Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Novecento vengono sviluppati diversi metodi per contrastare i fenomeni patologici e degenerativi a carico dei tessuti e degli organi. Si è affermata progressivamente una medicina dei trapianti d’organo, resa possibile dai miglioramenti della chirurgia, dall’emergere delle conoscenze immunobiologiche sui meccanismi di rigetto, dalla scoperta di farmaci in grado di contrastare il rigetto, fino alla prospettiva di creare animali geneticamente modificati da cui attingere organi per l’uomo. Negli ultimi anni del secolo scorso, in virtù degli sviluppi dell’ingegneria cellulare e delle tecniche di manipolazione delle cellule staminali, diventa possibile progettare trattamenti terapeutici rigenerativi degli organi e dei tessuti, che prefigurano l’avvento di una vera e propria medicina rigenerativa, il cui obiettivo finale è la creazione in vitro, mediante le tecniche di clonazione e di controllo dei processi di differenziamento e morfogenesi, di tessuti e organi completamente compatibili a livello genetico con l’individuo che necessita di un trapianto per scopi terapeutici.
Il corpo come macchina
Le diverse possibilità di successo dei trapianti tra organismi vengono studiate sperimentalmente, in modo sistematico già nell’Ottocento da Paul Bert (1833-1886), allievo di Claude Bernard, che nel 1863 pubblica De la greffe animale, in cui dimostra che gli autotrapianti (oggi isotrapianti o trapianti isologhi) attecchiscono sempre, mentre gli omotrapianti (allotrapianti) e gli eterotrapianti (xenotrapianti) incontrano via via meno successo in relazione inversa alla complessità degli organismi su cui venivano sperimentati, per risultare praticamente impossibili nei mammiferi.
Lo sviluppo delle tecniche chirurgiche porta a un’ampia sperimentazione sui trapianti a partire dalla fine del XIX secolo, che divenne ancor più massiccia dopo che Alexis Carrel (1873-1944), agli inizi del Novecento, mette a punto la tecnica dell’anastomosi vascolare, ossia la sutura fra loro di vasi sanguigni. Nel 1912 Georg Schöne ricava, dagli studi sperimentali dei tumori trapiantati, che il rigetto è tanto meno accentuato quanto maggiore è la parentela sanguigna fra donatore e ricevente, e che è più tempestivo nel caso di un secondo trapianto, o nel caso in cui il ricevente è stato immunizzato con componenti biologici del donatore.
Sulla scia dell’interesse suscitato dagli studi endocrinologici, vengono intanto tentati diversi esperimenti di trapianto di tessuti ghiandolari tra animali e da animali all’uomo, tra cui quelli famosi e largamente praticati degli xenotrapianti di tessuti testicolari da scimpanzé o babbuino all’uomo proposti da Serge Voronoff (1866-1951) nei primi tre decenni del Novecento. In quel contesto viene tentata anche l’“antiumanizzazione” preventiva degli animali mediante trattamento dell’animale a cui sarebbero state prelevate le ghiandole con siero sanguigno del ricevente: l’inverosimile presupposto è che in questo modo l’organo trapiantato sia in grado di difendersi meglio dall’aggressione del sistema immunitario dell’ospite.
Mentre si scopre che la reazione immunitaria al trapianto non si manifesta negli embrioni, che i tessuti linfatici proliferativi sono responsabili del rigetto, e che questo può essere inibito dal trattamento del ricevente con raggi X, gli studi genetici sui trapianti di tumore consentono di individuare il complesso principale di istocompatibilità come la fonte degli antigeni contro cui si indirizzano le reazioni di rigetto. Nel 1916 gli americani Ernest E. Tyzzer (1875-1965) e Clarence C. Little (1920-2003) ipotizzano un controllo genetico dell’immunità ai trapianti di tumore. Nel 1937 il patologo inglese Peter A. Gorer (1907-1961) identifica nel gene di un gruppo sanguigno del topo (gruppo II) questo tipo di funzione. Lo studio dei geni di istocompatibilità nel topo (H-2) sarebbe stato realizzato dallo stesso Gorer e da George Snell che lavorando con ceppi di topi congenici, cioè geneticamente omogenei, mostrano che gli antigeni riconosciuti nel rigetto dei trapianti sono sotto il controllo genetico.
Nel 1927 si registra il successo di un trapianto di pelle fra gemelli identici, ma senza che ancora si arrivi a capire perché un trapianto tra gemelli monocoriali non va incontro a rigetto. L’ostacolo del rigetto intanto induce ad accantonare ogni prospettiva clinica per il trapianto, nonostante la tecnologia chirurgica abbia risolto le principali difficoltà operatorie. Ma la necessità della chirurgia militare di poter trattare ustioni e ferite rilancia l’interesse per il problema del trapianto di pelle, ed è proprio allo scopo di capire come evitare il rigetto dei trapianti di pelle che lo zoologo inglese Peter Medawar (1915-1987), a partire dal 1944 inizia a studiare la fenomenologia del rigetto. Nel 1953 è in grado di annunciare, insieme a Rupert Everett Billingham e Leslie Brent, che le leggi del rigetto del tumore trapiantato sono valide per tutti i trapianti, che corrispondono alle regole della reazione immunitaria e che è possibile indurre una tolleranza immunitaria specifica al trapianto. Le basi genetiche dell’istocompatibilità nell’uomo verranno scoperte dall’immunologo francese Jean Dausset verso la fine degli anni Cinquanta, e nella prima metà degli anni Sessanta la tipizzazione immunogenetica, ovvero il confronto tra i profili genetici rappresentati a livello degli antigeni di istocompatibilità, diventerà la tecnica di routine per stabilire a priori il grado di compatibilità tra donatore e ricevente in vista del trapianto.
Nel 1951 vengono intanto effettuati in Francia da René Kuss i primi trapianti di rene da cadavere e, l’anno successivo, Jean Hamburger (1909-1992) annuncia il primo trapianto di rene da donatore vivente volontario. Nel 1954 John Merril e Joseph Murray trapiantano con successo un rene tra due gemelli monozigoti. La scoperta della tolleranza immunitaria convince i chirurghi a tentare, nella seconda metà degli anni Cinquanta, la creazione con varie strategie delle chimere, per esempio inoculando il midollo osseo del donatore in un ricevente trattato con radiazioni. Dopo diversi tentativi di utilizzare il trapianto di midollo come trattamento preventivo antirigetto, con rari successi e scontrandosi sistematicamente con una grave reazione del trapianto contro l’ospite (graft versus host disease) quasi sempre mortale, il trapianto stesso di midollo diviene un trattamento terapeutico di malattie del sangue (a partire dal 1968).
Nei primi anni Sessanta all’immunosoppressione ottenuta con radiazioni si va sostituendo l’immunosoppressione realizzata grazie alla scoperta dei primi farmaci “antirigetto”, come l’azatioprina e la 6-mercaptopurina, associati con steroidi. I primi trapianti di fegato vengono effettuati da Thomas Starzl nel 1963, ma il primo caso di successo sarebbe stato registrato nel 1967. Sempre nel 1967, il 3 dicembre, Christiaan Barnard (1922-2001) effettua il primo trapianto di cuore. La ciclosporina, scoperta nel 1972 e introdotta nella clinica del trapianto nel 1983 ha consentito di tenere sotto controllo le reazioni di rigetto senza deprimere l’emopoiesi (generazione del sangue). Vengono quindi messi a punto protocolli antirigetto sempre più efficaci, la clinica registra il trapianto sperimentale di altri organi con crescenti aspettative di successo e virtuosismi chirurgici sempre più mirabolanti: il polmone nel 1977, visceri addominali multipli nel 1989, l’intestino nel 1992, mentre il primo pancreas è anch’esso trapiantato nel 1967.
Nel 1963 e nel 1964, ovvero nel periodo pionieristico della medicina dei trapianti, vengono nuovamente sperimentati gli xenotrapianti, con trapianti di rene da scimpanzé a uomo e trapianti cardiaci, renali ed epatici da babbuino a uomo. I risultati non sono incoraggianti, anche se dimostreranno che con una terapia immunosoppressiva continuata si registra una sopravvivenza fino a un anno, e che la perfusione di fegati animali ex vivo possono contribuire significativamente alla sopravvivenza di pazienti con gravi insufficienze epatiche. Tuttavia si tratta di interventi che appaiono giustificati solo in un contesto di scarsità di organi e a fronte di situazioni particolarmente gravi, in cui i medici, autorizzati dai pazienti, possono sentirsi liberi di praticare tentativi estremi.
L’avvento di una più efficace tecnologia di emodialisi e l’introduzione del concetto di morte cerebrale migliorano le prospettive di attesa nel trapianto di rene e consentono una maggiore disponibilità di organi. Inoltre, la scoperta degli anticorpi naturali contro antigeni eterologhi e la scoperta della ciclosporina induce ad accantonare la ricerca sugli xenotrapianti.
Il rilancio degli xenotrapianti e il trapianto di tessuti
Tuttavia l’attenzione verso interventi da donatore di specie diversa viene nuovamente rilanciata dal famoso trapianto effettuato nel 1984 di un cuore di babbuino su una neonata con una grave malformazione cardiaca (Baby Fea) che sopravvisse 20 giorni.
Dalla seconda metà degli anni Ottanta le ricerche ripartono anche con la nuova prospettiva dell’ingegnerizzazione di animali, in particolare di maiali. Sembrerebbe che nel rigetto degli organi di maiale la risposta immunitaria più importante sia rappresentata da anticorpi preformati che riconoscono strutture molecolari che sono dei residui zuccherini prodotti da un enzima codificato da un solo gene e che si trovano sull’endotelio vascolare (il tessuto dei vasi sanguigni) del maiale (α-Gal). Essi, infatti, scatenano una reazione iperacuta mediata dal complemento in grado di rigettare l’organo nell’arco di minuti. Si arriva così all’ipotesi che si possano trovare sistemi di controllo del rigetto degli xenotrapianti molto più efficaci di quelli disponibili per controllare gli allotrapianti. Sono stati sviluppati diversi metodi che in contesti sperimentali, cioè studiati in modelli animali, appaiono efficaci per prevenire il rigetto iperacuto, e che vanno dall’eliminazione o inibizione degli anticorpi e del complemento nel ricevente, allo sviluppo di maiali trangenici che esprimono proteine regolative del complemento. Ovvero, dato che al momento è ancora tecnicamente impossibile creare dei maiali knockout – che non esprimano cioè il gene che codifica per l’enzima che produce α-Gal – si cerca di “umanizzare” i maiali inserendo in essi un gene che codifichi per qualche enzima in grado di competere con l’α1, 3 galactosiltransferasi. Anche se sono stati proposti diversi geni che sarebbero in grado di svolgere tale funzione, non si arriverà a una vera soluzione in quanto solo la sostituzione praticamente del 100 percento dell’α-Gal eviterebbe il rigetto iperacuto. Un’altra strategia che si sta seguendo è quella di indurre nel ricevente un chimerismo, mediante inoculazione di midollo del donatore, in modo da renderlo tollerante al trapianto, visto che in alcuni casi e accaduto senza che si capisca il perché.
Lo xenotrapianto rappresenta la prima effettiva possibilità di modificare il donatore e non il ricevente dell’organo, soprattutto alla luce dei potenziali sviluppi dell’ingegneria genetica, del trasferimento di geni e della clonazione. L’allevamento di maiali con una struttura dell’endotelio vascolare verso cui l’uomo non abbia alcun anticorpo preformato sarebbe l’ideale, in quanto la produzione di anticorpi indotti e la risposta cellulare sarebbero in tal caso soppresse inducendo la tolleranza nel ricevente. Rimane comunque aperto il problema circa la funzionalità degli organi di maiale nell’ambiente umano; pur essendo stato dimostrato infatti che la perfusione ex vivo di fegato di maiale in pazienti con epatiti fulminanti può produrre un certo grado di detossificazione del sangue e migliorare l’attività cerebrale, non è ancora chiaro fino a che punto i tessuti di maiale possano supportare tutte le necessità proteiche, enzimatiche e ormonali caratteristiche dei tessuti umani. Inoltre, sussistono i rischi concreti di zoonosi associati alla pratica dello xenotrapianto, cioè la possibilità che dei retrovirus che infettano gli animali da cui sarebbero prelevati gli organi si trasmettano all’uomo. Peraltro sembrerebbe che l’inattivazione dei virus da parte del sistema immunitario virale avvenga proprio attraverso alcuni dei meccanismi coinvolti nella reazione iperacuta agli xenotrapianti, su cui si stanno concentrando molte delle strategie per prevenire il rigetto.
Il trapianto di cellule e tessuti animali nell’uomo è stato nel frattempo riconosciuto come potenzialmente efficace per diverse malattie dovute a disfunzioni o perdite tissutali; i primi approcci a livello di sperimentazione clinica di questa impostazione hanno riguardato il trattamento del diabete. Il trapianto di isole pancreatiche di maiale per supplire alla carenza di cellule che producono l’insulina è stato per la prima volta sperimentato nell’uomo in Svezia nel 1990, ma, nonostante l’équipe medica sia riuscita a evitare il rigetto in questo e in altri 10 pazienti trattati, non è stata registrata una riduzione della richiesta di insulina esogena. Gli xenotrapianti di tessuti neurali sono già stati praticati per il trattamento di stati avanzati di altre malattie come il morbo di Huntington, di Parkinson e della malattia di Alzheimer.
Le cellule staminali: la medicina rigenerativa
A partire dagli ultimi anni del Novecento si fa strada la prospettiva di utilizzare le cellule staminali presenti, con diversi assetti fisiologici, sia nell’embrione, sia nel feto, sia nell’organismo adulto, dallo studio dei quali ci si attendono fondamentali informazioni sui meccanismi che regolano il controllo genetico ed epigenetico dello sviluppo, ma soprattutto la messa a punto di trattamenti terapeutici rigenerativi e riparativi per gravi condizioni traumatiche, come le paralisi, le malattie degenerative come il Parkinson, il diabete, l’infarto, la sclerosi amiotrofica o il cancro.
I due eventi che catalizzano l’attenzione sulla ricerca nel campo delle cellule staminali e della cosiddetta medicina rigenerativa sono stati la prima clonazione di un mammifero, la pecora Dolly, nel 1996, e la derivazione di una linea stabile di cellule staminali umane embrionali da parte di un gruppo dell’Università del Wisconsin nel 1998. Già dagli anni Sessanta si pratica, con il trapianto di midollo osseo, una terapia rigenerativa che utilizza delle staminali adulte, mentre nel corso degli anni Ottanta e Novanta vengono identificate cellule staminali nel cordone ombelicale e a livello di diversi distretti istologici dell’organismo adulto, come il cervello, il fegato, l’epidermide. La possibilità di manipolare le staminali embrionali, derivate dalla massa cellulare interna della blastocisti, apre prospettive più avanzate, a cominciare dal fatto che, diversamente dalle staminali somatiche, se ne possono ottenere le quantità desiderate. A suscitare grandi aspettative terapeutiche è stata, fin dall’inizio, soprattutto la prospettiva di creare, mediante la tecnica del trasferimento nucleare (clonazione) delle linee cellulari staminali embrionali geneticamente identiche al paziente che necessita di trattamento. È questa la clonazione terapeutica.
L’utilizzo di staminali cosiddette adulte, meno problematico dal punto di vista etico, è un ulteriore obiettivo della medicina rigenerativa. Sono ancora tante, comunque, le questioni di difficile soluzione: dalla transdifferenziazione – ossia dal processo per cui, in particolari condizioni di coltura, alcune cellule acquisiscono un altro fenotipo e quindi una nuova natura – spesso difficili da ottenere; al ricorso all’immunosoppressione per cui si ricorre a particolari terapie per contrastare le risposte immunitarie dell’organismo per evitare il rigetto; al controllo del potenziale tumorigenico che potrebbe scatenarsi applicando tali tecniche. La clonazione terapeutica, la cui praticabilità e potenziale efficacia è stata dimostrata finora solo su animali, consentirebbe appunto di risolvere definitivamente il problema della compatibilità immunologica.
Al di là delle inevitabili implicazioni etiche, soprattutto per ciò che riguarda la protezione delle donatrici di oociti, questa tecnica permetterebbe una terapia genica mirata in caso di mutazioni genetiche nocive. Un altro impiego relativamente sottostimato, soprattutto nella mentalità comune è l’enorme potenziale che le staminali hanno per la ricerca farmacologica. Utilizzare cellule staminali con un patrimonio genetico modificato per avere un fenotipo patologico permetterebbe infatti di avere modelli sperimentali umani potenzialmente perfetti. Il trasferimento di nucleo diventerebbe quindi un passaggio necessario per avere modelli mirati e specializzati al fine di identificare i fenotipi patologici, studiarne le caratteristiche funzionali e quindi sviluppare e testare farmaci e protocolli clinici. L’indagine di questi aspetti allargherebbe i confini epistemologici della medicina contemporanea, spostando l’accento non più sul solo genoma come esclusiva causa delle malattie.