole vulcaniche dell'arcipelago hawaiiano. Nell'isola di Hawaii, l'ahupuaa di Lapakahi si estendeva dalla fascia costiera alle pendici sottovento dei monti Kohala. La maggioranza dei siti (abitati, piattaforme funerarie, santuari dedicati alla pesca) è stata localizzata sul litorale, in particolare in un'insenatura (Koaie Inlet) dove è stato individuato un complesso residenziale abitato presumibilmente dalle famiglie dominanti di Lapakahi. Il settore più interno e più elevato dell'ahupuaa era occupato da sistemi di coltivazione non irrigua incentrati sulla riproduzione controllata della patata dolce (Ipomoea batatas) e di altre specie edibili (taro, igname, canna da zucchero, banana, frutto dell'albero del pane). A partire dal XVI sec. d.C. i terreni agricoli furono progressivamente suddivisi in appezzamenti rettangolari delimitati da muretti e da allineamenti di pietre e orientati in direzione della costa. Alcuni sentieri, congiungendo la fascia litorale con gli altopiani, frazionavano ulteriormente i campi in strisce parallele (ili) lunghe alcuni chilometri, ripartite verosimilmente tra i segmenti di parentela della comunità di Lapakahi. Analogamente, l'isola vulcanica di Rarotonga, la maggiore delle Isole Cook meridionali, era suddivisa nelle fasi preistoriche più recenti in settori radiali (tapere) che includevano le principali risorse ambientali, tra cui quelle provenienti dalle lagune e dalle formazioni coralline. In ogni tapere risiedevano uno o più gruppi di discendenza (ngati), appartenenti a una formazione sociale più vasta (vaka) al cui vertice vi era un leader politico (ariki). La coesione sociale dei gruppi di discendenza era simbolicamente rinforzata dal tracciato di un'antica strada pavimentata (Ara Metua), che collegava gli abitati maggiori e i centri cerimoniali di ciascun tapere. Il territorio di Auckland (Nuova Zelanda) ha preservato, nonostante l'espansione del moderno centro abitato, numerose tracce relative alla ripartizione e all'assetto delle aree occupate nei secoli che precedettero la colonizzazione europea. La disponibilità di fertili suoli vulcanici e di abbondanti risorse marine, unita alla posizione geografica di cruciale importanza strategica per i collegamenti tra le coste orientali e occidentali dell'Isola del Nord, avrebbero attratto in questa regione una popolazione stimata tra le 15.000 e le 20.000 unità. Il territorio è caratterizzato inoltre dalla presenza di 50 coni vulcanici, 30 dei quali ospitarono tra il XV e il XVIII sec. d.C. insediamenti (pa) di dimensioni variabili (0,5-45 ha), protetti naturalmente dalle pareti scoscese dei vulcani e, spesso, da fossati, terrapieni e palizzate. Gli abitati sorgevano sulla sommità e sulle pendici superiori dei centri eruttivi, mentre le aree pianeggianti limitrofe venivano coltivate. I complessi religiosi (marae) e i magazzini comuni occupavano i settori più alti del vulcano; in una posizione inferiore si trovavano le strutture domestiche, distribuite generalmente su terrazze ricavate sui versanti esterni e occupate ciascuna da una famiglia estesa. Gli insediamenti più vasti comprendevano villaggi, ognuno con i propri centri di culto e magazzini, aree cerimoniali e strutture utilizzate dall'intera collettività. L'organizzazione centralizzata dei pa Maori è riconoscibile, oltre che dalla disposizione coordinata delle strutture, dal sistema di suddivisione degli insediamenti e dei campi coltivati. Le divisioni primarie rappresentate da muri o da terrapieni discendevano i pendii del vulcano separando i raggruppamenti di abitazioni o tagliando in alcuni casi gli stessi nuclei abitativi; le demarcazioni proseguivano fin nelle piane sottostanti, adattandosi alla morfologia del terreno e delimitando appezzamenti di dimensioni e forme diverse. Gli studi sull'antropizzazione delle isole del Pacifico hanno evidenziato l'influenza determinante esercitata da fattori per lo più di natura ambientale, sociale e politica nell'utilizzazione dei territori insulari. Alcune indagini effettuate finora solo nelle Isole Hawaii, in Nuova Zelanda e a Tikopia, una delle isole melanesiane popolate da genti polinesiane, si sono interessate degli aspetti ideologici dell'organizzazione e dell'uso degli spazi antropici, integrando i dati ottenuti nel corso di scavi con le informazioni derivanti dalle fonti etnostoriche ed etnografiche. Nell'isola di Tikopia è stata riscontrata una continuità tra le fasi preistoriche più recenti (1400-1800 d.C.) e quelle storiche nell'orientamento delle abitazioni e nella divisione degli spazi interni: elementi questi definiti dal sistema di opposizioni binarie (maschio/femmina; alto rango/ basso rango; sacro/profano; pesca/agricoltura) su cui si fonda l'organizzazione dei gruppi residenti nell'isola.
P.V. Kirch, Feathered Gods and Fishhooks. An Introduction to Hawaiian Archaeology and Prehistory, Honolulu 1985; Id., Tikopia Social Space Revisited, in J.M. Davidson et al. (edd.), Oceanic Culture History. Essays in Honour of Roger Green (NewZealandJA, Special Publication), Dunedin North 1996, pp. 257-74; S. Bulmer, Settlement Patterns in Tāmaki-makaurau Revisited, ibid., pp. 641-55; R. Walter, Settlement Pattern Archaeology in the Southern Cook Islands: a Review, in JPolynSoc, 1 (1996), pp. 63-99.