DAKTYLOI IDAIOI (Δάκτυλοι ᾿Ιδαῖοι)
Figure mitiche, geni delle miniere, considerati come industri artefici del bronzo e del ferro. Già gli autori antichi spiegavano in vari modi il loro nome; perché erano in numero di 5 come le dita di una mano (Strabo, x, p. 473); o perché figli di Daktylos e Ida; o perché presero nome dall'attività loro in cui le dita rappresentavano lo strumento principale (Apollod., Katàlogos Theòn). Probabilmente il nome deriva dall' azione manuale (v. anche Daidalos derivato da δαιδάλλω) e solo in un secondo tempo il monte Ida (che significa "dito") prese da loro questo nome, come il luogo cioè dove lavoravano i D. Idaioi. Anche il loro numero è incerto. Generalmente le fonti indicano il numero 5; Sofocle (in Strabo, x, p. 473, e Diod. Sic., v, 64, 3) distingueva 5 maschi e 5 femmine, corrispondenti alle due mani; Diodoro (loc. cit.) si dichiara incerto. Incerta è anche la origine: Apoll. Rh., Arg., A 1126 ss.; Strabo, loc. cit.; Diod. Sic., xvii, 7 ed Esiodo in Plin., Nat. hist., vii, 197 li definiscono cretesi. Sofocle nei Satiri (riportato in Schol. Apoll. Rh., Arg., A 1126) e Schol. Apoll. Rh., Arg., A 1129 riportando un passo del poemetto Foronide li considerano originarî dalla Frigia. Diodoro Siculo, (v, 64), dice che, originari della Frigia, si sarebbero trasportati a Creta per iniziativa di Minosse. La confusione deriva probabilmente dalla presenza in entrambi i luoghi di un monte Ida; ed è indicativo che entrambi i monti siano sempre stati sfruttati come miniere metallifere. Presto i D. I. si confusero coi Cureti (specie in Messenia, Arcadia, Elide), Coribanti, Cabiri (data l'identificazione di Rhea con Cibele), coi Telchines rodi e, più tardi, al tempo romano, coi Lari. Pausania infatti (v, 7, 6) identifica i cinque coi Cureti e li dice inviati da Phea dall'Ida cretese ad Olimpia a custodire Zeus. Da prima i loro nomi furono: Kelmis (= Fuoco), Damnameneus (= Martello) e Akmon (= Incudine). Dopo l'identificazione coi Cureti, Pausania, loc. cit., chiama i quattro fratelli Paionaios, Epimedes, Iasios e Akesidas (o Idas), a cui si aggiunse poi Eracle, e tutti furono onorati con altari sull'Altis. Come attività principale esercitarono l'arte di Efesto, da cui appresero a ricavare e forgiare al fuoco i metalli, e a loro volta insegnarono ciò agli uomini. L'esercizio di quest'arte avvenne secondo Esiodo (riportato in Plin., Nat. hist., vii, 197) in Creta, secondo Clemente Aless. (Strom., i, ed. Potter) a Cipro. Forgiato il bronzo e più tardi il ferro, appresero da Rhea l'arte di lavorarlo. Sono anche detti servi della ninfa Adrasteia, probabilmente per un concetto che associa l'acqua di infiltrazione con la miniera e il metallo estratto. Sono state però ad essi attribuite anche attività marginali. Da Plutarco (De Mus., 5, p. 1132 f) e in Schol. Il., X, 391 sono detti maestri di Paride nella musica, come in seguito il centauro Chirone è detto maestro di Achille. Strabone li chiama "auleti"; nella Foronide sono detti "flautisti". Non inventarono essi la musica, ma trasportarono in musica il suono derivato dal rumore del metallo lavorato: inventarono cioè un ritmo (Clem. Aless., loc. cit., dice che il metro "dattilo" prese appunto nome da loro). La tradizione li mostra sempre danzanti, in abito guerriero, con scudi e lance usati come strumenti; la loro danza aveva sicuramente fine apotropaico. Si diceva anche che praticassero magia, incantesimi e misteri. Clemente Aless., loc. cit., li considera autori delle cosiddette Lettere efesiane, una raccolta cioè di motti e formule magiche che dovevano allontanare o arrestare il male. Ferecide (in Schol. Apoll. Rh., Arg., A. 1129) li chiama ϕαρμαχεῖς.
Bibl.: J. Overbeck, Schriftquellen, 27-39; C. Robert, in Ath. Mitt., XVIII, 1893, p. 40; C. Robert, in L. Preller, Gr. Myth., Berlino 1894, p. 657 ss.; J. Poerner, De Curetibus et Corybantibus, Halle 1913; O. Kern, in Pauly-Wissowa, IV, 1903, c. 2012, s. v.; G. Giannelli, in Enc. Ital., X, 1931, p. 157, s. v. Cureti; G. Cozzo, Le origini della metallurgia, Roma 1945, p. 170 ss.; G. Becatti, in Röm. Mitt., LX-LXI, 1953-4, p. 24.