Dai primi insediamenti al fenomeno urbano. Subcontinente indiano
di Massimo Vidale
I processi formativi delle prime comunità stanziali nel Subcontinente indiano vanno collocati in un ampio lasso di tempo: dal 30.000 a.C., epoca in cui compaiono le prime industrie su lama del Paleolitico superiore, questo periodo si estende infatti all'età della transizione mesolitica (ca. 10.000- 6500 a.C.), per maturare definitivamente in quella che viene definita "età della Prima Produzione del Cibo" (Early Food Producing Era), corrispondente al Neolitico aceramico e quindi ceramico (6500-5000 a.C. ca.). Lo scenario geografico è ugualmente vasto ed ecologicamente variato; esso comprende una vasta zona pianeggiante, costituita dall'intera estensione dei bacini dell'Indo e dei suoi tributari, dai corsi disseccati del fiume Hakra-Ghaggar (probabilmente la Sarasvati del mito indiano) e dalle fasce pedemontane e montuose delle alture circostanti, dai rilievi che circondano il Gujarat e il Rajasthan a est a quelli dell'Afghanistan, del Baluchistan e del Makran verso ovest. Sembra che, in alcuni casi, le comunità di cacciatori delle valli intramontane fossero tendenzialmente stanziali nei loro territori, nei quali avevano accesso a risorse animali, come pecore, capre selvatiche e uro (Bos primigenius), e ad importanti specie di piante selvatiche, quali orzo, varietà di noci, albicocche, mele, melograni (sito di Aq Kupruk, in Afghanistan). In altri casi, le comunità di cacciatori-raccoglitori paleolitici ed epipaleolitici sembrano essersi mosse per 25.000 anni con regolarità dalle pianure alle aree montuose. Sui rilievi prospicienti le piane alluvionali, essi ricavavano da banchi calcarei la tipica selce opaca (chert) di colore grigio-brunastro, scheggiandola sul posto e lasciando in situ gli scarti di lavorazione delle lame o dei nuclei preformati per il distacco delle lame (stazioni delle Rorhi Hills presso Sukkur, siti nell'area del delta dell'Indo come Jekkur). Con le loro provviste di strumenti litici, nei rigidi inverni i gruppi migravano in pianura, cacciando nelle steppe pedemontane e nelle foreste di ripa; è probabile che migliaia di siti paleolitici e mesolitici siano oggi sepolti sotto gli spessi depositi alluvionali dell'Indo e della Sarasvati e che molti di essi siano stati distrutti dal variare degli alvei fluviali. È anche possibile immaginare che, come avvenne nell'area tradizionalmente nota come Mezzaluna Fertile, dalle pendici degli Zagros ai rilievi pedemontani dell'Anatolia, nelle stazioni di pianura, come in quelle d'altura, i gruppi iniziassero ad organizzare i propri spazi, erigendo ripari e strutture frangivento in pietra, legno, pelli, frasche. Sulle sponde marine dell'attuale Pakistan, invece, grandi cumuli di gusci di ostriche e resti di pesce, contenenti lame e altri strumenti in selce, dimostrano che in questo periodo i cacciatori-raccoglitori sfruttavano importanti risorse costiere ed erano già adattati all'ecologia delle zone del delta dell'Indo. Verso est, campi e ripari sotto roccia di cacciatori paleolitici e mesolitici sono frequenti ai margini dei deserti e delle foreste del Gujarat e del Rajasthan. In molti casi, il loro modo di vita si è perpetuato immutato sino agli albori dell'era moderna. Analogamente a quanto si verificò nella Mezzaluna Fertile, anche nel Subcontinente indiano il modo di vita basato sulle migrazioni stagionali e sulle stazioni specializzate di caccia e raccolta si alterò irreparabilmente quando i gruppi iniziarono ad importare in pianura, sulle sponde dei fiumi che rappresentavano le maggiori vie di transito, specie vegetali e animali originarie delle zone montane, in modo da integrare efficacemente la propria economia. In passato si pensava che questa "rivoluzione" fosse avvenuta in una limitata regione interna alla Mezzaluna Fertile e che si fosse diffusa con estrema rapidità al mondo circostante; oggi, invece, grazie alle indagini archeologiche dell'ultimo ventennio del XX secolo, sappiamo che questo processo si avviò nella nostra regione in modo apparentemente autonomo. Fenomeni che potrebbero essere compresi solamente tenendo in considerazione dinamiche ecologiche di vasta portata sono tuttavia documentabili in un numero ancora estremamente ristretto di siti. Uno di essi è Kili Gul Muhammad, nella valle di Quetta, in Baluchistan, nei cui livelli inferiori (VI millennio a.C.) vennero trovati resti di abitazioni in fango, ossa di pecore, capre e bovini, elementi di falcetto in selce con lustro da usura (indicanti la raccolta sistematica di cereali, selvatici e/o in via di domesticazione), strumenti in pietra levigata. I livelli superiori contenevano resti di vasi in argilla mal cotta e di contenitori costruiti entro cesti. Kili Gul Muhammad potrebbe essere uno dei centri semistanziali delle alture che sperimentavano la domesticazione e dai quali si muovevano gruppi di cacciatori-raccoglitori per raggiungere le pianure. Il sito di gran lunga più importante è Mehrgarh, sul fiume Bolan, nella parte settentrionale della pianura di Kachi, sul tratto iniziale di un'importante via di comunicazione. Inizialmente, l'insediamento doveva essere costituito da un insieme di accampamenti stagionali, forse con un nucleo di occupazione stabile. Dopo il raccolto primaverile, possibile solo in pianura, parte della popolazione, come avviene ancor oggi presso i villaggi della pianura di Kachi, poteva tornare agli insediamenti montani, dove invece i raccolti si facevano in tarda primavera o in autunno. Gli scavi archeologici mostrano che i primi abitanti neolitici di Mehrgarh (circa 6500-6000 a.C.) vivevano soprattutto di caccia e raccolta, ma avevano già completato con successo l'adattamento ai propri bisogni di diverse specie vegetali e animali. Negli strati relativi alla fine del periodo neolitico (5500-5000 a.C.) le ossa di animali selvatici diminuiscono, pecore e capre domestiche si fanno molto comuni e, con esse, diviene predominante una varietà locale di bovino addomesticato, lo zebù (Bos indicus). Se gli studiosi non sono ancora concordi sulla natura dei processi di domesticazione di pecore e capre, sembra molto probabile che lo zebù sia stato addomesticato localmente nella valle dell'Indo. Il fatto che, nei millenni successivi, la dipendenza delle popolazioni da questo animale domestico si farà sempre più stretta, dimostra che fu in questo periodo che vennero gettate le basi dell'economia agricola dell'India protostorica. Forse a questo stesso periodo si può far risalire l'attribuzione di importanti valenze simboliche a questo animale, che tanta parte avrà nelle idee religiose e nei culti dell'India storica. Nell'organizzazione degli abitati non si osserva alcuna evidenza di pianificazione o preoccupazione urbanistica: il villaggio appare come un agglomerato caotico di case e magazzini (anch'essi, del resto, privi di una struttura architettonica omogenea), separati da spazi che potevano ospitare recinti per gli animali, viottoli e occasionali aree di attività artigianali. A lato degli insediamenti sorgevano i cimiteri, spesso, a quanto sembra, dispersi tra casa e casa. Gli studi di antropologia fisica, rivelando che gli abitanti di Mehrgarh appartenevano a un caratteristico ceppo asiatico, senza alcuna somiglianza con le popolazioni della Mezzaluna Fertile o dell'antico Vicino Oriente, hanno inficiato ulteriormente la tradizionale ipotesi di una "migrazione neolitica" proveniente da ovest. Il fatto che nelle sepolture alcuni individui ancora immaturi ricevessero nel loro corredo funerario oggetti di pregio indica che lo status delle persone socialmente emergenti poteva già essere ereditario; analogamente, la scoperta nelle tombe di nuclei di selce insieme alle lame da essi distaccate suggerisce che alcune professioni fossero già ben identificate sul piano sociale. Inoltre, alcuni corredi funerari (evidentemente riservati alle élites dell'insediamento) contengono materiali relativamente preziosi, spesso importati da zone lontane; ciò indica che l'integrazione tra l'economia di villaggio e gli interessi legati a gruppi di pastori nomadi e commercianti professionisti fu un altro importante stimolo per i primi processi di sedentarizzazione.
I molti vuoti nella documentazione rendono particolarmente complessa la ricostruzione dei processi di urbanizzazione nel Subcontinente indiano in età protostorica (IV-I millennio a.C.); la scoperta della Civiltà dell'Indo è avvenuta del resto solo 70 anni fa e ancora più recente è l'identificazione delle sue più importanti fasi formative (VII-III millennio a.C.); intere regioni, e intere fasi cronologiche, restano praticamente inesplorate (in particolare per quanto riguarda il II millennio a.C.); permane indecifrata, inoltre, la scrittura usata nel Subcontinente nel III millennio a.C. In aggiunta, i modelli interpretativi dei processi di urbanizzazione nella protostoria asiatica sono ancora troppo legati ai successi della ricerca storica e archeologica in Mesopotamia e ad una immagine lineare e omogenea di sviluppo, plasmata sulla forte continuità storica e culturale tra le vicende della Mesopotamia, del Vicino Oriente antico e del mondo greco. Dal punto di vista della comparazione interculturale, pertanto, la nascita della città in India nelle età del Bronzo e quindi del Ferro in Pakistan e nel Subcontinente riveste un interesse fondamentale per poter valutare con maggiore correttezza e imparzialità la natura dell'evoluzione sociale connessa alla nascita degli stati arcaici nell'Asia sud-occidentale e meridionale. A differenza dell'analogo processo avvenuto nel Vicino Oriente o in Egitto, l'urbanizzazione nel Subcontinente si percepiva tradizionalmente come un fenomeno discontinuo e articolato in due grandi "onde" successive, la prima collocata durante l'età del Bronzo, tra il IV e gli inizi del II millennio a.C., lungo il bacino dell'attuale Indo, l'altra nel contesto dell'impero Maurya (seconda metà del I millennio a.C.), nel grande teatro della piana gangetica. Gli ultimi decenni di ricerca hanno tuttavia sostituito a questa vecchia interpretazione l'ipotesi di un processo continuo e, sotto molti aspetti, più unitario di quanto non si sospettasse in precedenza. Senza negare l'importanza di contatti commerciali, politici e, in senso lato, culturali con l'occidente iranico e quella dei millenni di gestazione culturale riconoscibile nelle sequenze protostoriche del Baluchistan, oggi appare evidente che l'urbanesimo protostorico indiano ha una lunga storia radicata anche nelle pianure di Kachi, del Sind e del Panjab. La sequenza di Mehrgarh, all'estremo nord della pianura di Kachi, l'unica finora disponibile per le fasi più antiche, mostra chiaramente le linee di sviluppo di questo fenomeno. Mentre nell'età definita "della Prima Produzione del Cibo" (6500-5000 a.C. ca.) e nelle prime fasi della successiva età della Regionalizzazione (5000-3200 a.C. ca.) gli abitati appaiono formati da agglomerati piuttosto disordinati di edifici, con adiacenti aree di lavorazione e scarichi di rifiuti industriali, nel corso del III millennio compaiono indicatori di una evoluzione in senso propriamente urbano: appartiene a questo periodo un edificio monumentale (scavato solo in parte), eretto su una terrazza e circondato da laboratori e abitazioni comuni (sito Mehrgarh 1, Periodo VII). Contemporaneamente, il sito di Nausharo, poco distante, mostra già nella prima metà del III millennio i tratti caratteristici delle soluzioni urbanistiche tipiche delle fasi antico-harappane (3200-2600 a.C. ca.): insediamento a pianta quadrangolare allungata, cinto da potenti murature di contenimento in mattone crudo, e prime evidenze di pianificazione urbanistica (tracciato viario a griglia irregolare correlato alle murature di recinzione). Oltre a Nausharo, diversi siti di questo periodo presentano simili murature di recinzione, a volte accompagnate da accessi controllati, di carattere monumentale, agli spazi interni: Kalibangan (Haryana, India), intorno al 3000 a.C.; Kot Diji (Sind, Pakistan); Rahman Dheri (North-Western Frontier Province, Pakistan), Kotras Buthi (Sind, Pakistan). Scavi recenti indicano che a Harappa (Panjab, Pakistan) già tra il 3300 e il 3200 a.C. le prime abitazioni erette nel sito e i primi assi viari erano pianificati secondo griglie orientate. Resta inspiegabile come, almeno in alcuni casi, la pianificazione originaria degli insediamenti si mantenga coerente per secoli. Per quanto riguarda la gerarchia degli insediamenti, l'unica area per la quale, per la prima metà del III millennio a.C., si conoscano delle valutazioni attendibili è al momento la regione del Cholistan, nel deserto del Bahawalpur (Pakistan). Il reticolo insediamentale antico-harappano (una settantina di siti conosciuti) verte su Gamanwala, centro che si estende per più di 30 ha, capace quindi di ospitare circa 10.000/15.000 abitanti e di esercitare le funzioni di capitale regionale; in alcune regioni, che saranno successivamente coinvolte dalla fase harappana, le città principali (Harappa, Rahman Dheri, Kalibangan, Dholavira, forse Mohenjo Daro, Ganweriwala e Rakhigarhi) svolgevano probabilmente funzioni simili già sei o sette secoli prima. Nella fase harappana un vastissimo territorio (comprendente il Sind, il Panjab, l'alto bacino della Yamuna, la regione lagunare del Kutch e la penisola del Gujarat, le coste del Makran e parte delle valli occidentali del Baluchistan) viene culturalmente integrato in un'unica civiltà. Insediamenti inconfondibilmente harappani si spingono a nord in Battriana e a sud sulla sponda opposta dell'Oceano Indiano, sulla costa omanita. Il territorio è controllato da cinque centri principali, probabilmente città-stato indipendenti: oltre a Mohenjo Daro e Harappa, Rakhigarhi (Haryana, India), Ganweriwala (Cholistan, Pakistan), Dholavira (Kutch, India). Queste città, a giudizio di gran parte degli studiosi, si estendevano per almeno 100-200 ha e potevano ospitare 30.000-40.000 abitanti; distanti l'una dall'altra, in media, circa 300 km, esse potevano controllare territori di 100.000-150.000 km². L'architettura monumentale, in questo periodo, raggiunge livelli massimi di complessità e visibilità. Nelle città principali, ma anche in centri minori, come Chanhu Daro nel Sind, si costruiscono grandi piattaforme in mattone crudo, destinate a sorreggere singoli edifici (o parti di singoli edifici), ma anche enormi sostruzioni realizzate in un unico progetto, che sorreggono intere insulae urbane (come, ad es., la cittadella di Mohenjo Daro); per questi cantieri di maggiore impegno si deve postulare la collaborazione di migliaia di persone e un'accurata pianificazione che consentisse il funzionamento e lo sviluppo di complessi apparati idraulici. Sono questi basamenti, e le costruzioni che ne difendono e regolarizzano i margini, a dettare e a riprodurre, nel tempo, la topografia delle città. Sulle piattaforme delle grandi insulae urbane, che potevano raggiungere i 12-15 m di altezza dal circostante piano di campagna, sorgevano le case private e una complessa tipologia di edifici di dimensioni variabili, molti dei quali a carattere presumibilmente pubblico e rappresentativo, di cui tuttavia gli archeologi non sono riusciti a ricostruire con certezza la funzione. Diverse città, tra le quali Harappa, Sutkagen Dor e Sokhta Koh (Makran, Pakistan), Ali Murad (Sind), Nausharo (Kachi), Kalibangan, Lothal (Gujarat, India), Surkotada e Dholavira (Kutch, India) mostrano imponenti fortificazioni con bastioni quadrangolari e ingressi monumentali in mattone crudo o pietra, a volte con elementi e rivestimenti in mattone cotto. Le forti somiglianze nell'organizzazione topografica e urbanistica di Mohenjo Daro, Harappa e Kalibangan (un monticolo a pianta quadrangolare elevato e fortificato definito "cittadella" a nord-ovest, una città bassa approssimativamente quadrangolare, più vasta, sul lato est) avevano in passato fatto ipotizzare che questa soluzione fosse tipica e ricorrente per la fase harappana e che, al loro interno, le città seguissero rigidamente progetti urbanistici basati su griglie ortogonali orientate da nord a sud. Con la scoperta di nuovi siti si è visto che, in realtà, l'organizzazione delle città harappane si basava piuttosto sui sistemi di insulae, orientate con logiche diverse, la cui crescita procedeva tramite processi di agglomerazione e successiva inclusione nelle recinzioni. L'orientamento delle griglie viarie interne si sviluppava con una certa autonomia e variabilità, a volte con esiti diversi da insula a insula; in alcuni casi, come a Mohenjo Daro, esso sembra essersi spostato gradualmente, col passare del tempo, verso nord-nord-est, forse seguendo un riferimento astronomico. Mentre Harappa e Mohenjo Daro vennero suddivise, nel corso dei secoli, dalla crescita differenziata delle diverse insulae recintate, altri siti di minori dimensioni (Dholavira, Kalibangan, Lothal, Surkotada) risultano ripartite internamente con altre murature monumentali, a volte dotate di bastioni interni ed elaborati sistemi di accesso controllato. Se gli studiosi sono ancora in disaccordo sul significato delle suddivisioni interne delle città, un consenso quasi generale esiste invece sulla natura delle gerarchie insediamentali della fase harappana: al primo posto vi sono le capitali regionali, con estensioni variabili da 100 a 200 ha; al secondo, una serie di insediamenti che misurano da 10 a 50 ha; al terzo, centri da 5 a 10 ha; infine villaggi variabili da 1 a 5 ha. A questi insediamenti vanno aggiunti siti temporanei con funzioni specializzate (campi per il bestiame e siti artigianali). Gerarchie dimensionali di questo tipo sono in genere associate ad organizzazioni di tipo statale già sviluppate. Quanto alle funzioni mercantili, sulla base del vasto raggio di materie prime importate e lavorate in loco è quasi inevitabile concludere che le città di ordine maggiore ospitassero importanti mercati. È stato addirittura ipotizzato che gruppi elitari in grado di monopolizzare alcuni importanti cicli produttivi abbiano avuto un ruolo chiave nell'unificazione ideologica ed economica della società del tempo; per esempio ai sigilli, e alle funzioni commerciali ad essi connesse, appare strettamente legato lo sviluppo del sistema di scrittura harappano. Moltissimi siti, inoltre, risultano aver utilizzato un sistema di pesi e micropesi cubici altamente standardizzato, che riflette forse la presenza di influenti famiglie o coalizioni di mercanti, interessati a controllare il commercio di materiali preziosi, ma anche la necessità di far fronte a richieste di tassazione da parte delle autorità centrali. A partire dal XIX sec. a.C. all'omogeneità culturale della fase harappana subentra un nuovo periodo di frammentazione, detto "età della Localizzazione" (1900-1200 a.C.). Scartate le semplicistiche ipotesi dell'invasione indoariana e della catastrofe climatica, gli studiosi ora propendono per un'accelerata fase di trasformazione economica e sociale, nella quale al progressivo prosciugamento del corso orientale del Sind (il fiume Hakra-Ghaggar) si aggiunse la progressiva adozione di nuove specie vegetali e animali capaci di promuovere settori economici prima marginali. Ne risultò una sensibile crisi della centralità urbana: intorno al 1800 a.C. le grandi città harappane sono regredite al rango di villaggi o sono completamente abbandonate. In passato, l'attenzione degli archeologi è stata concentrata sugli aspetti di discontinuità tra la fase harappana e i secoli successivi; scarsissimi sono ancor oggi i dati disponibili sulla distribuzione e sulla natura degli insediamenti post-harappani. Gli estesi mutamenti idrografici sembrano essere la causa di una possibile migrazione di massa verso est (Gujarat, alta valle del Gange e della Yamuna). Gli ultimi decenni di ricerca indicano che, nelle diverse regioni, al progressivo abbandono dei grandi centri e alla crisi dell'architettura monumentale si accompagnò in genere una forte espansione numerica degli insediamenti di minori dimensioni. Le regioni maggiori continuarono ad essere dominate da estesi reticoli di insediamenti, coordinati da pochi centri urbani. Ad esempio, nel Cholistan, nella prima metà del II millennio, una cittadina di 20-30 ha di estensione continua a dominare su una gerarchia di insediamenti articolata in tre ordini dimensionali; malgrado l'assenza di scavi estensivi, sembra quindi attestata la sopravvivenza del modello della cittàstato. Se gli inni del Ṛgveda (composti a partire dal XV sec. a.C.), che menzionano scontri e tensioni tra i gruppi di allevatori indoariani e stati urbani collocabili nel Panjab, tramandano il ricordo di situazioni storiche, essi potrebbero ben riferirsi a queste città-stato. Nel Nord della penisola del Deccan, sui fianchi dei monti Aravalli, i siti della cultura del Banas (Ahar e Gilund) assumono la forma di grandi villaggi o cittadine, forse centri di piccoli stati tribali, nelle quali sembrano a volte continuare alcune delle tradizioni harappane, come ad esempio l'uso di massicce sostruzioni di mattoni crudi. L'altopiano di Malwa, nell'attuale stato indiano del Maharashtra, vide, nel corso del II millennio a.C., la fioritura di una nuova fase definita Calcolitica, legata alle culture dette "di Malwa" e quindi "di Jorwe"; i siti di queste culture si sviluppano gradualmente e ininterrottamente da piccoli villaggi di allevatori e coltivatori neolitici e, tra il 1700 e il 1000 a.C., si trasformano in villaggi di grande estensione, formati da case a pianta quadrangolare costruite in legname, frasche e fango, spesso protetti da possenti argini in terra e da fossati e ripartiti al loro interno in aree sia residenziali sia artigianali. Le culture associate alla ceramica detta PGW (Painted Grey Ware: 1200-700 a.C. ca.) si trovano in un ampio areale che comprende i margini orientali della valle dell'Indo, la piana compresa tra Gange e Yamuna, l'altopiano di Malwa, i pendii boscosi dei monti Satpura e Vindhya nell'India centrale e l'altopiano di Chota Nagpur. La periferia del mondo urbano sta per trasformarsi in centro. In questa zona (particolarmente nel Cholistan e nella pianura triangolare compresa tra Gange e Yamuna) un fitto reticolo di villaggi di piccole o medie dimensioni si espande, sembra, seguendo le sponde dei fiumi. Poco si sa delle dimensioni e della natura di questi centri, sepolti sotto stratigrafie successive o addirittura, in molti casi, sotto le moderne città lungo le rive del Gange; gli scavi, inoltre, sono stati in larga misura limitati a strette trincee verticali. In questo arco di tempo, in cui si diffuse la tecnologia del ferro, alle tradizionali case in legno, bambù, frasche e fango si accompagnarono le prime costruzioni in mattone cotto. Non vi sono indizi di architettura monumentale; alcuni siti risultano protetti da bassi argini in terra e fossati, per lo più interpretati come protezioni dalle alluvioni. Nel distretto di Allahabad (India) un insieme di piccoli villaggi di 1-2 ha risulta governato da due insediamenti presso Kaushambi che raggiungono i 10 ha, il che indicherebbe una gerarchia dimensionale (e una corrispondente concentrazione delle funzioni politiche) tuttora accentuata. È a partire da questa fase, così mal compresa, che l'archeologia di campo comincia ad essere integrata dalle informazioni dei testi scritti; i testi vedici più tardi, il cui scenario si è spostato dal Panjab alla piana gangetica, infatti, sembrano essere stati composti tra il 1000 e il 500 a.C.; la generica pertinenza di questa fase insediativa alla grande epica gangetica sembra accertata dal rinvenimento di importanti stratigrafie databili alla prima metà del I millennio a.C. nei centri citati dal Mahābhārata (testo composto in forma orale intorno all'800 a.C.), che descrive lo scontro politico e militare di due clan aristocratici per il possesso di un regno. L'immagine tramandata dall'epica è quella di grandi famiglie di proprietari terrieri che si disputano con le armi un fertile territorio agricolo, circondato da selve impenetrabili; le residenze delle casate dominanti sono miticamente travisate in opulente (e improbabili) regge. A partire dal VII sec. a.C., con il sorgere delle culture convenzionalmente associate dagli archeologi indiani alle ceramiche definite NBPW (Northern Black Polished Ware), riusciamo a cogliere in modo maggiormente lineare lo sviluppo di una nuova fase urbana. Per questa seconda fase, se i rinvenimenti archeologici continuano ad essere sporadici e parziali, le fonti letterarie abbondano (almeno a partire dal IV sec. a.C.). I testi indiani ci parlano, per la prima volta, della teoria e dell'etica della città-stato, che diviene quasi un diagramma ideale dell'ideologia del potere. Componenti dello stato sono il re, i suoi ufficiali, la città, il tesoro, l'esercito, gli alleati. Le città-stato sono repubbliche (specialmente nelle zone montuose, collinari o nelle foreste ai margini della piana gangetica) o monarchie. La popolazione urbana è divisa in 4 classi o varṇa (letteralmente "colori"): brāhmaṇa, specialisti religiosi; kṣatriya, aristocratici guerrieri; vaiśya, mercanti e artigiani; śūdra artigiani poveri e braccianti. I brāhmaṇa dominano nelle monarchie, gli kṣatriya nelle repubbliche. I mercanti e gli artigiani sono organizzati in śreṇi (organizzazioni simili a corporazioni o gilde) che controllano la gestione di zone "chiuse" all'interno della città e promuovono la battitura di monete in argento e rame punzonate con i simboli standardizzati della loro autorità. Le śreṇi possono anche dar vita a speciali unità militari ed essere usate nei progetti di espansione e colonizzazione urbana. Le fonti letterarie citano 16 Stati, detti mahājanapada, ora diffusi su un enorme territorio (più che doppio rispetto a quello culturalmente integrato dalla fase harappana) che abbraccia l'intero Nord- Ovest del Subcontinente, dal Bengala all'Afghanistan e al Baluchistan. Ciascuno stato è retto da una città che ‒ lo rivelano i dati archeologici ‒ ha un'estensione compresa tra i 50 e i 200 ha e controlla territori che variano da un centinaio a diverse decine di migliaia di km². L'ereditarietà delle professioni, corollario della struttura castale, facilita il trasferimento del sapere tecnico e lo sviluppo di legami di solidarietà; ma il I millennio a.C. è anche segnato da una forte conflittualità sociale, con l'ascesa economica delle classi mercantili (vaiśya), occasionalmente alleate agli kṣatriya nel combattere i secolari privilegi dei brāhmaṇa. Il buddhismo, che assurgerà al rango di religione prediletta dallo stato, maturerà proprio sotto il segno dell'alleanza kṣatriya e vaiśya, nel quadro di una forte apertura commerciale della società indiana. Nel IV sec. a.C. nell'India gangetica si impone l'egemonia dell'impero Maurya. La celebre rinuncia al militarismo propagandata dall'imperatore Ashoka (274-232 a.C.) dopo la conquista del Kalinga (Orissa), nel nome dell'etica buddhista, sembra in realtà indicare che un territorio così esteso poteva essere efficacemente integrato solo attraverso gli strumenti della stabilizzazione del reddito agricolo, dell'espansione dei trasporti e del commercio e, soprattutto, della persuasione ideologica. Si tratterebbe quindi di una strategia non dissimile da quella presumibilmente applicata dalle città-stato della fase harappana. L'Arthaśāstra, manuale di burocrazia attribuito a Kautilya, funzionario della corte di Chandragupta Maurya (317?-298 a.C.), sottolinea con insistenza il ruolo centrale svolto dalle autorità cittadine nel controllare la società rurale e i suoi prodotti. Come nella precedente fase harappana, le capitali sembrano svilupparsi come centri cerimoniali e commerciali (si pensi alla sopravvivenza millenaria dell'antico sistema di pesi), sotto il patrocinio di gruppi aristocratici e famiglie reali, che hanno un rapporto complesso con le comunità mercantili, dalle quali comunque ricavano ricchezza e prestigio; sullo sfondo, la vita dei villaggi rurali e delle comunità pastorali cambia solo con estrema lentezza. I monumenti noti, per il periodo che va dal 700 al 200 a.C., risalgono ad età Maurya; di natura religiosa, essi sorgono in corrispondenza di luoghi di culto extraurbano; le città restano ancora quasi completamente sconosciute. Per le fasi più antiche di questo periodo, le residenze associabili alle élites urbane sono sostanzialmente delle case in pali lignei, materiali vegetali e argilla, che possono essere 3 o 4 volte maggiori delle abitazioni comuni. Col passare dei secoli, le residenze dei centri urbani impiegano con frequenza maggiore il mattone cotto e si dotano di impianti idraulici, pozzi e fognature, costruiti con appositi laterizi. A Bhita, per il periodo successivo ai Maurya, differenze di rango si colgono tra le grandi unità residenziali (abitate probabilmente da ricchi mercanti), strategicamente affacciate sulle arterie principali, e i quartieri del centro, caotici e congestionati. I segni dell'architettura monumentale, al momento, vanno cercati soprattutto nelle fortificazioni urbane. Il crescente potere degli kṣatriya diviene visibile grazie ai grandi investimenti fatti dalle capitali per munirsi di imponenti mura difensive. Al VI sec. a.C., se non prima, risalgono le cinte murarie di Ujjain, Kaushambi, Rajghat, Rajgir; tra il IV e il II secolo a.C. vennero erette le cinte di Ahichchhatra, Champa, Mathura, Pataliputra, Shravasti, Tilaurakot, Vaishali, Ayodhya, Katragarh, Balarajgarh e altre città ancora. Il testo di Kautilya è ricco di diverse denominazioni per i centri abitati (durga, nagara, pattana, pura), di interpretazione non sempre chiara, che forse rispecchiano soprattutto preoccupazioni di ordine militare. I dati archeologici sembrano indicare l'emergere, almeno a partire dal VII secolo a.C., di una gerarchia insediamentale organizzata, similmente a quanto si era verificato nell'età del Bronzo, su 4 livelli. Nel distretto di Allahabad, alla confluenza del Gange e della Yamuna, tra il 500 e il 200 a.C. Kaushambi, la capitale, aveva un'estensione di 150 ha, senza contare gli altri 50 ha abitati fuori dalle mura; al secondo livello vi erano insediamenti con dimensioni oscillanti tra i 20 e i 40 ha, che potevano fungere da capoluoghi mercantili; al terzo, abitati compresi tra i 5 e i 15 ha, centri distrettuali che svolgevano anche elementari funzioni amministrative; infine i villaggi rurali (da 0 a 5 ha). Nel periodo successivo, dopo la caduta dei Maurya, questa organizzazione rimarrà sostanzialmente invariata, con una lieve contrazione della capitale entro le proprie mura (conseguenza dell'accentuato militarismo) e un relativo incremento dimensionale di centri rurali. Questo modello insediativo ‒ almeno per quanto riguarda la gerarchia e le dimensioni dei siti e dei territori ‒ sembra non discostarsi di molto, una volta di più, da quello della fase harappana.
Sui processi di sedentarizzazione:
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Sul fenomeno urbano:
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di Ciro Lo Muzio
La regolarità degli impianti e l'uniformità tipologica che accomuna i grandi insediamenti ‒ e in buona parte anche i centri minori ‒ della Civiltà dell'Indo denotano una pianificazione urbana razionale, in alcuni casi attuata in tempi relativamente brevi. La conformazione delle città harappane pone tuttavia una questione annosa nell'archeologia del Subcontinente. Esse sono in genere edificate su un sistema di sostruzioni o piattaforme, realizzate in mattone crudo o, dove il materiale è disponibile, in pietra, delimitate da mura perimetrali e talvolta dotate di ingressi monumentali. Per alcuni studiosi esse rappresenterebbero, almeno inizialmente, una protezione dell'insediamento dalle inondazioni alle quali il bacino dell'Indo e altre aree fluviali del Subcontinente sono periodicamente soggetti; per altri, che si basano soprattutto sulle interpretazioni "militariste" di M. Wheeler, si tratterebbe essenzialmente di strutture difensive; altri ancora hanno sottolineato il forte significato simbolico che le recinzioni indubbiamente assumono nello scandire il paesaggio urbano in spazi ad accesso ristretto e insulae di diversa elevazione. Seppure in qualche caso le insulae più protette ed elevate sembrano ospitare gli edifici di carattere monumentale e più complesso, e se è chiaro che alcuni gruppi artigianali potevano essere segregati al di fuori delle aree recintate, in altri casi è difficile cogliere il senso esatto delle suddivisioni urbane. Alcuni studiosi indiani hanno proposto di riconoscere nei segmenti formati dalle insulae quartieri formalmente separati, destinati a differenti classi di cittadini: gli specialisti del culto e i capi politici sarebbero vissuti nelle insulae più protette (la cui altezza sarebbe stata indice del prestigio della comunità che vi risiedeva), artigiani e coltivatori nelle città basse, mentre servi, artigiani e braccianti sarebbero stati esclusi dai quartieri urbani. È probabile che i gruppi elitari, variamente legati alla proprietà della terra e del bestiame, a monopoli commerciali o a specializzazioni religiose, intrattenessero tra loro legami più forti di quelli esistenti tra i cittadini di un unico centro. In altre città di minore estensione strutture murarie interne assolvevano la funzione di separare i diversi settori di un'area urbana unitaria e fortificata (Lothal, Dholavira, Surkotada). È dunque verosimile che le città alte, ossia i quartieri in posizione eminente, fossero sede dell'autorità politica e religiosa, tuttavia non si dispone ancora di dati sufficienti per precisarne la fisionomia. È oltremodo rappresentativo l'esempio fornito dall'acropoli di Mohenjo Daro, dove sono stati riportati alla luce i resti di diverse costruzioni monumentali. Tra le più notevoli è il Grande Bagno, un'ampia piscina presumibilmente destinata ad abluzioni rituali, che, insieme all'adiacente Collegio dei Sacerdoti, viene considerata probabile fulcro di un'area cultuale. A ovest del Grande Bagno sorge una struttura di interpretazione controversa: un complesso di 27 piattaforme di mattoni separate da stretti passaggi che, secondo M. Wheeler, fungevano da base a una costruzione lignea destinata all'immagazzinamento dei cereali. Strutture simili sono state rinvenute anche a Harappa e a Lothal (in questo caso nelle immediate adiacenze di un grande bacino idrico), tuttavia l'ipotesi che si trattasse di granai viene ora considerata con scetticismo, mentre la vicinanza con il Grande Bagno, nel caso di Mohenjo Daro, porta a non escludere anche per questa enigmatica tipologia architettonica una funzione cultuale. La cittadella di Harappa, notevolmente depredata e disturbata da rioccupazioni successive, è stata indagata assai poco, tuttavia un esteso gruppo di strutture monumentali è stato messo in luce a nord di essa, tra la cinta e le sponde del fiume Ravi (in antico più distanti dall'insediamento). Oltre al granaio, si segnala la presenza di un quartiere operaio (costituito da due file di sette abitazioni), di una serie di piattaforme circolari (forse piani di lavorazione) e di un complesso di fornaci. Sembrerebbe, dunque, che oltre a complessi di presunta funzione palaziale o cultuale, le cittadelle ospitassero anche strutture deputate ad attività produttive (evidentemente quelle sottoposte a un più rigido controllo municipale) e che questi settori urbani non fossero utilizzati a scopi residenziali, se non, forse, da parte di una ristretta élite. Le città basse sono state oggetto di indagini meno estese, tuttavia è presumibile che in esse si concentrassero i quartieri abitativi (anche questi, come si suppone, riservati ad una fascia privilegiata della popolazione), i laboratori artigianali (o almeno una parte di essi) e i mercati. L'impianto viario era pianificato con una certa regolarità, sebbene le diverse insulae ‒ che presumibilmente si svilupparono in epoche differenti ‒ non rispettassero un allineamento unitario. È stata rilevata l'esistenza di grandi arterie che percorrevano interamente la città (ad es., la First Street della città bassa di Mohenjo Daro) e di vie e vicoli laterali, dall'andamento spesso tortuoso, che collegavano tra loro i diversi blocchi. Le dimensioni delle vie sembrano sottostare a un rapporto proporzionale: l'arteria maggiore aveva una larghezza pari a due volte quella della via più stretta e a tre o quattro volte quella dei vicoli. Sono degne di nota, per il livello tecnico e per l'estensione, le infrastrutture idrauliche, costituite da condotti di adduzione delle acque dall'esterno e da un'ampia rete di canali, che, costeggiando strade e vicoli, garantivano il deflusso degli scarichi provenienti dalle abitazioni cittadine. Le necropoli erano di solito situate ad alcune centinaia di metri dall'abitato. L'inumazione in tombe a fossa era il rituale dominante; più rare sono invece le testimonianze del rito della cremazione. Era pratica piuttosto diffusa la realizzazione di cenotafi, ossia di tombe commemorative contenenti esclusivamente corredi (per lo più vasellame). A Kalibangan, che offre l'esempio più organico di necropoli contemporanea alla città, si pone in evidenza un modello di distribuzione delle diverse tipologie funerarie (tombe a fossa rettangolare, sepolture in contenitori ceramici in fossa circolare, cenotafi) forse rispondente a un criterio di differenziazione sociale.
Diversamente dalle città harappane, gli insediamenti sorti e sviluppatisi nel corso della seconda importante fase di urbanizzazione della storia del Subcontinente, fra il III e il II sec. a.C. (benché i prodromi siano già rintracciabili intorno alla metà del millennio) e il III-IV sec. d.C., ossia tra l'avvento dei Maurya e la caduta dei Kushana, sono stati oggetto di indagini archeologiche relativamente limitate e assai meno soddisfacenti da un punto di vista metodologico. A causa della preferenza accordata, fino a epoca recente, allo scavo in profondità condotto in settori di modesta estensione, per gran parte delle città di epoca storica ignoriamo i caratteri generali dell'impianto planimetrico. A ostacolare la ricerca archeologica concorre il fatto che importanti città antiche giacciono al di sotto di enormi stratificazioni di origine alluvionale o di popolosi centri urbani moderni (ad es., Pataliputra, in gran parte ricoperta dalla moderna Patna). La quasi totale assenza di scavi in estensione, e quindi della possibilità di stabilire relazioni stratigrafiche certe tra le strutture messe in luce, non consente di definire impalcature cronologiche attendibili. Ad aggravare l'incompletezza delle nostre conoscenze contribuisce infine l'ancora inadeguata pubblicazione dei risultati degli scavi condotti in diversi importanti siti urbani. Le lacune della documentazione archeologica sono solo in parte colmate dalla tradizione letteraria. L'Arthaśāstra fornisce indicazioni precise sul sito da scegliere per la fondazione di una città, sulla necessità di pianificare un impianto viario regolare e sulla più adeguata collocazione dei diversi edifici pubblici e religiosi, ma illustra una situazione ideale. Sono forse più realistiche le descrizioni di centri urbani dell'India storica che ricorrono in testi di tradizione buddhista ( Jātaka), jainista ( Jaina sūtra) e brahmanica (le epiche): negli Indikà di Megastene, ambasciatore seleucide alla corte del re Maurya Chandragupta intorno al 315 a.C., viene descritta la capitale Pataliputra; nel Milindapañha (Le questioni di Menandro), testo di epoca indo-greca (II-I sec. a.C.), la città di Sagala (attuale Sialkot, nel Panjab). Per gran parte delle città l'estensione viene stimata approssimativamente in base all'area racchiusa dalla cinta muraria: si va dai 14 ha di Bhita ai 295 di Mathura, ai 1200 di Pataliputra. Non si rilevano evidenti legami di continuità sotto il profilo urbanistico tra le città indiane d'epoca storica e le città harappane. Le strutture connesse all'autorità politica e religiosa non sono più isolate topograficamente, ma occupano ora il centro dell'area urbana. Stando al Milindapañha, la residenza del governatore di Sagala era situata nel centro cittadino, mentre nell'area circostante si concentravano le dimore delle classi elevate, nonché edifici di pubblica utilità, quali ospedali, alberghi, uffici amministrativi, ecc. Le testimonianze archeologiche sull'edilizia palaziale sono relativamente scarse, tuttavia possiamo citare l'esempio di Sirkap (la Taxila scito-partica, I sec. a.C. - I sec. d.C.), nella quale il palazzo reale sorge in posizione centrale, lungo la via principale. È proprio Sirkap a fornire il quadro più chiaro sull'esistenza di principi di pianificazione urbanistica, seppure relativamente a una regione periferica (il Nord-Ovest) esposta ad influssi occidentali. La città era attraversata longitudinalmente da una larga via che collegava la porta urbica con la presunta acropoli; l'arteria centrale si diramava in vie secondarie che delineavano moduli rettangolari, ulteriormente suddivisi in grandi abitazioni di pianta uniforme. Altrettanto regolare era l'impianto di Pushkalavati (Charsada) nel Gandhara, attraversato longitudinalmente da tre larghe vie parallele, intersecate da vicoli che delimitavano i blocchi abitativi. Se nella pianificazione urbana delle città del Nord-Ovest è stata ravvisata l'impronta della tradizione ellenistica alla quale questa regione era stata esposta, vi sono tuttavia indizi che consentono di ipotizzare una certa regolarità anche negli impianti urbani dell'India gangetica, dove l'influenza dei principi urbanistici mediterranei non è facilmente dimostrabile. A Bhita (100 a.C. - 300 d.C.) sono state portate alla luce due vie che conducono alla cinta muraria, costeggiate da case di misure e orientamento uniformi, ma separate tra loro da vicoli di andamento più erratico che nel Nord-Ovest. Caratteristiche simili si riscontrano nei settori urbani scavati a Kaushambi, mentre in altri siti si può comunque rilevare un uniforme allineamento delle strutture murarie. Un caso particolarmente significativo è rappresentato dalla città di Shishupalgarh (Orissa), che con la sua cinta muraria perfettamente quadrata, dotata su ciascun lato di due porte situate a distanze regolari, lascia supporre un'altrettanto rigorosa organizzazione dell'area urbana interna. L'applicazione di uno schema planimetrico ortogonale in queste aree lontane dalla sfera di influenza greca nasce evidentemente come risposta razionale alle esigenze poste dall'accrescimento, relativamente repentino e coordinato da una forte autorità statale, delle città indiane in epoca Maurya e Kushana. Il modello ideale di città illustrato dai testi ha una struttura concentrica, scandita da murature interne e da assi viari regolari, con "tre vie regie da ovest verso est e altre tre da sud a nord", auspicabili, secondo l'Arthaśāstra (II, 3), in ogni nuova fondazione urbana. I diversi settori urbani così delineati ( pada) sono dotati, secondo il Vastuśāstra, di infrastrutture proprie (ad es., acquedotti) e godono di un certo grado di autonomia. Ciascuno di essi è destinato a un diverso gruppo sociale: in caso di monarchia, al centro sorgono il palazzo e i magazzini reali; vi sono poi le caserme, le stalle del re, sale per le rappresentazioni, speciali aree e costruzioni per ospitare gli stranieri non residenti. Le acque urbane sono attentamente controllate: per scongiurare l'eventualità di contaminazioni rituali vi sono bacini idraulici aperti a tutta la popolazione ed altri riservati esclusivamente agli kṣatriya e ai brāhmaṇa. La città raccoglie anche le industrie tessili, del legname, dei metalli e varie altre attività artigianali. Questo tipo di organizzazione in quartieri, che si suppone si sia originato, o quantomeno consolidato, in epoca Kushana, sembra ricevere conferma dagli scavi della città di Bhita, dove botteghe e dimore spaziose erano raggruppate in isolati ben definiti da vie e vicoli, come, ad es., il settore scavato nei pressi della porta sud-orientale, comprendente la cosiddetta Casa della Corporazione, la cosiddetta Casabottega di Nagadeva e la cosiddetta Casa del banchiere Jayadeva. In definitiva, si deve ammettere che la documentazione archeologica restituisce in maniera ancora incompleta la grande vitalità che le fonti letterarie attribuiscono alla città indiana antica. Questa trova la sua precipua ragion d'essere nel coordinamento e nello sfruttamento dell'artigianato e del commercio, piuttosto che nella funzione amministrativa e politica. Protagoniste di tale opulenza sono le fasce sociali che si specializzano nelle suddette attività: gli esponenti delle due caste inferiori della società brahmanica ‒ i vaiśya (mercanti) e gli śūdra (artigiani) ‒ e i seguaci delle correnti eterodosse, in primo luogo i buddhisti. Con i Gupta, promotori di un ritorno all'ortodossia brahmanica, il modello urbano entra in decadenza e il primato passa all'economia rurale, che ha nel villaggio il suo fulcro e nel sistema castale una solida base sociale e rituale.
Gli impianti difensivi dell'India antica non sono stati oggetto di studi sistematici. Nelle città d'epoca storica, in particolare, assai spesso riportate alla luce con metodologie di scavo non scientifiche, ai resti delle cinte murarie è stata dedicata attenzione marginale; la loro documentazione, che di rado include rilievi, si limita in genere alla restituzione di sequenze stratigrafiche. Per numerosi siti dell'India gangetica, le planimetrie elaborate nell'Ottocento da A. Cunningham restano un punto di riferimento obbligato. All'incompletezza dei dati archeologici sopperisce in parte la tradizione letteraria, in particolare l'Arthaśāstra e trattati di architettura come il Mānasāra; tuttavia, considerato il loro carattere teorico e palesemente convenzionale, il valore di queste testimonianze non va sopravvalutato. Si terrà infine conto delle arti figurative, che offrono un importante ausilio per la ricostruzione delle caratteristiche esteriori delle fortificazioni e, in particolare, delle sovrastrutture, di cui normalmente non si è conservata testimonianza archeologica. Sebbene recenti ricerche riconoscano alla morfologia delle città della Civiltà dell'Indo una complessità maggiore di quanto non si pensasse in precedenza, per quanto concerne i sistemi di difesa, tuttavia, l'idea di una bipartizione dell'area urbana in due settori principali, uno dei quali in posizione più elevata (la città alta, spesso resa tale artificialmente tramite opere di terrazzamento), resta sostanzialmente valida. A Mohenjo Daro e a Harappa è solo la città alta a essere fortificata; in altri siti urbani entrambi i settori sono difesi ciascuno da una cinta muraria; nel caso di Kalibangan, tra la città alta, suddivisa in due metà da un muro trasversale, e la città bassa non vi è contiguità. Diversamente, a Lothal (Gujarat) un'unica fortificazione racchiude l'intera area urbana. Gli impianti difensivi delle città vallinde, realizzati con terra di riporto e mattoni crudi, erano rivestiti con mattoni cotti e rinforzati agli angoli da torri di pianta quadrangolare, in alcuni siti presenti anche lungo le cortine. Si ritiene che la difesa da attacchi militari non fosse la loro funzione precipua e che essi riflettessero piuttosto l'assetto stratificato della società dell'epoca, nonché le esigenze di difesa dell'élite e di controllo dei movimenti umani. È certo, tuttavia, che tra gli scopi primari dei sistemi difensivi delle città vallinde si debba annoverare la protezione dalle inondazioni fluviali. La seconda fase dell'urbanesimo indiano, che ha inizio intorno al VI-V sec. a.C., ma si manifesta compiutamente con l'avvento dei Maurya (ultimo quarto del IV sec. a.C.), dà vita a una nuova tradizione che, sebbene ricostruita in maniera ancora imperfetta, può essere considerata come specificamente indiana. A questa si affiancheranno, soprattutto dopo l'avvento dell'Islam, altre tipologie difensive di origine straniera, destinate a diventare predominanti. A fronte della classificazione ideale degli insediamenti fortificati fornita dalle fonti in base alla loro ubicazione ‒ sui fianchi o sulla sommità di un monte, su un corso d'acqua, in una foresta o in un deserto ‒ le indagini archeologiche dimostrano che la maggior parte delle città indiane d'epoca storica fu edificata in zone pianeggianti scarsamente o mediamente elevate, preferibilmente difese almeno in parte da costoni collinari e, soprattutto, sulle sponde di un fiume (Mathura, Shravasti, Kaushambi, Nagarjunakonda, ecc.). Il tracciato delle mura non sembra rispettasse regole predefinite, se non quelle dettate dalle caratteristiche morfologiche del sito. L'insediamento urbano dell'India storica costituiva un unico insieme racchiuso da una possente cinta muraria, circondata da un fossato riempito d'acqua; l'esigenza primaria era chiaramente la difesa da nemici esterni. Le mura erano normalmente realizzate con terra ricavata dallo scavo del fossato e in genere rivestite di mattoni crudi; lo spessore delle cortine, non inferiore ai 30 m, a Ujjain superava i 100 m. Là dove ve ne era disponibilità, ad esempio nel Bihar (Rajgir) e nel Panjab (Sirkap), la muratura era realizzata in pietra; in questi casi si sono conservate anche le torri, di pianta rettangolare e aggettanti rispetto alle cortine, distribuite lungo il tracciato delle mura (ricordiamo che la presenza di bastioni è prevista nei trattati tecnici ed è ampiamente illustrata nell'iconografia). Altrove la maggiore deperibilità della muratura in crudo ne ha spesso cancellate le tracce (in alcuni casi, forse, sfuggite a indagini non molto accurate); sembra però si possa affermare che le torri erano piene (ad es., a Kaushambi). Tale caratteristica, unitamente all'assenza di aperture o feritoie di tiro nelle cortine (e dunque di passaggi interni) sembra dimostrare che queste strutture fossero concepite per una difesa dall'alto, attuata mediante il lancio di pietre o altri strumenti offensivi sugli assalitori, cui le fonti non attribuiscono l'utilizzo di macchine da guerra. La presenza del fossato e l'imponenza della cinta facevano sì che gli attacchi si concentrassero in prossimità delle porte, che, in quanto punti nevralgici dell'impianto, erano dotate di elaborati avancorpi protettivi (ad es., Shravasti, Nagarjunakonda). Se la presenza greca non sembra aver esercitato influssi sull'architettura difensiva dell'India, se si esclude l'impronta occidentale della cinta di Bir-kot-ghwandai, presso il villaggio di Barikot (Swat, II sec. a.C.), con le sue torri a pianta quadrata, e di Sirkap (Taxila, I sec. a.C. - I sec. d.C.), le fortificazioni di Sirsukh, insediamento urbano d'epoca Kushana nell'area di Taxila (I-III sec. d.C.), sono testimonianza di una tradizione centroasiatica caratterizzata dalla realizzazione di cortine attraversate da gallerie e con feritoie di tiro sulle facciate esterne, nonché dalla presenza di torri di pianta semicircolare (che ritroviamo anche a Mathura, una delle capitali dei Kushana). Feritoie di tiro, spesso a forma di punta di freccia, e torri semicircolari contraddistinguono le fortificazioni rappresentate nell'arte del Gandhara.
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