Dal Medioevo al primo Rinascimento: l'architettura
Vincat Athenas maritimo
terrestri Lacedemonem imperio
fide Carthaginenses
concordia ordinum Romanos
religione in Deum omnes pene populos (1)
Come ben si sa, agli occhi della storiografia artistica di tradizione toscana e di matrice vasariana, i lunghi decenni che dal secolo XV si spingono a raggiungere l'avvio del '500 sarebbero per Venezia tempo opaco nel campo architettonico. Proprio nell'età della formazione e del consolidamento dei suoi grandi miti politici e sociali, quando la città indossa vesti trionfali e letteralmente costruisce l'immagine della propria perennità, quando celebra e fa celebrare l'avvenuto superamento dell'impossibile geografico nel suo farsi città in mari fundata, proprio allora essa avrebbe mostrato chiusura, per quasi un secolo intero dal soggiorno di Michelozzo, alla vera e insieme buona architettura.
L'autentico rinascimento della res aedificatoria, per Giorgio Vasari, non vi sarebbe incominciato che nell'inoltrato '500 e per merito di Jacopo Sansovino. Prima non vi sarebbero stati che conservatorismo, monotona omogeneità di forme, scarsa invenzione: "non [vi> era entrato mai modo se non di fare le case ed i palazzi loro con un medesimo ordine, seguitando ciascuno sempre le medesime cose, con la medesima misura e usanza vecchia" (2).
Venezia è la città che in precedenza rigetta grandi progetti vitruviani, come quello per il foro di Rialto, elaborato da fra Giocondo, superbissimo edifizio. Certo, già in precedenza il messaggio toscano vi era giunto: nella vita del Brunelleschi, il Vasari parla di un suo misterioso allievo, "uno schiavone che fece assai cose in Vinezia" (3). E insiste appunto sulla venuta di Michelozzo, giunto nel 1433 con Cosimo mandato in esilio; una sorta di ambasceria culturale che avrebbe prodotto progetti di fabbriche pubbliche e di case private, disegni di ornati per vari membri del patriziato, oltre che la celebre libreria del monastero di San Giorgio Maggiore (4). Ma, appunto, senza lasciare traccia profonda nella cultura architettonica della Serenissima.
Tant'è che questa, attraverso uno dei membri della sua nobiltà, proprio per la centralissima piazza di Rialto non aveva saputo far di meglio che dare incarico a proti maldestri come lo Zamfragnino - lo Scarpagnino dileggiato anche nel nome: "degno e conveniente nome dell'eccellenza del maestro" - responsabile di quella marmaglia di fabbriche messa irrimediabilmente in opera (5). Vasari assicura: l'ordine e l'antica disciplina di Vitruvio non vi furono introdotti che da Jacopo Tatti. E questa stessa posizione, del resto, era espressa senza reticenze dall'epigrafe funeraria del Sansovino a San Geminiano, scritta e riportata dal figlio: Jacopo "Venetiis, architecturae sculpturaeque intermortuum decus primus excitavit", aveva dunque ridestato in Venezia l'onore venuto meno dell'architettura e della scultura (6).
Intermortuum decus: e dunque da quegli, dai suoi nuovi disegni, dal miglior ordine sarebbe stato dato a Venezia il Rinascimento architettonico.
L'opinione è condivisa anche in antico e indipendentemente dal significato attribuito all'opera sansoviniana. Sebastiano Serlio, che, prima di passare in Francia, a Venezia s'era trattenuto a lungo, non manca di annotare le specificità del costume architettonico della città-repubblica e di concluderne: "la maggior parte degli ornamenti delle case di questa città sono licenciosi", ossia contrari alle regole "et anche le cose disordinate". Così che quando si trova a illustrare un suo progetto per la facciata d'un palazzo dove tiene conto delle particolarità degli usi veneziani si affretta a giustificarsi agli occhi degli architetti rigorosi che intendessero sottoporlo a critica (7).
Tutto ciò non è rimasto senza seguito nella storiografia d'architettura ottocentesca e contemporanea. È estremamente significativa, a questo proposito, la domanda che il Burckhardt si pone circa quel primo Rinascimento veneziano: "dove sarebbe andata a finire l'architettura moderna se fosse rimasta preda della mentalità estetica da ebanisti e gioiellieri dei veneziani?" (8). Ed è così, pertanto, che in opere più recenti quella veneziana del secondo '400 e del primo '500 può apparire rinuncia, nell'architettura, all'intelletto a favore della sensazione, attribuzione di primato all'empirismo, al frammentismo, alle contaminazioni eclettiche, al pittoresco, a facili cromatismi e decorativismi.
Senza negare il fondamento delle osservazioni cinquecentesche, si tratterà, tuttavia, di arricchire e rendere più complessi i codici di interpretazione del rapporto stabilito nel '400 tra Venezia e la res aedificatoria, di proporre una lettura del primo Rinascimento veneziano che non dimentichi la convinta e colta ricerca di un rinnovamento more veneto e che tenga conto, altresì, della forza, della vitalità della sua cultura architettonica tardogotica e degli stretti legami stabiliti da questa, nei decenni che immediatamente precedono la metà del secolo XV, con la formulazione di un'idea trionfale e imperiale della Serenissima città-repubblica.
Il '400 veneziano, in realtà, è per lunghi decenni, con forza e convinzione, si diceva, età di forme gotiche, sia pure particolari e autonome, e di cantieri medievali.
Venezia accoglie tardi l'architettura della Rinascenza e ancor più certa parte del suo Stato da terra. Mentre in Levante, nel suo Stato da mar, continua a essere vitale l'arte di tradizione bizantina.
Se il linguaggio tardogotico è quello che in misura quantitativamente maggiore delinea i tratti del volto della città, un siffatto processo di definizione viene condotto a compimento per gran parte proprio nel corso del secolo XV, in prevalenza entro la prima metà di questo, ma anche oltre.
I tre grandi cantieri delle fabbriche conventuali dei Santi Giovanni e Paolo, di Santa Maria Gloriosa dei Frari e di Santa Maria dei Servi, per intanto, sono tuttora aperti, secondo ritmi diversi, rallentando o sollecitando le opere secondo la congiuntura economica ma anche, non secondariamente, per impulso politico (9).
La chiesa domenicana - la prima che abbiamo citato - subisce seri danni nel 1410 e le fonti accertano che si lavora ancora alle navate intorno al 1417, che l'attività nel 1422 sta procedendo e che la consacrazione può avvenire nel 1430, senza tuttavia che le maestranze abbiano lasciato il cantiere. Più che un nuovo incidente, è la convenzione del 1437 per le volte della cappella maggiore, intervenuta fra i Predicatori e la Scuola grande di San Marco, a marcare una tappa di grande rilievo. Si porta allora a compimento la struttura absidale, trionfalmente e misticamente luminosa attraverso lo straordinario traforo a due ordini sovrapposti di bifore e rosoni polilobati, che dal piano pavimentale si eleva fino alle volte a vincere ogni possibile inerte evidenza della materia muraria. E, al contempo, viene costituito quel nesso fra Scuola grande, convento domenicano e poi anche Scuola di Sant'Orsola destinato a originare, con il campo dei Santi Giovanni e Paolo, uno dei primari nodi di organizzazione della forma urbis. Del resto, fra il 1458 e il 1459 si arriva a edificare il portale marmoreo e, all'incirca nello stesso torno di tempo, a quanto ci consta, o poco dopo, a poggiare l'alta cupola sull'incrocio fra navata e transetto, senza che peraltro si giunga a portare a termine la facciata (10).
La fabbrica di Santa Maria dei Frari, la Ca' Granda, frattanto, che sullo scorcio del '300 era giunta suppergiù alla metà della navata e non molto tempo dopo s'era arrestata, riprende nel 1417 per ordine del senato, sì che entro il quarto decennio del secolo si arrivava a ospitarvi la Scuola dei Fiorentini, che si annuncia all'esterno con il giglio di Firenze e il leone marciano scolpiti sulla cornice del finestrone circolare di sinistra del prospetto. Non solo, ma si chiama Bartolomeo Bon, probabilmente, a lavorare al portale e si getta il ponte sul rio antistante, come il maggior consiglio ha autorizzato nel 1428. E in tal modo un altro dei grandi campi veneziani s'avvia a definitiva configurazione (11).
Oggi quasi del tutto scomparsa, tranne che per il portale e alcuni altri resti, la terza maggiore architettura conventuale gotica in Venezia era rappresentata dalla chiesa di Santa Maria dei Servi, "grande a tal segno che ha ventidue altari", "magnifica" architettura, arricchita da "maestose" cappelle (12). Ma condotta essa pure con estrema lentezza: anche in questo caso il cantiere s'inoltra attraverso tutto il secolo (la consacrazione è del 1491), accelerato negli ultimi decenni di opere da concessioni di indulgenze del Bessarione (1461) e di Sisto IV (1473), oltre che dall'assegnazione del priorato istriano di Santa Caterina d'Isola e delle sue rendite (1473) (13).
Con i tre complessi conventuali, aree sostanzialmente di margine si fanno dunque siti qualificati sul piano formale; tratti di periferia medievale si fanno piazza, campo "nobilissimo [...> quasi nel cuor della città" (14). Come la pianta prospettica della città delineata da Jacopo de' Barbari pone in netta evidenza, le grandi chiese tre-quattrocentesche ampliano lo spazio delle magnificenze e marcano con forza assertiva il profilo urbano: Erhard Reeuwich, d'altronde, lo aveva già percepito e rappresentato nel 1486. L'immagine che Marc'Antonio Sabellico dà dei Santi Giovanni e Paolo è assai significativa a questo proposito: è "opera ampissima e per la troppa altezza con la cima di caligine carica e di smisurata grandezza" (15).
Straordinari segni architettonici di pietà sono dunque questi in Venezia tardogotica, la cui realizzazione coinvolge e sollecita molteplici componenti sociali ma, soprattutto, si accompagna alle ultime fasi di quello che è stato definito il processo di statalizzazione della Chiesa veneziana. La devota magnitudine delle tre chiese conventuali del gotico al tramonto diviene pertanto anche luogo e strumento deputato alla celebrazione delle virtù dei grandi posti ai vertici della trionfante e santa Repubblica dell'evangelista Marco.
Ai Frari, ai Servi e soprattutto ai Santi Giovanni e Paolo, infatti, dove tendono a raggrupparsi le tombe ducali dopo il loro definitivo abbandono, alla metà del '300, della basilica marciana, si manifestano anche le tendenze tardogotiche allo sviluppo in forme architettoniche e al dispiego decorativo del monumento sepolcrale. Ciò avviene per tappe che si possono agevolmente seguire, a partire dall'urna tardotrecentesca del doge Marco Corner († 1367), sovrastata da un polittico scultoreo serrato fra due alti pilieri, quasi una pala pensile d'altare, al sepolcro di Tommaso Mocenigo († 1423), cui attendono Pietro di Niccolò Lamberti e Giovanni di Martino da Fiesole e che associa all'onorifico baldacchino una cornice architettonica concepita come un doppio ordine di nicchie e di pseudobifore adorne di sinuosi, morbidi fogliami. Entrambi ai Santi Giovanni e Paolo, questi; mentre nel presbiterio dei Frari si eleva, solennissimo e trionfale, gotico d'invenzione e fantasiosamente memore di evocazioni anticheggianti, quello di Francesco Foscari († 1457). Sempre ai Frari, peraltro, la tomba di Paolo Savelli, morto di peste nel 1405, sulla quale poggia la sua statua lignea "sopra d'un cavallo da Capitano", aveva segnato l'arrivo in laguna del monumento sepolcrale equestre (16).
In questo quadro, l'amplissima Santi Giovanni e Paolo, coronata da una cupola glorificante e al tempo stesso contraddittoria rispetto alla struttura gotica, diviene uno dei poli della liturgia pubblica come sede permanente dei cerimoniali delle solenni esequie ducali.
La richiesta di materiali nobili, la pressione sulle risorse accumulate nel tempo, proprio in questo arco di tempo si fanno gravose. All'impiego di materiali di spoglio, evidente ad esempio ai Frari e ai Santi Giovanni e Paolo, si accompagnano misure di contenimento, di protezione di antichi edifici delle contrade lagunari dalle attività di demolizione. Quando i frati di San Tommaso di Torcello vendono pezzo per pezzo la chiesa, la riducono a spelonca disfacendo muraglie e altari; quando alla rovina di Sant'Andrea, nella stessa isola, segue da parte del vescovo non già il restauro, ma la preoccupazione "di far denari coll'asporto delli marmi, delle campane", allora, nel terzo decennio del secolo XV, il doge deve intervenire per impedire, per quanto possibile, l'allargarsi di spoliazioni (17).
Se tre sono i cantieri maggiori, ben più numerosi sono gli altri che, ancora gotici, continuano a operare nel '400 o vengono aperti nei suoi primi decenni. Quello di San Cristoforo e Santa Maria dell'Orto, che intorno al 1425 impegna più lapicidi toscani alla decorazione plastica della facciata. Sant'Alvise, ossia San Lodovico di Tolosa, beneficata da Martino V con indulgenze a favore della fabbrica nel 1420 e ancora non del tutto conclusa verso il 1440. Sant'Elena, concessa all'inizio del secolo agli Olivetani e immediatamente in radicale riassetto anche con il lascito testamentario di Tommaso Talenti († 1403), che vedrà la messa in opera, nel corso del secolo, di due pavimenti in maioliche ispano-moresche nelle cappelle Borromeo e Giustinian (18). Sant'Andrea della Zirada, cui pure sembra si impegni Bartolomeo Bon, aiutata economicamente dalle casse pubbliche con un decreto del 1475.
Ma ancora si avviano l'edificazione di San Giobbe, la riedificazione a partire dal 1441 della chiesa della Carità e la ricostruzione di San Gregorio, alla quale attende l'abate commendatario Bartolomeo Paruta. Anche a Santo Stefano, frattanto, restano le impalcature, mentre se ne innalza la facciata simile a quella dei Santi Giovanni e Paolo tra il 1415 e il 1430 e si mette in opera il soffitto ligneo a carena. La formazione e la circolazione di modelli e tecniche da un cantiere all'altro sono palesi e talora direttamente documentati. L'abside di San Gregorio, ad esempio, si richiama senza dubbio a quella dei Frari - affine peraltro ai Santi Giovanni e Paolo - e al suo architetto viene esplicitamente richiesta, per le finestre della facciata, la ripresa del disegno delle finestre della chiesa della Carità, alla quale ci risulta ampiamente impegnato Bartolomeo Bon (19).
La tendenza all'alleggerimento e alla semplificazione della concezione strutturale gotica e semmai alla sua sostituzione con idee locali viene confermata, accentuata ed estesa: le chiese gotiche veneziane edificate o rifabbricate nel '400 preferiscono adottare coperture a capriate lignee piuttosto che volte a nervature. O anzi, in Santo Stefano, ricorrere alla mirabile copertura a carena di nave - del tipo che le fonti definiscono "in forma di galea" - come accade anche altrove nel Veneto, per esempio a San Zeno di Verona, mettendo di certo a frutto non tanto la tecnica specifica della costruzione navale, quanto l'esperienza dei maestri carpentieri sovente attivi tanto dentro quanto fuori delle mura dell'Arsenale e a cavallo fra edilizia e cantieristica.
Una spazialità di ascendenza basilicale, insomma, sembra riprendere il sopravvento nella prima metà del secolo XV, proprio mentre si conducono a compimento le vaste navate archiacute delle chiese domenicana e francescana che restano in sostanza non solo episodi maggiori, ma eccezionali. E anzi, gli organismi architettonici in più casi mostrano di voler rinunciare ancora più manifestamente a ogni forma di complessità strutturale, rifiutando la partizione interna in più navi a favore di un'aula unica, pur mantenendo magari il presbiterio triabsidato, come San Gregorio esemplifica bene.
Del resto, lo schema dei prospetti delle due maggiori chiese conventuali gotiche veneziane viene assunto diffusamente, e nei termini di una sobrietà talora estrema, persino dove non c'è alcuna corrispondenza tra le sezioni esterne del prospetto e la composizione degli spazi interni. A quello schema, dunque, si ispira gran parte delle architetture religiose quattrocentesche, pur nella varietà delle soluzioni di coronamento della facciata. In quest'ambito, sta a sé il tipo di coronamento a trittico ogivale della Carità, ch'era stato imitato anche in San Gregorio. Mentre l'architettura religiosa gotica della Venezia del '400 è impegnata piuttosto a variare sul tema del fastigio polilobato con arco mistilineo.
Già la facciata dei Frari che, come si è detto, non viene compiuta che nel primo '400, si discosta dalle altre affini (tranne forse da quella dei Servi) per il disegno del coronamento: che è del tipo cui si accennava in corrispondenza della sezione centrale e presenta un raccordo a schema lobato anche tra questa, che si sopralza, e le due laterali. Motivi affini - elaborazioni dello schema trilobato con arco mistilineo centrale - compaiono poi a concludere superiormente il prospetto delle parrocchiali di Sant'Aponal e di San Giovanni in Bragora, non molto dissimili, a loro volta, da quello di Sant'Andrea della Zirada. Probabilmente ciò accade associando la memoria della facciata del duomo di Mantova (1396-1401) dei dalle Masegne - e forse anche reminiscenze bizantino-balcaniche (da Arta e Mistrà, Gracanica, Lagosta e altri luoghi) - alla circolazione di schemi decorativi noti a pittori e lapicidi, com'è testimoniato dal sepolcro di Agnese e Orsola Venier ai Santi Giovanni e Paolo (1411) e dal polittico scultoreo della cappella dei Mascoli a San Marco (20).
Sta di fatto che il tipo di facciata e di fastigio hanno buona accoglienza e durata. Ispira il prospetto della Scuola vecchia della Misericordia, ricompare in Terraferma e in Istria, costituisce probabilmente un precedente significativo di analoghe soluzioni protorinascimentali delle quali si dovrà riparlare in seguito.
Jacopo Bellini, del resto, ne conferma esplicitamente e con tutta evidenza la fortuna: progettando, per dir così, tre prospetti del genere in altrettanti disegni dei suoi taccuini di Parigi, in uno dei quali il soggetto vero e proprio dello studio è appunto un'architettura religiosa dal fastigio assai prossimo nelle linee a quello di Sant'Aponal (21).
Insomma, pur tenendo conto di talune diversità di impianto delle grandi chiese conventuali dipendenti dalle differenti tradizioni degli Ordini che ne promuovono la costruzione, l'architettura religiosa tardogotica veneziana tende a organizzare il proprio linguaggio, per lo più sobriamente trattenuto, a partire dai cantieri maggiori, mediante un processo di deduzione, di semplificazione e di relativa uniformazione lessicale, entro il quale permangono margini piuttosto considerevoli di libere variazioni.
Si tratta di un processo che, oltre a coinvolgere le botteghe locali, già richiama maestranze di varia provenienza, come il folto gruppo di lapicidi lombardi e toscani attivi un poco dovunque in città fin dai primi decenni del '400. Alla metà del secolo, anzi, la presenza di maestri costruttori e di manodopera forestiera in Venezia sarà tale da provocare vivaci reazioni interne e sforzi di pressione politica delle corporazioni. Il 22 febbraio 1459, infatti, lo stesso collegio dovrà intervenire per respingere le istanze avanzate dalle Arti veneziane per l'espulsione dei molti maestri muratori stranieri di varia provenienza - così si esprimono - prendendo posizione invece a favore di questi ultimi, che secondo i politici operano con diligenza e sollecitudine (22).
La Venezia del primo '400, dunque, attrae a sé tecniche e saperi del costruire, stimola il confronto e lo scambio, già certo intorno ai cospicui e numerosi interventi di architettura ecclesiastica.
Per altro verso, non si può mancare di osservare che questi si accompagnano non soltanto al sempre più radicato e ramificato controllo della Serenissima sulla sua Chiesa - che in qualche modo si risolve nell'associare talune esigenze di immagine pubblica alle tre principali fabbriche conventuali - ma anche alla fase, davvero saliente, del riassetto della geografia e dei livelli di giurisdizione ecclesiastica veneta: l'8 ottobre 1451 Nicolò V aboliva la cattedra episcopale di Castello e quella patriarcale di Grado, istituendo al posto di quelle la nuova cattedra patriarcale di Venezia, attribuita a Lorenzo Giustinian, vescovo di Castello fin dal 1433. L'evento non diede origine ad alcun grande atto di committenza architettonica religiosa. Eppure, molto probabilmente, il momento e la circostanza non furono senza conseguenze sulla storia di questa committenza. Proprio nelle nuove linee di governo del patriarcato veneziano vanno identificate, infatti, le condizioni e le suggestioni che dovettero essere alla base dell'evidente e prevalente sobrietà dell'ultima architettura religiosa gotica in Venezia, così come si riflette nei disadorni prospetti in cotto di edifici conventuali e di chiese parrocchiali. Nella recisa e dichiarata opposizione del santo protopatriarca agli ampla aedificia, ai saloni e alle confortevoli celle nelle case religiose, nelle rigorose posizioni del nobile Giustinian, deciso assertore delle antiche consuetudini del culto e, al tempo stesso, edificatore per sé di un'ascetica cella di ramaglia e di creta presso il priorato dei Santi Fermo e Rustico sul colle di Lonigo, stanno senz'altro alcune almeno fra le ragioni delle persistenze e della moderazione formale delle fabbriche tardogotiche del territorio patriarcale (23).
Per gran parte quattrocentesca è, del resto, la vicenda costruttiva e progettuale del palazzo del doge e dei consigli che dapprima, sugli inizi del secolo, vede il compimento del prospetto verso la riva e il bacino di San Marco e in seguito, dopo una lunga stasi, riprende con il grande ampliamento sulla Piazzetta (24).
La fama e l'onore dello Stato e della città: sono queste le motivazioni che il 22 luglio 1400 inducono a deliberare l'esecuzione del progetto già esistente - delineato su di un foglio di pergamena aggiungono le fonti - del monumentale balcone della sala del maggior consiglio.
Pierpaolo di Jacobello dalle Masegne, dunque, dopo aver inquadrato con una doppia coppia di colonnine binate l'ampio finestrone archiacuto già esistente, lo rinserra fra due coppie di altissimi pilieri che, articolati da edicole con statue di santi e di virtù, si elevano fino sopra il coronamento della facciata. Nel riquadro parietale al di sopra dell'oculo colloca l'immagine del doge genuflesso al cospetto del leone marciano. E, infine, corona la composizione con un alto baldacchino lapideo nelle cui nicchie stanno san Marco, protettore della città, e i santi Pietro e Paolo, governo e pensiero della cristianità.
Le figure aggraziate e di decisa struttura plastica rivelano un linguaggio artistico attento, adeguato all'opera e aggiornato nelle conoscenze: ne trapelano esperienze fiorentine, milanesi, mantovane, aulicamente composte in una ricerca di serena e solenne rappresentazione dei valori e dei codici primari della Dominante. I santi che affiancano l'ampio poggiolo di marmo rosso veronese sono Giorgio e Teodoro, santi guerrieri, santi bizantini, la cui devozione assai popolare in Venezia si rinvigorirà nel '400 con l'arrivo di reliquie del primo condotte qui da Lesina sulla galera di Vettore Cappello e con il rinnovamento del culto di Stato del secondo (1434-1470). Le virtù sono quelle, cardinali e teologali, che accompagnano il governo del Principe: e in particolare, poi, quella figura di Antonio Venier - doge dal 1382 sino a pochi mesi dopo la decisione per palazzo Ducale - al quale si guarda come exemplum iustitiae per l'inflessibile severità nei confronti del suo stesso figlio (25).
Il doge, si diceva, era raffigurato in ginocchio di fronte al simbolo dello Stato, il leone di S. Marco "che per divina provvidenza governa e regge la città di Venezia" in segno di sottomissione all'autorità prima degli ordinamenti e delle leggi. E l'allusione simbolica allo Stato e al suo vertice è figuralmente coronata, vale a dire al tempo stesso investita e protetta, dalla triade sacrale e apostolica.
La fenestra granda indorada che, come sottolinea il contratto per la sua esecuzione, guarda verso il mare, rivela dunque agevolmente il programma dei suoi significati iconografici. Che è quasi trascrizione testuale in termini figurativi dell'esaltazione dell'idea e dei tratti costitutivi dello Stato veneto composta suppergiù nello stesso torno di tempo del progetto e dell'esecuzione del balcone dalle penne di Rafain de Caresini o di Lorenzo de Monacis: Venezia sicut navicula Petri, come navicella di Pietro; Venezia sicut navicula Marci, come navicella di Marco che si dirige e approda al porto di salvezza. Venezia quasi quinto elemento oltre i quattro naturali, opposto quasi muro di fede contro i Turchi e gli altri infedeli. Venezia in cui le leggi sono il Principe, in cui opera la vera politia e non è politicum ciò che non è buono (26).
Le coppie di alti pinnacoli che inquadrano la finestra d'onore della sala del maggior consiglio (quello appunto che nella costituzione della Serenissima sta in similitudinem populi) confermano pienamente tutto questo sul piano del simbolismo formale. Appartengono infatti allo stesso tipo che nella vicina basilica di San Marco inquadra i due tabernacoli posti ai lati del presbiterio e accoglie il Santissimo Sacramento. E il baldacchino che conclude la composizione lo rafforza, come segno di autorità, di regalità, di potere sovrano.
Non per caso il policromo e prezioso apparato del balcone si rivolge verso le acque del bacino: il messaggio di autorità e di sacralità è rivolto alla piazza da mar, per così dire, della città, al bacino dove le colonne di Marco e Teodoro annunciano la conclusione dell'iter maritimum e l'approdo alla trionfante città. Per cui evangelista e apostoli, virtù e santi guerrieri parlano al mare negli anni dell'acquisto di Nauplia e di Argo, di Scutari e di Durazzo, della ripresa di Corfù.
Jacopo Bellini, ancora, non nasconde il fascino per l'architettura gloriosa del balcone: e la studia, la riprende. L'opera di Pierpaolo apre, già in età gotica, la lunga serie delle architetture celebrative e trionfali della Venezia del mito.
Molto significativamente, anzi, nonostante la goticità delle forme, la Cronaca di Giovanni Bembo interpreta il balcone in termini di lavoro "all'antica" e quasi come porta trionfale: l'ornata architettura è designata come maenianum, ossia balconata o galleria esterna di memoria classica, in forma ianuae (27). Quando nel corso del dogado del Gritti (1523-1538) il finestrone quattrocentesco sarà replicato sulla facciata di palazzo che guarda la Piazzetta una siffatta interpretazione sarà ripresa esplicitamente: la fedele ripetizione delle forme verrà tradotta nei suoi significati agli occhi dell'osservatore cinquecentesco inserendo due vittorie alate ai lati dell'ogiva dell'arco, trasformando le sommità dei pilieri in eloquenti obelischi allusivi di perpetuità, sostituendo i santi guerrieri con i simulacri di Marte e Nettuno. Con l'edificazione della grande scala, il palazzo Nuovo, ai primissimi del secolo XV, è compiuto. Il suo prospetto si apre sulla riva su diciassette arcate e in profondità, sulla Piazzetta, per un terzo soltanto: è un corpo di fabbrica longitudinale attratto, appunto, da riva e bacino (28).
I1 27 settembre 1422, tuttavia, con un gesto clamoroso, il doge Tommaso Mocenigo esborsa del suo mille ducati di ammenda per ottenere che venga discussa la decisione di riprendere e ingrandire la fabbrica, espressamente proibita nel passato per le difficoltà dell'erario. In effetti si trattava di abbattere l'antico Palatium veneto-bizantino ad jus reddendum fondato da Sebastiano Ziani (1172-1178), in precarie condizioni statiche, e di edificare una nuova ala in forma decora et convenienti al solennissimo principio - le espressioni sono quelle della decisione del maggior consiglio - del palazzo Nuovo.
Non è del tutto da escludersi che il grande intervento riprendesse un'idea risalente al 1341, un progetto iniziale di Filippo Calendario (29). Certo è che una volta compiute, entro il 1424, le opere di demolizione, la fabbrica sulla Piazzetta riprese, in completa e rigorosa fedeltà, le forme e i modi dell'ala meridionale dell'edificio. Tanto nell'architettura - che qui pure, nel prospetto più recente, è composta di un doppio ordine di arcate sulle quali si innalza una vasta superfice parietale priva di articolazioni, ma policroma, coronata da esili, eleganti merlature e forata da ampi finestroni archiacuti - quanto nella decorazione plastica dei capitelli delle arcate terrene. Questi, che affiancano soggetti all'apparenza soltanto narrativi a personificazioni di vizi e di virtù e sono dovuti a più mani, anche di diversi tagliapietra toscani, non soltanto si rifanno direttamente alla serie trecentesca sulla riva, ma in alcuni casi ne risultano vere e proprie copie (30).
Unificando la residenza ducale e gli antichi annessi in un imponente complesso quadrilatero, affine ora nell'impianto, com'è stato osservato, a un castello principesco con cortile centrale, e uniformando stilisticamente la stessa decorazione, il palazzo amplificava con estrema assertività formale l'immagine dello Stato veneto attraverso il rifacimento della sede delle sue massime istituzioni.
Oggetto immediato della dispendiosa e magnificente celebrazione architettonica, espressa nell'ancora internazionale e cortese linguaggio tardogotico, è la nuova grandezza veneziana: quella derivatale, proprio negli anni di Tommaso Mocenigo, dalla formazione dello Stato da terra e, non da ultimo, dalla dedizione dell'antica madre Aquileia (5-8-1420); dall'espansione in Dalmazia, con il passaggio alla Signoria veneta dell'imperiale Spalato dioclezianea; dalla dedizione, sia pure temporanea, di Tessalonica, la seconda città dell'Impero dei Romani d'Oriente (24-9-1423). L'unicità apostolica di Venezia, anzi, proprio allora si era del tutto compiuta, mediante ciò che le fonti presentano come un vero e proprio ricongiungimento: l'arrivo in Venezia, nella basilica ducale, di quello che era ritenuto l'evangelo autografo di san Marco, prima in la Patria del Friul occultato.
Le preziose forme, l'atto di decoro architettonico promosso dal Mocenigo, anche se realizzato dal suo successore, non potevano pertanto non apparire come segno e prefigurazione di quell'età felice che proprio il testamento politico del doge preconizzava ai Veneti qualora avessero seguito le linee da egli stesso tracciate: sareti signori de l'oro (31).
Necessariamente, perciò, la fabbrica della nuova ala doveva anche essere occasione per riprendere l'esercizio iconografico dell'interpretazione dei pubblici miti, questi stessi in via di conclusiva definizione. In corrispondenza del raccordo tra la prima fabbrica del palazzo e la nuova costruzione, marcato da una colonna terrena di diametro maggiore delle altre e da una colonna polistila al piano superiore, il tondo della Giustizia interrompe la serie degli occhi lobati del traforo della loggia. Senz'altro si tratta di un'evocazione del sito antico del palazzo ad jus reddendum, che non casualmente si erge al di sopra della lunga serie di rappresentazioni di virtù e di vizi. Ma l'iscrizione che l'accompagna rende ancora più palese la natura del soggetto: si tratta della stessa Venezia in forma di Giustizia, dell'identificazione compiuta fra la Repubblica e la più invocata delle virtù politiche.
L'angolo nord-occidentale dell'ala nuova rinforza e conferma, da parte sua, il messaggio iconografico: in attitudine serena e ispirata - poiché da Dio ha ricevuto la sapienza - Salomone esprime il suo giudizio tra la vera e la falsa madre, mentre il carnefice è già pronto a colpire il piccolo nel gruppo scultoreo cui Bartolomeo Bon lavora attorno al 1435.
La Dominante, trionfante e aristocratica (proprio di questi anni, del 1423, è la soppressione della concio, ultimo ricordo di ruolo politico del popolo), rassicura dunque le potenze del mondo alle quali non muoverà guerra iniusta, i propri Stati e i propri sudditi cui promette coincidenza tra politicum e bonum, nel momento stesso in cui dimostra attraverso le opere edificatorie la propria magnificenza. Proprio al di sotto del gruppo del giudizio di Salomone, peraltro, il capitello detto della Giustizia accosta a Mosè, ad Aristotele, a Solone, a Scipione, a Traiano l'effige di Numa Pompilio, re costruttore, edifichador di tempi e chiese. Si è insistito, poco sopra, sulla rigorosa fedeltà delle forme dell'ala quattrocentesca di palazzo Ducale al modello del secolo precedente. Ne consegue che mentre in Firenze il Brunelleschi già attende alle sue opere più impegnative, le scelte per palazzo Ducale confermano e legittimano pienamente la validità e la funzione aulica della lingua tardogotica nella sua accezione veneta. Che la nuova ala sulla Piazzetta correspondeat solemnissimo principio nostri Palacii aveva fatto deliberare Tommaso Mocenigo, come si è detto. Anche l'immagine architettonica della Dominante, dunque, si sarebbe dovuta adeguare al suo sostanziale richiamo alla continuità della tradizione, fattore autentico di stabilità e di grandezza.
Il suo successore, Francesco Foscari (1423-1457), non avrebbe potuto che confermare, dando così prova di fedeltà ai segni codificati della pubblica magnificenza, nonostante la diversità di linea politica. La coerenza di questi si rinnova infatti nel concetto architettonico del nuovo portale cerimoniale, la porta Grande o porta della Carta, per la quale i provveditori al sal stringono contratto il 10 novembre 1438 con Giovanni e Bartolomeo Bon (32).
Alti pilieri la inquadrano e inquadrano il finestrone a traforo, come il balcone del maggior consiglio. Un arco mistilineo le fa da coronamento, riprendendo un motivo che pochi anni innanzi era stato usato in San Marco per l'altare della cappella dei Mascoli voluto dallo stesso doge Foscari. Il doge inginocchiato al cospetto del leone dell'evangelista e della città-stato costituisce il nodo iconografico dell'apparato decorativo scultoreo: che si articola nelle quattro virtù allocate in nicchia - la Temperanza, la Carità, la Fortezza e la Fede - nel busto di san Marco sorretto da uno stuolo angelico e, sopra tutti, in un'altra personificazione della Giustizia, assisa in maestà sul culmine dell'arco, che un tempo si innalzava nel cielo anziché appoggiarsi al muro, tirato su più tardi. La Giustizia, appunto, dal cielo rivolge lo sguardo alla terra, secondo l'immagine del salmo 84. E lo splendore e la ricchezza dell'oro e dell'azzurro oltramarino accostavano il loro simbolismo araldico - sul quale ritorneremo - alla policromia dei marmi.
La porta immette in un androne porticato, una sequenza di sei campate voltate a crociera, sulle cui chiavi sono figurate le immagini dei quattro evangelisti. E questo si conclude nell'arco Foscari, edificato in più tempi fra il 1450 e il 1480, vera e propria macchina trionfale tardogotica, anche se di inusitato senso plastico e di fantasiosa composizione e se, ancora, evocazioni classiche non sono assenti dal repertorio lessicale che vi viene impiegato. L'accesso al palazzo - ma anche fondale alla solenne uscita del doge per le sue periodiche andate in trionfo - che Bartolomeo Bon firma orgogliosamente e con tutta evidenza sull'architrave, l'accesso, si diceva, si raccorda così in termini di funzioni cerimoniali allo spazio antistante la scala maggiore (33).
Il trionfo e i segni di crisi del gotico veneziano si colgono appieno, dunque, nella sequenza di architetture che conformano lo spazio di trapasso dalla Piazza alla corte ducale. Ma, appunto, vi si avverte anche la forza tenace, la resistenza convinta, per quasi metà d'un secolo, di quel parlare gentile delle forme che come nuovo sermo ducalis si è fatto, nel frattempo, e tuttora si va facendo, lingua collettiva dell'autocelebrazione aristocratica.
Il cantiere della Ca' d'Oro, infatti, aperto nel corso degli anni Venti del secolo XV e dei primi del decennio successivo, risulta quasi esattamente contemporaneo ai lavori nuovi di palazzo Ducale; e nonostante l'eccezionalità di alcuni tra i caratteri dell'edificio, in questo sono identificabili gran parte dei codici primari per l'interpretazione dell'architettura civile tardogotica a Venezia (34).
Marino Contarini, il committente della celebre casa da stazio, vi chiama dapprima Matteo Raverti, proveniente dalla fabbrica del duomo di Milano, che raccoglie intorno a sé e dirige l'opera di un numeroso gruppo di aiuti: Antonio Busato, poi presente a Sebenico, Antonio Foscolo, Marco da Segna, Paolo, Frison e Martino, Nicolò degli Angeli detto Romanello, Gasparino Rosso da Milano, Giorgio da Como e gli altri comaschi Pietro dei Frisoni e Antonio da Rigezo. Non molto dopo, a questi affianca la bottega locale di Giovanni Bon (che un tempo almeno lavorava a Santa Sofia, e dunque in contrada) insieme con il figlio Bartolomeo e con due garzoni (1423). Le due botteghe talora s'impegnano insieme nei medesimi lavori, talaltra eseguono separatamente parti dell'opera e tratti del ricchissimo apparato decorativo. Giovanni Bon si obbliga a non impegnarsi in altri lavori mentre è attivo alla Ca' d'Oro; Bartolomeo subisce i rimproveri del committente per aver trascurato le opere pattuite per altre accettate nel frattempo. Il panorama degli apporti e delle responsabilità, dunque, seppur non nebuloso grazie anche alla meticolosa contabilità del Contarini, non è del tutto incontrovertibile; e comunque non è documentabile l'attribuzione al Raverti di un progetto d'insieme della facciata. E la lettura architettonica della Ca' d'Oro risulta relativamente piuttosto complessa.
La casa di Marino Contarini, infatti, anzitutto non sorge su di un terreno non edificato: occupa l'area di una preesistente Ca' Zeno, della quale reimpiega largamente capitelli - al piano terreno - ed elementi decorativi duecenteschi. Adotta un impianto planimetrico diffuso nel '300, ma di tipo non troppo aggiornato, organizzato sull'asse del profondo atrio terreno e sulla corte prospiciente la calle laterale, verso la quale dà la porta di terra. L'andito terreno immette a sua volta in una loggia spaziosa, direttamente aperta sulle acque del Canal Grande, ritmata in cinque arcate, la centrale delle quali - a tutto sesto - è più larga e solenne, come in una dimora duecentesca veneto-bizantina, Ca' Farsetti o Ca' Loredan o, con analogia più stringente, come accade nella vicinissima Ca' da Mosto.
Posta quasi dirimpetto al mercato realtino, la Ca' d'Oro rappresenta così un caso quasi esemplare di casa-fondaco, di casa del grande mercante. Basti riprendere le antiche osservazioni di Francesco Sansovino, stese a centocinquant'anni dalla fine dei lavori del palazzo: talune antiche dimore, egli scrive, "hanno la loggia a pie piano (35) con colonne e con volti, ma però tirate a filo del resto della faccia. Et era ciò fatto dai vecchi, perché conducendo a casa le mercanzie, le scaricavano in loggia, dalle cui bande erano i magazzini per riporle" (36).
Ne consegue anche, pertanto, che il prospetto della Ca' d'Oro, nell'impaginato dei vuoti e dei pieni e nonostante la dissimmetria di questi (che peraltro rimanda a una simmetria d'invenzione, di concetto della facciata), debba andare ascritto al tipo detto della casa con torreselle. Uno schema, questo, che si va codificando appunto fra il secondo '300 e il secolo XV, per mantenere in seguito validità quasi di norma, fino a tutto il '600 almeno.
Il disegno della facciata, partita orizzontalmente con attenta cura e serrata fra colonnine tortili binate e sovrapposte, è affrontato e risolto in una poetica di contrasti: fra il chiaroscuro delle polifore sovrapposte, sulla loggia, e il prevalere del pieno murario della sezione laterale destra; fra la narratività musicale delle balconate e dei trafori e le misurate, proporzionate pause delle pareti marmoree.
Ma, in più, dal palazzo Ducale la Ca' d'Oro riprende l'idea costruttiva del loggiato aperto al piano nobile; e il Raverti lo svolge facendo ricorso, nella trama nervosa e scattante della polifora di questo, alle risorse del lessico di base del gotico fiammeggiante, condotto con sé dal cantiere milanese del duomo, ma di formazione e di tono europei.
Il senso, la funzione, l'essenziale, quanto a modi espressivi, della tradizione, ricercano, pertanto, e ottengono adeguamento, aggiornamento linguistico, associandosi inoltre, come si diceva, alle forme della grandezza pubblica della città-stato.
Ma quella del Contarini è un'impresa architettonica sostenuta, dispiegata, conclamata con tutta l'energia di cui un privato può disporre.
L'impiego di lastre di marmi rari per nobilitare, inquadrandole, le polifore o per rivestire fasce più estese delle superfici murarie, presente in edifici due e trecenteschi come Ca' Loredan e Ca' da Mosto, nei palazzi Priuli-Bon e Soranzo a San Polo, nella residenza dei Priuli sul rio dell'Osmarin o in quella dei Gritti a San Giovanni in Bragora (una forma di qualificazione architettonica che di certo si connette all'esaltazione "costantinopolitana" della fabbrica di San Marco disposta nel secolo XIII), l'impiego di marmi rari, si diceva, si allarga nella dimora del Contarini a tutte le superfici parietali libere del prospetto. Cancellando, così, la materialità delle strutture laterizie, rivestite di quella che già fonti altomedievali definiscono la luce dei marmi pregiati. L'intensità di questa, la sua funzione simbolica, d'altronde, veniva rafforzata e significata dall'apparato delle policromie affidate nel 1431 a Giovanni di Francia, affiancato da Niccolò di Giovanni e da altri ancora. Gli eleganti ornati dell'antica Ca' Zeno rimessi in opera, le cornici finemente modanate, i pennacchi tra gli archi del portico e così via vengono esaltati dai colori dell'oro, dell'azzurro d'oltremare, del rosso, i più nobili tra i metalli e gli smalti araldici; e dall'oro, dall'azzurro e dal nero le decorazioni di coronamento della facciata.
La casa di Marino Contarini, perciò, s'inseriva deliberatamente, e con espressa volontà assertiva, nella serie delle architetture auree, come potremmo chiamarle, del '400 veneziano: quella che comprende la gran finestra indorada del maggior consiglio in palazzo Ducale e, qui ancora, la porta aurea che è un altro nome della porta della Carta; cui va aggiunta l'aurea basilica marciana, ma anche quell'arca aurea che è allora il fondaco dei Tedeschi, in rimaneggiamento intorno al 1423 (37). L'oro della casa di Marino Contarini, come l'oro delle fabbriche pubbliche, non è del resto soltanto sfoggio abbagliante di ricchezza. Insieme con la policromia parla di certo il linguaggio degli emblemi, costituisce allusione ai miti celebrativi della città e della sua immagine.
Certo alla signoria dell'oro che Tommaso Mocenigo prospetta come meta alla sua città, purché mantenga pace ed equità. Certo all'incorruttibilità e alla perpetuità di quella. Nella città della Giustizia, appunto, è l'oro purissimo che riveste il tempio di Salomone, è la materia trasfigurata che nel giorno del giudizio reggerà alla prova del fuoco (38). È la materia costruttiva della città celeste nella visione dell'Apocalisse, prefigurata dalla città di Marco. L'oro manifesta la solarità della Dominante: non va dimenticato come, nello stesso '400, la silloge epigrafica del Marcanova raffiguri la grandezza di Venezia Regina Orbis in forma di sole risplendente e di corona (39).
In questa chiave, anzi, assume significato anche la merlatura del coronamento: che sicuramente non ignora né i non pochi precedenti, né l'esempio del palazzo, ma va interpretata anche ricordando come sia segno di eccelsa nobiltà d'un sito quando compare a coronare le mura del paradisiaco hortus conclusus dove sta la Vergine in trono nel trittico di Antonio Vivarini e Giovanni d'Alemagna ora all'Accademia.
L'esuberanza decorativa, la risplendente ricercatezza della Ca' d'Oro, pertanto, non va considerata come caso isolato, né come episodio estremo, anche se più evidente di altri, nel '400 veneziano. Appare tra i capostipiti più immediati e significativi, piuttosto, d'una tendenza di fondo che, reinterpretata e ulteriormente legittimata in chiave umanistica, come si vedrà, sarà strumento determinante delle poetiche del primo Rinascimento veneziano. Precede e anzi precorre la Venezia di Marc'Antonio Sabellico, quella in cui "niuna nuova casa si vede che non abbia dorate stanze", in cui poco manca "che non si coprissero d'oro le case, se alla lussuria non provvedevano le leggi" (40).
Al di là del clamoroso episodio, il '400 vede concorrere processi di codificazione e di stabilizzazione, ma anche di rinnovamento nella struttura e nei codici linguistici dell'architettura civile tardogotica di committenza privata (41).
I decenni che immediatamente precedono la metà del secolo, in parte coincidono con un'ultima fase di rielaborazione della casa-fondaco, in parte con le prime manifestazioni dell'abbandono di alcuni fra i suoi caratteri più antichi.
Certamente, in quest'arco di tempo si assiste all'adozione diffusa, pressoché sistematica, di un impianto distributivo che prevede l'inserimento di una corte chiusa su tre dei suoi lati entro l'organismo edilizio della residenza (pianta cosiddetta a C), in posizione tangente al portego. Così che gli ambienti della casa ne risultano meglio illuminati e, quanto alla corte stessa, ne viene ribadito e rafforzato il ruolo di perno della vita domestica e dei suoi meccanismi quotidiani. A questa accentuazione del rapporto tra abitazione e luce non dovettero risultare estranee considerazioni relative alla sanità dei luoghi, che il '500 documenta pienamente quando, a proposito dei pozzi posti al centro delle corti, in piena luce e all'aria aperta, sottolinea la funzione purificatrice dei raggi solari: "ogni luogo commodo ha cortile col pozzo in mezzo scoperto, perché l'acque dolci si fanno più perfette all'aria che al buio, attento che il sole le purga e s'esala perciò da loro ogni difetto" (42).
Del resto, indipendentemente da questi e da altri aspetti strettamente funzionali, l'importanza della corte nel palazzo tardogotico veneziano è sottolineata sovente dalla corrispondente importanza architettonica attribuita alla scala esterna, che si traduce in una serie di episodi monumentali di notevole interesse, dal caso della stessa Ca' d'Oro - che sulla corte si affaccia con un vero e proprio secondo prospetto, di tono minore rispetto a quello d'acqua, ma di forme dignitose e arricchito per giunta dalle tradizionali formelle veneto-bizantine - a quello di palazzo Venier-Sanudo-van Axel ai Miracoli, a Ca' Capello a San Giovanni in Laterano, a Ca' Centani a San Tomà, a Ca' Priuli a San Severo, a Ca' Grifalconi in calle della Testa ai Santi Giovanni e Paolo, la cui balaustra è ornata da fioroni tardogotici alternati a teste di figure "all'antica", come rivelano le corone di lauro che cingono tre di esse, ad altre ancora.
Il significato attribuito alla corte nel palazzo quattrocentesco è rafforzato, poi, dal notevole livello artistico dei puteali che vi vengono collocati, in pietra d'Istria per lo più o in marmo di Verona, di esuberante ricchezza e di grande forza plastica, come la vera da pozzo di Bartolomeo Bon alla Ca' d'Oro e numerose altre in residenze patrizie, dove ricche volute di fogliami, protomi leonine o volti allegorici accompagnano gli emblemi araldici (43).
Tutto ciò è ancora ribadito dall'architettura dei portali da terra, non di rado appariscente e preziosa di marmi policromi secondo la tradizione antica (palazzo Venier-Sanudo-van Axel, 1473-1479, con tracce dell'antica fabbrica veneto-bizantina dei Gradenigo che vi preesisteva), talora inseriti in nobili mura di cinta merlate, altro elemento che la cultura architettonica tardogotica del '400 conferma e diffonde: si vedano a questo proposito i merli in cotto con nicchie a conchiglia di palazzo Amadi ai Miracoli, o quelli, pure in cotto, decorati a tondi quadrilobati di palazzo Contarini a San Canciano. Ancora sul piano dei rapporti tra requisiti funzionali della casa da stazio del nobile mercante e sua organizzazione degli ambienti va pure segnalato come sia l'ultima architettura gotica a fissare e diffondere largamente l'uso di mezadi, di ammezzati, cioè, destinati spesso a tenervi amministrazione, ad archiviare scritture contabili, a custodire mercanzie di pregio e di qualità (volte da mercanzia). Il processo di definizione tipologica della casa da stazio tardogotica del '400 veneziano, d'altronde, comporta ulteriori conseguenze rilevanti: ne risulta fissato e codificato anche uno schema di prospetto destinato a fortuna e persistenza secolari, fondato sulla precisa corrispondenza tra assetto distributivo interno e impaginato della facciata, secondo tendenze già da tempo affiorate. In questa, che comunque viene deputata a sede di rappresentazione architettonica della condizione e delle aspirazioni sociali della committenza, il portego, il grande salone che ordina la vita interna della casa, si dichiara all'esterno mediante una solenne polifora, mentre le monofore laterali, distanziate, corrispondono alla doppia serie di vani che si allineano ai due lati del primo. Si manifesta la completa affermazione della tripartizione della facciata della casa da stazio, e insieme si verifica la riconferma di quel prevalervi dei vuoti sui pieni, delle aperture sulle superfici murarie, che Sebastiano Serlio coglierà come tratto specifico e caratterizzante dell'architettura del palazzo veneziano.
Anzi, ora fa la sua comparsa la bifora angolare: a palazzo Priuli a San Severo, a palazzo Gritti alla Bragora, a Ca' Mastelli alla Madonna dell'Orto, a palazzo Zacco sul rio di Santa Marina. Un elemento diffuso anche nell'Istria veneta e accolto infine da un certo numero di palazzetti veneziani.
Proprio questa fase di precisazione stabilisce rigorosamente ed entro certi termini definitivamente quei caratteri generali della casa veneziana che Francesco Sansovino saprà presentare con efficace sintesi e con quella proprietà di lettura che gli ebbe a derivare certo dalle conversazioni paterne: "le sale si facevano dagli antichi in crocciola (44), cioè in forma di T, con bruttezza della fabrica. Ma regolatosi questo costume, si fanno diritte dall'una all'altra facciata dell'abitazione e i fori delle finestre corrispondono insieme. Il medesimo avviene delle porte e delle finestre delle camere per fianco, di maniera che, essendo ogni foro proporzionato, l'occhio, oltre alla bella veduta, corre per tutto liberamente e i luoghi sono chiarissimi e pieni di sole" (45).
Non può sorprendere, pertanto, che a un momento siffatto, di ricerca e di precisazione, corrisponda anche l'adozione di un adeguato repertorio di forme architettoniche.
Proprio lo schema delle finestrate viene assunto a strumento primario di codificazione linguistica.
Poco prima della metà del '400, infatti, per le facciate delle grandi case da stazio - prevalentemente ma non esclusivamente nobiliari - si diffonde con rapidità l'elegante disegno delle polifore sormontate da trafori quadrilobi, in un certo numero di varianti, talora sovrapposte (e in questo caso una di esse, quella del primo piano nobile, può presentarsi più curata e adorna), che si accompagna a importanti interventi di nuova edificazione, ma talora ha anche lo scopo di attuare un adeguamento formale di architetture più antiche (si veda ad esempio il caso di inserimento di una polifora di questo tipo nella facciata di palazzo Sagredo a Santa Sofia).
Intorno alla metà del secolo, è questa la soluzione adottata da un gruppo cospicuo di palazzi, tra i quali il Dandolo sulla riva degli Schiavoni, il Corner Contarini dai Cavalli presso Rialto, il Contarini Corfù, il palazzo Erizzo in contrada di Santa Maria Maddalena, il Loredan dell'Ambasciatore, il Morosini Brandolin, il Pisani Moretta, come anche da Ca' Giustinian a San Barnaba e dalla contigua Ca' Foscari, tutte residenze patrizie. Ma alla stessa si ispira, in versione vernacola, anche la cittadinesca Ca' Mastelli del Cammello, poco lontana dalla Scuola dei Mercanti alla Madonna dell'Orto, che attraverso il singolare bassorilievo che le dà il nome, raffigurante appunto un dromedario e il suo cammelliere, celebra le sorti della mercatura veneta in Levante. Le polifore a trafori quadrilobi delle quali parliamo trovano precedente immediato nella loggia del primo piano nobile della Ca' d'Oro, seguita da vicino da Ca' Barbaro a Santo Stefano; ma con questa e in buona misura attraverso questa, l'intero gruppo si apparenta visibilmente e consapevolmente con la fabbrica di palazzo Ducale. Nella Venezia tardogotica, dunque, la committenza privata elabora un eloquente aggiornamento della propria immagine. Nell'insieme, si assiste alla formazione di una sorta di collettiva metafora architettonica della coerenza e della corrispondenza tra fortune private e pubblica grandezza, sensibile alle sottili eleganze internazionali dell'autunno fiorito della stagione gotica, mediante la quale la committenza privata aristocratica si associa alla dimensione trionfale della Serenissima.
Del resto, a esaminarne gli episodi salienti, vengono alla luce altre tendenze complementari, delle quali va tenuto conto per poter definire i tratti d'insieme della cultura architettonica dei decenni gotici del '400.
Talune dissimmetrie di palazzo Bernardo a San Polo, ad esempio, uno dei più antichi ascrivibili al gruppo di cui stiamo parlando, molto probabilmente vanno ricondotte al condizionamento di quanto preesisteva sul sito piuttosto che allo scarso interesse portato a questioni di tal genere da parte di un architetto tutto preso dalla decorazione. Poiché infatti in tutt'altra direzione mostrano di procedere allora i grandi costruttori di importanti case da stazio. È molto attenta la cura con cui viene impaginata la facciata di palazzo Loredan dell'Ambasciatore a San Barnaba, partita in orizzontale da due forti modanature a cordone e serrata agli angoli da conci angolari in pietra d'Istria e da sottili colonnine tortili. Rigorosamente simmetrica, d'altronde, come accade anche in palazzo Pisani Moretta, dove lo studio delle possibilità di variazione negli schemi delle polifore che impegna il proto cui spetta il progetto si manifesta nella trama elegante e nuova delle semicirconferenze intersecate con le quali viene delineata la finestrata superiore. Considerazioni piuttosto simili possono essere formulate a proposito del doppio palazzo dei Giustinian a San Barnaba - significativamente soprannominati Buelle d'oro, vale a dire "budella d'oro" - che tra l'altro si arricchisce di due ampi finestroni a trafori collocati in posizione centrale, con motivi quadrilobati e archetti pensili che richiamano la porta della Carta.
Ma a raccogliere ed esprimere in una sintesi perentoria e autorevole tutto questo è la gran mole di Ca' Foscari, aulica dimora di un doge fautore di aspirazioni imperiali.
Nel 1452 Francesco Foscari acquistava un edificio trecentesco turrito e merlato e lo demoliva per spostare la casa dominicale "dal loco dove ora è la corte, al canton del rio sopra Canal Grande che va a San Pantalon, ove ora si vede, lasciando il cortile di dietro ove prima era essa casa", come narra il Priuli (46).
Nasceva così un edificio di straordinaria importanza, notevole per il rigore compositivo della sua configurazione e per la trasparente volontà di porsi come modello codificatore dell'architettura tardogotica veneziana in un sito chiave per la costruzione dell'immagine urbana della Serenissima quale la "Volta de Canal" nel quale lo si costruì, come coglierà assai bene il Sansovino - "perciocché posto sul cantonale del rio di San Pantalone scuopre, nello svolger del Canal Grande, dalla sinistra fino a Rialto, dalla destra fino alla Carità non molto lontana da San Marco, di maniera che per questo conto è singolare" - e come proverà più avanti nel tempo la pittura dei vedutisti (47).
Ca' Foscari, dunque, poggia su di un alto basamento di pietra d'Istria che emerge dalle acque del Canal Grande, dal prospetto saldamente serrato fra i forti spigoli a conci lapidei e colonnine d'angolo e un cornicione molto aggettante, ritmato da marcapiani e aperto nella sua sezione centrale da due ottafore e una quadrifora a trafori sovrapposte.
Pur non negando la lingua della tradizione - il raccordo con la Ca' d'Oro per vari aspetti è evidente, come lo è anche la volontà di sostituirla come metro e modello di civile magnificenza - Ca' Foscari ne propone dunque una versione aggiornata, ma al contempo di maggior forza e di maggior severità. Non va dimenticato che tutto ciò avveniva dopo la metà del '400. Dopo cioè che Michelozzo era già passato in città e vi aveva lasciato la libreria del monastero di San Giorgio Maggiore. La casa "che fu del Serenissimo Principe nostro [...> di grandissimo precio" (48) e che, del resto, è la dimora che edifica a se stesso un doge costruttore (il doge della loggia Foscara, dell'arco Foscari, della cappella dei Mascoli) rappresenta un solido punto di riferimento per la cultura veneziana del tempo, non soltanto fissando i codici formali della nuova magnificenza, ma assicurandone, attraverso la propria convalida, la continuità e la vitalità. Il solenne palazzo del Foscari, insomma, mostra di voler sottolineare l'orgogliosa autonomia della situazione veneziana, insieme con l'originalità e la coerenza delle scelte operate da questa. Si è accennato al deliberato spostamento della nuova fabbrica, rispetto alla preesistente, verso la sponda del Canale. L'ultima età gotica, infatti, in Venezia è età del costituirsi in continuità formale e di ritmo del tessuto edilizio della città. In primo luogo appunto sul Canal Grande, dove le case "è molto appresiate e valeno più delle altre" (49).
È così che, passata la metà del '400, il Canale entra fra le componenti principali delle celebrazioni encomiastiche della città. "La rue la mieux maisonnée qui soit en tout le monde" lo ricorda Philippe de Commynes, in perfetto accordo con la definizione che il senato della Serenissima ne dà in questo stesso torno di tempo: "la principal bellezza che abia questa nostra cità" (50). Del resto, proprio allora Marco Cornaro ricorda le intense attività nei cantieri aperti lungo le sue rive, i "molti che fabrica sora dicto canal", gli sforzi tecnici e le ingentissime spese. Come ricorda pure, con una punta polemica, i danni ai fondali delle grandi imprese architettoniche, come appunto quella della "felice memoria de miser Francesco Foscari, che lavorò i fondamenti de la sua caxa in pie 7 de aqua [...> e cusì miser Marco Corner el Cavalier, che serò l'aqua per fabricar" (51).
La polemica non è infondata: la questione è quella dell'interramento dei suoi fondali, delle difficoltà di circolazione dell'acqua. Si cercano soluzioni decidendo interventi di escavo, anche con l'impiego di quattro grandi meccanismi su chiatta costruiti nel 1469 sul modello di un precedente progettato da maestro Antonio, un inzegnario francese (52). Già nel 1462 si delibera una serie di limitazioni alle attività marittime e ad altre attività di lavoro lungo il Canale. I tagliapietra dovranno lavorare ad almeno 4 passi dagli approdi di carico e scarico e così via. Lo Stato, i proprietari di case sul Canale, le contrade che vi si affacciano, le barche e i burchi da trasporto sono tassati "per la cavazion del Canal Grando" (53).
Rue, strada, sia pur la principale della città: in qualche modo si preannuncia il declino delle funzioni marittime dell'antico canale portuale. Molto significativamente, Ca' Foscari, insieme con altri edifici contemporanei, mostra un notevole elemento di diversità rispetto alla Ca' d'Oro anteriore di circa trent'anni: il suo pianterreno non si apre verso il Canale con un portico a filo delle onde. La metà del '400, ancora tardogotica, nonostante molti evidenti richiami alla tradizione porta la pressoché definitiva scomparsa di una delle principali caratteristiche della casa-fondaco veneziana.
E proprio mentre Ca' Foscari si dava come elemento costitutivo del tessuto continuo delle residenze nobiliari sul Canal Grande, operava al tempo stesso la prima aperta violazione nei confronti di questo, la prima dismisura che nel pieno Rinascimento sarà indicata come legittimazione di ogni altra seguente, da Ca' Loredan del Codussi a Ca' Dolfin e Ca' Corner del Sansovino a Ca' Grimani del Sanmicheli: "tutti questi" anzi, e ogni altro contemporaneo "trapassa per sito e per grandezza di machina". Nell'apparente stabilità delle forme celebrative, dunque, mutamenti palesi e profondi (54). Dopo Ca' Foscari, d'altronde, il cammino della cultura architettonica veneziana si biforca e anzi, meglio, si dirama. Mentre si dà regole (tardo-gotiche) e le segue per oltre due decenni dopo la metà del secolo, si confronta con nuove incertezze e, insieme, non resta inerte a osservare quanto accade all'esterno.
Nello stesso palazzo in volta de Canal, la fascia in bassorilievo che corona la polifora del secondo piano mostra ispirazione all'Antico nei putti reggistemma. Uno dei percorsi aperti poco dopo la metà del '400, infatti, è quello che si è soliti chiamare "di transizione", come tentativo di innestare nello specifico linguaggio messo a punto nei grandi cantieri contemporanei una versione cortese, potremmo dire, e libera della ricerca dell'antichità, vista come territorio dell'immaginario poetico dai confini imprecisabili.
In quest'area vanno collocate opere come l'arco Foscari in palazzo Ducale (cui si attende fino al dogado di Cristoforo Moro, 1462-1471), certo inteso come evocazione trionfale, ma appunto esito di una cultura composita e inventiva, osservatrice attenta anche delle forme e degli ornati della basilica ducale di San Marco. Di transizione è anche il nobile, elegantissimo portale dei Santi Giovanni e Paolo, dai fini girali di fogliami che corrono sul fregio e dalle colonne binate di marmo greco acquistate a Torcello: lavoro che si data tra il 1459 e il 1460 (55). Leggiadre ghirlande classicheggianti racchiudono gli emblemi gentilizi del portale vecchio dei forni di San Biagio, presso l'Arsenale, un'opera significativamente di committenza pubblica e peraltro di disegno tardogotico, affiancata da merlature ornate da tondi quadrilobi: un intervento realizzato non prima del 1473, per giunta direttamente prospiciente la riva (56).
Contemporaneamente, un numero considerevole di nobili committenti continua a edificare per sé case dominicali dai prospetti inequivocabilmente e fedelmente tardogotici nel lessico architettonico, dalla rigorosa, nitida distribuzione e dall'adeguato, curatissimo apparato decorativo plastico. Come data va posta tra queste, probabilmente, la cosiddetta casa di Desdemona - il palazzetto Contarini Fasan sul Canal Grande - che ai primi del '500 appartiene a Tommaso Contarini, figlio di Zorzi il cavaliere, conte del Zaffo (57), il cui prospetto equilibratissimo nelle simmetrie e nelle proporzioni è impreziosito dalle balaustre con trafori a ruote giranti, esempio raffinato di un'accezione decorativistica del tardogotico veneziano che si appropria di motivi nord-occidentali mediandoli forse ancora dal grande cantiere milanese dell'opera del duomo. Ma il quadro, appunto, è vivace, vitale, intenso: e in questi stessi anni, come si vedrà, in taluni ambienti del patriziato fortemente attratti dalla cultura umanistica la discussione sui veri caratteri delle magnificenze dell'Antico si è già aperto.
Come si è accennato, è possibile datare con sufficiente precisione i primi importanti dibattiti veneziani sull'architettura dell'antichità classica a un momento anteriore al 1454, poiché ne dà conto Flavio Biondo nel proemio al libro IX della sua Roma trionfante ricordando come proprio diretto interlocutore il grande Francesco Barbaro "mio perfettissimo amico circa trent'anni", scomparso appunto nell'anno appena citato. Nel corso di lunghe disquisizioni sull'ordinamento di Roma repubblicana "durò molti giorni il questioneggiare sopra questa materia degli edifici" testimonia l'umanista, aggiungendo come il nobile amico fosse "molto inclinato a le opinione de gli altri dotti di questa età, ma in questa parte imperiti": vale a dire come l'interesse al tema "di che gareggiavamo" non doveva essere né casuale né occasionale e come, al tempo stesso, anche in Venezia sollecitasse già studio e ricerca (58).
Tanto che il Biondo, amico come si sa anche di Leon Battista Alberti, s'impegnò allora con il Barbaro a riesaminarlo e a trattarlo a fondo. Cosa che appunto fece poi nell'opera ricordata poco sopra e certo senza perdere i contatti, dopo la morte del Barbaro, con le cerchie dei nobili umanisti veneziani, tra i quali Lodovico Foscarini e Candian Bollani dei quali ci si dovrà occupare proprio in rapporto ai più precoci interventi architettonici del primo Rinascimento della Serenissima (59).
Dal resoconto dei conversari tra il Barbaro e il Biondo è possibile ricavare alcune delle idee fondamentali allora circolanti sull'architettura antica. Le sue dimensioni sono una grandezza, una magnificenza, una splendidezza cui non può compararsi alcuna delle grandi città dell'Italia quattrocentesca. Non Roma, non Venezia, né Firenze, né Milano, né, via via, Napoli o Siena o Bologna (significativa gerarchia di esposizione) dove nessun cittadino, sia pure il primo, può eguagliare nell'apparato della sua dimora uno soltanto dei ventimila cittadini dell'antica Roma.
Se una Rinascenza, dunque, si doveva operare, era evidente come questa non potesse essere che trionfante come Roma stessa, di straordinaria ricchezza, di inusitato splendore, di rara preziosità: convinzioni che, in prosecuzione delle attitudini della committenza tardogotica, non mancheranno di incidere concretamente nel rinnovamento architettonico veneziano del secondo '400.
È assai importante osservare, peraltro, come la congiuntura di tempi nella quale siffatti dibattiti e siffatte ricostruzioni vanno collocate risulti particolarmente significativa. L'elogio funebre di Francesco Foscari, scritto da Bernardo Giustinian nel 1457, formula ed esalta in termini di retorica classica l'idea imperiale veneziana in via di affermazione: una Venezia che eguaglia e supera Atene nell'impero marittimo, Lacedemone in quello terrestre, Roma negli ordinamenti repubblicani (60). E il 9 maggio 1462, appunto, il titolo medievale di Comune di Venezia viene sostituito da quello di Dominio.
Ma la Serenissima, ancora in questo torno di tempo, si accinge a riscrivere la propria storia, a rielaborare il proprio rapporto con il passato e con il mondo antico. Del 1459-1460 è infatti il progetto di promuovere una storiografia ufficiale della Repubblica, esemplata sui modelli greco-romani: progetto che vede coinvolto proprio Flavio Biondo del quale ci restano alcune pagine scritte a tale scopo.
Al 1460, ancora, risale l'istituzione della seconda cattedra di studia humanitatis (in arte oratoria e, molto significativamente, in storia) presso la Scuola della cancelleria di San Marco (61).
Sullo scorcio del primo decennio successivo alla metà del secolo XV si delinea dunque la precisa intenzione di costituire il nuovo quadro culturale della moderata e santa repubblica, proprio quando si opera, in buona parte attraverso le stesse persone, alla ricostruzione concreta dell'immagine di quella Roma della quale Venezia sempre più apertamente e con sempre maggior convinzione si dichiara erede ultima e legittima.
"Vincat [...> concordia ordinum Romanos" aveva auspicato per le sorti della Serenissima il Giustinian nel 1457, s'è detto.
È di particolare importanza che la celebrazione ufficiale della concordia reipublicae rinnovata dopo la deposizione di Francesco Foscari attraverso una figura politica di mediazione e di equilibrio quale quella del suo successore Pasquale Malipiero (1457-1462) avvenga mediante il ricorso al nuovo linguaggio figurativo "all'antica": è del tutto "romano" il medaglione realizzato per il nuovo doge da Marco Guidizzani, mentre solo marginale alla nuova cultura era stato il conio analogo disegnato per Francesco Foscari forse da Antonio Gambello.
Suggerita probabilmente da Pietro Barbo, l'iconografia del medaglione del Malipiero celebrante la Concordia Augusta si ispirava alla monetazione di Marco Aurelio e di Lucio Vero (62).
Poiché al dogado del Malipiero va ricondotta la prima architettura compiutamente rinascimentale della Venezia quattrocentesca, i termini cronologici della svolta, del prendere avvio di un nuovo itinerario della cultura architettonica veneta alla ricerca dell'Antico risultano stabiliti.
L'interpretazione grafica dei dialoghi tra il Barbaro, il Biondo e le loro cerchie e la riprova dell'allargamento dei temi di un dibattito che appare serrato, trovano luogo principalmente nei taccuini di Jacopo Bellini. Qui di certo l'evocazione classica si manifesta con intensità corrispondente a quella del fascino esercitato sulla cultura veneta contemporanea e architettonicamente assume per l'appunto le dimensioni trionfali del grande arco romano dalle colonne binate, dalle vittorie alate e dai putti tedofori.
D'altro canto, strutture e forme tardogotiche coesistono nelle costruzioni fantastiche di luoghi urbani immaginate da Jacopo con quella che appare in molti casi una loro ritrascrizione in un insicuro procedere per ipotesi verso idee di nuova architettura.
Sono quanto mai interessanti, a questo proposito, due tipi specifici di soluzioni architettoniche: quello in cui lo schema dominante dei prospetti delle case nobiliari della metà del secolo - la polifora a trafori quadrilobi, per l'appunto - viene ridisegnato aggiornando gli archi ogivali in archi a tutto sesto e quelli, ancora, dove la bifora d'angolo, sicuramente interessante per il pittore veneziano, viene sottoposta al medesimo trattamento. Ciò che in realtà accadrà effettivamente anche in vari esempi di architettura costruita.
Un ulteriore, ragguardevole elemento di novità è presente infine nei taccuini belliniani: poiché luoghi della città e architetture vi sono immaginati e restituiti con forte attrazione per la loro rappresentazione prospettica, che si accompagna con un crescente e documentato interesse per gli spazi urbani, per la loro conformazione (63).
L'itinerario verso il protorinascimento non si alimenta comunque solo di cultura letteraria e di interpretazioni grafiche, ma anche della frequentazione diretta di siti classici nel Levante mediterraneo, in parte si fonda sulla ricognizione dell'Antico in Venezia stessa e nel suo Stato da terra e viene sostenuto, infine, dal collezionismo antiquario che a tutto questo si correla (64).
Ciò che caratterizza l'umanesimo veneziano e in parte sembra orientarlo specificamente, infatti, è il viaggio di Levante: di diplomazia, di mercatura, di guerra, certo. Ma con lo sguardo e con l'intelletto pronti a riscoprire il paesaggio spirituale della poesia classica, il quadro dei grandi eventi la cui memoria è stata assicurata dalla storiografia greco-romana, a identificarne i singoli siti e a riscoprirne le tracce visibili forse più di quanto fino ad ora non sia stato ammesso; e non soltanto entro i ristretti circoli degli eruditi.
A Venezia, signora di molte delle terre di Grecia, Vettor Fausto, pubblico professore di greco alla Scuola di San Marco, rivendicherà nel 1519 il ruolo di depositaria della sapienza dell'Ellade e di emulatrice di Atene nella produzione e nella diffusione artistica.
In effetti, proprio lo Stato da mar, e assai precocemente, già prima della caduta di Costantinopoli, è territorio del ritorno intellettuale all'Antico. L'anonimo veneto che lascia il resoconto in lingua latina d'un viaggio fino al Mar Nero effettuato fra 1404 e 1407 è certamente tra i primi a rileggere il Mediterraneo orientale, le isole Ionie e l'Egeo attraverso la chiave mitica dell'Eneide virgiliana: "ci si mostrano i colli della Grecia un tempo ricolma di bellezza e percorriamo le onde del mare Ionio" egli scrive con emozione, ritrovando i luoghi toccati dal pio Enea (e sottolinea: "hec loca possidet ducale dominium") e l'isola di Ulisse, Leucade e Samo, Nerinto e Zacinto, la peloponnesiaca Misistra che era stata di Menelao, riconosce Lemnos in Stelimene e Lesbo nel "moderno [...> Metilina" e molti altri luoghi della cultura classica. Cita di già il tempio ritenuto di Venere a Cerigo (Kythera), i cui resti sono allora ben visibili, le rovine di Tenedo e soprattutto le testimonianze della grandezza della Teucria, l'omerica regione della Troade. Si aggira per quelli che allora sono creduti gli edifici in rovina della città di Priamo "dove appaiono vestigia di mura smisurate, dove si vede gran parte della sala regale, non ancora distrutta fino ai fondamenti. Vi si trovano ancora, infatti, travi marmoree e vi stanno mirabili figure scolpite" (65). La campagna navale condotta nel 1472 da Pietro Mocenigo che poco dopo sarà doge - colui per il quale Pietro Lombardo realizzerà l'aulico monumento funerario classicheggiante sulla controfacciata dei Santi Giovanni e Paolo - porta, con la presa di Smirne, a quelle che sono ritenute scoperte di tale importanza da venire registrate accuratamente negli annali di Domenico Malipiero.
Quella della tomba di Omero, anzitutto: "fo trovano in questo luogo, tra le altre notabelle antichità la sepoltura d'Homero e la so statua in bellissima forma". E quella dei monumenti, delle bianche rovine di Delo e del suo tempio di Apollo: "se vede molti vestigi del tempio e del anfiteatro, i quali è de marmo bianchissimo e finissimo; alcune colonne bellissime e gran numero de statue de marmo antichissimo e un colosso de 15 cubiti" (66). La conoscenza diretta dunque s'incontra, nella cultura veneta del '400, con l'immaginazione, con il parallelo poetico. Com'è appunto quello di Mario Filelfo, amico tra l'altro di Gentile Bellini, che in Sirmione e nelle sue rovine - "et fuvi già 'l palazo, el Capitoglio" - vede una felice similitudine con l'isola elladica: "pare il prisco Delo cum li hedificij et sopra et sotto terra" (67).
Su questa linea vanno collocate fino ai primi decenni del '500 le ricognizioni di Veneti ai monumenti di Costantinopoli, sulle quali sarebbe lungo insistere, le visite al colle di Micene poco lungi da Napoli di Romània (Navplio), ancora a Kythera e al supposto sito di Troia da parte dei nobili da Ca' Zen e di altri che ancora visitano Alessandria, raggiungono l'Africa settentrionale e compiono ricognizioni attente al sito di Cartagine (68).
In questo contesto, in una siffatta rete di itinerari verso l'Antico, vanno situati non soltanto la formazione del collezionismo veneziano (e in questo ha primissimo piano per il nostro assunto la raccolta antiquaria dei Bellini, i loro "laboreria de zessio, de marmore o de releviis" (69)), ma già l'intento evocativo e restitutivo quattrocentesco di Nicolò Corner attestato dal fiorentino Buondelmonti.
Questi, in una sua possessione nell'isola di Creta, nel sito ston Platano non lontano da Thrapsano, dove ancora persiste il toponimo di Pigadi ton Kornaron, sistema un giardino all'antica, "un viridario simile a un paradiso [che> adornò e fece edificare di sculture marmoree antichissime. Dalla bocca di marmo di un uomo sgorga una viva fonte. A destra e a sinistra gli avi posero un busto di Marc'Antonio e uno di Pompeo. Laggiù vidi bei marmi trasportati da altri edifici", verosimilmente dalle vicine rovine del sito urbano di Lyktos che ai Corner appartenevano (70).
Non è un caso, pertanto, che Raffaello Zovenzoni, che tra l'altro conosce le collezioni dei Bellini e ne ammira un'antica statua di Venere, possa comporre un'epenodia in lode del doge Andrea Vendramin (1476-1478) dove ellenizza Venezia, potremmo dire, descrivendo la basilica ducale "rilucente di marmo pario" e dicendola ricolma d'opere d'arte pari a quelle di Scopas, del grande Zeusis, dell'antico Policleto: si tratta d'una versione dell'Antico che in qualche modo gli è nota, così com'è nota non solo letterariamente a un buon numero di patrizi ancora attivi lungo le rotte mediterranee, come Giovanni Dolfin che a Candia, a bordo della sua galera, mostra a Ciriaco un intaglio con ritratto creduto di Alessandro il Grande (71).
Del resto, un tipo piuttosto frequente di capitello ionico veneziano del primo Rinascimento presenta affinità notevoli con analoghi costantinopolitani provenienti dall'area dei palazzi imperiali (dove sappiamo che i Veneti acquistano antichità), mentre altri, corinzi figurati, possono risultare imparentati con alcuni capitelli dell'agorà di Corinto (72). Ma, soprattutto, da questo versante della cultura veneta del primo Rinascimento, e attraverso canali ben identificabili, derivano senz'altro la ricostruzione di un'architettura greca dalle cento colonne proposta da Sebastiano Serlio e la viva intuizione del primato architettonico dell'Ellade, formulata con forza e passione nel terzo libro del suo trattato.
Non sono soltanto questi, tuttavia, i luoghi della Serenissima dove fra il secondo '400 e i primi del secolo successivo sono visibili, si ricercano e si ritrovano i segni del passato classico o di ciò che tale si ritiene.
Sono evidenti e celebri il ruolo delle antichità veronesi, la laus tributata alla città-chiave della Terraferma a vetustate aedificiorum, quanto il formarvisi precoce d'una cultura de re aedificatoria di ideale matrice vitruviana (73). Assai rilevante per la storia dell'architettura veneziana, come si vedrà, è peraltro quello delle antichità di Pola, già ricordate dallo scritto del primo '400 che abbiamo citato più volte in precedenza, come, nella seconda metà del secolo, da Marin Sanudo, che nell'Itinerarium cum syndicis Terrae firmae del 1483 narra non soltanto dell'anfiteatro, ma anche delle muraglie "di uno palazo anticho belissimo et a descriver molto degno", esplicitamente ammirato per la sapienza costruttiva: "cossa excelente et di gran inzegno forono chi l'edificoe". Senza tralasciare la porta rata della quale, come numerosi altri, trascrive le iscrizioni.
Porta rata, l'arco dei Sergi di Pola - l'"urbs antiqua Polae regalis filia Romae" -, d'altra parte, non soltanto è nota a Ciriaco d'Ancona, a Felice Feliciano, a Giovanni Marcanova, ma risulta tra i monumenti più volte studiati e disegnati nel Rinascimento, da fra Giocondo, dal Falconetto, dal Serlio, dal Palladio, da Giovanni Battista e da Bastiano da Sangallo. Certo anche in rapporto con l'intenso sfruttamento delle cave di pietra istriana che il Rinascimento architettonico veneto comporta (74). Ma nell'elaborazione di una cultura architettonica veneta di età protorinascimentale svolgono sicuramente un ruolo di rilievo due altri grandi centri dell'antichità, Aquileia, che dal 1420 entra a far parte stabilmente dello Stato da terra della Repubblica di San Marco, e Ravenna che gli appartiene per tutto il secondo '400. Anche di Aquileia sono ben visibili nel '400 "vestigie di le mure tute rote", tratti di acquedotto, "epitaphij antichissimi". E dall'agro aquileiese continuano ad affiorare segni e prove delle antiche grandezze: "innumerabilia [...> reperta passim effodiantur", innumerevoli ritrovamenti vedono la luce qua e là con lo scavo, testimonia sul primo '500 Giovanni Candido. Tra questi in particolare marmorea pavimenta et emblemata vermiculata, vale a dire pavimentazioni in opus sectile di marmi preziosi e tondi figurati di mosaico finissimo che senza dubbio alcuno, in accordo con importanti passi della tradizione cronachistica medievale veneziana, suggeriscono all'evocazione umanistica del passato in che cosa consistessero le magnificenze della madre della Venetia. Osservazioni che dovettero svolgere un ruolo niente affatto secondario se si tiene conto che proprio nel 1451 la traslazione della sede patriarcale gradense a Venezia fa di quest'ultima, a tutti gli effetti, Nova Aquileia.
Sono assai rilevanti, del resto, la ricostruzione che Giovanni Candido delinea del volto urbano di Aquileia e il significato che quegli vi attribuisce: "[città> ingranditasi tanto da essere chiamata seconda Roma, frequentata in seguito dai Cesari quasi come un luogo suburbano, dal teatro magnificentissimo, dai vasti spazi, dai bellissimi fori, dai numerosi templi di eccelsa grandezza, dalle mura di mole stupefacente, dai palazzi senza numero di nobili e ricchissimi cittadini".
Secunda Roma: vi si radicava dunque la legittimità veneziana della continuità ininterrotta nei confronti del mondo classico. Tanto più che Aquileia era stata la sede di Marco, suo primus antistes sulla cattedra trasferita nella basilica ducale alla metà del '400 insieme con il Vangelo ritenuto autografo e con la dignità patriarcale. Non per caso, attraverso le pagine date alle stampe a Venezia nel 1521 il Candido si indirizza a Domenico Grimani, cardinale e patriarca della capitale della Venetia prima, perché dalla regione affidatagli induca un movimento di rinascita culturale, una renovatio Aquileiensis: la memoria di Aquileia, valicato il '400, era destinata a farsi motivazione e guida attraverso Domenico, Marino, Marco e Giovanni Grimani delle tendenze romaniste della cultura e dell'architettura della Rinascenza veneta (75).
Ma la ricerca quattrocentesca, frattanto, pur poco confrontandosi direttamente con i monumenti di Roma stessa, si approfondisce e si estende. Raggiunge le paludi ferraresi e vi identifica il sito di Spina, edificata da Diomede secondo la testimonianza di Plinio, dove, alla bocca del Po di Primaro, riconosce vestigia di manufatti. Ma soprattutto si interessa a Ravenna, il cui porto aveva costituito ancora matrice e prefigurazione della ricchezza veneziana: "non ce n'è altro" infatti "onde più comodamente tutto l'Oriente possa passar nelle viscere del Ponente con tutti i forastieri e le mercatanzie preziose" (76). Ravenna vetustissima praeclarissimaque civitas, regum imperatorumque sedes per Bernardo Giustinian già nell'elogio del Foscari, secondo altre fonti è fondata dai Tessali, e dunque radicata essa stessa nella più antica aura classica della grecità (che, come vedremo, si crederà di ritrovarvi). Nel 1489 Desiderio Spreti dedica ad Antonio Marcello, cavaliere e patrizio veneziano, il suo De amplitudine, de vastatione et de instauratione urbis Ravennae (dove l'instauratio è per l'appunto veneta) che dà una chiave erudita e appassionata alla lettura delle magnificenze architettoniche della città. Guida l'attenzione allo spetiosum mausoleo di Galla Piacidia, a San Vitale "edificata a similitudine del tempio costantinopolitano di Santa Sofia", al bassorilievo dai putti danzanti che vi si trova, che si attribuisce senza esitazioni a Policleto e che finirà in Venezia, dapprima all'esterno di una casa presso San Marco, poi a Santa Maria dei Miracoli, dove fra gli altri lo vedranno il Tiziano e il Sansovino, e infine, di recente, al Museo Archeologico. Include tra le antiche fabbriche, testimoni di magnificenza imperiale, Sant'Apollinare in Classe (dove il Codussi ha lavorato), tempio splendidissimo del quale la fondazione viene attribuita a Narsete. Sottolineando, infine - circostanza di rilievo per il nostro ragionamento -, il varium marmorum ornamentum, le policromie lapidee, come caratterizzanti l'arte edificatoria ravennate (77).
Il richiamo a Narsete, del resto, costituisce questione non marginale, poiché proprio intorno alla rielaborazione tardoquattrocentesca del mito del generale di Giustiniano come costruttore anche di chiese veneziane si viene formando la teoria d'una filiazione della primissima architettura della stessa Venezia da quella ravennate. È il Sanudo a riportarla, e l'importanza ne è senz'altro evidente:
Narses [...> mandoe da Ravenna a Venetia assa' maistri, che edificasse sopra un luoco più amplo, quasi piazza - licet all'hora non fusse, ma si chiamava brolo - una ghiesia sotto il nome di San Thodaro, il qual fo il primo nostro protettor avanti il levar di San Marco. Et ancora fece all'incontro edificar un'altra ghiesia chiamata San Mena et Zuminian, la qual è ancora in piedi in Cao de Piazza (78).
L'identificazione di segni e di modelli, dunque, si allarga e si viene via via precisando.
Non va dimenticato neppure che entro la stessa Venezia si ricerca e si investiga. Da un lato vi si ritrovano e trascrivono iscrizioni romane, un poco dovunque: nella canonica di San Marco, in casa del primicerio; sul rio di Santa Maria Mater Domini; presso la chiesa di San Zaccaria; sotto il portico di San Martino; nelle fondazioni del campanile e nel coro della chiesa di San Pietro di Castello, in quel sito di Olivolo che cronache e storie vogliono colonizzato dai Troiani ai primi albori della città. E ancora nella casa canonica di San Giovanni in Bragora, a San Giovanni del Tempio, a Sant'Agostino, a San Stae, su di un pozzo presso il ponte di Santa Chiara, a San Pantalon, oltre alle molte di Torcello e di Murano. Iscrizioni romane di Venezia regina orbis, come la definisce Giovanni Marcanova: non edifici ma stimoli concreti, nella loro presenza fisica, alla cultura dell'umanesimo (79).
Al contempo, peraltro, altre ricerche e nuove ipotesi si vanno formulando circa i segni architettonici delle origini: il nome medievale della famiglia tribunizia degli Incinopi, fondatrice di San Giacomo di Rialto secondo la tradizione manoscritta medievale, viene reinterpretato in quello di Entinopo architetto di Candia, dando così spiegazione delle forme della prima opera della città, che si vuole edificata il 25 marzo 421, in chiave bizantina, evidentemente sulla base della conoscenza diretta e sul confronto con quel ramo di questa che è ancora vitale nell'isola di Creta, parte dello Stato da mar della Serenissima.
Ma non basta. Si riconoscono le rovine lagunari delle antiche Heraclia ed Equilium, legata la prima al nome dell'imperatore d'Oriente che operò la riconquista di Gerusalemme e il riacquisto del legno della Vera Croce.
Di nuovo il testimone diretto è Bernardo Giustinian:
ancora appaiono i vestigi di quelle città, dà quali si può comprendere qualmente furono allora non solo quelle città, ma eziandio le altre andate in rovina et distrutte per varii accidenti di fortuna. La grandezza di quelle appare dall'ornamento de' tempii, dai porti, dall'altezza delle torri e dall'ampiezza de' luoghi accommodati ad ogni uso. Talché non è maraviglia se, distrutte quelle, Rialto sia cresciuto in quella ampiezza che vediamo (80).
Alle origini del Ducato vi è dunque un'antica magnificenza, riconosciuta dalla cultura umanistica del '400, paleocristiana e veneto-bizantina, non aliena da elementi carolingi, che fa da tramite, da anello di congiunzione fra quella della romana Aquileia e quella della veneta Rivoalto.
E la si ritrova anche in città. In un certo numero di edifici "antichissimi" che molti nel secolo XV (ma un'interpretazione più elaborata raggiunge il '500 inoltrato) ritengono primitive sedi ducali anteriori al palazzo. La si coglie nella "antichità di certe case" che apporta a queste onore "et quasi una riverenza", una pietas nei confronti dei trascorsi monumentali della prima Venezia ducale che non può mancare di aver inciso nella riflessione dell'architettura dell'umanesimo (81).
Tanto che quelle che risultano vere e proprie reinvenzioni di palazzi veneto-bizantini, di case-fondaco con torreselle operate nei disegni di Jacopo Bellini potrebbero bene essere interpetate in siffatta chiave, in chiave cioè di un rinnovamento - fantastico e non - dell'antichità veneta piuttosto che come ripresa di modelli culturalmente desueti per quanto allora presenti nel panorama urbano.
Attenzione, conoscenza e studio non mancano, perciò, alla cultura de re aedificatoria della prima Rinascenza veneziana.
E, per di più, si coniugano con l'orgogliosa affermazione del primato delle tecniche edificatorie veneziane formulata ancora nella seconda metà del secolo, certo anche con precisa memoria dei grandi interventi architettonici che si vanno compiendo fino dall'età tardogotica lungo il Canal Grande e un poco ovunque in città. Già ai tempi delle origini, infatti, "dove qualunque havesse allhora volti gli occhi a quei luoghi, a pena crederebbe potervisi edificare un castelletto, in quel loco noi hora maravigliosi veggiamo città grandissima di circuito, macchine grandi di chiese, torri altissime e case magnifiche" (82).
Non sorprendono, dunque, la scarsa incidenza nella Venezia del '400, per lunghi decenni, del messaggio rinascimentale fiorentino, né le poche conseguenze nell'architettura del passaggio dei grandi toscani, dall'Alberti a Paolo Uccello, da Andrea del Castagno a Michelozzo e, più tardi, di Leonardo da Vinci.
La firmitas vitruviana (e un Bernardo Giustinian, ad esempio, cita Vitruvio) nella miraculosissima civitas veneziana è soggetta a sue proprie e particolari regole. L'utilitas, in rapporto agli edifici dei nobili mercanti, è quella imposta dai meccanismi e dalle condizioni di vita di una città mercantile marittima fondata sulla circolazione acquea e dunque pure soggetta a regole sue proprie.
Quanto al linguaggio delle forme architettoniche quello fiorentino, in fondo, non può non apparire sotto numerosi aspetti incompatibile. Per via delle sue radici medicee, per il sordo antivenezianismo degli ambienti fiorentini dalla metà del secolo all'incirca, dopo il rovesciamento dell'amicizia veneto-fiorentina. Un antivenezianismo, fra l'altro, di antica data (basti pensare a quanto ne aveva raccolto già il Boccaccio) e destinato a perdurare sino al Machiavelli e, in fondo, anche al Vasari.
È coerente, pertanto, che Venezia eviti di toscanizar (83).
Certo, non mancano a Venezia né luoghi, né figure di mediazione. Tra i primi andrebbe meglio studiata secondo questo punto di vista la Scuola dei Fiorentini a Santa Maria Gloriosa dei Frari; tra le seconde andrebbero ricostruite le coordinate culturali di talune famiglie toscane radicate da tempo e collegate a interventi architettonici: i Martini a San Giobbe, gli Amadi ai Miracoli e altrove, i Talenti, famiglia cui appartenne anche il parroco di San Giovanni Grisostomo, committente della ricostruzione codussiana della chiesa. Ma quando risulterà necessario adeguare la propria architettura, la Venezia del '400 sceglierà dapprima di seguire una propria, autonoma strada verso la Rinascenza, per molta parte fondata sui termini culturali che abbiamo sinteticamente ricostruito.
e le architetture della "Renovatio marciana"
Nelle istruzioni dirette l'8 maggio del 1453 al suo ambasciatore Bartolomeo Marcello, la Serenissima dichiarava come Costantinopoli in certo modo andasse considerata come una propria città: e, com'è ben noto, prese direttamente parte alla difesa delle mura e dei loro nodi difensivi, al rafforzamento della cinta presso il palazzo dell'Hebdomon, all'approfondimento dei fossati, al presidio del palazzo imperiale delle Blacherne, issando lo stendardo di San Marco insieme con le insegne imperiali bizantine probabilmente sulla colonna di Costantino (84). In effetti furono proprio l'ingresso di Maometto II nell'antica capitale dell'Impero romano d'Oriente e l'espansione ottomana nella Grecia e nei Balcani a provocare una svolta nel ruolo internazionale di Venezia e ad accelerare la traduzione di quest'ultimo in nuove forme, in nuove rappresentazioni architettoniche e artistiche.
Venezia raccoglie, spiritualmente e culturalmente almeno, l'eredità della nuova Roma sul Bosforo riportandola agli originali valori della prima Roma. Certamente non è per caso, dunque, che la prima architettura del '400 veneziano compiutamente concepita entro i confini della cultura dell'umanesimo venga edificata proprio all'Arsenale, a inquadrare l'accesso da terra del grande complesso cantieristico e di armamento della Repubblica. Né che presenti caratteri per taluni aspetti assai particolari, esplicabili pienamente soltanto nel quadro mediterraneo che abbiamo appena richiamato (85).
Dopo una serie di decisioni prese tra il 1458 e il 1459, nella primavera del 1460 vengono avviati i lavori di costruzione di un grande portale, la porta magna concepita come un monumentale arco trionfale coronato da un attico con frontespizio, che nei tratti essenziali si rifà a una delle più note vestigia dell'Antico entro gli Stati della Serenissima: l'arco dei Sergi di Pola, di cui si è già detto, quella porta aurata della città romana dell'Istria confinante appunto con le aree balcaniche dell'espansione terrestre ottomana.
Pur riprendendo nello schema fondamentale il modello classico - per quanto alterato sulla base di congetture ricostruttive analoghe, ad esempio, a certune operate più o meno contemporaneamente dalla cultura artistica toscana e mediante una soluzione strettamente affine a quella data dall'arco di Giove Egioco rappresentato dall'Hypnerotomachia Poliphili - le colonne binate del portale reimpiegano colonne medievali di marmo greco e capitelli "esarcali", secondo una lunga tradizione veneziana, confermata poco prima, ad esempio, nel coronamento gotico di Santa Maria dei Frari, ma che indubbiamente ha come riferimento centrale i solenni portali di San Marco, al contempo ducale e bizantina.
Una contaminazione di linguaggi artistici, dunque. Ma una contaminazione certamente voluta e rivista nel significato, come assicura la partecipazione diretta o indiretta alle vicende che portano alla costruzione del portale di nobili umanisti quali Zaccaria Trevisan, Paolo Barbo, Lodovico Foscarini, Gerolamo Barbarigo e Candian Bollani.
Il ῾testo' architettonico ῾romano' ed entro questo le citazioni ῾bizantine' della porta dell'Arsenale vanno interpretati come allusioni deliberate e sufficientemente dichiarate al ruolo che Venezia attribuisce a se stessa nel contesto che abbiamo appena richiamato. La Serenissima, in quanto committente di tale primo ritorno all'Antico, in quest'opera palesemente autocelebrativa conta sui significati della continuità, sul valore del duplice richiamo a segni artistici imperiali. E l'architettura della porta magna va dunque correttamente intesa come immagine ideata per annunciare un programma ambizioso nel luogo stesso in cui si fonda il suo potere marittimo: quello di evocare l'idea di Venezia come nuova e autentica Roma, e insieme come alterum Byzantium. Ciò che la letteratura del mito politico della città-repubblica si sforza allora di affermare. Il rinnovamento architettonico, si diceva, procede da un segno di pubblica, non di privata magnificenza, dalla celebrazione della grandezza degli apparati di potere navale di uno Stato marittimo. E le ragioni sono chiare: "si esperimentò più volte che quei popoli i quali troppo affezionati si dimostrano alle private dovizie, perdettero in breve il dominio, come di recente la misera Costantinopoli" (1457) (86). Una delle linee di fondo del rapporto tra res publica e res aedificatoria nel Rinascimento veneto era dunque esplicita fin dalle prime origini di questo.
È del tutto evidente, del resto, che per l'impostazione architettonica della porta dell'Arsenale va ammessa una cultura progettuale al corrente dei principi fondamentali del rinnovamento in atto nei maggiori centri di diffusione dell'arte del Rinascimento.
Nonostante leggeri scarti esecutivi e manomissioni più tarde - soprattutto cinquecentesche - lo dimostrano gli stessi rapporti proporzionali ricorrenti nella costruzione. La parte inferiore del prospetto, sino al livello del piano d'appoggio dell'architrave, è inscritta in un quadrato di quattro passi veneziani di lato. E dalla nitida figura geometrica viene dedotto un sistema di relazioni semplici, di immediata evidenza, con le quali l'impaginato del portale è sottoposto a controllo, mediante un procedimento compositivo ad quadratura ben consapevole del basilare principio della finitio. La luce dell'arco, infatti, è pari alla metà esatta del lato del quadrato e individua una sezione centrale del prospetto doppia delle due laterali. Di due passi veneziani - vale a dire della metà del lato del quadrato principale sono ancora l'altezza delle colonne e dello stipite, mentre la larghezza di questo e dei basamenti sui quali poggiano le colonne binate è ottenuta ricorrendo a un reticolo compositivo di un quarto di passo veneziano di lato.
Poiché l'iconografia cinquecentesca attesta l'esistenza di sfere marmoree collocate come acroteri sul frontespizio, l'altezza complessiva del prospetto originale doveva essere pari al doppio della sua base: la porta magna risultava perciò perfettamente inscritta in due quadrati sovrapposti. Anche l'altezza della trabeazione e il disegno dell'alzata muraria di coronamento, infine, nell'insieme risultano normati dal medesimo sistema di rapporti proporzionali. Se tutto ciò, ribadiamo, conferma la svolta operata entro il 1460, non del tutto chiaro risulta il problema dell'attribuzione d'una paternità progettuale al portale. Mentre è difficile, per evidenti ragioni stilistiche, confermare le vecchie attribuzioni ad Antonio Gambello, non è improbabile che indicazioni per l'impostazione architettonica dell'opera fossero giunte alla cerchia del doge Pasquale Malipiero, in stretti rapporti con gli ambienti lombardi, da Antonio Averlino, il Filarete, più volte presente in città esattamente in questo torno di tempo. Questi sicuramente disponeva degli strumenti culturali adeguati a un'opera di tale genere e aveva già affrontato il tema architettonico dell'arco trionfale nel 1454, per celebrare a Cremona la pace di Lodi.
In effetti anche una serie di altri indizi di carattere stilistico si mostrano a favore di tale ipotesi: dalle affinità di trattamento decorativo fra la trabeazione della porta e una trabeazione rappresentata nel trattato di architettura dell'Averlino all'impiego del frontespizio triangolare con conchiglia celebrativa nel timpano e sfere lapidee sistemate ad acroteri, fino al metodo compositivo che è quello stesso che egli pratica e alla conciliabilità tra la ῾contaminazione' linguistica operata nell'arco e il complessivo atteggiamento culturale filaretiano, insieme con il suo esplicito apprezzamento dei marmi greci ammirati in Venezia.
La nuova architettura del portale, in ogni caso, fu consapevolmente intesa come atto di grande importanza, tale da indurre trasformazioni urbanistiche di rilevante significato nelle immediate adiacenze dell'accesso ai cantieri pubblici. Negli anni 1467-1468, infatti, dopo una stasi costruttiva corrispondente al notevole sforzo connesso con lo scontro veneto-ottomano nel Peloponneso, veniva deliberato l'acquisto di un gruppo di case antistanti la porta con lo scopo dichiarato di demolirle per aprire una via lata et pulchra. Si doveva trattare di uno slargo di circa 60 metri di lunghezza per 20 di larghezza disposto a collegare la riva occidentale del rio dell'Arsenale alla porta magna: il primo intervento urbano compiutamente interno alla cultura architettonica del Rinascimento concepito e operato nella Venezia del '400, che indicava l'opera appena realizzata come volta "ad ornamentum ac utilitatem non tantum ipsius domus [Arsenatus> sed etiam istius civitatis", per l'ornamento e l'utilità non solo del grande complesso cantieristico, ma pure della città (87).
Le decisioni prese a tale proposito in collegio il 24 marzo 1468 confermano senza possibilità di dubbio come la via lata et pulchra fosse stata concepita in rapporto al concorso di più esigenze, ma anche come dipendesse anzitutto da una scelta estetica.
Sono infatti la dignitas operis, si dichiara, il significato architettonico del portale perpulchrum et honorificum a esigere che questo venga a trovarsi in pulcherimo [...> prospectu, in bella vista, in una visuale aperta ottenuta sommando lo spazio delle demolizioni a quello di una piccola fondamenta preesistente.
È importante rilevare come la via lata (trasformata in piazza quadrata tra il 1524-1526) non fosse assiale rispetto alla porta magna, ma pressoché parallela, anzi lievemente trasversale rispetto a questa. Fatto è che lo slargo risulta pensato anche in funzione di un preciso rito della liturgia di Stato: quello della visita periodica del doge e delle visite dei rappresentanti delle potenze straniere all'Arsenale. I corteggi cerimoniali, infatti, una volta approdati alla riva del rio dell'Arsenale antistante la turrita porta d'acqua medievale, avrebbero percorso la via lata, svoltato valicando un ponticello e varcato la soglia del grande arco marmoreo: avrebbero percorso dunque la prima via triumphalis propriamente tale della Venezia del primo Rinascimento.
Rimandi e allusioni alle idee di translatio e di renovatio imperii alle quali già abbiamo fatto riferimento sono pertanto pienamente confermati dalle implicazioni urbanistiche dell'intervento che abbiamo seguito.
E, come gli spazi di Jacopo Bellini, ma forse con maggior aderenza, non privi di reminiscenze albertiane. La via lata dell'Arsenale era infatti appunto una delle "sorti di strade, che tengono di piazza" teorizzate per i bisogni pubblici dal trattato di Leon Battista Alberti.
Il confronto militare e diplomatico tra Imperi, tra Venezia alterum Byzantium e la potenza ottomana che sta trasformando Bisanzio in Istanbul, certamente tende a tradursi anche in competizione - seppure talora indiretta - tra segni e simboli, tra costruzioni dell'immaginario e la loro traduzione in monumenta, in architetture di evocazione, di persuasione e di testimonianza.
In effetti, il caso della porta magna e dei rapporti fra struttura e rimandi allegorici non è affatto isolato (88).
Pressoché contemporaneamente rispetto ai lavori citati, fra il 1456 e il 1458 si apriva il nuovo cantiere della chiesa monastica benedettina di San Zaccaria, tra i più antichi luoghi di culto della città (dov'era stato impegnato da poco, negli affreschi della cappella di San Tarasio, Andrea del Castagno), grazie anche alla concessione papale di indulgenze a favore della rifabbrica. Ma soprattutto, per quanto riguarda il nostro punto di vista, con un consistente sostegno finanziario concesso dal senato nel 1461, motivato dall'importanza del sito in centro et oculis urbis nostre e dai suoi legami con la storia, come primo edificio sottoposto all'autorità ducale agli albori del IX secolo (89).
La marmorea aedes di San Zaccaria è essa pure un'architettura dai tratti compositi e per vari aspetti eccezionali, depositaria di complesse allusioni simboliche e resa di più disagevole lettura dalla sovrapposizione dell'opera di più architetti e di un gruppo di scultori di autonoma personalità.
I lavori del complesso sono affidati dapprima ad Antonio Gambello, che tra il 1458 e il 1481 doveva avere realizzato fondamentalmente la facciata al grezzo, l'ordine inferiore della sua ricca ornamentazione architettonica, parte dei colonnati delle navate e parte dell'interno dell'abside. Fra il 1481 e la prima metà del 1483 le attività erano procedute sotto la direzione di due capomastri, per la verità piuttosto fiaccamente. Sino a che non si chiamò alla fabbrica in qualità di suo nuovo proto Mauro Codussi, attivo almeno sino al 1491, quando la chiesa era ormai giunta quasi a compimento.
Effettivamente, San Zaccaria presenta soluzioni architettoniche assolutamente inedite in Venezia, ma anche, per quanto spetta al Gambello, una notevole tensione inventiva e poetica che, procedendo da un contesto ancora assai vivace di attitudini formali tardogotiche, si avventura liberamente sulla via di una ricerca immaginosa dell'Antico.
Il corpo dell'edificio religioso appare di concezione chiara e razionale nei rapporti proporzionali che lo informano, semplici ed evidenti. La pavimentazione, poi, s'innalza di due gradini nell'area presbiteriale, dove tanto gli spazi quanto le forme si fanno inaspettati e di considerevole articolazione. Dopo l'ultima campata della navata centrale, infatti, l'altare maggiore è racchiuso entro un doppio ordine di arcate sovrapposte su di un disegno in pianta semiottagonale, sopra le quali poggia un semicatino con affreschi più tardi (le fonti cinquecentesche insistono, fra l'altro, sulla ricchezza di marmi preziosi dell'altar grande "porfidi e serpentini i quali sono i più belli che habbia qualsivoglia luogo della città", tra i quali una grande lastra di porfido evocatrice di sarcofagi paleocristiani (90)).
E intorno allo spazio presbiteriale centrale, si svolge un deambulatorio absidale largo quanto le navate laterali della chiesa, sul quale s'affacciano quattro cappelle radiali (la quinta, almeno idealmente prevista nello schema originario, non venne mai costruita per non occupare parte dell'abside della chiesa più antica, conservata accanto alla nuova fabbrica).
Tale soluzione è rara in Italia e del tutto sconosciuta in precedenza a Venezia in questa forma. Interessa molto Jacopo Bellini, che vi si ispira nel taccuino del British Museum; e semmai un precedente geograficamente prossimo si può ritrovare nella basilica del Santo a Padova. Tuttavia, considerata l'antica e molto sentita devozione tradizionale per un "monumento al modo de quello de Nostro Signor" ricordato dalle fonti medievali nella zona absidale dell'antico edificio, non si può escludere neppure che il presbiterio quattrocentesco intendesse rappresentare una reminiscenza della chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Tanto più che le due alte colonne che ne marcano la soglia recano scolpite immagini di serafini, simboli di presenza soprannaturale al servizio del trono di Dio (91).
In ogni caso, quella del presbiterio di San Zaccaria è un'architettura di spiccato carattere cerimoniale e concepita per una ritualità devozionale collettiva. Aspetti, questi, accentuati dalla cupola che si eleva sull'ultima campata della navata maggiore e dalle cinque cupolette che si accostano tra loro a coprire il deambulatorio in corrispondenza delle cappelle radiali. Idee non ben attribuibili, queste ultime: forse da ricondurre all'intervento di Mauro Codussi sul primo progetto del Gambello. Del tutto in linea, ad ogni modo, con la forte propensione veneziana, di matrice bizantina ma riconfermata di recente ai Santi Giovanni e Paolo e a Santa Maria dei Servi, per gli spazi cupolati. Risultano accentuati, dunque, i caratteri di transizione. Nel coro, le gotiche bifore lobate superiori, si aprono sopra archi a tutto sesto sorretti da colonne di spoglio i cui capitelli, affini a quelli di San Michele in Isola, intendono mostrarsi, per quanto assai liberamente, all'antica. Lo spazio delle navate è ritmato da ampi arconi a tutto sesto nel dividere la nave maggiore da quelle laterali, ma da archi a sesto acuto entro queste. Di fantastica invenzione anticheggiante sono soprattutto i sostegni della navata centrale, forti colonne dai capitelli figurati con aquile in maestà e con festoni classici, che appoggiano su basi ottagonali, sorrette a loro volta da grossi plinti. Nell'ornato basamentale, motivi embricati (affini a taluni di età ellenistica d'Asia Minore), scanalature, baccellature e altro ancora di memoria classica si combinano con grappe medievali tradotte come doppie volute rinascimentali. Tranne in un caso, dove quest'ultimo elemento è sostituito da possenti ῾maniglie' marmoree che ricordano quelle di sarcofagi tardoantichi e protobizantini.
Fino a qui, i concetti architettonici vanno ricondotti al Gambello, assistito da uno stuolo di collaboratori fra i quali Giovanni Buora, anche se a Mauro Codussi spetta probabilmente tutta la parte alta dell'edificio. Di Antonio Gambello è certamente anche l'ordine inferiore del prospetto, come s'è accennato, articolato a fasce e a riquadri e ravvivato dal gioco policromo di marmi bianchi e rossi, come i prospetti di palazzo Ducale e della porta della Carta. Ma qui pure, nonostante la sensibilità tardogotica di fondo, ritorna la ricerca dell'Antico: nei quattro putti di sinistra, che reggendo ghirlande di intaglio finissimo incorniciano due profeti, va identificata una ripresa dalle lastre marmoree ritenute di Policleto e un tempo a San Vitale di Ravenna delle quali abbiamo detto in precedenza.
Di certo, però, non appartiene al Gambello il portale (al quale lavorano nel 1483 Giovanni Buora e Domenico Duca) dal frontone curvilineo e dagli stipiti decorati a candelabre sorreggenti una fenice e un'aquila in maestà, simboli entrambi del rinnovamento attraverso la fede: un lavoro certo derivato dal repertorio dei Lombardo. E resta controversa anche l'attribuzione del secondo ordine della facciata, caratterizzato dalla serie di arcate cieche ornate da eleganti conchiglie. Motivo interessante, quest'ultimo, già brunelleschiano, ma che richiama assai da vicino le nicchie a conchiglia ben note all'arte ravennate dei secoli V-VII, presenti anche nella basilica ducale di San Marco (oltre che, ancora, conosciute al repertorio belliniano).
Il Codussi, infine, subentrerà a reimpaginare la parte media e alta della facciata, a fasce orizzontali con forti marcapiani, compartendola in verticale e serrandola mediante colonne e pilastri binati. In tal modo, la parte mediana del prospetto, raccordata alle due laterali da contrafforti curvilinei, si sopralza rispetto a queste di un ordine tutto scandito da colonne appaiate, per concludersi nel coronamento solenne del gran frontone semicircolare. E le superfici sono alleggerite otticamente e mosse mediante un'attenta distribuzione delle luci che dal terzo registro al timpano si graduano da un'ampia trifora e due bifore fino all'unico, profondo occhio del fastigio. Nuovo senso struttivo, vigore di articolazioni, nitida organizzazione dell'eloquio architettonico si sostituiscono in tal modo al raffinato colorismo, alle incertezze interpretative, alle prove poetiche di Antonio Gambello.
È importante, in ogni caso, ciò che ne risulta come insieme: una solenne macchina architettonica, nella quale il tono magnificente ed eroico dello spazio interno corrisponde pienamente ai dibattiti contemporanei ai quali si è fatto cenno, rivestendo senza dubbio alcuno i tratti più conclamati dell'ufficialità. A tutto ciò vanno ricondotti senza dubbio i frequenti richiami, architettonici e decorativi, alla vicina basilica di San Marco.
In effetti, la quattrocentesca fabbrica di San Zaccaria è concepita come apparato architettonico cerimoniale strettamente collegato alla corte ducale e ai suoi rituali pubblici: nel pomeriggio del dì di Pasqua, infatti, il doge vi compie una delle principali andate in trionfo, accompagnato dagli oratori presso la Repubblica e dall'intero corpo del senato, "onde vi concorre tutto il popolo della città". Le fonti coeve alla rifabbrica insistono particolarmente sul legame tra la chiesa e gli honores et
triumphi ducatus (92).
In questa chiave si interpretano assai bene i simboli imperiali costituiti dalle grandi aquile ad ali spiegate dei capitelli della navata: qui appunto si conclude il trionfo ducale.
Ma c'è di più. Perché appunto i capitelli quattrocenteschi sono evidente ripresa del modello di precedenti bizantini o veneto-bizantini (93) dei quali ci è rimasta memoria diretta, connessa una volta ancora ai miti di antichi legami tra l'imperiale Costantinopoli e la nascente Venezia ducale, tra il sapere architettonico dell'Impero d'Oriente e le magnificenze venete delle origini:
Giustiniano Participazio doge decimo [la> fabricò o restaurò l'anno 407 dall'edificazione di Venezia e l'anno 827 di Cristo, pregato da Leone Quinto Imperatore di Costantinopoli, il quale non solamente gli mandò danari, ma uomini e maestri eccellenti nell'architettura, acciocché si facesse una bella chiesa e si finisse tosto. In grazia del qual Leone, il doge fece scolpire ne' capitelli delle colonne l'aquile imperiali che si veggono ancora nella chiesa vecchia. E quando il tempio fu condotto a coperto, il doge volle che il clero, dopo una solenne processione, pregasse per la salute dell'imperador tanto suo amico.
Tali affermazioni cinquecentesche, peraltro, dipendono direttamente ancora da fonti monastiche contemporanee alla riedificazione, che si sforzano di provare il nesso tra sancto imperio de Roma e origine del monastero, tra Giustiniano Particiaco fedele de lo imperio e duxe de Venetia e l'Augusto di Bisanzio che dede maistri (94).
Anche la seconda grande architettura dell'umanesimo veneziano si ricollegava dunque in termini quanto mai espliciti e aulici alle dimensioni trionfali e imperiali e all'idea di alterum Byzantium.
Non secondariamente, il finanziamento pubblico per San Zaccaria fu disposto verso la fine del ducato di Pasquale Malipiero e venne sostenuto dall'umanista Zaccaria Trevisan il dottore, mentre procuratore del monastero fu Candian Bollani che nel 1460 era intervenuto a sollecitare i lavori del portale dell'Arsenale. I contorni di un programma, di precise attitudini culturali incominciano a delinearsi con chiarezza (95). Per risultare confermate e precisate dal doge che al Malipiero ebbe a succedere, Cristoforo Moro, colui al quale ancora l'aristocratico umanista Candian Bollani poteva rivolgersi nel 1462 chiamandolo non solo dux ma anche imperator (96). L'evento architettonico centrale del ducato del Moro è rappresentato dall'edificazione dell'appartata chiesa francescana di San Giobbe, celebrata diffusamente "ob aedificationem ornamentumque" e come testimonianza splendida di pubblica pietà dall'elogio del Principe composto da Piero Barozzi.
San Giobbe appare documento per molti versi emblematico di un Rinascimento architettonico more veneto, per opera di Pietro Lombardo che dovette essere incaricato del proseguimento dei lavori all'edificio ecclesiastico dagli esecutori testamentari del doge, morto nel 1471. Il portale con frontespizio curvilineo, anzitutto, nello schema complessivo si riferisce certamente a modelli fiorentini, rivedendoli tuttavia con una sensibilità calligrafica assai propensa all'uso esornativo di motivi classici, come il fregio a palmette della trabeazione, i bucrani dei capitelli, le volute fitomorfe dei pilastri, trattati con raffinata nitidezza e con straordinaria levità di segno.
Il Rinascimento di Pietro Lombardo già qui si rivela come preziosissima visione più che come ritorno a una grammatica perduta.
Attitudini del tutto analoghe ritornano, esaltate di tono e di scala, condotte a una poetica formale ancora più ricercata, nel presbiterio, introdotto da un alto arco trionfale.
In tal modo, al di là dell'arcone fregiato dallo stemma del doge imperator optimus s'apre lo spazio solenne, glorificato, della cappella maggiore, di pianta quadrata, coperta da una cupola ripresa non molto tempo dopo nella pala di Cima con Vergine e santi del duomo di Conegliano (1492-1493) (97).
Certo della cupola sono alla toscana i tondi dei pennacchi con i quattro evangelisti e non mancano suggestioni brunelleschiane. Ma la forma emisferica con le otto finestre che forano l'anello di base sì da far convergere la luce sull'altar maggiore e sulla semplicissima tomba terragna di Cristoforo Moro, si accosta assai nettamente a quella propria dell'architettura bizantina nella sua versione marciana.
Una chiave iconografica, peraltro, conduce alla corretta spiegazione del significato dell'opera: i tondi in bassorilievo dei pilastri dell'arco di accesso al presbiterio, dove compaiono i due evangelisti Marco e Luca. Per giungere a una valida interpretazione è necessario ricordare preliminarmente che la chiesa s'era appena trovata al centro di una particolare vicenda devozionale. Vi era stato traslato, infatti, per disposizione del Moro, un corpo santo giunto a Venezia da Iatznia, dalla Bosnia allora invasa dagli Ottomani. Un corpo che il cardinal Bessarione non aveva esitato a identificare proprio in quello dell'evangelista Luca. In un contesto politico di scontro mediterraneo quale quello che si è richiamato più sopra, la presenza in città delle spoglie venerabili veniva ad accrescere simbolicamente e sacralmente il prestigio della Repubblica marciana e la sua apostolicità: tanto più che la diffusissima Legenda Aurea di Jacopo da Varagine narra della protezione accordata dal santo ad Antiochia assediata dai Turchi. Certamente, una sentenza papale emessa da Paolo II aveva confutato il giudizio dapprima espresso dal Bessarione e in seguito il corpo venne riconosciuto per quello di san Luca Stiriota. Ma è vero pure che nel convento, nella città, in vari scritti come la Cronachetta di Marin Sanudo e in altri fino al secolo XVIII si volle ritenere valida l'identificazione proposta dal celebre cardinale bizantino. Al punto che - e ciò risulta di notevole importanza - l'umanista e storico della Repubblica Marc'Antonio Sabellico continuò a chiamare questa chiesa come chiesa di San Luca (98).
È evidente, a questo punto, che la cupola marciana di Pietro Lombardo intendeva configurare per il culto del secondo evangelista giunto in Venezia a seguito del dilagare turco in Levante uno spazio di devozione pubblica concepito a similitudine di quello intitolato al primo evangelista-protettore della Repubblica, entrambi ricordati e accostati dall'iconografia dell'arco trionfale. San Giobbe presenta ancora un'evocazione architettonica della basilica ducale, associata ai tempi, agli uomini, ai temi politici e celebrativi del mito dell'alterum Byzantium.
Il quadro, tuttavia, si articola qui inaspettatamente.
Allineate lungo il lato settentrionale dell'aula, infatti, vi si trovano una serie di cappelle sopraelevate di due gradini rispetto al piano della navata, tra le quali la cappella Martini costituisce un caso unico e singolare, uno dei rari punti di contatto diretto oltre che precoce tra Rinascenza veneta e Rinascenza toscana. Edificata da una facoltosa famiglia di mercanti di seta originari di Lucca tra il 1471 e il 1476, questa consiste in un misurato ambiente cubico del tutto autonomo rispetto al corpo della chiesa, introdotto da un grande arco decorato a grappoli di frutti e a fogliami sorretto da pilastri corinzi scanalati, coperto da una volta a vela rivestita di terracotte invetriate di fattura robbiana: una trascrizione evidente, una citazione diretta e testuale anche mediante materiali artistici originali di spazi fiorentini quali la cappella del cardinale di Portogallo in San Miniato.
Per quanto il toscanizar di cappella Martini non manchi di tradursi in concrete suggestioni per la vicina e assai più tarda cappella di Pietro Grimani, procuratore di San Marco, non si tratta di molto di più di una diversione dell'itinerario che andiamo ricostruendo, legata a specificità di committenza: e semmai, per qualche aspetto paragonabile al caso di cappella Lando a San Sebastiano con il suo pavimento a maioliche figurate faentine. La linea da seguire resta piuttosto, per intanto, quella dell'operosità di Pietro Lombardo e dei suoi aiuti, giungendo al caso quanto mai indicativo, per la nostra linea di lettura, di Santa Maria dei Miracoli, originata da una devozione popolare sviluppatasi intorno a un'immagine sacra collocata sui primi del XV secolo secondo il "modo nostro veneziano" all'esterno delle case di Angelo Amadi (99).
La prima pietra dell'edificio fu posta nel 1480 e l'avvio del culto fu celebrato in una cappella provvisoria in legnami edificata nella primavera dell'anno seguente mediante un solenne rituale cui ebbero a prendere parte tutte le Scuole grandi, per espresso ordine del consiglio dei dieci: si trattò dunque di un cantiere della massima importanza per la vita urbana, di un altro caso di manifestazione architettonica della pubblica pietà di particolare interesse per il nostro percorso narrativo. Si spiega in tal modo anche la composizione del gruppo dei procuratori della fabbrica, che oltre a due membri di Ca' Amadi comprendeva tre patrizi fra i quali Francesco di Marco Zen - che teneva in casa il modello della costruzione - era congiunto di un cultore di antichità come il vescovo Jacopo, e un personaggio di grande prestigio politico, Francesco Diedo il dottore, era stato più volte rappresentante della Serenissima in varie città tra le quali Ravenna e ambasciatore alla corte di Spagna e presso il papa.
Quando il progetto era forse già stato elaborato, si parla della fabbrica da erigere come di un sacellum: in effetti la chiesetta dei Miracoli è concepita architettonicamente come un oratorio votivo, probabilmente pensato in due tempi, come sembrano indicare, tra l'altro, le diverse proporzioni della navata e dell'abside cupolata. L'architettura dei Miracoli consiste in un'aula unica coperta da una volta a botte lignea che dalla facciata interna - cui è addossato il coro pensile - giunge a un solenne presbiterio cui si ascende da un'alta scalinata affiancata da due tribune laterali con ambone, molto prossima alla tribuna magna della cattedrale di Aquileia.
L'ambiente presbiteriale, edificato sopra una pseudocripta adibita a sacrestia, termina in un vano absidale coperto da una cupola a doppia calotta come quelle di San Marco, sostenuta da un tamburo forato da sette finestre e coronata da un cupolino. All'esterno, le pareti sono ritmate dalle lesene di un ordine inferiore corinzio, trabeato, e da quelle di un ordine ionico ad arcate sovrapposto al primo; un gran frontespizio semicircolare conclude il prospetto. In modo assai inconsueto - ma che troverà adeguata spiegazione - i plinti dei piedistalli sui quali poggiano i pilastri del fianco del canale sono sostenuti a loro volta da forti mensole ioniche sospese sulle acque del canale laterale, direttamente lambite da queste, anzi sovente immerse per il moto delle maree (un esempio imitato più tardi dal vicino palazzo Loredan sul rio di San Canciano).
Le matrici culturali dell'opera risultano senz'altro piuttosto complesse, ma di notevole, illuminante ricchezza. Reminiscenze fiorentine, per intanto: riconoscibili nel ricordo dei ritmi del primo e secondo ordine del battistero, quello pure rivestito di marmi, per quanto della tipica bicromia toscana. E riconoscibili anche nel sobrio trattamento delle lesene esterne. Così come si è voluta vedere una suggestione albertiana nella volta lignea gettata sull'interno incrostato di marmi, ripresa di un'idea non realizzata per il tempio malatestiano di Rimini.
Tali evocazioni non possono comunque apparire sorprendenti: anche perché gli Amadi che con i tre patrizi soprintendono all'elaborazione del progetto e al cantiere dei Miracoli risultano figlio e nipote di un ricco mercante toscano, un tempo gastaldo della Scuola dei Lucchesi a Venezia, caso molto simile a quello dei Martini committenti a San Giobbe.
L'accertato interesse per la Rinascenza fiorentina si combina tuttavia con due altre importanti componenti di cultura architettonica: con un esuberante, preziosissimo ricorso a forme e modi dall'Antico e con evidentissime, dichiarate citazioni dalla basilica di San Marco. Il rapporto con le memorie dell'antichità classica si manifesta secondo un'accezione assai particolare: poco interessato al rispetto della grammatica classica nell'uso degli ordini, ad esempio nel far sostenere lo ionico da parte del corinzio, si mostra assai impegnato piuttosto nel dispiegare un ricco ed elegante repertorio di ornati, in una serie di testimonianze di erudizione antiquaria non prive di affinità, talora anche stringenti, con fonti grafiche suppergiù coeve quali il taccuino Rotschild ora al Louvre, con l'apparato illustrativo della fantastica erranza narrativa nell'antichità classica dell'Hypnerotomachia Poliphili che uscirà dai torchi del Manuzio, con il repertorio iconografico di miniaturisti attivi nel secondo '400 a Venezia come l'autore del breviario oggi a Oxford e del codice bolognese di Diodoro Siculo. La teoria di grifi affrontati del fregio della facciata - delineata in modo molto simile anche nella Scuola grande di San Marco - rappresenta una versione libera del fregio del tempio romano di Antonino e Faustina, ripreso più o meno contemporaneamente nel portale di palazzo Sacrati-Prosperi a Ferrara e nel cornicione in cotto delle case Monghini di Ravenna - attualmente presso l'entrata di San Vitale - ma forse anche confrontato con frammenti scultorei che è possibile fossero presenti in raccolte antiquarie. Qua e là si riconoscono citazioni di motivi decorativi di età paleocristiana, dall'ornato embricato agli esseri marini con tridenti della transenna dell'altare, alla croce del fregio absidale.
Ma è soprattutto l'inconsueto aspetto d'insieme del corpo della chiesa, sovente paragonato a uno scrigno, a un reliquiario, a mostrare notevoli affinità con la struttura di un importante gruppo di sarcofagi paleocristiani di origine ravennate, dalla caratteristica configurazione di piccolo edificio coperto da una volta a botte sorretta da colonne e con i piani di testa decorati, e talora articolati lungo i fianchi da un ordine di arcatelle corinzie. Non c'è dubbio che nella ricerca dell'Antico del primo Rinascimento potessero essere considerati fonti di informazione sull'architettura antica. E i disegni del codice modenese del Marcanova che tentano una restituzione immaginaria delle antichità romane lo provano senza ombra di dubbio. Vi si veda, infatti, come la volta a botte di un grande sarcofago addossato all'immaginaria tomba di Romolo è ripresa a coprire l'aula della Therma Diocliciani o il palazzo di Cicerone, non privo di affinità di aspetto con l'edificio dei Miracoli; tanto più che a tutto questo, nelle evocazioni fantastiche del codice del Marcanova, si associa un indubbio interesse per piccoli edifici coperti da una cupola di tipo piuttosto simile a quello del presbiterio della chiesa della quale parliamo (100).
In Santa Maria dei Miracoli, pertanto, sembra applicato un procedimento ricostruttivo delle forme d'insieme dell'antichità classica sostanzialmente antiquario e che una volta ancora attinge al repertorio interno ai domini della Repubblica marciana e alla sua aurea architettura ducale (aspetto, quest'ultimo, sul quale si dovrà ritornare più volte).
Ma vi è altro, da aggiungere. Poiché Santa Maria dei Miracoli può essere considerata il prototipo e insieme l'evento saliente della squillante e ricercata policromia di marmi del primo Rinascimento veneziano. Quella appunto che ha fatto parlare di preziosismo decorativo privo di rapporto sostanziale con il ritorno all'Antico.
Il suo rivestimento policromo appare ricchissimo, "di finissimi marmi, e di dentro il simile, per terra e per tutto" (101), adorna di croci gemmate, di tondi di serpentino, di marmo pario, di Carrara, di Verona e di altri ancora, quando alla robusta pietra d'Istria risultano assegnate le funzioni strutturali o che tali debbono sembrare.
In realtà, in tutto questo non è corretto rilevare alcuna contraddizione fra evocazioni classiciste e preziosismi cromatico-decorativi. Poiché proprio quella ricerca che le discussioni tra Francesco Barbaro e Flavio Biondo hanno aperta, le pagine della Roma trionfante dell'umanista che ne riportano in parte il tenore forniscono il giusto codice interpretativo. Quelle magnificenze dell'Antico delle quali prima si è detto, consistono infatti in buona parte proprio nei materiali preziosi, negli splendori cromatici introdotti mediante una vera e propria "mutazione de gli edifici", una svolta architettonica operata nell'età di Augusto dopo la severità dei primissimi tempi, quella dell'"assai picciola e umile" casa di Romolo sul Campidoglio o della casa di Valerio Publicola al Foro romano, "picciola e di poco momento" (102).
Crasso l'Oratore è il primo ad alzare nell'atrio della propria dimora colonne di marmo esotico; Silla adorna il suo palazzo sul Campidoglio di colonne di spoglio - come a Venezia è accaduto e accade - provenienti dal tempio di Giove ad Atene. Da Lucullo, che se ne servì abbondantemente, trae nome un raro marmo di rivestimento "il quale è verde e simile molto a un bel prato che di maggio cresca felicemente". Via via, il testo fa "ordinata menzione", cataloga cioè e classifica i marmi pregiati citati nelle fonti antiche - il tiberiaco egiziano, l'ofite, il porfido, l'onice di Arabia e di Carmania, l'alabastro egiziano e siriaco - le circostanze storiche della loro introduzione nell'architettura romana, il loro reimpiego - e anche questa circostanza è di notevolissima importanza - in edifici religiosi cristiani della Roma papale: alla Confessione di San Pietro, all'altare di San Gregorio, in quello di Santa Croce, in San Giovanni in Laterano. E, se Mamurra "fu il primo che incrustò di marmo in Roma tutte le mura di casa sua nel Monte Celio", se Marco Lepido fu il primo, invece, a far fare di marmo numidico le soglie della sua casa, nelle case degli antichi "le facie del muro erano tutte incrustate di marmo", "i pavimenti e le cruste di marmo e le intempiature commesse ad oro, ad argento o di avorio".
In ciò dunque, per molti, consistettero le magnificenze, gli splendori dell'Antico, pienamente restituite nella lombardesca Santa Maria dei Miracoli e in buona parte dell'architettura veneziana del primo Rinascimento. E nell'insieme la chiesa sembra porsi per Venezia come vero e proprio atto di ῾costruzione' della tradizione architettonica antica assente dallo spazio urbano. Ma i cromatismi lapidei appartengono per altro verso, e con ogni evidenza, anche al secondo ordine di richiami ai quali si accennava, ossia a quelli riferiti a San Marco, basti riandare all'epigramma dello Zovenzoni ricordato più sopra. Poco dopo la conclusione dei lavori, infatti, l'opera venne considerata seconda soltanto alla basilica marciana e "innanzi a tutte [...> per opera e materia" (103) dagli stessi ambienti dell'umanesimo veneziano, evento artistico determinante nella costruzione della nuova immagine rinascimentale della città. E in effetti c'è da osservare come la chiesa dei Miracoli vada verosimilmente letta anche come testo architettonico, per così dire, di carattere celebrativo. Quando si tenga conto della particolare soluzione del fianco sul canale, che fa letteralmente apparire la chiesa "in aquis fundata" come Venezia stessa, quando si noti l'insistito ricorrervi del tema iconografico dell'Annunciazione (sulla facciata, nel presbiterio, un tempo sulle portelle dell'organo) che, come si è detto, richiama la data di fondazione di Venezia; e quando ancora si guardi ai soggetti marini - tritoni, sirene, delfini, pistrici - che animano le basi dell'arco trionfale e ai tridenti e alle creature abissali delle transenne frontali dell'altare, quando si consideri tutto questo, si diceva, il tempio alla Vergine dei Miracoli appare costruzione analogica, quasi sacello alla miraculosissima e al tempo stesso sancta civitas, tempio a Venezia-Vergine, alla sua "incorrotta purità", alla sua "inviolabile e immaculata" natura. Che tale è poiché "intatta" nella sua discendenza diretta dall'antico, incorrotto ordinamento della romana Repubblica (104). Il prospetto della Scuola grande di San Marco riprenderà in gran parte il filo reinterpretativo della Madonna dei Miracoli, poco distante, come si avrà modo di vedere. Ma è fuor di dubbio che la principale versione architettonica civile di committenza privata delle policrome magnificenze reinterpretate dal Biondo e riproposte da Pietro Lombardo è rappresentata dal palazzetto di Ca' Dario, sul Canal Grande, che raccoglie in pieno il dispiego di quei preziosismi lapidei nei rivestimenti ornati a dischi, a ruote, a motivi intrecciati che rappresentano al tempo stesso un'aulica rinascenza di grandezza romana e una testimonianza di continuità nei confronti del più recente passato veneto-bizantino e in parte anche gotico e tardogotico che non aveva rinunciato del tutto a crustae di marmo greco e a tondi di marmi rari. Per molti aspetti il palazzetto rappresenta un unicum, un caso limite di dispiego decorativo. E purtuttavia va anche collocato all'origine di una frequente propensione dei privati, fra ultimo '400 e avvio del secolo successivo, alle ricercatezze cromatiche ritenute tuttavia segni di un linguaggio antico: il medesimo, fra l'altro, delle architetture nobili e fantastiche del sogno di Polifilo (1499).
I primi decenni della Rinascenza veneziana, dunque, mostrano assai decisamente di tracciare una linea more veneto, in cui oltre che ad esperienze toscane e lombarde si guarda con particolare attenzione alle tracce lasciate dalla classicità negli Stati della Dominante, e si varia intorno a citazioni, ad allusioni in una poetica del ritorno all'antichità che risponde pienamente all'adesione letteraria e ideale della grande committenza aristocratica. Emergono con forza, tuttavia, e già appaiono centrali, le evocazioni del simbolo architettonico della Serenissima, la basilica ducale di San Marco e, in subordine, memorie di matrice veneto-bizantina. Tutto questo, in realtà, è in buona parte ben chiaro già alla letteratura artistica cinquecentesca, in particolare ad alcune pagine della Venetia città nobilissima di Francesco Sansovino che raccolgono opinioni e interpretazioni da tempo circolanti in città. È piuttosto significativo, anzi, il tentativo che queste documentano, di ritrovare un filo di continuità, un'illuminante genealogia - una sorta di stemma dei codici - nelle più antiche e venerabili architetture della città-stato. Se infatti la "compositura della testudine" della chiesa di San Giacomo, "così ben raccolta insieme e mantenuta dai volti che sostengono gli archi che è mirabile cosa a vedere [...> può dirsi che [...> fosse il modello della chiesa di San Marco", se la si data al 421, ossia a età tarda ma che precede il crollo definitivo dell'Impero di Roma, e se ancora l'architettura di San Marco è modello ad altre già nel Medioevo, come Santa Maria Formosa o Santa Maria Mater Domini, è evidente che si è ritenuto di ritrovare in Venezia stessa almeno una reliquia venerabile dell'architettura antica, alle origini medesime delle magnificenze della città; anzi, di più, un esempio ispiratore tuttora non privo di validità (105). E, a dire il vero, anche il Vasari, nonostante le sue accademiche e toscane riserve sull'architettura di San Marco, sulla quale si sofferma abbastanza a lungo e che ritiene opera di più maestri, tutti greco-bizantini, il Vasari dunque pone la basilica marciana sullo stesso piano dei Santi Apostoli di Firenze "edificata", questo sì, "da Carlo Magno", ma della quale purtuttavia Filippo Brunelleschi non aveva sdegnato di servirsi per Santo Spirito e San Lorenzo (106).
Tali orientamenti vengono rafforzati e confermati nel loro significato dalle contemporanee architetture dipinte della grande pittura veneta: è "marciano" il semicatino absidale dai cinque serafini immobili sul mosaico dorato della pala di Giovanni Bellini per San Giobbe, come "marciani" negli splendenti aurei rivestimenti musivi sono gli ambienti della Madonna del trittico dei Frari, in sacrestia, ancora il catino absidale della pala di San Zaccaria, l'arcone con iscrizioni greche della pala di San Giovanni Grisostomo, tutte opere belliniane. Cima da Conegliano, ricorre in più occasioni a un'ambientazione architettonica dei soggetti sacri risolta mediante organismi cupolati strettamente simili a quelli che si vanno ideando contemporaneamente. Si tratta di vere e proprie tracce pittoriche di discussioni certamente avvenute allora nelle cerchie artistiche veneziane, che possono fornire efficaci chiavi di lettura complementare. La Vergine in trono con Bambino e santi del duomo di Conegliano, ad esempio, dipinta tra il 1492 e il 1493, fornisce una prima serie di indicazioni assai precise. Lo spazio cubico coperto da una cupola su pennacchi rimanda non tanto a prototipi pittorici, quanto ad architetture costruite e, in modo particolare, al presbiterio di San Giobbe. Nella stessa pala di Conegliano i tondi dei pennacchi della cupola, del resto, dipendono dall'apparato figurativo di San Marco. E idee architettoniche strettamente imparentate con questa sono elaborate dal Cima ancora in più occasioni. Nel caso della Madonna con Bambino e santi di Berlino (1495-1497), proveniente dalla sacrestia di San Michele in Isola, il mosaico della cupola è una replica diretta e fedele di quello della cupola di Giuseppe, nel nartece della stessa San Marco.
Ma ciò non basta: poiché infatti l'interesse agli organismi cupolati di Cima da Conegliano assume significati complementari nel San Giovanni della Madonna dell'Orto, tela inquadrata in una cornice marmorea dai modi prossimi a quelli di Pietro Lombardo. "San Giovanni Battista" - descrive il Ridolfi - è "in piedi sotto ad antica tribuna, imitando con molta accuratezza le macchie de' marmi e le rotture che vengono causate dal tempo": qui, un'interpretazione "marciana" di siffatte strutture architettoniche appare perfettamente compatibile rispetto a una lettura "antica" (107).
Va sottolineata del resto una circostanza di notevole rilievo per la corretta valutazione del ruolo del modello marciano nella tardoquattrocentesca Venezia che agli occhi di molti appare alterum Byzantium: vale a dire che proprio allora scompare per sempre dal paesaggio urbano di Costantinopoli quello che è ben noto come il prototipo di San Marco, vale a dire la chiesa giustinianea dell'Apostoleion. Fra il 1463 e il 1471, appunto, questa viene sostituita sul quarto colle della capitale d'Oriente dalla Fatih Mehmed Giami, la moschea di Maometto II il Conquistatore, che assume immediatamente il ruolo di architettura-simbolo del difficile passaggio verso la Istanbul islamica e dell'ordine imperiale che la dinastia ottomana va imprimendo ai territori in via di conquista. L'evento non poteva essere sfuggito agli occhi del patriziato della Dominante e della coltissima collettività greca accolta in città: esaltando senz'altro il valore e il significato della basilica aurea veneziana (108).
Tutto ciò non significa che non vi sia rapporto tra quanto a Venezia accade e la ricerca architettonica rinascimentale sugli organismi cupolati, che è diffusa e di certo non peculiarmente veneta; ma che quest'ultima viene accolta e assunta come linguaggio di valenza pubblica in quanto leggibile come riformulazione di un linguaggio all'antica connaturato alle origini della città, in questa mai completamente oscurato, anzi affermato in tutto il suo potenziale splendore in San Marco. Effettivamente anche nelle architetture non rappresentate, bensì effettivamente edificate, tra ultimo '400 e primo '500 il tema marciano e veneto-bizantino verranno ulteriormente declinati, combinati in modi e in reciproche proporzioni assai diversi con vari intrecci e mutuazioni.
Mauro Codussi, il grande lapicida e architetto di origine bergamasca (1440 circa-1504) rappresenterà appunto una prosecuzione di questa tendenza di fondo. Ma d'altro canto proporrà una nuova versione di siffatta renovatio more veneto fondata al contempo su una migliore conoscenza e comprensione dei principi dell'architettura toscana e su una idea dell'Antico diversa e più matura rispetto a quella di Pietro Lombardo, non priva di conseguenze, naturalmente, per l'insieme delle sue opere pubbliche e private.
San Michele in Isola (la cui cronologia essenziale si colloca tra gli anni 1468-1469 e 1477) imprime un segno profondo nella cultura artistica veneziana contemporanea. Anzi, sembra quasi aprire un confronto aperto con la Madonna dei Miracoli, di non molto più tarda, dal momento che come quest'ultima viene dichiarata seconda soltanto a San Marco, decoro e ornamento dell'intera città.
Il coltissimo ambiente camaldolese e quello del patriziato umanista che vi è collegato avvertono perfettamente, del resto, la precisa consonanza fra le proprie aspirazioni intellettuali ed estetiche e le risorse e la coerenza di linguaggio del giovane Codussi che le fonti dipingono cupidissimus, divorato dal desiderio di condurre a termine l'opera affidatagli.
Le sue capacità si manifestano già nell'organizzazione spaziale dell'interno, un corpo basilicale diviso in tre navate coperte da un soffitto piano rivestito a cassettoni come la fiorentina San Lorenzo di Filippo Brunelleschi. Questo immette in un presbiterio dove due cappelle laterali affiancano la maggiore, introdotta da un arcone, coperta da una cupola su pennacchi e conclusa dall'abside curvilinea (mentre la cappella della Croce, commissionatagli da Pietro Priuli come spazio aggregato alla chiesa, accosta a un portale d'accesso toscaneggiante un'abside poligonale all'esterno secondo il tipo altoadriatico diffuso negli antichi territori esarcali). Il momento innovatore, di maggior evidenza inventiva della San Michele codussiana, peraltro, va identificato nel raffinato e colto prospetto dell'edificio, quasi del tutto autografo fatta eccezione per il portale con frontespizio triangolare. Nonostante le palesi somiglianze con il tipo a schema tripartito e coronamento formato da un semicerchio diffuso in chiese del '400 veneziano e veneto (e nonostante pure talune assonanze formali con la facciata di San Marco da tempo rilevate), il progetto di Mauro Codussi sembra trarre ispirazione diretta da quello delineato da Leon Battista Alberti per il tempio malatestiano di Rimini, noto attraverso la celebre medaglia di Matteo de' Pasti. Del tutto nuovo per un edificio religioso veneziano, del resto, è il trattamento a bugnato gentile dell'intera parte inferiore della facciata - sino alla trabeazione - compartita da lesene esse pure rusticate e forata da due alte monofore. La tessitura parietale di conci levigatissimi e strette, regolari commessure si mostra senza dubbio un'idea all'antica attinta direttamente da esempi classici e da opere del Rinascimento toscano. Il Codussi, ad ogni modo, rifiuta i facili preziosismi delle policromie di marmi, cui concede appena richiami assai misurati (e non è suo, peraltro, il barco che attraversa le navate, ricco di materiali lapidei colorati e rari, eseguito dopo il 1480). Egli punta piuttosto alla purezza di segni delle bianche superfici di pietra istriana, delineate dalla trama lieve di ombre data dal bugnato, dal disegno più forte delle cornici e contrastate con l'ombra profonda e oscura delle aperture. Il suo è il bianco dell'eterna magnificenza: tanto classica e imperiale per il mondo antico, quanto biblica e apocalittica per il mondo cristiano. E a quello viene coerentemente associato il motivo glorificante delle conchiglie che scanalano i timpani dei quadranti circolari, riprendendo e sottolineando il motivo del ventaglio marmoreo inscritto nel frontone. Qui, il possibile ricordo di temi decorativi toscani si unisce alla memoria delle grandi conchiglie trionfali dei mosaici ravennati e dei sarcofagi ad arcate dei secoli V e VI veduti certamente dall'architetto, che proprio in Sant'Apollinare in Classe aveva prestato ancora la sua opera ai camaldolesi.
Nitet venustate, riluce di bellezza, viene detto di San Michele in Isola ancora in costruzione: il motivo della conchiglia dispiegato con tanta evidenza sulla facciata, inconfondibilmente marino, appare quello, evocatore di virginea purezza, di Afrodite nascente in quegli spazi lagunari sui quali lietamente si offre alla vista, come sottolinea un'altra fonte (109): un'interpretazione della loro sacralità, enunciata proprio in quel torno di tempo dai grandi miti pubblici elaborati dalla retorica dell'umanesimo.
Santa Maria Formosa, per altro verso, in radicale rifacimento dal 1491, aveva rappresentato uno dei casi in cui nel Medioevo s'era ripreso il "modello del corpo di mezzo della chiesa di San Marco", come sottolinea il Sansovino. E qui, con maggior evidenza, il Codussi si mostra attratto dai temi bizantino-marciani. La sua nuova chiesa, di conseguenza, s'imposta su di una pianta in cui una croce greca si adatta alla latina, conservando i tratti d'insieme del disegno più antico e inscrivendosi poi, insieme con gli ambienti annessi, in un quadrato quasi perfetto. All'incontro di navata e transetto si imposta ancora una cupola (crollata e rifatta a seguito di un terremoto del 1688) e una doppia serie di cupolini insiste sulle tre campate di pianta quadrata delle navate laterali: un organismo complesso, dunque, carico di intenzioni evocative. In modo del tutto inusuale, per giunta, due delle campate laterali su entrambi i lati immettono in profonde cappelle nelle quali la luce viene fatta passare anche attraverso bifore aperte nelle pareti divisorie. La reinvenzione di spazi concatenati a procedere dall'idea del vetusto edificio preesistente sembra essere dunque, in questo caso, il problema di maggior interesse per l'architetto.
Anche Santa Maria Formosa, del resto, è un edificio religioso direttamente partecipe delle solenni cerimonie delle andate ducali in trionfo. Ciò che può aiutare a spiegare, almeno in parte, l'elaborata gerarchia degli spazi che si conclude in un profondo presbiterio triabsidato. Mai, tuttavia, in nessuna membratura, sono fatte concessioni a preziosismi d'ornato, plastici o cromatici. Nonostante il richiamo alla tradizione, il progetto e il cantiere codussiani appaiono energicamente controllati, sottoposti interamente a un codice severo: circostanza assai significativa e forse anche un secondo spunto polemico, se si tiene conto che a due passi si è appena conclusa la fabbrica lombardesca dei Miracoli.
Un'ulteriore articolazione della medesima tematica è affrontata nella ricostruzione della chiesa di San Giovanni Grisostomo, conseguente ai gravi danni provocati da un incendio, che occupò l'intero periodo di cura delle anime della contrada di Alvise di Zaccaria Talenti, discendente da una nota famiglia fiorentina ascritta alla cittadinanza veneziana sullo scorcio del '300, ma anche notaio e canonico ducale oltre che parroco della chiesa dal 1480 al 1516 (110). Mauro Codussi, richiesto nel 1497 di ricostruire San Giovanni Grisostomo, fece ricorso a una pianta a croce greca inscritta in un quadrato - ben evidente nella volumetria esterna - con cupola impostata all'incrocio dei bracci e prospetto a fastigio trilobato. Veniva operata qui la ripresa d'una pianta centrale adatta ai riti collettivi d'una piccola parrocchia, che, nel torno di tempo del quale stiamo parlando, non raggiungeva il migliaio di anime. Anche in questo caso, tuttavia, emerge ancora una circostanza davvero importante: l'impianto tetrastilo a croce greca doveva essere stato deliberatamente ripreso da quello della costruzione precedente, forse insieme con le dimensioni, che risultano regolate su di un quadrato di 50 piedi romani di lato.
La ricerca codussiana, perciò, si ricollegava alla variante di un tipo bizantino ben rappresentato nella Venezia medievale da almeno una dozzina di casi, tra i quali le due celebri chiese del mito di Narsete, San Teodoro e San Geminiano (111). Le ragioni devozionali e simboliche della scelta codussiana sono piuttosto chiare e riconnesse strettamente alle componenti bizantineggianti della cultura ufficiale della Serenissima. Alla "sacratissima" memoria delle spoglie del dottore della Chiesa, patriarca di Costantinopoli e primate della Chiesa d'Oriente, e alla loro sede in Asia Minore si riferisce con enfasi già l'anonimo viaggiatore veneziano del primo '400 (112). Ma, soprattutto, non va dimenticato che "el libro scrisse San Zuan Boccadoro", tema iconografico della pala dell'altar maggiore della chiesa dovuta a Sebastiano del Piombo, fa parte di quel gruppo di sante reliquie della basilica ducale che costituiscono prova e testimonianza dell'avvenuta translatio imperii dalla capitale dello scomparso Impero bizantino alla forte e pia Venezia (113). E i bizantinismi culturali della chiesa di San Giovanni Grisostomo sono cospicui: dalle lettere greche del libro raffigurato nella pala citata e dai simbolismi a quelle connessi, ai versetti in greco del salmo 14 che vi figurano nella pala dei santi Girolamo, Ludovico e Cristoforo firmata nel 1513 da Giovanni Bellini.
Va anche sottolineato come la reinterpretazione codussiana di un'architettura veneto-bizantina del tipo descritto tenda ancora, in questo che è un progetto maturo, a recuperare, attraverso quello che egli dovette credere un modello mediato, una originaria severità di forme, rimeditandolo sui principi albertiani e, in definitiva, attraverso la propria ben precisa esigenza di chiarezza struttiva dell'organismo architettonico.
San Giovanni Grisostomo, peraltro, inaugura a sua volta un tipo protorinascimentale: numerose altre chiese la seguiranno di lì a non molto, fino alla soglia degli anni '30 del '500, come la parrocchiale di San Felice, iniziata a ricostruire nel 1529 da Giovanni Antonio da Carona (114). Ricerche affini segue Giorgio Spavento, attivo fra il tardo '400 e il 1509. Dal 1486 questi aveva assunto l'incarico di proto della procuratoria di San Marco, vale a dire di soprintendente alla fabbrica della basilica ducale. E dello stesso anno era stato l'avvio della costruzione della chiesuola di San Teodoro, retrostante San Marco, in onore del primo protettore bizantino della città il cui culto non era il risultato di un atto improvvisato, com'è stato scritto, ma piuttosto di un risveglio pubblico di devozione attuato alla metà del '400 e confermato ai primi del secolo successivo. Nel vano absidale del piccolo edificio, a pianta semicircolare articolata da cinque profonde nicchie, lo Spavento si era già ispirato all'architettura delle absidi marciane. Ma di gran lunga più rilevante è l'esperienza che secondo questa stessa linea egli compie a San Salvador, portata a termine da Tullio Lombardo (115). Riprendendo in parte l'impianto dell'edificio preesistente e comunque i tratti fondamentali dell'organismo architettonico marciano, la nuova chiesa rinascimentale si presenta come una basilica cruciforme a cupole, conclusa da tre absidi semicircolari: un corpo edilizio ideato come risultante dalla compenetrazione di due cubi - sormontati da cupola - in quello mediano, assumendo come misura del lato i 12 piedi veneziani fissati negli accordi dell'8 agosto 1506 con il promotore dell'intervento, il priore e poi patriarca di Venezia, Antonio Contarini. Il corpo di fabbrica si espande quindi, per un quarto del lato, in corrispondenza delle estremità del transetto e in corrispondenza dell'abside. Poiché il modulo volumetrico originatore era stato un organismo cupolato caratterizzato da una cupola maggiore e quattro minori disposte a quinconce, anche questa chiesa aveva assunto il "modello [...> imitato dalla parte di mezzo della chiesa di San Marco" (116). Su questo, e certamente a opera del Contarini, si erano innestate allusioni trinitarie, cristologiche e salvazionistiche, riconoscibili nella struttura e nella decorazione architettonica: le prime nel numero delle absidi, delle cupole e delle finestre; le seconde nella stessa pianta cruciforme, nel numero delle cupole minori e nell'iconografia dei capitelli corinzi figurati della navata mediana. In questi, infatti, l'agnello vessillifero allude alla resurrezione, la fenice consumata dalle fiamme nel suo nido è immagine del Cristo consumato a Gerusalemme dal fuoco della passione, il pellicano richiama direttamente il Cristo e allude a redenzione e a carità. Sull'impostazione spaziale dello Spavento, Tullio Lombardo interveniva successivamente a garantire l'uso coerente del linguaggio all'antica, benché con qualche rigidità e taluni arcaismi. D'altronde, già come proto, dal 1512, dei lavori di cappella Zen a San Marco, questi aveva manifestato il suo colto distacco dall'impresa familiare, insieme con un'apertura alle novità classiche che, com'è stato sottolineato, costituì un essenziale momento di passaggio dalle esperienze del Codussi al rinnovamento sansoviniano (117). Con una chiesa "marciana" e cruciforme, dunque, veniva segnato il centro della città, l'ombelico di "questa a Domino benedetta città, imbibita sanguine Christi ab ipsis incunabulis et cum ipso nutrita, augumentata et ad incrementum perducta" per usare le parole dello stesso Antonio Contarini (118). Un atto di riconsacrazione dello spazio urbano con il quale è in rapporto la scelta simbolica del giorno della posa della prima pietra, il 25 marzo 1507: "nel qual zorno, del 421, fo principià la cità di Rivoalto [...> nel qual zorno fo formà il mondo" e infine "fo crocefixo missier Jesu Christo, secondo Santo Agustin [...>. Fo [...> in tal zorno posta la prima piera a la nuova redification di la chiexa di San Salvador […>. Si che è zorno molto celebrado".
Il 9 dicembre 1528 veniva abbattuta la muratura che divideva il presbiterio, già officiato, dalle navate in cui si era lavorato di recente: "ita che rimane spaciosa e grande [...> sarà opera excelente". E la messa solennissima dell'ottobre 1530, celebrata con sfarzo spettacolare, con la presenza della Compagnia dei Reali e di "tutti li virtuosi della terra", costituì la prova eloquente dell'accoglienza ampiamente positiva riservata alla nuova architettura (119). Già nel 1507 San Fantin, iniziata su modello di Sebastiano da Lugano, adottava pur semplificandolo lo schema di San Salvador. Ma l'interpretazione del significato di San Salvador non può mancare di tener conto di altri eventi concomitanti e di committenza pubblica, tra i quali la riedificazione della chiesa dei Santi Geminiano e Mena in capo alla Piazza, dirimpetto alla basilica marciana (120). Nel 1505, infatti, Leonardo Loredan ne aveva avviato la ricostruzione su di un impianto spaziale - attribuito a Cristoforo dal Legname - che a giudicare dai rilievi rimastici presentava una strettissima analogia con quello di San Salvador. Anche San Geminiano era un organismo a croce inscritta cupolato, coperto da una cupola maggiore e da quattro minori disposte a quinconce, nella cui planimetria ricorrevano gli stessi rapporti identificabili in San Salvador. Ma allora, il luogo delle prime origini, San Giacomo di Rialto ritenuta antica e al tempo stesso modello per San Marco; il luogo della prima memoria del rapporto tra Venezia e l'Impero giustinianeo dei Romani, San Geminiano; il luogo centrale della città, fondato per volontà di Cristo stesso e sede del corpo del protopatrono, San Salvador; il luogo sacrale in cui la Repubblica si identifica, San Marco, tutti questi, dunque, sono ricondotti a unità e coerenza di forma secondo un'idea programmatica che investe gli spazi centrali della città.
Proprio questo sarà confermato dalla ricostruzione delle chiese di Rialto ad opera dello Scarpagnino: dalle croci cupolate inscritte in un quadrato di San Giovanni Elemosinario e di San Matteo (121). Ma il tempo della renovatio marciana, il tempo dei bizantinismi o dei veneto-bizantinismi architettonici volgevano ormai al termine.
Di questi, il successivo episodio, significativo ma sostanzialmente conclusivo, era dato, sulla fine degli anni '30, dalla costruzione della sola chiesa effettivamente di rito bizantino edificata in Venezia dopo una lunga e nient'affatto lineare vicenda, che ebbe a opporre in qualche momento la comunità ellenica alla Serenissima: la San Giorgio dei Greci di Sante Lombardo, un edificio a navata unica il cui interno è partito, secondo la liturgia bizantina, da un ricco templon che immette in un presbiterio triabsidato. L'aula, voltata a botte, è coperta da una cupola su tamburo che accentra visibilmente lo spazio. Inconsueto e ricercato è il ricco disegno della facciata, impaginata secondo uno schema a due ordini, tripartita verticalmente e sormontata da un attico raccordato da volute.
Ai lati del portale e del finestrone circolare centrale, profonde nicchie inquadrate da edicole classiche articolano le superfici lapidee e cinque altre edicole si susseguono all'ordine superiore dei fianchi, mentre una sorta di serliana - pure a nicchie -s'inscrive nell'attico. L'idea architettonica rivela affinità tanto con una ricostruzione di tempio antico del Cesariano, quanto con una facciata di chiesa del trattato del Serlio, quanto ancora con un prospetto ideato per San Francesco della Vigna raffigurato in una medaglia del 1534, che presenta tra l'altro una trifora nell'attico. Del tutto inconsueto rispetto a ogni altra chiesa veneziana è, però, il ricorso insistito al tema delle nicchie edicolate, che Sante Lombardo riprende dal suo repertorio, ma che in San Giorgio dei Greci enfatizza e sviluppa. Ma, come per la cupola e le absidi, e persino forse per la serliana, vanno rilevate assonanze e reminiscenze bizantine, che la committenza dovette suggerire all'architetto. La volontà di autoidentificazione certamente espressa dalla comunità greca di Venezia appare dunque ben colta e interpretata dal Lombardo in un progetto per molti aspetti di mediazione fra retaggio greco-bizantino e forme rinascimentali, pur prevalenti (122).
Con le due ultime decadi del '400, frattanto, sia a seguito di fortuiti, disastrosi incendi, sia in conseguenza di una precisa politica di rinnovamento architettonico del volto della città, si era aperta una lunga e impegnativa serie di grandi interventi di ricostruzione di edifici pubblici che, naturalmente, non poteva mancare di contribuire in maniera determinante alla definizione degli orientamenti di fondo della cultura architettonica veneta.
Primo fra tutti, si riapriva il cantiere di palazzo Ducale. Pochi mesi dopo la decisione di chiamare Giovanni Bellini a dipingere nella sala del maggior consiglio, infatti, un gravissimo incendio scoppiato nella notte del 14 settembre 1483 arrecava danni considerevoli all'ala orientale, riservata per gran parte alla residenza ducale. Il doge si trasferiva provvisoriamente in palazzo Duodo e più tardi (17 giugno 1488) nel palazzo del primicerio di San Marco, mentre si apriva un'importante discussione sul da farsi (123). È rimasta precisa memoria di una proposta molto innovativa, avanzata da Nicolò Trevisan che prevedeva l'acquisto di tutti gli immobili posti dirimpetto al complesso ducale al di là del rio di Palazzo e compresi fra questo e la rettilinea calle delle Rasse. L'ala incendiata si sarebbe dovuta riorganizzare come sede della signoria, del collegio e dei savi e, gettato un ponte di pietra a cavalcare il canale, l'ampia area da acquisire sarebbe stata occupata da un nuovo palazzo per il doge e per i suoi giardini. Si sarebbe dunque operato uno sdoppiamento tra le fabbriche dei consigli e degli organi di governo e le fabbriche della corte ducale. Soluzione difficilmente accettabile in un contesto politico e istituzionale come quello veneziano.
Ed effettivamente non la si accolse. Accantonata, venne ripresa - con molta probabilità consapevolmente rispetto a siffatti precedenti - da Andrea Gritti e allora definitivamente abbandonata (124).
Il 21 maggio 1484, pertanto, si giunse a deliberare un intervento di ricostruzione sottoposto alla soprintendenza di un provveditore e sollecitatore della fabbrica (26 novembre 1485). Proprio allo scopo di accelerare i tempi, particolari privilegi di commercio furono concessi ai lapicidi lombardi chiamati al cantiere. Quanto ai lavori, questi furono affidati ad Antonio Rizzo che li diresse per lunghi anni, fino a che, sullo scorcio del secolo, non vennero alla luce una serie di malversazioni amministrative che lo spinsero alla fuga e alla morte in esilio. Al Rizzo - definito da alcune fonti architector palatii - si è generalmente attribuita anche la responsabilità progettuale della rifabbrica, nonostante l'ipotesi formulata di recente del coinvolgimento nell'ideazione, con ruolo determinante, di Mauro Codussi (125).
Certo è, tuttavia, che al di là del problema attributivo - che anzi è assai probabilmente di complessità maggiore di quanto non si sia detto - l'opera presenta caratteri di forte specificità, come pure tratti comparabili con varie architetture contemporanee, anche codussiane. Del resto, la fabbrica non soltanto non cancella del tutto i considerevoli condizionamenti strutturali dati dal risanamento e dall'ampio riutilizzo delle murature dell'edificio preesistente, ma non presenta neppùre un volto architettonico unitario, ricorrendo a soluzioni piuttosto diverse per il prospetto sul cortile e per quello sullo stretto rio di Palazzo.
La facciata interna è partita in due sezioni longitudinali: una, inferiore, è costituita da un lungo porticato su arcate a tutto sesto, rette da pilastri di sezione ottagonale, sormontato da oculi e da un'ininterrotta loggia ad arcate a sesto acuto, poggianti su pilastri e colonne addossate con basi medievaleggianti. Secondo gli schemi gotici, alla loggia si accede dalla ricchissima scala marmorea esterna che più tardi sarà detta dei Giganti. L'ordine superiore è invece formato da due piani marcati da alte trabeazioni e contraddistinti fra loro dal diverso disegno delle finestre, sormontate nel secondo piano da frontespizi curvilinei in aggetto su di un fregio; e le superfici parietali fra le aperture sono articolate da profondi riquadri. Le evidenti dissimmetrie, d'altra parte, oltre che dipendere dall'assetto strutturale preesistente, come già si è detto, corrispondono alla distribuzione delle funzioni negli ambienti interni e identificano con chiarezza, sulla sinistra della fronte interna orientale, la residenza del doge. In tal modo si annuncia verso la corte, al secondo piano, la sala dello Scudo: attraverso una pentafora, la cui collocazione non dipende da uno schema d'insieme, partita da colonne di spoglio di preziosi marmi antichi, rilavorate con fasce decorative da cui pendono ornati a festoni, con motivi a palmette e bucrani.
L'inaspettata ripresa goticizzante della loggia, peraltro, risponde a uno scopo preciso: quello di evitare un radicale stacco architettonico, una separazione netta fra il palazzo del doge, il palazzo dei consigli e la sede della giustizia. Conferma, attraverso gli strumenti dell'arte edificatoria, l'unità della sede del governo della cosa pubblica e la continuità nei confronti della recente tradizione.
Al tempo stesso, il prospetto orientale sul cortile del quale stiamo parlando si differenzia per tono e per magniloquenza rispetto alle altre facciate, in particolare a quelle occidentale e meridionale che mostrano le loro murature in cotto: il completo rivestimento del primo in pietra d'Istria, lo straordinario, intenso e ricchissimo apparato decorativo che ne occupa gli spazi e impedisce pause visive a chi osservi, enfatizzano ed esaltano la dignità ducale.
Ma il dispiego inusitato di magnificenza non è privo di ragioni celebrative. Conclusa nel 1482 la pace con l'antagonista ottomano e mossa guerra al duca di Ferrara, nel 1484 la Serenissima aggrega ai propri domini Rovigo e il Polesine e nel 1485 stringe un'alleanza venticinquennale con il ducato di Milano: nuova espansione e condizioni di sicurezza e prestigio internazionali accompagnano dunque l'apertura del cantiere e la fabbrica del Palazzo.
Tutto questo, in un contesto culturale come quello che si è ricostruito, non può non tradursi in opulenta magniloquenza antiquaria. Seppur in tono minore, i pilastri ottagonali delle arcate terrene non dimenticano i precedenti tardogotici del porticato esterno verso la riva e verso la Piazzetta: nel senso che anche i loro capitelli figurati formano un vero e proprio sistema iconografico. Una sorta di onomasticon dei motivi antichi, un repertorio che tesaurizza ed esibisce la propria erudita completezza di figurazione classica: tritoni e nereidi, sirene e chimere, delfini e mostruosi esseri, palmette, vasi sacrificali, are, scene mitologiche. L'alto fregio che separa i due ordini inferiori di arcate dalla sezione alta della facciata alterna tondi in marmi policromi a festoni sovrastati da patene baccellate o strigilate.
I frontespizi del secondo piano, poi, poggiano su di un lungo fregio a palmette, lavorato a niello, facendo cioè ricorso a una tecnica adottata in molte cornici architettoniche della vicina San Marco. Più sopra, il fregio della seconda trabeazione riprende e tratta con esuberanza i temi dei capitelli dei pilastri terreni, ornati fitomorfi e deità marine, grifi e aquile, figure di bestiario fantastico desunte da are e bassorilievi antichi mediati da taccuini circolanti negli ambienti nord-italiani, tra Lombardia e Veneto. A coronamento, una fascia alterna oculi o tondi di marmo ad aggressive, plastiche protomi leonine. Tutto ciò insieme con gli ornati a bassorilievo dei riquadri: le panoplie imperiali romane, le cornucopie incrociate dell'abbondanza, le faci della perennità.
Sotto molti aspetti - dall'incontenibile ridondanza decorativa ai motivi cui questa ricorre, all'altezza dei fregi, agli oculi, ai riquadri a cassettoni - nella facciata si rivelano elementi di stretta prossimità con vari disegni di prospetti all'antica del taccuino Rotschild e con le sue matrici lombarde. E comunque aspetti piuttosto lontani dalla sensibilità codussiana, nitida e armonica, anche se alcuni raffronti diretti con palazzo Zorzi e con Ca' Loredan sono plausibili, per quanto di interpretazione non univoca.
Una piccola iscrizione in cartiglio sull'ultimo pilastro meridionale del prospetto, anche se tarda (forse degli anni della conclusione dei lavori nel corso del dogado di Francesco Donà, tra il 1545 e il 1553) offre una chiave contemporanea alla lettura della straordinaria fabbrica, invocando "Venetia potente, Marco [che> domina e trionfa" e, sia pure non a pieno titolo, richiamando ai principi - quanto meno come strumenti ideali - di quell'arte edificatoria che l'aveva realizzata: "ordene, numero, mesura".
Si è accennato alla grande scala scoperta che dal cortile raggiunge la loggia. Di concezione architettonica semplice, ma nobilitata e impreziosita dal rivestimento in marmi colorati, serrati e incorniciati in riquadri lapidei di fini motivi anticheggianti, dai trafori delle balaustrate e dalla decorazione a niello dei gradini, la scala maggiore conduce a tre alti e ancora decoratissimi fornici trionfali, il centrale dei quali, più ampio, è sormontato dal leone marciano, che interrompono la sequenza delle arcate a sesto acuto. La scala, in tal modo, costituisce la parte ascendente, simbolicamente terminale, d'un percorso cerimoniale formato dal lungo androne di accesso al cortile ducale, con il quale si trova in asse, che dalla porta della Carta raggiunge l'arco Foscari. Ascesa al palatium ducis: in effetti proprio la scala - dove il doge eletto viene accolto dai consiglieri, dove è coronato dal corno ducale, dove riceve il governo della Repubblica e pronuncia la sua promissione - costituisce un fondamentale nodo liturgico pubblico. Sono insomma le funzioni rituali della scala maggiore e dell'ampio cortile a determinare la profusa magnificenza del prospetto orientale interno.
Questo, peraltro, trova prosecuzione coerente nel rifacimento della facciata nord, che guarda verso il cortiletto dei senatori e la scala. La loggia terrena, fregiata dello stemma Loredan, non si discosta dalla struttura di quella contigua. L'ordine superiore, invece, attribuito allo Scarpagnino, s'impreziosisce del rivestimento a lastre marmoree ed è scandito da auliche finestre ad edicola, con frontoncino su trabeazione a tarsie lapidee e colonne a basi cilindriche poggianti su mensole ornate, come ai Miracoli, da volute ioniche.
Diverso, si diceva, è l'aspetto della fabbrica verso il rio di Palazzo. Non certo dimesso o trattenuto di tono, ma di eloquio nell'insieme meno enfatico, meno sovrabbondante. Gli elementi di cultura architettonica che vi sono individuabili, d'altronde, in buona parte corrispondono bene a quelli della facciata considerata in precedenza, anche se non mancano differenze ragguardevoli. Anche in questo caso la lunga superficie muraria sul canale è partita orizzontalmente da alte trabeazioni con cornici di forte aggetto, ove compaiono tanto la sequenza di tondi a marmi preziosi, quanto la sovrapposizione di frontespizi ad arco ribassato. Le riquadrature vi sono profonde, le forme articolate e concatenate. Dal repertorio dei taccuini di disegni dall'Antico deriva certamente il motivo delle finte finestre desunto da monumenti sepolcrali, che, insieme con altri espedienti, partecipa con l'attenta manipolazione del telaio di elementi orizzontali e verticali al controllo, almeno visivo, delle dissimmetrie e delle irregolarità vistose dipendenti dalle strutture medievali riutilizzate. Un'importante, anche se non assoluta, novità è introdotta dall'alto zoccolo basamentale a punte di diamante alternamente sporgenti e rientranti - che certo è memore della fabbrica interrotta di Ca' del Duca sul Canal Grande ed ha lo scopo di tradurre in segno di potenza l'inerte massa muraria. Sono ancora numerosi gli accorgimenti volti a rendere architettonicamente vitale la vasta superficie: il leggero aggetto verso l'esterno dei portali d'acqua, la sporgenza decrescente delle robuste cornici, l'ancora decrescente importanza formale attribuita dal basso verso l'alto alle finestre dei tre piani principali oltre il terreno e l'ammezzato.
Cura e coerenza, dunque, sono ravvisabili nell'elaborazione di una singolare architettura di magnificenza, concepita mediante un procedimento allusivo. Restituendo, cioè, mediante l'abile manipolazione di frammentari reperti - come li potremmo definire - un'eloquenza solenne della quale la grandezza originaria è intuita senza partecipare al possesso delle sue precise regole.
Il dispiego di forme, il cospicuo impegno di risorse pubbliche per la grande fabbrica di palazzo Ducale non rappresenta peraltro, nel primo Rinascimento veneziano, né un evento isolato, né un atto di committenza pubblica separato da considerazioni politiche sul rapporto tra res publica e res aedificatoria.
Queste ultime, infatti, hanno modo di emergere in rapporto con un altro evento architettonico di rilevante importanza per l'area marciana: l'edificazione, principiata nel 1496 e conclusa tre anni più tardi, della torre delle Ore o torre dell'Orologio, progettata da Mauro Codussi (126).
La funzione dell'edificio, che con un alto passaggio voltato cavalca l'imbocco delle Mercerie, è quella di alloggiare i meccanismi dell'orologio, i movimenti che animano il saluto dell'angelo e dei magi alla Vergine con il Bambino, il grande leone alato e l'omaggio a questo del doge Agostino Barbarigo e, sulla terrazza superiore, i due mori che, colpendo con le loro mazze la campana di bronzo, scandiscono il tempo della piazza pubblica e della città. Per una siffatta serie di congegni e di gruppi scultorei non vi era altra soluzione possibile che quella di un corpo turrito risolto nell'ordine inferiore come un arco sulla via pubblica. La cura architettonica della fabbrica è palese: il prospetto sulla Piazza appare severamente controllato da precisi rapporti proporzionali, l'arco trionfale terreno, che addossa colonne ai pilastri, è impreziosito da crustae e tondi marmorei, gli ordini superiori digradano progressivamente in altezza.
L'opera realizzata, peraltro, è ricca di allusioni simboliche: ospitando i meravigliosi meccanismi si mostra alla Piazza come una palese metafora celebrativa della politica dell'inzegno già inaugurata dalla Serenissima che, con il decreto del 1474, istitutivo della concessione di privilegio pubblico su ogni "inzegnoso artificio, non facto per avanti nel Dominio nostro", richiama a sé e sollecita tecniche, saperi e invenzioni e i loro detentori e artefici (127).
Come appunto, sottolinea la letteratura cinquecentesca, è accaduto all'inventore dei congegni della torre che "famoso nelle matematiche e di molta esperienza in così fatti magisteri [...> si fermò in queste parti e fece diverse cose degne di memoria in diversi luoghi dello stato" (128).
Ma al contempo, l'architettura codussiana, come soglia d'accesso in boca de merzaria alle viscere mercantili dello spazio urbano è preannuncio di altre, universali meraviglie che appunto le Mercerie esibiscono quale prova dell'universalità del commercio dei Veneti. Poiché l'arco della torre delle Ore immette "per una strada verso Rialto, da ogni banda botteghe" dove "tutte cose che si sa et vol dimandar vi si trova et quando viene adornata - però che tutti li Signori la vuol veder - è delle degne cosse de Venetia" (129). Introduce cioè a un percorso mercantile che tende a tradursi in rituale profano di ostentazione dell'opulenza della città: "grande è la possanza della mercatanzia" aveva scritto in quegli anni Bernardo Giustinian, "specialmente di mare. Tutto quel che c'è in ogni loco è suo" (130).
Ora, proprio in rapporto alla torre delle Ore si rivela molto significativa una testimonianza di Domenico Malipiero: appena dato principio alle fondazioni della nuova costruzione e benché si fossero rallentati i lavori all'ala est di palazzo Ducale per le spese da affrontare nel corso della guerra di Napoli, si decide di proseguire comunque i lavori - fra l'altro a meno di tre mesi dall'inaugurazione del monumento equestre a Bartolomeo Colleoni in Campo dei Santi Giovanni e Paolo - come prova della solidità economica e della stabilità della Serenissima: "azzoché non para [non sembri> che la terra sia del tutto senza danari è sta' dà principio a questo lavoro" (131).
La precisazione è importante, poiché l'anno successivo Domenico Morosini inizia la stesura del suo De bene instituta re publica, dove una siffatta posizione è accolta e sviluppata come teorizzazione di una politica di grandi interventi di qualificazione dimostrativa dell'immagine urbana. La città magnificente, infatti, dissuaderà ogni vicino dall'arrecarle ingiuria. La sua grandezza e la bellezza dei suoi edifici la renderanno più sicura nei confronti di eventuali aggressori, che non potranno non dedurre dal suo aspetto la sua potenza (132).
Credito internazionale e forma urbis, dunque procedono di pari passo: e proprio in questo preciso contesto trova spiegazione adeguata l'impresa di Jacopo de' Barbari, condotta tra il 1498 e il 1500, di rappresentazione prospettica di Venezia e trova esplicita legittimazione il convinto impegno pubblico in opere di aggiornamento architettonico coerenti con i tratti primari di un'identità politica della città-stato in via di parallela rielaborazione e consolidamento.
La ricostruzione della torre, in effetti, comporta a breve distanza di tempo l'edificazione di due ali laterali, per la quale s'impegna a fornire materiali Pietro Lombardo (1503). Nel 1504 si elegge un deputato sopra le fabbriche di Rialto e di San Marco e l'anno successivo si collocano in opera i pili dei gonfaloni di fronte alla Basilica. Si delineano, insomma, alcuni dei precedenti della ricostruzione di tutta la fronte edilizia che delimita a settentrione piazza San Marco, la lunga serie delle case della Procuratoria (133).
Un incendio, nel 1512, accelera i processi decisionali: Antonio Grimani, procuratore di San Marco, "vol farle da novo e bellissime, che sarà onor de la terra". La fabbrica delle Case nuove della Procuratia, quelle che ora sono note come Procuratie vecchie, viene aperta in tal modo nel 1514, per concludersi definitivamente nel 1532.
"Una banda di case tutte uguali di altezza e di lunghezza, che corre fino all'estremo della piazza" le definisce Francesco Sansovino, "con la faccia uguale di simmetria, posta su pilastri e colonne di finissima pietra d'Istria, in tre suoli [solai>, tanto vaga e ricca a vedere che nulla più" (134). Effettivamente si tratta di assai più che un allineamento edilizio dal prospetto nobilitato per materiali impiegati e per linguaggio architettonico.
Le Procuratie, che al pianterreno, lungo un percorso porticato, accolgono una lunga sequenza di botteghe riservando a funzioni abitative i due piani superiori, organizzano l'affaccio verso piazza San Marco di calli e canali limitrofi, collegano mediante i portici le Mercerie a calle dei Fabbri e alla Frezzeria: intervengono, dunque, a concludere e a conformare la testata marciana del sistema centrale di aree e di percorsi mercantili.
È del tutto conseguente, pertanto, l'importanza attribuita alla realizzazione del complesso edilizio nell'aggiornamento architettonico dell'immagine della platea marciana. La positiva valutazione di Francesco Sansovino che abbiamo riportato riferisce l'intervento a mastro Bono proto di San Marco, ossia a Bartolomeo Bon proto della procuratoria de supra fra il 1505 e il 1529. E certamente questi dovette avere un ruolo rilevante nella realizzazione del complesso, come mostrano di suggerire anche alcuni elementi stilistici; nonostante, però, Giovanni Celestro, figura piuttosto enigmatica, risulti l'autore del modello delle prime case ricostruite dopo l'incendio del 1512 e che dovettero costituire il prototipo seguito nella ricostruzione.
Come di consueto, se si tiene conto anche dell'organizzazione del cantiere - che per economia fa ricorso alla prelavorazione di numerosi elementi architettonici - il quadro delle responsabilità si affolla, dal momento che vi compare ancora un nome di certa importanza, quello del bergamasco Guglielmo de' Grigis (135).
Cinquanta arcate terrene su piedritti a sezione quadrata, dalle facce articolate da riquadri incavati, con modanature di grande semplicità, reggono dunque due lunghe, ininterrotte teorie sovrapposte di finestre, inquadrate fra colonne scanalate con capitelli corinzi e separate da due trabeazioni dai fregi alti e privi di ornamenti; concludendosi in alto con un terzo fregio traforato da oculi ridotti a semplici aperture circolari. Il prospetto, infine, è coronato da una lunga merlatura in pietra d'Istria i cui elementi, alternati a vasi all'antica pure in pietra, continuano un'abitudine medievale dell'edilizia civile veneziana.
Le possibilità di confronto dei caratteri delle Procuratie vecchie con edifici contemporanei sono molteplici: nella fabbrica, allora ancora aperta, della nuova ala di palazzo Ducale, ad esempio, è possibile ritrovare la fonte legittimante della serie di oculi. Così come nei porticati terreni del fontego dei Tedeschi stanno i precedenti immediati della severità funzionalistica del porticato antistante le botteghe delle Procuratie, spoglio di ogni richiamo agli ordini architettonici antichi nonostante si apra sulla Piazza. E altro si potrebbe aggiungere.
La circostanza di maggior rilievo, ad ogni modo, è tutt'altra. Consiste cioè nel fatto che l'edificio del primo '500 riproduce con una sorprendente fedeltà la costruzione delle Procuratie edificate da Sebastiano Ziani (1172-1178) e ben note nel loro aspetto dal dipinto della Processione della reliquia di Gentile Bellini (1496) e dalla pianta prospettica di Jacopo de' Barbari, di poco più tarda.
La fabbrica romanica in entrambi i documenti iconografici appare infatti come un lungo porticato dalle medesime dimensioni dell'edificio cinquecentesco, con arcate a tutto sesto sostenute da colonne con semplici capitelli a cubo scantonato: il lungo loggiato superiore, ad arcate più snelle, porta anch'esso una merlatura di coronamento. Al di là della differenza di un piano, aggiunto nella riedificazione, quella protorinascimentale risulta dunque una vera e propria trascrizione del modello medievale, si configura come l'aggiornamento stilistico di un ῾discorso' architettonico medievale.
La situazione, come si noterà, non è nuova: da un lato si tratta senza dubbio della conferma ulteriore di una tendenza radicata e diffusa sulla quale ci si è già soffermati in più occasioni. È questo ancora un caso esemplare e culturalmente centrale di quanto abbiamo definito renovatio more veneto.
Dall'altro, l'episodio architettonico è rivelatore di un'ormai accentuata sacralizzazione delle forme del passato, di una dichiarata immutabilità della species urbis, dei limiti, cioè, imposti alla res aedificatoria nel momento stesso in cui se ne consacra la funzione politica; della fidelitas che le viene esplicitamente richiesta.
Tra il 1505 e il 1508, intanto, la scena delle ricostruzioni s'era allargata, ancora in rapporto a un evento fortuito, coinvolgendo l'altro capo del sistema commerciale centrale dello spazio urbano veneziano, a ridosso del mercato di Rialto. Si riedificava il fontego dei Tedeschi, la più cospicua delle strutture destinate al servizio dei traffici internazionali della Serenissima, "si può dire una picciola città nel corpo di questa nostra", organizzata per accogliere merci e attività amministrative, per alloggiare mercanti e ospitare transazioni (136). Sorto immediatamente a ridosso del più importante nodo mercantile della città - come accade anche per gli analoghi complessi edilizi in città vicino-orientali come Aleppo - e integrato funzionalmente nella rete di distribuzione commerciale mediante la serie di botteghe al pianterreno allineate sulle due calli limitrofe, il fontego stabilisce inevitabilmente un rapporto privilegiato con il transito acqueo assicurato dal Canal Grande: organizzato nel prospetto in tre sezioni, la centrale delle quali è qualificata da un alto e profondo portico in cinque arcate, aperto sulle acque ad accogliere uomini e cose.
Lo stacco delle due ali laterali è marcato da un lieve aggetto e una lunga merlatura in pietra d'Istria corona la fronte dell'edificio. Per questi aspetti, dunque, vi risultano ripresi nelle linee essenziali i tratti distributivi della facciata di un'antica casa-fondaco medievale, sino nel numero di arcate del portico, che è uguale a quello delle vicine Ca' da Mosto e Ca' d'Oro. Della casa con torreselle, del resto, il fontego mostrava le caratteristiche assai più in passato, per via dei due corpi angolari sopralzati alle ali, documentati dalle fonti iconografiche e demoliti nella prima metà dell'800.
In ragione dell'organizzazione interna degli spazi, l'architetto rinuncia a ricorrere al peculiare tema veneziano della polifora in facciata, limitandosi a compartire quest'ultima con cornici marcapiano e a binare le finestre per interrompere l'uniformità della superfice muraria, oltre che a diversificarne l'aspetto e a scalarne l'importanza via via che dal primo si sale al terzo piano superiore. Gli affreschi giorgioneschi intervenivano ad alleggerire visivamente il prospetto, altrimenti poco coerente da questo punto di vista con il policromo e luminoso continuum della fronte edificata sul Canal Grande nella quale era stato inserito.
All'interno, un cortile quadrato con pozzo centrale è racchiuso fra portici sui quali poggiano tre ordini di logge di dimensioni tra loro correlate con attenta cura. Non è improbabile che i porticati riprendessero alcuni caratteri dell'edificio preesistente, basti pensare alla loggia che s'intravede nel cortile occidentale del Fontico d'Alamani raffigurato dalla pianta prospettica del de' Barbari. Ma è anche certo che sussistono molte e strette analogie tra la forma e le funzioni di quest'edificio e alcuni tipi di edifici commerciali, han intraurbani e funduk, che sovente aggregavano pure botteghe all'esterno: architetture ben note nella Venezia contemporanea a mercanti e viaggiatori che ne parlano e che risultano al corrente anche del grande rinnovamento tardoquattrocentesco e primocinquecentesco dell'edilizia mercantile a Istanbul, oltre che dei tipi edilizi siriani presenti a Damasco e ad Aleppo e di parte di quelli nord-africani (137).
Nitida organizzazione di spazi e severa cura di forme contraddistinguono il fontego veneziano dei mercanti tedeschi. Il cui progetto, comunque, resta di difficile attribuzione, nonostante la non scarsa documentazione che ci è nota. Il decreto del senato del 19 giugno 1505 che delibera la rifabbrica parrebbe perentorio a questo proposito: "far se debi juxta el modello composto per [...> Hieronymo Todescho", sul progetto perciò d'un architetto presente tra i mercanti del fontego, conosciuto e ritratto dal Dürer. E questo "per la nobel e ingeniosa composizione e construzione" oltre che per il numero di camere, magazzeni, volte e botteghe previsti nel piano (138).
Sappiamo peraltro che Giorgio Spavento, proto dei procuratori di San Marco, presenta due modelli e che comunque segue il cantiere compatibilmente con le sue numerose incombenze; e che Antonio Abbondi detto lo Scarpagnino, proto dei provveditori al sal, collabora al controllo delle opere. Non è improbabile quindi che la corretta interpretazione dei testi sia quella di chi ha visto in Gerolamo Tedesco l'autore dello schema funzionale e distributivo dell'edificio e nello Spavento - che in San Salvador dimostra assai bene le sue qualità - l'interprete architettonico dell'impostazione elaborata a cura della comunità mercantile tedesca. Mentre allo Scarpagnino, incaricato del cantiere, spetta almeno l'architettura del portale di terra.
La questione, già non semplice, non è tuttavia neppure circoscrivibile a queste possibilità: dal momento che un contemporaneo alle vicende del fontego propone un ulteriore, affascinante riconoscimento di paternità, cui conseguirebbe un'altrettanto affascinante serie di deduzioni interpretative.
Fra Giocondo veronese, umanista architetto ed editore di Vitruvio, secondo Pietro Contarini sarebbe il vero autore dei disegni del fontego, nel quale parte della storiografia a noi contemporanea vedrebbe l'adozione della pianta del foro greco descritta da Vitruvio e riproposta da fra Giovanni Giocondo alcuni anni più tardi nel progetto per la ricostruzione di Rialto sul quale si dovrà ritornare (139).
Numerosi sono però gli argomenti che si oppongono a tale ipotesi. Prima fra tutti, a nostro avviso, la scarsa attendibilità culturale del Contarini, che nei suoi scritti mostra un'erudizione raffazzonata e talora confusa, tanto da essere giudicato piuttosto severamente da uno storico della letteratura veneziana come Marco Foscarini (140). Ma contro un'implicazione progettuale di fra Giocondo va anche la non corrispondenza tra l'impianto dell'edificio, la descrizione e la ricostruzione del foro alla maniera greca data da quegli nel Vitruvio del 1511. Semmai, la pianta del fontego presenta affinità - ma anche discordanze - con quella presentata nella stessa opera a illustrare la voce icnografia (141). In definitiva, mentre l'uso di corretti rapporti proporzionali si può spiegare agevolmente quanto meno mediante la cura di Giorgio Spavento, le affinità del fontego con il foro greco di fra Giocondo si dimostrano generiche e semmai riconducibili allo stesso ordine di somiglianze osservate da tempo fra il tipo classico di han intraurbano, dominante nel bacino orientale del Mediterraneo fin dall'epoca mamelucca, e l'agorà ellenistica (142).
L'intervento del fontego, per altro verso, segna una svolta determinante nelle attitudini della Serenissima nei confronti del problema della pubblica magnificenza architettonica. Se Domenico Morosini pochi anni prima aveva sostenuto la tesi della necessità di questa in ogni parte della città, i dubbi, le riflessioni e il mutamento di orientamenti precedono la crisi conseguente alla sconfitta di Agnadello e si ricollegano alle tendenze alla moralizzazione della vita civile e sociale veneziana che caratterizzano il lungo dogado di Leonardo Loredan (1501-1521).
Il linguaggio architettonico del fontego, infatti, è quanto mai severo e spoglio. Tranne che nel portale orientale di ordine corinzio, ma giustificato attraverso i molteplici richiami al pubblico dati da leoni marciani associati al putto con cornucopia della chiave d'arco: trasparente allusione iconografica; tranne che in questo, dunque, vi si ricusa il sia pur minimo accenno all'uso degli ordini architettonici e si rinuncia alle consuete decorazioni a bassorilievo e a marmi policromi. Tutto ciò non per caso o per scelta progettuale o dei mercanti alemanni, bensì per esplicita imposizione del decreto del senato dell'estate del 1505, che vieta l'impiego dei marmi preziosi e ogni lavoro di intaglio e prescrive invece il ricorso alla pietra viva, "batuda de grosso et da ben", ossia lavorata con semplicità secondo le regole dell'arte. Tutto ciò, peraltro, non contrasta con l'"ornamento de questa città" esplicitamente richiamato nel testo. Il momento è importante: poiché allora viene affermandosi la precisa scelta del richiedere all'architetto e alle sue architetture di commisurare il linguaggio al decoro del sito, articolandolo e graduandolo, in rapporto all'utile e al conveniente, fra la sobrietà che si richiede ai luoghi della mercatura, l'ornato aspetto da attribuire alle sedi di essenziali funzioni pubbliche e l'aulico dispiego di forme che va riconosciuto a quelle delle primarie istituzioni. Si inaugura qui, insomma, ai primi del '500, l'atteggiamento della committenza di Stato che informerà tutti gli interventi pubblici di età rinascimentale e che verrà sostanzialmente teorizzato, alla metà del secolo, dal commento a Vitruvio di Daniele Barbaro (1556).
In effetti, le indicazioni date dall'architettura del fontego dei Tedeschi s'imporranno come regola inderogabile nella ricostruzione di Rialto affidata dopo il nuovo incendio del 1514 ad Antonio Abbondi, lo Scarpagnino, il proto al sal così aspramente beffeggiato da Giorgio Vasari (143). Le nuove costruzioni adibite a botteghe, volte, uffici pubblici - il palazzo dei dieci savi sopra le decime con la Drapperia su ruga degli Oresi e altro, il complesso che contorna la piazza di San Giacomo di Rialto in forma quadra - sono risolte mediante schemi architettonici di grande semplicità, che imprimono all'area del mercato un carattere di unitario e uniforme funzionalismo. Si tratta di lunghi fabbricati su portici in pietra d'Istria, sorretti da piedritti quadrangolari, privi persino di riquadrature. I due piani superiori, marcati da alte trabeazioni, mostrano pareti in cotto intonacato nelle quali si aprono finestre rettangolari semplicissime.
Quella realtina è dunque, incontrovertibilmente, l'architettura della parsimonia e dell'utile per gli spazi del negozio, simbolica garanzia dell'oculato governo della spesa pubblica, dove la solidità delle regole dell'arte si afferma come silenziosa virtù, aliena dall'eloquio adorno dell'Antico. E permarrà la regola del luogo in rapporto alle sue funzioni: così che anche Jacopo Sansovino, nelle Fabbriche nuove, per potervi impiegare gli ordini classici dovrà semplificarne il disegno, ridurne, forzandolo, l'uso espressivo.
Nel quadro della ricostruzione del mercato, tuttavia, trova luogo anche l'opposto: lo sfoggio di ornamenti, l'ormai tradizionale policromia dei marmi, la ricchezza del completo rivestimento dei prospetti in pietra d'Istria. Tutto questo nel palazzo dei Camerlenghi, l'aerarium della Repubblica, databile fra il 1525 e il 1528. Non si tratta di una radicale ricostruzione; ma anzi, dell'abile trasformazione in un corpo di fabbrica unitario, per quanto di pianta molto irregolare, di tre edifici preesistenti (144).
Innanzitutto quello che, a quanto sembra, conduce ancora lo Scarpagnino è un intervento di economia, di peritissimo reimpiego, che affonda le sue radici in una lunga esperienza tecnica di recupero di preesistenze. L'apparato decorativo esterno, i paramenti lapidei di facciata, pertanto, particolarmente evidenti nel contesto edilizio realtino come lo si è descritto, hanno lo scopo di conferire unità stilistica alla riunificazione funzionale operata nelle strutture. E di adeguarla all'elevata dignità pubblica cui l'edificio è deputato: classicamente, dignità quasi sacrale, se l'aerarium di Roma, come attesta Plutarco, aveva sede nel tempio di Saturno (145).
Per quanto con difficoltà e rammentandosi precedenti strutture gotiche, il proto cerca dunque di evocare modi dell'impaginato di facciata tradizionale, aprendo trifore sui prospetti verso il Canal Grande e verso ruga degli Oresi, usa ricchi capitelli figurati a motivi diversi e inquadra l'accesso di terra in un portale corinzio molto simile a quello del vicino fontego dei Tedeschi, anche se più prezioso a cagione delle crustae marmoree che lo decorano. E partisce orizzontalmente la fabbrica con le consuete alte trabeazioni che mostrano fregi esornati a tondi marmorei collegati dal motivo classico dei festoni. Come provano anche il pilastro e i semipilastri a sezione ottagona delle ampie arcate retrostanti, aperte sulla Naranzaria, il palazzo dei Camerlenghi rappresenta una versione libera, meno aulica e comunque di deliberata magnificenza, di modi dedotti dall'ala orientale di palazzo Ducale. Toni diversi si affermano pertanto nelle architetture realtine, come s'era detto, e - tanto più quando si tenga conto anche dei caratteri dei rifacimenti delle chiese di San Giovanni Elemosinario e San Matteo - vi è del tutto manifesta l'adesione ufficiale alle vie della tradizione consolidata.
L'anno successivo a quello della presumibile conclusione dei lavori ai Camerlenghi, Jacopo Sansovino veniva nominato proto della procuratoria di San Marco: l'architettura dell'isola e del mercato di Rialto rappresenta pertanto uno dei più diretti ed espliciti ambiti di verifica dello stato della cultura architettonica veneziana del primo '500, dell'articolarsi ma anche del consumarsi delle capacità inventive di quella che abbiamo definito renovatio more veneto.
Di una tendenza culturale della quale tuttavia una pagina di Andrea Calmo, scritta negli anni '40 del secolo XVI, esprimerà la piena consapevolezza. Alla grandezza dell'antica Roma imperiale e della moderna papale, Venezia contrappone il tema della continuità e del superamento - "Veniesia xe sta' superativa" - e, insieme con la testimonianza delle proprie antiche e moderne architetture, la capacità di Rialto di far accorrere genti e accogliere moltitudini:
e nu havemo el tresoro, la giesia con el campaniel de San Marco, la giesia de San Salvador, de San Zacaria, de San Michiel, la Ceca, el gran Conseio, l'Arsenal, el Canal Grando, la cuba de San Zanepolo, el gobo de la piera del bando, Bartolomeo da Bergamo indorao, la lozeta in piazza [...> le fabbriche del dose e de Rialto, e 'l ponte de Canareio de legno d'un pezzo; no ve digo può d'i Camerlenghi e de la prospettiva de la Scuola de San Roco e de la machina de la Misericordia e de San Marco d'i batui e de un ponte così forbio, che traversa el canal, pien de boteghe e de viandanti, che par proprio che ogni dì sia el giubileo, tanta xe la moltitudine de la zente che passa suso e zoso (146).
A Rialto, insomma, il primo '500 aveva confermato in pieno la tradizione e praticato il ritorno alla parsimonia delle origini: proprio qui, d'altronde, la cultura vitruviana aveva subito, in questi stessi anni, una sua prima grave sconfitta.
Il problema della ricostruzione, infatti, non era stato affrontato soltanto dal proto Scarpagnino, ma da numerosi altri architetti fra i quali Giovanni Celestro, Alessandro Leopardi e soprattutto fra Giovanni Giocondo.
Ma il progetto di quest'ultimo - respinto secondo il Sanudo perché "non capisse [capisce> il loco", per l'incapacità, cioè, di controllare le varie, intrecciate e interagenti complessità del sito - il progetto di fra Giocondo, si diceva, aveva rappresentato il momento culminante di un'elevata e innovativa temperie culturale.
Come narra il Vasari, il teorico e architetto domenicano aveva concepito una rifabbrica radicale, in forme rigorosamente regolari, di severa solennità. Un atto urbanistico davvero unitario, che avrebbe rinnovato integralmente il cuore della capitale mediterranea alterum Byzantium, allo stesso modo in cui il rinnovamento di Costantinopoli in Istanbul ottomana aveva rifondato integralmente il centro mercantile della capitale d'Oriente nelle immediate vicinanze dell'antico Forum Tauri o Theodosiakos phoros (147).
Quella vasariana è la documentazione più ampia, attendibile e intellettualmente partecipe del progetto, oltre che la prova diretta della fama e del credito che ne accompagnò il ricordo fin oltre la metà del '500:
Voleva occupare tutto lo spazio che è fra il canale delle beccherie di Rialto ed il rio del fondaco delle farine, pigliando tanto terreno fra l'uno e l'altro rio, che facesse quadro perfetto; cioè, che tanta fusse la lunghezza delle facciate di questa fabrica, quanto di spazio al presente si trova camminando dallo sbucare di questi due rivi nel canal grande. Disegnava poi che li detti due rivi sboccassero dall'altra parte in un canal comune che andasse dall'uno all'altro, talché questa fabrica rimanesse d'ogni intorno cinta dall'acque, cioè che avesse il canal grande da una parte, li due rivi da due, ed il rio che s'avea a far di nuovo dalla quarta parte. Voleva poi, che fra l'acqua e la fabrica intorno intorno al quadro fusse o vero rimanesse una spiaggia o fondamento assai largo, che servisse per piazza, e vi si vendessero, secondo che fusseno deputati i luoghi, erbaggi, frutte, pesci, ed altre cose che vengono da molti luogi alla città.
Era di parere appresso, che si fabricassero intorno intorno dalla parte di fuori botteghe che riguardassero le dette piazze, le quali botteghe servissero solamente a cose da mangiare d'ogni sorte. In queste quattro facciate aveva il disegno di Fra Iocondo quattro porte principali; cioè una per facciata posta nel mezzo, e dirimpetto a corda all'altra: ma prima che s'entrasse nella piazza di mezzo, entrando dentro da ogni parte, si trovava a man destra ed a man sinistra una strada; la quale girando intorno il quadro, aveva botteghe di qua e di là, con fabriche sopra bellissime e magazzini per servigio di dette botteghe, le quali tutte erano deputate alla drapperia, cioè panni di lana fini, ed alla seta; le quali due sono le principali arti di quella città: ed insomma, in questa entravano tutte le botteghe che sono dette de' Toscani e de' setaiuoli. Da queste strade doppie di botteghe, che sboccavano alle quattro porte, si doveva entrare nel mezzo di detta fabrica, cioè in una grandissima piazza con belle e gran loggie intorno, per commodo de' mercanti e servizio de' popoli infiniti, che in quella città, la quale è la dogana d'Italia, anzi d'Europa, per lor mercanzie e trafichi concorrono. Sotto le quali loggie doveva essere intorno intorno botteghe de' banchieri, orefici e gioiellieri, e nel mezzo aveva a essere un bellissimo tempio dedicato a San Matteo, nel quale potessero la mattina i gentiluomini udire i divini uffizii. Nondimeno dicono alcuni che, quanto a questo tempio, aveva Fra Iocondo mutato proposito e che voleva farne due, ma sotto le loggie, perché non impedissero la piazza. Doveva, oltre ciò, questo superbissimo edifizio avere tanti altri comodi e bellezze ed ornamenti particolari, che chi vede oggi il bellissimo disegno che di quello fece Fra Iocondo, afferma che non si può imaginare, né rappresentar da qualsivoglia più felice ingegno o eccellentissimo artefice, alcuna cosa né più bella né più magnifica, né più ordinata di questa. Si doveva anche col parere del medesimo, per compimento di quest'opera, fare il ponte di Rialto di pietre e carico di botteghe, che sarebbe stato cosa maravigliosa (148).
Un quadro perfetto: Rialto avrebbe assunto quindi la forma di un forum quadratum et columnis ornatum more graeco, di un foro greco, di un'agorà dunque, di pianta quadrata, delimitata da vastissimi, duplici porticati e ornata da colonne collocate a brevi intervalli fra loro e da architravi marmorei secondo la descrizione di Vitruvio (149). In tal modo, nel sito della potenza commerciale della città marciana si sarebbe verificato il primo Rinascimento architettonico dell'antica Ellade.
Nonostante l'esito della vicenda, la circostanza non è da poco. Sono questi stessi, infatti, gli anni in cui per Venezia, mercato delle arti e del mondo, il pensiero umanistico accosta al tema del superamento quello del gareggiare con l'Antico: "cum omni antiquitate contendere". Per la prima volta allora, l'aspirazione quattrocentesca a superare Atene si dà per realizzata nella cultura artistica, poiché "non c'è nazione così remota e così nascosta da non avere molte opere fatte a Venezia con il massimo della perfezione", e la competizione si allarga ancora ad Alessandria. A malapena, si afferma infatti, nell'intera sua storia quest'ultima aveva accolto tanti uomini di sapere "quanti [Venezia> [...> ne ha avuti in un solo secolo" (150). Ma c'è di più. Va rivisto in questa luce anche un altro progetto formulato nel 1515, pur se realizzato più tardi. Quello, cioè, di edificare sulla Piazza - "in foro Divi Marci" - la pubblica libreria formata principalmente dai libri greci del Bessarione: scrigno del "segreto dell'antichità veneranda" - per usare le parole di Vettor Fausto pubblico professore di lettere greche alla cattedra di San Marco - trasmesso ai Veneti "terrae Graeciae domini", signori della terra di Grecia, dopo la fine di Costantinopoli imperiale. E nel 1513 era stato posto in opera l'angelo dorato del campanile di San Marco - la "torre radiante del protector nostro" - simile alla "statua posta sopra un'altissima torre d'Athene [la> qual girando mostra la qualità de' venti", come indicava con stringente analogia l'immagine ricostruttiva di quest'ultima data appunto dal Vitruvio di fra Giocondo (1511) (151).
Il progetto realtino, dunque, sembra rappresentare la sintesi, culminante e caduta, di quella versione ellenizzante, aristocratica ed elitaria che aveva contraddistinto fin dalle sue origini il ritorno veneziano all'antichità classica.
Esprimeva l'idea urbana e architettonica di quei filellenes veneziani che dalle Scuole della Serenissima "si vedono uscire ogni anno [...> come dai fianchi del cavallo di Troia [...> che si potrebbe credere che siano nati nel seno della Grecia o che appartengano alla stirpe degli Ateniesi" (152).
Del resto, in questi stessi ambienti umanistici, la ricerca delle forme architettoniche della tradizione classica si articolava in più direzioni. E nel 1511 un'operetta nata nella cerchia manutina, il De comoedia libellus di Vettor Fausto, proponeva una ricostruzione della scaenae frons fondata sull'Onomastikon di Giulio Polluce. Sulla scena antica, vi si affermava, si aprivano cinque porte. La centrale era la dimora del protagonista, accanto alla quale stavano quella del secondo attore e un'altra casa o talora un tempietto abbandonato; dall'ultima porta di sinistra faceva il suo ingresso chi proveniva dalla città e dalla corrispondente di destra chi arrivava da altrove, come un coro rustico. Ne potevano seguire la ricostruzione grafica della scena a portico documentata dal Plauto veneziano del 1518 e, ancor più, le cinque solenni arcate con la funzione accertata di luogo teatrale edificate nella loggia Cornaro a Padova da Giovan Maria Falconetto nel 1524, l'anno immediatamente successivo a quello della ristampa del volumetto del professore veneziano di lettere greche (153).
Le sedi delle Scuole grandi veneziane - stabilizzatesi quasi tutte entro la fine del Medioevo, fatta eccezione per l'ultima in ordine di tempo a essere istituita, quella di San Teodoro - le sedi delle Scuole, dunque, descrivono idealmente nello spazio urbano di Venezia un ampio semicerchio che dalle contrade sud-occidentali della città si spinge a toccare quelle nord-orientali con la Scuola grande di San Marco, posta al confine tra i sestieri di Castello e Cannaregio. Identificano, cioè, un arco di siti "lontani dalle piazze" o topograficamente intermedi, costituendo dei veri e propri nodi territoriali di passaggio, di soglia tra margini - periferie per caratterizzazione economica e sociale - e corpo della città.
Le loro funzioni istituzionali di assistenza - "vestir gli gnudi e passer gli affamati" sintetizza Alessandro Caravia - e il loro ruolo di strumenti della politica repubblicana di conservazione dell'ordine sociale sottoposti al consiglio dei dieci, fanno delle Scuole istituzioni deputate al mantenimento dell'equilibrio dei rapporti tra cives e habitatores della città-stato, fra senatus e populus se si vuole latinizzare, rinascimentalmente, il concetto (154).
Nel quadro dei rapporti tra città e architettura che vengono stabilendosi nel primo Rinascimento, necessariamente dunque siffatti siti tendono a farsi sede di magnificenze collettive e pubbliche. Alle quali è attribuito il compito di attestare i ruoli altrettanto collettivi e pubblici delle Fraterne grandi e al contempo di persuadere dell'efficacia, della grandezza e della perennità nei valori di quel modello di armonia sociale che è fondamento primario dell'immagine politica della Serenissima.
Ciò, appunto, è quanto accade tra il secondo '400 e i primi decenni del secolo successivo, con i cospicui interventi di riqualificazione formale e di aggiornamento delle Scuole grandi di San Giovanni Evangelista e di San Marco, di San Rocco e della Misericordia (155).
Le forme architettoniche si adeguano alle nuove vesti umanistiche di comportamenti politici e sociali da tempo consolidati. Insomma, abbandonato il saio dei battuti, anche le Scuole intendono ostentare il linguaggio latino dell'apologo liviano di Menenio Agrippa.
Al di là delle semplici questioni funzionali, è stato osservato come tale ondata di rinnovamenti non abbia portato all'elaborazione di un tipo negli interventi architettonici, ad esempio a soluzioni unitarie e conformi dei prospetti come accade invece nei palazzi privati.
E in effetti, l'osservatore cinquecentesco che si sofferma a sottolineare come per le Scuole grandi, in quanto committenti, ornamento e giovamento universale procedano di pari passo, non può non sottolineare anche l'orgogliosa specificità di ogni confraternita, il senso di appartenenza, l'identità di gruppo che ciascuna suscita e promuove. Sì che ognuno degli associati vi si sente "quasi in propria Republica" e che ciascuna di queste si manifesta attraverso diverse bellezze, di edifici come di apparati e di chiamate di artisti (156). Ovviamente, tutto questo come articolazione, come affermazione di molteplicità coerente in tutto con i fini unitari della città-stato e con le regole che li realizzano. Quello alle Scuole grandi del primo Rinascimento, perciò, almeno preliminarmente, non può che essere un itinerario attraverso le ammesse e per gran parte volute diversità; e, al tempo stesso, una ricognizione intorno a committenze di gruppo in evidente e dichiarata emulazione.
La serie dei rifacimenti architettonici fu aperta dalla Scuola grande di San Giovanni Evangelista, istituita nel XIII secolo e trasferita nel primo '300 nell'albergo e ospizio appartenente insieme con la chiesa omonima e con la casa priorale a un complesso assistenziale istituito dai Badoer. Il 2 aprile 1346 i confratelli avevano ottenuto il permesso di edificarvi una nuova sede "in la corte over dentro dalle porte del ditto luogo de San Zane evangelista" e di lastricare il terreno del campiello ("far una salizada per la ditta fraternita over scuola") espandendo progressivamente i propri interessi e le proprie pertinenze in direzione della chiesa e del priorato (attualmente palazzo Badoer). Nel marzo 1350, infatti, fra chiesa e portico della casa priorale era stato loro concesso terreno per le arche dei fratelli defunti; nell'estate del 1389 la Scuola aveva fatto eseguire "alguni edificii e lavorieri per i quali se amplià e ornasse la glesia de San Zuanne Evangelista" ed entro il 1424 aveva ottenuto lo spostamento definitivo dell'ospedale stesso verso calle della Lacca, partecipando forse alla costruzione e certo alla manutenzione della riva del priorato sull'attuale rio Terrà dietro l'Archivio di Stato. I lavori tardogotici s'erano conclusi intorno al 1456, con la costruzione della facciata sul campiello, dalle cinque belle finestre gotico-fiorite (157).
Tutto ciò per chiarire come, se si prescinde da un complicatissimo regime di rapporti di proprietà, di enfiteusi e di servitù fra la casa patrizia e la Scuola esistente sul sito, quest'ultima aveva attuato una politica progressiva di acquisizione unitaria di questo. Era intervenuta largamente, pertanto, a trasformare l'antica corte chiusa dei Badoer e del loro ospedale e priorato in una propria pertinenza, compresa fra la sede della Scuola, la calle ora denominata del Caffettier, la piccola chiesa e l'imbocco della calle ora detta della Lacca, allora area semirurale di lavorazione della lana.
Aveva ottenuto altresì una servitù di passaggio - attestata anche architettonicamente - nei confronti della riva del priorato di Ca' Badoer (158). Tutto ciò in rapporto ai cerimoniali connessi con il culto di un'importante reliquia della Vera Croce, di origine costantinopolitana e pervenutale nel secondo '300 da Philippe de Mézières.
L'unico spazio aperto antistante la Scuola era dunque costituito dal cortile così configurato, raggiungibile direttamente e dignitosamente per via di terra dalla calle tangente al suo lato orientale. Uno spazio, fra l'altro, dove poteva raccogliersi il corteo processionale della santa e miracolosa reliquia dopo aver attraversato il chiostro priorale dei Badoer, per accogliere il flusso dei fedeli provenienti dalle contrade circostanti. Il teler di Lazzaro Bastiani che rappresenta la donazione della reliquia della Croce, ora all'Accademia, documenta perfettamente, seppure in data più tarda, siffatto rituale.
La peculiarità topografica e le funzioni cerimoniali spiegano ampiamente, perciò, il fatto che fra il 1478 e il 1479 si decidesse di realizzare qui - "in la corte over dentro le porte" dicevano le carte medievali (159) - nel luogo di San Giovanni Evangelista un'opera di esaltazione della dignità della Scuola.
L'intervento architettonico si tradusse in forme assolutamente inedite: lo spazio venne diviso trasversalmente da un septo rivestito di marmi preziosi, al centro del quale si apre un nobile portale inquadrato da pilastri corinzi scanalati, sormontato da un frontone semicircolare poggiante su di un'adorna trabeazione.
Ai due lati del varco, nelle pareti alleggerite dalla luminosità delle crustae marmoree che le rivestono, si aprono due finestre con frontespizio triangolare. Un diaframma architettonico, insomma, si sostituisce a un rinnovamento di facciata sottolineando la ritualità del luogo. Ma ancora, l'intelaiatura all'antica del septo si prolunga da questo lungo i muri laterali che delimitano la sezione del campiello prospiciente la calle, ritmandoli mediante tre pilastri per parte, equidistanti, che sorreggono una trabeazione diritta in prosecuzione di quella del septo stesso. Soluzione di grande intelligenza compositiva, questa, per uno spazio medievale curtense in precedenza privo di qualità.
Ambito lombardesco come cultura progettuale e sensibilità formale, buona cultura dell'Antico e notevole cura esecutiva contraddistinguono un'opera ancora di non incontrovertibile attribuzione: ma che probabilmente per gran parte resta da assegnarsi a Pietro Lombardo e ai suoi collaboratori.
Ai quali, tuttavia, non necessariamente spetta del tutto l'idea classicheggiante di organizzare lo spazio esterno, più volte interpretato dalla letteratura artistica a noi contemporanea come un atrio piuttosto che come una piazzetta. E in effetti, uno spazio siffatto corrisponde bene a una delle prime ricostruzioni letterarie - quella del Biondo che già abbiamo visto collegato agli ambienti veneti - dell'atrio e del vestibolo della casa antica, poiché appunto "questi atrii [...> furono così detti da lo stare avanti a la casa, perciò che sono una cosa medesima col vestibulo che chiamano oggi andito; scrive Gellio che gli Antichi che fabricavano belle e magnifiche case, lasciavano un luoco avanti la porta, che veniva ad essere fra la porta de la casa e la strada. E qui si fermavano poi tutti quelli che venivano a salutare o corteggiare il patrone di quella casa, prima che fusse lor detto che entrassero, e così né stavano nela piazza, né dentro la casa" (160). Se si tiene conto del fatto che il termine casa nel '400 è adottato certamente per l'edificio sede di una Scuola grande, l'intervento di San Giovanni Evangelista potrebbe aver costituito un tentativo di "fedele" ricostruzione delle magnificenze dell'antichità riconducibile a suggerimenti diretti delle cerchie umanistiche veneziane (161).
Sullo scorcio del secolo XV, la stessa Scuola intraprendeva una seconda cospicua iniziativa di rinnovamento architettonico, disponendo la costruzione di uno scalone cerimoniale a due rami "per ornamento e comodo della Scola [...> et a honor et gloria della Santissima Croce" (162). Con la chiamata del Codussi i confratelli assicurarono alla propria sede un'opera di elevatissimo livello, che ebbe a godere di valutazioni ampiamente positive.
La scala a due rampe di Mauro Codussi, costruita su terreno già appartenente agli Zane per dare accesso monumentale al salone superiore e da questo alla sala della Croce, rappresenta in primo luogo un paradigma costruttivo, per il largo e differenziato uso di volte praticato dall'architetto - sia a sorreggere, sia a coprire la struttura - inconsueto in città. Ma, soprattutto, sono le raffinate scelte formali a caratterizzarla: due rampe simmetriche, di pendenza confacente alla maestà delle andate cerimoniali, procedono entrambe dai pianerottoli inferiori racchiusi in due piccoli ambienti coperti da cupolini su pennacchi, per incontrarsi alla sommità sul piano più ampio che accoglie i rampanti e dà accesso alla sala.
Un vero e proprio coronamento architettonico celebrativo e sacralizzante si imposta su quest'ultimo: risolto come un armonioso ambiente coperto da una solenne cupola, innestato nel salone dei confratelli da un grande arco trionfale sorretto da colonne appaiate affiancate a pilastri e aperto sul quarto lato nella forma di una luminosa bifora con oculo del tipico schema codussiano del quale si dirà più oltre.
Coronamento, dicevamo: l'impressione di introduzione trionfale alla sede delle reliquie è accentuata dalla ricchezza di decorazione, poco usuale nei modi dell'architetto bergamasco. E comunque certamente caricata di elevati contenuti simbolici.
Si ricorderà, infatti, come le decisioni prese dalla Scuola grande il 14 agosto 1498 avessero stabilito una precisa correlazione tra la scala de Piera e la gloria della Santissima Croce: assai meglio che come atto di autoaffermazione della Fraterna committente, la ricerca formale del Codussi in questo caso può essere interpretata tenendo conto della mistica vetero e neotestamentaria della scala, di cui poté essere messo al corrente in termini di programma preposto al progetto. Della scala di Giacobbe, cioè, come simbolo della via verso il cielo - "una scala poggiata sulla terra, la cui cima raggiunge il cielo" ben traducibile architettonicamente nella cupola - e della sua diffusa interpretazione patristica che vi aveva visto prefigurata, per l'appunto, la croce del Cristo (163).
Anche la Scuola grande di San Marco, insediata definitivamente nel 1437 nei pressi del convento domenicano dei Santi Giovanni e Paolo, è oggetto di una lunga serie di lavori di edificazione e di rifacimento fra età tardogotica e primo Rinascimento. Se già nel 1438 Stefano e Matteo Bon hanno terminato i lavori per la nuova sede, opere di ingrandimento coinvolgono nel 1476 Giovanni e Bartolomeo Bon, insieme con Antonio Rizzo.
L'ulteriore ricostruzione, che ridelineerà la fabbrica nell'aspetto odierno, avrà luogo a partire da circa un decennio più tardi e ancora a seguito di uno di quei grandi incendi (1485) che con sorprendente frequenza devastano la città fra secondo '400 e primi decenni del '500. La riedificazione, al solito, non dovette essere affatto radicale: parte almeno delle fondazioni e delle strutture murarie preesistenti dovettero essere reimpiegate (e in effetti condizionarono la risistemazione avviata), probabilmente dopo un'azione di risanamento affidata a maestro Gregorio di Antonio da Padova (attivo fra il 1487 e il 1488). Già sulla fine del maggio 1489 è documentata la chiamata di Pietro Lombardo e di Giovanni Buora, cui viene associato come proto il lapicida Bartolomeo di Domenico Duca. E certamente i lavori procedono secondo un progetto già redatto, "chome appar per el desegno" già da tempo messo a punto (164). Quello della Fraterna di San Marco, comunque, è un cantiere discontinuo nella responsabilità di soprintendenza, come accade - lo si è visto e lo si vedrà ancora - per tutte le istituzioni consorelle: e dunque, sulla fine del 1490, a lavori condotti già molto avanti (tanto che Marc'Antonio Sabellico li dà per conclusi), come nuovo proto alla fabbrica compare Mauro Codussi.
Impegnatovi per circa un quinquennio, l'architetto lascerà il cantiere nel 1495, mentre restavano all'opera le sole maestranze chiamate alla decorazione. Il momento culminante delle volontà celebrative della Scuola di San Marco è rappresentato, fuor di ogni dubbio, dalla facciata, straordinariamente ricca e preziosa. Dalla fronte sul campo, che in realtà è formata da due prospetti affiancati: quello occidentale, di schema tripartito, più elevato e più fastoso, che corrisponde al salone terreno, diviso in tre navate da una doppia serie di colonne su alti piedistalli, e alla sala del Capitolo; e quello orientale, pure in tre campate, che unifica e nobilita una situazione edilizia piuttosto complicata, derivante da successivi aggiustamenti. Dal portale di quest'ultima, infatti, si accedeva a un atrio conventuale, che in antico accoglieva alcuni depositi funerari, tra i quali il sarcofago di Marin Falier e le arche dei confratelli. L'ambiente precedeva una cappella ad aula unica con abside semicircolare intitolata alla Madonna della Pace, affiancata dal cortiletto del noviziato; mentre al piano superiore si trova la grande sala dell'albergo della Scuola grande. Questa accoglieva un tempo il ciclo delle storie di san Marco e la celebre tela di Palma il Vecchio e Paris Bordone che raffigura la consegna dell'anello al doge (1534).
Le due sezioni architettoniche del prospetto rispettano dunque la gerarchia di funzioni degli spazi interni e, come si accennava, sono distinte mediante l'impiego di diversi mezzi costruttivi e decorativi: la diversa distanza fra le paraste che tripartiscono ciascuna, l'assenza dei grifi dai bassorilievi della sezione orientale del fregio della prima trabeazione, il mancato impiego di colonne nella parte orientale della lunga facciata e, infine, le differenti visuali delle scene prospettiche in rilievo che articolano la superfice marmorea dell'ordine inferiore.
A esaminare con attenzione la sezione occidentale, quella cioè che potremmo definire il prospetto maggiore, è evidente che il suo schema compositivo ha origine complessa: se si osserva la somiglianza di linee dell'ordine inferiore dall'alto frontone semicircolare che ne marca l'accesso con il septo di San Giovanni Evangelista, si può pensare al primo come l'esito formalmente arricchito ed enfatizzato dell'iterazione - per sovrapposizione - del modello dell'altra Scuola grande.
Va tuttavia anche tenuto conto delle strette affinità di schema con il disegno di facciata tripartita di un edificio religioso, coronato nella sezione centrale da un frontespizio semicircolare e nelle due laterali da frontoni triangolari affiancati da obelischi (elementi di matrice medievale), che compare nel taccuino Rotschild al Louvre, molto prossimo anche per il repertorio decorativo e che si rivela dunque sempre più vicino alla cerchia lombardesca attiva a Venezia sul finire del '400 (165).
Ma tutto questo non basta.
Poiché nella forma del coronamento, nel dispiego dell'uso di colonne per buona parte probabilmente antiche, nella singolarità del raggrupparle a sorreggere l'emblema marciano dell'attico, nel rilucente rivestimento di marmi rari, nelle originarie dorature e policromie, in tutti siffatti elementi, insomma, sono evidenti più che i richiami, un'evocazione aperta della fronte architettonica di San Marco. Rafforzata dai due santi guerrieri in nicchie del coronamento della Scuola grande, diretta ripresa delle due lastre con i santi Giorgio e Demetrio poste ai due lati del culmine dell'arcone del portale maggiore della basilica marciana. Ancora, si può notare una stretta affinità tra l'impaginato del prospetto della Scuola grande e la facciata tripartita con coronamento a frontoni semicircolari del tempio che chiude trionfalmente, sullo sfondo, la scena della tela della Predicazione di san Marco in Alessandria, dipinta da Gentile Bellini tra 1504 e 1507 come primo atto del rinnovo decorativo della Scuola.
Una conferma, dunque, e qualcosa di più di questo. Non si tratta, infatti, di una semplice rilettura a posteriori dell'aspetto architettonico della Scuola grande operata da Gentile, ma assai probabilmente della chiave della corretta interpretazione da dare al prospetto veneziano, inteso come restituzione delle grandezze della sede episcopale dello stesso santo protettore nella capitale dell'ellenismo cristiano. Un importante elemento iconografico, infatti, lo prova: le prospettive delineate per i rilievi marmorei dell'ordine terreno da Tullio Lombardo - i lunghi porticati trabeati coperti da volte a botte a cassettoni e quelli ad arcate coperti da soffitti piani riccamente adorni - dove compaiono i leoni dell'Evangelista ed episodi della sua vita (il battesimo di Aniano e la sua guarigione) sono appunto i portici, le stoa della grande Alessandria. A quanto si è detto, d'altronde, corrisponde anche l'impiego dell'ordine corinzio che viene fatto nella facciata. Un impiego che risulta conforme con la tradizione architettonica tardoantica, "esarcale" e veneto-bizantina. Ci si trova di fronte, insomma, a una rievocazione una volta ancora coerente con taluni aspetti del filoellenismo marciano (del quale Tullio Lombardo è certamente interprete) e coerente peraltro con l'apporto dato per lunghi decenni da Gentile Bellini alla Scuola grande in qualità di confratello. Questa infatti, dopo la convenzione del 1466 e i patti di dieci anni più tardi per far realizzare ad Antonio Rizzo un "pergolo in 5 faze" su suo disegno, vede il pittore veneziano a lungo membro del capitolo, degano di mezzo, guardian de matin, nel corso di tutto l'arco cronologico dei lavori (166). E la ricostruzione risulta coerente ancora con quanto sappiamo della figura di Alvise Dardani, promotore della ricostruzione lombardesca. Che non è affatto avvicinabile a quella di un poco istruito "consigliere di amministrazione" (167), ma ricordata per l'appartenenza ad "antichissima famiglia", per la sua prossimità all'ambiente dei Camaldolesi, per il suo ruolo di procuratore del convento, coltissimo, dei Crociferi (1486) un tempo commenda del Bessarione, per l'attività letteraria, seppure minore, e infine per il ruolo ricoperto nei suoi ultimi anni di cancellier grande della Repubblica, vertice cittadinesco della vita pubblica veneziana (168).
Memoria e pubblica solennità in nome dell'Evangelista vescovo di Alessandria e primo vescovo della Venetia romana: si spiega in tal modo l'eccezionale impiego di colonne di marmo antico - spolia significanti ritorno, restitutio, rinascimento - libere affiancate a pilastri, libere in nicchia, libere e trionfalmente avanzanti sulla soglia del gran portale terreno. Il portale maggiore, di Giovanni Buora (pur se nella lunetta reimpiega un bassorilievo dell'edificio precedente: il San Marco in trono venerato dai confratelli di Bartolomeo Bon) costituisce uno dei passi salienti di siffatta magniloquenza, imponendo come un protiro la sacralità dell'accesso principale alla casa della Fraterna. Profondo come i portali della basilica marciana, esso pure innalza il coronamento semicircolare su due colonne antiche, poggiate a loro volta, per rimediare alle loro ridotte dimensioni, su di un duplice piedistallo, cilindrico il superiore e a sezione quadra il sottostante. E il richiamo anticheggiante dei sostegni è ripreso e svolto con meticoloso entusiasmo antiquariamente erudito (in parte belliniano, possiamo ritenere) dall'ornamentazione. Mentre le candelabre dei piedritti delle porte esibiscono il pellicano e la fenice - carità e resurrezione - associati a leoni marciani in medaglione contorniato, di eloquente simbolismo, l'arco del portale è figurato di motivi marini - pistrici e tridenti posidonii - al centro dei quali sta la consueta, allusiva cornucopia tenuta da un putto. Le facce dei pilastri parallelepipedi mostrano scene allegoriche di eroti musicanti e sacrificanti o in contesa con deità silvestri. Anzi, la scena sacrificale del pilastro sinistro presenta un'ara antica dal bracere acceso, adorna a sua volta, a lievissimo rilievo, del leone alato e dei confratelli genuflessi in devozione: palese costruzione iconografica di una pietas della Fraterna che uguaglia la religio degli antichi costruttori di templi. Il discorso potrebbe prolungarsi e percorrere i bassorilievi dell'ordine superiore e del coronamento, dove Mauro Codussi rievoca i frontoni di San Michele e San Zaccaria. E riprendere poi, seppure con minore ridondanza di disegni ornamentali nella sezione orientale, la facciata dell'albergo. I frontespizi di questa, minori rispetto a quelli della parte occidentale, arricchiti nel timpano da ovati in porfido e coronati da vasi baccellati sono separati fra loro da sfingi alate reggenti cantari fiammeggianti.
Poco dopo la conclusione dei lavori costruttivi, Biagio e Pietro da Faenza intaglieranno infine per la sala dell'albergo il soffitto indorato e dipinto, derivato iconograficamente come quello della Scuola grande della Carità (1491) dal mosaico della volta del mausoleo di Galla Placidia: circostanza assai significativa per il nostro contesto e per le componenti della cultura dell'Antico presenti in Venezia. Tanto più per la concomitanza cronologica con gli echi delle tendenze monumentali dei mosaici paleocristiani del V secolo - di Santa Pudenziana a Roma - com'è stato riconosciuto, che ripropone Piero de' Zorzi, autore del grandioso Pantokrator della conca absidale della basilica ducale (1506) (169). Il Codussi, nel frattempo, qui pure come in San Giovanni Evangelista aveva progettato uno scalone cerimoniale a doppia rampa - già previsto nel 1486, ma edificato otto anni più tardi - del quale, dopo la demolizione e la ricostruzione recente, non restano in opera che i due portali d'accesso dal pianterreno.
Certo, gran parte dell'opera risulta immatura se letta con occhio vitruviano, concepita e guidata com'è da un rinascimento dell'evocazione e dell'immaginario, come confermano anche i capitelli fantasiosamente rielaborati del salone terreno, decoratissimi di baccellature, di motivi embricati, di foglie di canne palustri (riprese certamente da capitelli di San Marco) (170). Ma gli intenti e gli esiti complessivi dell'architettura sono evidenti, e sembrano dipendere assai più da affascinazione erudita nell'elaborazione del tema marciano - alessandrino e veneto - che da sola opulenza decorativistica.
La Scuola di San Marco appena conclusa è già paradigma, è scala di magnificenza. Sono esemplari, da questo punto di vista, per una storia della committenza collettiva del primo Rinascimento veneziano, le motivazioni addotte nella delibera di rifabbrica del 5 marzo 1503. Che si dia corso a una tale iniziativa, non solo è indispensabile per l'immagine dell'inclita e gloriosa città, ma è sollecitato dall'esempio della Scuola di San Marco: "ziò ne invida l'esempio di quel glorioso vanzelista Messer San Marco", quasi incarnato, dunque, nella Fraterna committente e nella sua sede (171).
E in effetti l'emulazione, ora, al passaggio tra ultimo '400 e primo '500, è esplicitamente e trionfalmente aperta, affianca, sostiene e completa le opere dei grandi cantieri aperti dallo Stato cittadino. E si tratta senza ombra di dubbio di quella laudis aemulatio che fa parte del sistema di valori e dei conseguenti atteggiamenti della cultura umanistica più diffusa: quella approvata da Cornelio Nepote, da Cicerone, da Livio, da Quintiliano, da Tacito e da altri ancora.
Non è senza significato neppure che le prime deliberazioni del 1498 per la rifabbrica della Scuola grande della Misericordia - da attuarsi a lode di Dio, della gloriosa Vergine Maria Madre di Misericordia e dell'illustrissima Signoria - siano promosse dal guardian grande Francesco Amadi. Poiché infatti, una volta ancora ci si trova di fronte a un personaggio di primissimo piano entro la componente cittadinesca della contemporanea società veneziana: a un membro di quella "civile e ricca" famiglia toscana trapiantata in città, della quale si è detto, che è all'origine di Santa Maria dei Miracoli, personalmente presente in forma ufficiale ai cerimoniali di inaugurazione in questa del culto pubblico e collegato anche all'origine dell'altra vicina chiesa di Santa Maria della Consolazione alla Fava (1480) (172).
Ciò equivale a identificare, nell'arco di tempo di cui stiamo dicendo, presenze promotrici culturalmente assai significative nel contesto all'apparenza omogeneo delle confraternite maggiori, in grado o in dovere di assumere ruoli di tramite fra le aule del palazzo e della cultura e le affollate sale capitolari dove ognuno può accedere ai "gradi et gli onori secondo i meriti e le qualità loro" (173).
La radice delle diverse bellezze, l'avvio del confronto cinquecentesco fra le Scuole grandi committenti dell'immagine architettonica della propria identità risale dunque allo scorcio del secolo precedente. Ma la corretta valutazione del significato di taluni loro logoranti processi di formazione delle decisioni, dei ripensamenti, dei conflitti di opinioni che travagliano in particolare per più decenni le ricostruzioni delle Scuole grandi della Misericordia e di San Rocco (174) non può non essere riportata appunto anziché all'omogeneità popolare del corpo dei confratelli, alle complesse articolazioni di componenti sociali delle Fraterne, probabilmente in via di accentuazione nel corso del '500, e ai ruoli svolti in queste da personalità trainanti o potenzialmente tali. Ciò che probabilmente accadde, a titolo di esempio, nel caso della Scuola grande della Misericordia, con Alvise Garzoni, committente verso il 1530 della celebre villa sansoviniana di Ponte Casale, per tradizione familiare confratello di quella e più volte con incarichi di governo (175).
Certo è che, come si è già compreso, la situazione primocinquecentesca delle Scuole grandi committenti di architetture si intrica, si aggroviglia: anche le diversità si accentuano. Ma ora non soltanto per forme ascrivibili comunque a un medesimo contesto, quanto anche per scelte davvero diversificanti sul piano culturale.
La Scuola di San Rocco nel 1517 chiama Pietro Bon, pur ottenendo da Giovanni Celestro il progetto d'un porticale. E il Bon imposta la pianta del nuovo edificio, insieme con l'ordine inferiore del prospetto e del fianco sinistro. Sulla fronte verso il campo riprende e dispiega il tema della bifora ad oculo codussiana, associandola alla splendente, tradizionale policromia che enfatizza visivamente anche il portale maggiore. Sante Lombardo subentra al primo proto, licenziato, con l'obbligo di non far nulla senza consultarsi con guardian, banca e procuratori della Fraterna. E risolve la facciata posteriore sul canale organizzandone in tre sezioni l'ordine superiore sull'ampio e profondo porticato: trafora le laterali mediante solenni bifore inusualmente sormontate da frontone triangolare (una sorta di competizione inventiva con la bifora codussiana), arricchendo la centrale con un'edicola dalla profonda nicchia. Ancora un'invenzione originale, questa, di plastica classicità: ma al contempo una rivisitazione delle articolazioni e delle policromie dell'architettura marciana, cui risale pure una forte, evidente cornice che rilegge un tipo di cornice a foglie d'acanto sporgenti ben diffuso a San Marco e in altri edifici veneto-bizantini. Poi ancora, dal 1527, lo Scarpagnino, proto al sal già attivo a Rialto e altrove, che accentua la formulazione all'antica del prospetto con le ricche bifore con frontespizio dell'ordine superiore. Ma soprattutto affronta e risolve il problema della diversa bellezza della casa della Scuola grande mediante la colonnata sul campo, i due ordini sovrapposti di colonne corinzie isolate che riecheggiano alla lontana il più arcaico impiego trionfale delle colonne da parte della Scuola grande di San Marco. Enfatizzandolo, tuttavia, ed elaborandolo autonomamente sulla base di disegni di reinvenzione dall'Antico, come alcuni del taccuino Rotschild del quale abbiamo detto più volte, tanto ricostruzioni libere di archi trionfali, quanto idee derivate da questi di prospetti magniloquenti ed ornati (come i confratelli richiedono esplicitamente più volte). Non è impossibile che l'Abbondi avesse colto suggerimenti relativi a modelli antichi da parte del Sansovino, chiamato alla Scuola della Misericordia nel 1532 (176). Ma è chiaro che mentre l'impegno del proto al sal e della Scuola di San Rocco resta quello di un'ultima prova di renovatio more veneto, quello del proto di San Marco e della Scuola della Misericordia - allora almeno - è l'opzione per la disciplina vitruviana non facile da far accettare alla Fraterna committente.
Il momento della svolta, dell'incrinatura delle attitudini protorinascimentali veneziane ha dunque raggiunto le Fraterne grandi. E se la fabbrica della Misericordia sarà, pur incompiuta, sansoviniana, le difficoltà, i conflitti interni, le indecisioni, le inversioni di orientamenti, le sospensioni di attività che ne accompagneranno la preparazione e il cantiere testimoniano una volta di più la non linearità dei processi di innovazione nella cultura architettonica del '500 veneziano. Insieme con le ansie, ma anche evidentemente con il margine di libertà di opinioni, ammesso in una Scuola grande.
D'altronde, in una siffatta congiuntura di mutamento, non sarebbe potuto accadere altrimenti per l'accoglimento di forme architettoniche - impegnativa ridefinizione d'immagine - d'una sede di rituali deputati a rappresentare, nella diversità, la concorde armonia e l'intima solidarietà della città-stato.
La celebrazione di sé come partecipe della gloria e dello splendore della città-stato, una celebrazione attuata attingendo agli schemi decorativi di palazzo Ducale e dando libero corso al decorativismo e ai preziosismi cromatici di natura simbolica, aveva caratterizzato, come s'è detto, i comportamenti della committenza privata, per lo più di estrazione aristocratica, in età tardogotica. E s'è detto anche come il primo Rinascimento avesse confermato e continuato tali attitudini: un filo ininterrotto conduce dal primo '400 della Ca' d'Oro alla Venezia della fine del secolo quando, per il Sabellico, "poco [...> mancava che non si coprissero d'oro le case" (177).
In realtà, l'orientamento della committenza verso interventi di sfarzosa esuberanza nel rinnovamento d'immagine delle proprie sedi gentilizie, legittimato dalle ricostruzioni del Biondo, non è affatto oggetto di critiche rigorose e pubbliche come accadrà alla metà del secolo XVI. Trova, anzi, sostanziale accettazione nelle posizioni espresse da Domenico Morosini. Se è vero, infatti, che questi richiama idealmente ad evitare, nell'architettura dei privati, atti di autoaffermazione dei singoli, è anche vero che la profusione di ricchezze nell'edificazione di abitazioni oltre che contribuire al decoro collettivo impedisce che tesori accumulati e inutilizzati siano sperperati in bagordi e in dissolutezze o, peggio ancora, nel procacciarsi clientele e amici, nell'assoldare guardie del corpo o accompagnatori personali. La magnificenza dei palazzi dei privati cittadini, insomma, è minor male rispetto a un impiego del denaro altrimenti potenzialmente pericoloso per le istituzioni di una città libera (178).
Su questa linea si muoverà a lungo, nel corso dell'intero arco del primo Rinascimento, la nobiltà veneziana, fino alla svolta brusca, seppur non universalmente condivisa, del secondo quarto del secolo XVI (179).
Non edificata da un patrizio, ma da un cittadino che svolge delicati incarichi diplomatici nelle trattative con gli Ottomani poco dopo la caduta di Costantinopoli, Ca' Dario, come si diceva più sopra, rappresenta il caso più dichiarato di assenso a una visione di Rinascimento alla veneta interpretato secondo la raffinata e sontuosa versione lombardesca dell'antica varietas pliniana marmorum et colorum (180). Con un elemento in più, peraltro: poiché la dedicazione dell'intervento architettonico genio urbis, al genio della città, formulata dall'iscrizione del prospetto, collega una siffatta concezione evocativa della magnificenza classica (probabilmente influenzata dagli itinerari costantinopolitani del Dario) al dio-principio tutelare della città, a quell'entità che ne ha determinato le origini e la natura stessa, al quale dunque la prima dichiara intima corrispondenza. Singolarmente - e forse non affatto casualmente - la stessa dedicazione, genio urbis augusto, ricomparirà a metà '500, apposta al portale di terra, dal vigoroso classicismo, di palazzo Grimani a Santa Maria Formosa, per ridedicare e perciò consacrare un'accezione radicalmente diversa e contrapposta del Rinascimento architettonico veneziano, quella romanista di Giovanni, patriarca d'Aquileia.
Ca' Dario aveva rappresentato un caso limite nell'architettura di casa da stazio del secondo '400. Ma accanto a quello, si affermava una ricerca volta a comporre i tratti di recente consolidati e codificati del palazzo gentilizio veneziano con l'evocazione antiquaria, seppur decorativistica, dei modi latamente lombardeschi della renovatio more veneto. Palazzo Contarini a San Vio, di incerta attribuzione e riferibile all'incirca all'ultimo quindicennio del '400, costituisce un episodio esemplare di tale tendenza: per il rigoroso rispetto della tripartizione tradizionale della facciata, prodotta tuttavia da un'intelaiatura all'antica di paraste e trabeazioni che la rinserrano e la definiscono. Ma esemplare anche per i rivestimenti marmorei, i tondi e i grandi clipei di marmi preziosi dei due piani nobili e per gli ulteriori riferimenti all'Antico: il tipo trionfale della porta d'acqua, la romanità enunciata con deliberata forza iconografica dal fregio festonato con aquile imperiali ad ali spiegate del piano nobile, gli acroteri a vasi sacrificali caliciformi del primo piano nobile e a palmette del secondo. Il tentativo di restituzione di un linguaggio adeguatamente classico, oltre che in sé magniloquente e celebrativo, appare con tutta evidenza.
Propositi analoghi si rivelano in Ca' Gussoni a San Lio, affacciata sul rio della Fava, pure di attribuzione controversa nell'ambito dei Lombardi attivi presso i grandi cantieri veneziani e di data prossima a quella di palazzo Contarini a San Vio. Di minori dimensioni, compromesso in parte nell'originario equilibrio di linee da una tarda sopraelevazione, costretto in un lotto edificabile angusto nell'affaccio sul canale, il prospetto è risolto tuttavia con notevole garbo, buona cultura e cura attenta, anch'esso variando comunque sui consueti schemi di facciata. E l'effetto magnificente vi è pure ricercato componendo l'iconografia anticheggiante dei ricchi bassorilievi con la marmorea classicità dei rivestimenti lapidei. Qui, anzi, lo zoccolo basamentale in pietra d'Istria, poco visibile perché sovente sotto il livello dell'acqua, mostra d'essere stato oggetto di un'attenzione particolare, affine nelle intenzioni a quella prestata alle mensole sul canale della vicina Madonna dei Miracoli: un lungo fregio in pietra a risentiti riquadri che includono rosoni dai grandi petali, infatti, sostiene una seconda fascia decorativa a motivi circolari e questa una terza a baccellature. Il livello superiore, visibile, delle fondazioni, così, è allusivamente annobilito (l'allusione è al mirabile sapere veneziano del costruire direttamente nel mare): e sottolineato da una lunga fascia di marmo rosso di Verona sulla quale poggia l'ordine basamentale in pietra d'Istria del prospetto. Sotto la cornice su cui poggiano le finestre del piano nobile, una serie di pilastrini riquadra lastre di marmo greco e ancora, anneriti ma ben visibili, marmi rari ricoprono le superfici libere dell'intero piano. L'Antico, naturalmente, sono anche le candelabre, gli acroteri, le aquile in maestà, che qui ritornano sui piedritti della porta d'acqua. L'ala sinistra del prospetto, peraltro, si allarga all'esterno, rispetto al pianterreno, su di una callicella che raggiunge il rio, sorretta da tre ornatissimi ordini di mensole sporgenti: soluzione tecnica di origine medievale desunta dalla pratica corrente. Nel caso di palazzo Grimani-Marcello a San Polo, appartenuto ai Grimani dall'Albero d'Oro, dov'è nota la presenza di frammenti scultorei ellenistici e romani forse reimpiegati già in età rinascimentale, l'orientamento annunciato da palazzo Contarini a San Vio trova senz'altro prosecuzione circa un decennio più tardi. Ma la ricerca di forme rappresentative all'antica compatibile con i tratti codificati della casa da stazio veneziana si traduce - nonostante i capitelli figurati - in scelte più sobrie, in un disegno nitido della facciata, nella quale si aprono due trifore sovrapposte; e arricchisce il repertorio di segni nobilitanti della residenza patrizia con i frontespizi dai timpani triangolari delle quattro finestre dell'ordine terreno. Variazioni di ricordi e di citazioni antiquarie, variazioni di scala nei segni e nelle materie della magnificenza, ma entro un alveo ben tracciato. Così si può dire anche per palazzo Trevisan poi Cappello in Canonica, dove compare l'ordine ionico, "ancora incrostato di finissimi marmi e magnifico e bello affatto" (181), edificato da una famiglia protagonista nell'assunzione quattrocentesca dell'eredità costantinopolitana da parte dell'alterum Byzantium, donando ai Frari, nel 1479, una reliquia famosa del Sangue di Cristo proveniente dalla capitale imperiale. Qui l'ampiezza della polifora corrisponde a un'inusitata ampiezza del portego e dunque a un'accentuata intenzione rappresentativa dei committenti, evidente del resto nei nielli, nelle policromie, nei bassorilievi. Il paramento di marmi si ispira direttamente alla vicina San Marco - una volta ancora - tanto nei riquadri, quanto nelle tarsie decorative; e per di più, l'apparato ornamentale viene arricchito dai Cappello delle due grandi lastre degli "scudieri", in realtà due arcangeli (alla destra è Michele, il pesatore di anime), che sulle aste inalberano entrambi elmi dal cimiero a tricipitium. Così avviene ancora in palazzo Malipiero-Trevisan (attorno al 1510), rivolto verso lo spazioso campo di Santa Maria Formosa, dove le decorazioni del fregio superiore a medaglioni con otto ritratti "romani" si rifanno più alla ritrattistica classica che alla medaglistica contemporanea esemplata sui grandi bronzi romani e alle diffuse collezioni di glittica.
O prendono spunto, semmai, dalla produzione monetaria tardoantica che dal IV secolo conia aurei dal busto frontale dell'Augusto. Palazzo Malipiero, d'altronde, di ricco ordine corinzio, riprende i frontespizi triangolari già comparsi a Ca' Grimani a San Polo, sovrapponendoli ad alte e profonde nicchie, prossime al fare di Sante Lombardo, che in foggia di edicole incavano il rivestimento in pietra d'Istria del piano nobile; ed esibisce trafori a tarsie policrome, di lontana ispirazione paleocristiana e medievale, nei due balconi delle polifore.
In costruzione dal 1504, il Contarini delle figure sul Canal Grande, presso Santo Stefano, consapevole degli insegnamenti codussiani, presenta ancora un'innovazione accanto alla ripresa delle finestre a edicola e ai curatissimi decori ad altorilievo. Inatteso, e talora anche discusso quanto a cronologia, un frontespizio triangolare piuttosto allungato sormonta e dà risalto alla quadrifora corinzia, a colonne scanalate, del piano nobile. La soluzione architettonica non sorprende del tutto: basti pensare alle bifore che lo Scarpagnino disegna per il piano superiore della facciata della Scuola grande di San Rocco. Ma, evidentemente, lo scarto semantico è notevole, nonostante si possa pensare, quanto a fonti iconografiche, ai pronai tetrastili di numerosi e ben noti conii imperiali romani e ad altre consimili, che non discorderebbero affatto con le aquile bicipiti innalzate su panoplie poste ai due lati, tra le finestre ad edicola del piano.
Il ritorno all'esempio degli antichi, la ricerca di magnificenze, d'altronde, nell'architettura civile privata dell'arco di tempo considerato restano largamente fatti formali e figurativi, ristretti alla sfera della venustas sermonis piuttosto che al concetto architettonico d'insieme della domus gentilizia. Tra i casi considerati, infatti, alcuni come quello di palazzo Contarini a San Vio e di palazzo Malipiero-Trevisan non avevano comportato che l'adattamento di un organismo gotico preesistente. Altri avevano mantenuto comunque l'impronta tradizionale nella distribuzione degli ambienti interni (il Grimani a San Polo, pur molto rimaneggiato, con scala esterna nella corte, il Contarini delle figure, con giardino retrostante). Palazzo Trevisan-Cappello, che pure reimpiega, in misura da accertare, strutture murarie di età gotica e forse più antiche, in realtà dà soluzione aggiornata al vecchio problema di unificare nel prospetto due residenze indipendenti. E Ca' Gussoni a San Lio trova una soluzione peculiare certamente in rapporto alla particolarità del sedime sul quale sorge: organizza, cioè, un corpo di fabbrica quasi quadrato intorno a un cortile centrale e da quello deriva un'ala che raggiunge il rio, dove si affaccia un lungo salone a L, sul cui lato settentrionale si allineano tre ambienti minori.
Al di là di episodi e di situazioni specifiche, perciò, le caratteristiche che la casa nobiliare da stazio aveva assunto alla metà del '400 non sembrano venir sottoposte a revisione per gran parte del primo Rinascimento.
Ciò non significa che il quadro sia del tutto statico o circoscritto entro tali termini. Né che il gruppo di palazzi gentilizi dei quali abbiamo sommariamente delineato le caratteristiche fondamentali esaurisca l'invenzione protorinascimentale veneta della "casa all'antica".
Tendenze abbastanza diverse da quelle che abbiamo esposto, infatti, dovevano essere rappresentate dalla pur incompiuta Ca' del Duca, concepita come una smisurata, imponente fabbrica architettonicamente di transizione in sito poco distante da Ca' Foscari, sull'altra riva del Canal Grande (182). Iniziata a costruire nel 1457 per Andrea Corner, ceduta al duca di Milano - in ottimi rapporti con il doge Pasquale Malipiero - Ca' del Duca vide arrestarsi definitivamente i lavori entro il 1466. Troppo presto perché si fosse realizzato molto più che le imponenti opere di fondazione e si fosse solo intrapresa l'edificazione del pianterreno. Andrea Corner aveva chiamato a progettarla Bartolomeo Bon; il duca di Milano vi aveva inviato a rivedere e seguire l'opera dapprima Benedetto Ferrini, poi il Filarete, che in un suo celebre disegno di edificio in luogo paludoso doveva averne riprodotto l'idea d'insieme. Da questa e da altre testimonianze è possibile stabilire che il palazzo si sarebbe affacciato sulle acque del Canal Grande con un lungo e profondo loggiato (avrebbe, cioè, imitato il modello della casa-fondaco con torricelle veneto-bizantine, riconsiderandolo probabilmente in chiave quasi castellana), mentre il profondo corpo di fabbrica sarebbe stato organizzato intorno a due ampi cortili, secondo un'impostazione planimetrica priva di precedenti nella cultura architettonica veneziana. Ciò che ne resta non è che un isolato frammento: in cui tuttavia, rompendo con la tradizione locale, il basamento in pietra d'Istria è trattato a bugnato liscio, che alterna conci quadrati a conci rettangolari (quasi basamento di un turrito castello da mar) e la parte costruita del piano terreno, con la straordinaria colonna d'angolo, allinea conci sfaccettati oblunghi e a punte di diamante, una soluzione cui si richiamerà la fronte d'acqua orientale di palazzo Ducale. Anche nella Venezia del '400, dunque, erano possibili l'articolazione di tendenze e, in certa misura, studi formali per committenti privati impostati su basi sostanzialmente diverse da quelle più accettate e diffuse. E sarà questa la strada della sperimentazione, potremmo definirla, di Mauro Codussi.
Dei tre palazzi attribuitigli, infatti, tra i più importanti fra '400 e '500, ciascuno presenta proposte diverse, affronta e svolge sotto differenti angolazioni il problema della residenza patrizia veneziana.
Generalmente viene ora riconosciuto come il più antico palazzo Zorzi a San Severo, cui Codussi è chiamato verso il 1480 da quel Marco che doveva aver incontrato quando si occupava della fabbrica di San Michele in Isola (183). Ancora una volta, non si tratta di una costruzione completamente nuova, ma della riunificazione di più edifici preesistenti (uno di quei casi piuttosto comuni, che interesseranno il Serlio trattatista). Mediante una serie di accorgimenti per alcuni aspetti non dissimili da quelli adottati per la ricostruzione della facciata di palazzo Ducale sul rio omonimo, questa viene affidata principalmente al prospetto, dove condizionamenti murari e dissimmetrie sono dissimulati attraverso manipolazioni anche inaspettate dell'impaginato architettonico.
Divisa orizzontalmente in un ordine terreno (ripartito a sua volta in tre fasce comprendenti il mezzanino e aperto sul canale con tre porte d'acqua), in un piano nobile e in un mezzanino sotto il tetto, la facciata è organizzata in verticale, al piano nobile, in due ali con finestre rettangolari sormontate da oculi chiusi dai consueti dischi di marmi policromi e in una sezione centrale con nove finestre. L'idea codussiana, dunque, è quella di rispettare lo schema antico - semmai, considerato il numero dei fori, nelle sue versioni duecentesche - accostando due doppie coppie di bifore dai capitelli corinzi con pulvino (forse reminiscenza brunelleschiana) a una singolare, individuale monofora centrale. Vari segni indicano come il concetto di una siffatta polifora sia stato condizionato dalle murature preesistenti. Ma la sua funzione unificante è del tutto palese, per di più rafforzata e sottolineata dal lungo balcone sul quale la finestrata si apre, aggettando per un breve tratto centrale in corrispondenza della monofora di mezzo, per attribuire alla singolarità di quest'ultima tratti in qualche modo nobilitanti.
Lo stesso impaginato della facciata trova prosecuzione sul fianco orientale verso la calle (dove i laterizi dei muri non sono rivestiti di lastre di pietra d'Istria), sulla quale pure si apre una trifora, in perfetta corrispondenza con il portale di accesso alla corte che introduce al palazzo mediante un bel portico a cinque fornici. Giustamente, in palazzo Zorzi sono stati identificati aspetti ascrivibili a una reinterpretazione data dal Codussi di spunti desunti dalla fabbrica romanica delle Procuratie e da altre architetture medievali veneziane. Dunque l'architetto di origine bergamasca non rifiuta l'idea di una renovatio more veneto. Ma al tempo stesso la imposta a modo proprio: poiché, infatti, ciò che sorprende in Ca' Zorzi è la riduzione al minimo - a semplici richiami cromatici - dell'impiego dei marmi rari. E a questo si aggiunge la riduzione al minimo della decorazione a bassorilievo, che si limita alle sole basi cilindriche delle sottili colonne della sezione destra della polifora (evidentemente l'ornamentazione delle altre non venne condotta a compimento). Sì che la coerenza con la tradizione si coniuga con un'esplicita dimostrazione di una magnificenza priva di opulenza, con un silenzio dell'ornato - rispetto al contesto - di tono certamente e intenzionalmente dimostrativo.
A distanza di circa un decennio, il Codussi s'impegna in palazzo Lando, poi Corner Spinelli, dove delimita mediante un'intelaiatura classica - pilastri ai lati della facciata, fregio di coronamento a festoni e tondi - un prospetto in pietra d'Istria in tre ordini: un pianterreno con ammezzato e due piani nobili.
Qui pure le novità sono numerose e cospicue. In primo luogo nel rivestimento dell'ordine inferiore, completamente trattato a bugnato liscio che alterna conci quadrati a conci allungati. Certo, vi è raccolto ma anche sviluppato assai il suggerimento di Ca' del Duca, poco lontana. Ma non può aver mancato di influire sulla novità la conoscenza di opere come l'albertiano palazzo Rucellai a Firenze o come palazzo Piccolomini a Pienza di Bernardo Rossellino, ed evidentemente quel bugnato gentile del quale il Codussi stesso aveva rivestito le superfici parietali della facciata di San Michele in Isola. Ma anche altri collegamenti potrebbero essere rilevati. Genesi complessa, dunque, d'una soluzione che avrà seguito nel '500 e che, al momento in cui viene adottata a Ca' Lando, assume un significato particolarmente importante.
Se, infatti, si è visto che l'architettura civile tardogotica dell'età di Francesco Foscari aveva abbandonato il portico sull'acqua della casa-fondaco, la parete terrena rusticata del nuovo palazzo del Codussi, alla fine del secolo, equivale a una conferma intransigente della svolta da tempo operata: la forma aperta della casa del mercante, attraverso l'idea di impenetrabilità suggerita dal bugnato, mostra di essersi tramutata nell'inaccessibilità della dimora nobiliare. Ma non tutto dell'antica cultura architettonica è lasciato cadere, neppure in questo caso. Lo schema di facciata, infatti, resta come di consueto tripartito, le polifore centrali sono tradotte ancora nell'accostamento di due bifore; assai dissimili, tuttavia, da quelle disegnate per palazzo Zorzi a San Severo. Fa la sua comparsa ora la tipica bifora codussiana sormontata da oculo e inscritta in un ampio arco a tutto sesto: un elemento nuovo, dunque, questo pure di matrice complessa. Tant'è vero che in questa prima elaborazione l'oculo non risulta perfettamente circolare, ma assume un disegno a goccia, formando controcurva nell'appoggiarsi sulle arcatelle a tutto sesto sottostanti. Senza dire che soluzioni vagamente simili a queste erano state sviluppate anche dall'architettura bizantina, va notato che il momento intermedio fra la tradizione tardomedievale e la ricerca del Codussi era stato rappresentato a Venezia da numerosi disegni di Jacopo Bellini. Che quest'ultima s'era preparata non molto dopo la metà del secolo XV.
Dovette essere determinante, tuttavia, la conoscenza dei precedenti toscani - dell'Alberti e del Rossellino - già adottata del resto dalle bifore di un importante edificio ravennate, il palazzetto di piazza del Popolo, la cui costruzione era stata promossa proprio dal podestà veneziano, Vitale Lando (184).
Innovazione rinascimentale e tradizione continuano pertanto a intrecciarsi non tanto per indecisione dell'architetto o per orientamenti della committenza, quanto piuttosto per la convinzione che il Codussi sembra avere di una compatibilità tra le due non riducibile esclusivamente all'eloquenza evocativa dell'iconografia degli apparati decorativi scultorei (che anche nel caso di Ca' Lando Corner Spinelli permangono composti e severamente trattenuti). L'ampiezza di campo degli studi dell'architetto bergamasco sulla casa da stazio è insomma considerevole. E per i Loredan egli compirà il suo gesto in quest'ambito più clamoroso, negli ultimi anni della sua attività, appena varcata la soglia del XVI secolo (185). Che l'intervento di edificazione del palazzo di San Marcuola sia stato concepito come teatro di magnificenza ad ornamento della città è del tutto evidente sul piano architettonico: la facciata, infatti, per quanto correlata funzionalmente all'organismo edilizio, a questo non corrisponde pienamente. Di maggiori dimensioni in lunghezza e in larghezza rispetto alla testata di affaccio sul Canal Grande, vi appare elemento appositivo, fronte scenica. L'intelaiatura formata da paraste e colonne di ordine corinzio ("i veneziani si dilettano molto nelle sue fabriche d'opera corinthia" sottolinea Sebastiano Serlio nel 1537) (186), dal basamento in pietra d'Istria e dalle trabeazioni la superiore con fregio figurato - domina la composizione del prospetto, facendo ricorso per la prima volta nell'architettura privata del primo Rinascimento al raddoppio di paraste e di colonne. Una precisa gerarchia tra i piani del palazzo è fissata combinando l'impiego dei materiali - pietra d'Istria al piano terreno e rivestimenti di lastre marmoree ai piani superiori - ma anche la natura e la foggia dei piedritti: paraste al terreno, colonne scanalate al primo piano nobile, colonne a fusto liscio a quello superiore.
Ancora, la ripresa della caratteristica bifora già comparsa in Ca' Lando - ma affinata, poiché l'oculo ora è perfettamente circolare - per tutte le aperture della facciata permette di risolvere il problema della continuità rispetto allo schema consueto: le ampie polifore centrali sono composte accostando tre finestroni a bifora per piano e marcando lo stacco dalle ali laterali mediante il raddoppio delle colonne. Tutto questo insieme con il consueto, sobrio ricorso a vigorosi elementi ornamentali, rilievi, tondi e tabelle lapidee.
Inaspettatamente, il Codussi, che, si rammenti, progetta e opera dirimpetto all'antica dimora veneto-bizantina nota più tardi come fontego dei Turchi, riconsidera il problema dell'andito terreno e del suo affaccio verso l'acqua. Pur non aderendo alla vecchia soluzione del portico, lo apre nuovamente e lo illumina vistosamente affiancando alla porta d'acqua - trionfale come sottolineano i due profili imperiali - ancora due grandi bifore che riconducono quindi fino al pianterreno la tripartizione rispettata ai piani superiori. Ma l'andito dal canale al giardino retrostante perde del tutto la sua funzione un tempo primaria di approdo e di scarico di balle di mercanzia da stipare nei magazzeni allineati ai suoi lati: accogliendo gli affreschi giorgioneschi allegorici di Diligenza e Prudenza, si propone come una versione veneta degli atrii classici.
"Honoratissima et degna caxa [...> cum una faza davanti, la piui bella che ahora se atrova in Venetia" la definisce Girolamo Priuli (187). In effetti, il Rinascimento inoltrato, attraverso il figlio di Jacopo Sansovino, vi riconoscerà il più antico fra i principalissimi dei palazzi veneziani. Il solo, prima di Ca' Dolfin e di Ca' Corner a San Maurizio del Sansovino e di Ca' Grimani a San Luca del Sanmicheli, edificato "ne' tempi nostri et secondo la dottrina dell'antico Vitruvio" (188). Affermazione, quest'ultima, che non corrispondeva letteralmente alla realtà, ma testimonia bene il valore di prefigurazione delle mature magnificenze "alla romana" attribuito più tardi, consapevolmente, alla solenne fabbrica del Codussi. Che non ebbe seguito immediato. Dalla sua aulicità, semmai, si ebbero a trarre parziali insegnamenti in opere di committenza collettiva come la Scuola grande di San Rocco.
La profonda crisi delle guerre cambraica e della Lega Santa, il convinto moralismo del lungo dogado di Leonardo Loredan e comunque il mutamento di attitudini sociali in atto dopo il primo decennio del '500, infatti, condussero a riconsiderare la questione della magnificenza privata, mentre in parallelo andavano restringendosi i rapporti funzionali tra casa da stazio ed esercizio della mercatura.
Tre casi di architetture edificate e un quarto di progetto ineseguito possono delineare perfettamente il quadro delle tendenze nell'architettura civile veneziana nel corso degli anni '20 e '30 del '500.
Quello di Ca' Querini Stampalia, per intanto, della nobile famiglia allora ancora titolare di possessi feudali nel Mediterraneo orientale (189). Il palazzo di Santa Maria Formosa, infatti, la cui prima fase costruttiva è voluta da Nicolò Querini, è un buon indice dei comportamenti d'una casa protagonista della vita pubblica nel corso di un decennio, quello che corre tra il 1513 e il 1523, cruciale per i mutamenti culturali in atto.
Nonostante le "molte spexe fate in la chaxa granda", è chiaro che il committente non intende dare forma ad atti autocelebrativi, quanto semplicemente configurare la propria residenza secondo una dimensione di "decoro" relativamente aggiornata, ma sufficientemente sobria e volutamente non troppo avanzata sul piano del linguaggio architettonico. La partitura della facciata sul campiello è risolta con semplice garbo tradizionale nell'impostazione (tripartita, con due quadrifore sovrapposte) e ordinata a partire da un modulo di quattro piedi veneziani, lievemente contratto nelle superfici parietali interposte fra le polifore e le monofore immediatamente affiancate in rapporto alla visuale dallo spazio antistante.
Nonostante l'impiego di "marmori de diverse sorti" per i tondi decorativi e l'acquisto documentato di "tondi di serpentin fin grandi" forse destinati ad abbellimenti interni, il prospetto rinuncia del tutto al rivestimento in materiali lapidei - dispiegati poco lontano da palazzo Malipiero-Trevisan - così come rinuncia ad ornamenti. Insomma, il tono della facciata di Ca' Querini si colloca al livello di quello dei fianchi di Ca' Loredan Vendramin Calergi. Sobrietà estrema, dunque, quando si valuti in termini contestuali, nonostante lo stato sociale dei committenti e gli eventi che il palazzo accoglie: la rappresentazione della Commedia Orba del Cherea, i raduni della Compagnia dei Cortesi. Le carte dei conti di Ca' Querini Stampalia, d'altra parte, risultano illuminanti per un altro motivo. Perché, datando con precisione al 1537 la trasformazione ad altri usi del "mezado da basso" che Nicolò aveva fatto disporre come deposito di mercanzie, ci permette di concludere emblematicamente quel filo narrativo dei cambiamenti avvenuti nell'uso e nella distribuzione della casa da stazio veneziana che abbiamo seguito a partire dalla Ca' d'Oro di Marin Contarini.
Un'età dunque si andava chiudendo. E la sobrietà, l'affermazione di nuovi valori e nuovi principi nel comportamento dei privati che già Ca' Querini a Santa Maria Formosa mostra di enunciare è ribadita e sottolineata dall'ancora più spoglio e severo aspetto del palazzo di residenza privata di un doge: quella casa di San Francesco della Vigna, sul cui prospetto si apre una sola quadrifora, priva non solo di intagli lapidei, e di marmi, ma anche di qualsiasi accenno agli ordini vitruviani nei capitelli ancora più essenziali dell'ordine tuscanico, il più semplice degli ordini architettonici. Andrea Gritti l'aveva fatta ricostruire intorno al 1535, probabilmente allo Scarpagnino, artefice del pratico funzionalismo delle Fabbriche realtine (190). È evidente come qualcosa di profondo muti nell'idea veneziana di Rinascimento, mediante la ripresa di quella condanna della luxuria architettonica dei singoli contro la quale s'erano levate più voci del mondo classico, da Cicerone a Seneca, a Plinio, a Velleio. Nessun nuovo Metello, nessun nuovo Cesare avrebbero dovuto trovar luogo nella Repubblica, non aedes ex marmore, non operum magnificentia, né varietas marmorum avrebbero dovuto essere ammesse per i privati.
Negli stessi anni, Francesco Zen, studioso d'architettura e amico di Sebastiano Serlio, progettava la lunga fabbrica del palazzo proprio, del padre e dei fratelli ai Crociferi. Ancora un'opera di architettura severa, che semmai, come il fontego dei Tedeschi, affida il decoro agli affreschi e non ai marmi dispendiosi, e per di più scegliendone come tema iconografico quello dei servigi resi dalla famiglia alla Repubblica. Ma che per giunta, nella lunga teoria di ventiquattro finestre, ordinate secondo una sequenza ritmica che corre lungo tutto il piano nobile, s'ispira ancora alle Procuratie marciane medievali, alle facciate veneto-bizantine, alternando archi a tutto sesto con sorprendenti archi cuspidati, secondo un simbolismo gentilizio che sarebbe troppo lungo esporre. Ma non va dimenticato che qui, sul prospetto, allo stemma nobiliare sono accostati un timone latino e un timone baronesco, richiamo evidente alla natura della grandezza e delle tradizioni della famiglia e, insieme, della città-stato (191).
Severità, richiami alle origini e alla parsimonia dei Veneti dell'età tribunizia destinatari della celebre lettera di Cassiodoro, ammonimenti, esortazione alla fedeltà nei confronti della propria storia, e al tempo stesso ultime fasi della scomparsa di componenti di funzionalità commerciale nella dimora nobiliare discendente della casa-fondaco, si accompagnano (192). Frattanto la questione dei modelli della casa "per il gentiluomo nobile venetiano" resta aperta. Il Serlio, ben introdotto negli ambienti veneziani "tenendo di continuo comercio con quei nobilissimi ingegni dotati di tutte le buone arti" se ne interessa più volte, riducendo a due i caratteri essenziali del costume de Vinetia: il grande salone passante, il portico, come egli stesso lo chiama, e le ampie finestre raggruppate in polifore, la copia de i lumi. Ma il suo provato interesse sull'immediato non ha conseguenze decisive (193).
Nel frattempo, però, il nuovo s'era affacciato anche attraverso altre vie. Tra il 1527 e il 1528, Jacopo Sansovino aveva elaborato per Vettor Grimani un progetto di grandioso palazzo da edificare sul Canal Grande, di clamorosa portata e di elevato virtuosismo progettuale, organizzato in pianta sulla successione di due imponenti cortili alla romana (194). L'opera non venne realizzata: per la svolta narrata ed enfatizzata dal Vasari sarà necessario attendere e far prima assumere al Sansovino il ruolo di proto dei procuratori di San Marco; istituzionalmente ma anche progettualmente, facendogli restaurare le cupole della Basilica, intervento-chiave, una sorta di messa alla prova come lo stesso Vasari ammette. Sarà necessario fargli dimostrare la propria sufficienza in questo e in altri interventi di pubblica utilità. E per giungere alla Libreria di San Marco, il prototipo d'una renovatio urbis dichiaratamente vitruviana, sarà necessario attendere un decennio ancora.
Fase di travaglio, dunque, di incertezze, di processi di originazione culturale non ancora pienamente maturati quella degli anni 1525-1535: intorno a questi si attesta la soglia ultima della renovatio more veneto avviata circa ottant'anni prima. I dubbi, peraltro, le resistenze, la tenacia nelle persistenze dello "stil veneziano", che saranno riprovate ancora dal purismo settecentesco del Visentini, attraverseranno l'intero arco cronologico del rapporto tra Venezia e il Rinascimento.
Al di là della ricostruzione dei grandi meccanismi funzionali dell'abitare, e nonostante un certo numero di buoni studi recenti e meno recenti (195), il problema della definizione delle effettive coordinate di interpretazione dell'edilizia popolare nella Venezia tardomedievale e protorinascimentale resta tuttora aperto per molti aspetti: quanto a ricognizioni puntuali sui comportamenti della committenza, quanto a conoscenza approfondita delle tecniche e dei materiali costruttivi, quanto ancora a ricostruzione delle attività di imprese e maestri, quanto infine ad accertamenti condotti con sistematicità rigorosa sui modi dell'abitare, sull'uso degli ambienti.
Una rilettura d'insieme di siffatte questioni, pertanto, non può che avvenire per grandi linee, da verificare semmai attraverso casi specifici già sufficientemente chiari e documentabili con attendibilità.
Il quadro della domanda di casa a Venezia nell'arco di tempo considerato è quello ricostruito in altre pagine di questo stesso volume. Quello di una città in movimento, in crescita, che già al passaggio fra '200 e '300 esercita una sensibile pressione abitativa sulle contrade di margine e avanza, quando può, sulle barene e sulle velme, come testimonia perfettamente, in efficace sintesi cartografica, la pianta pergamenacea della Chronologia Magna. Pur seguendo andamenti congiunturali, la crescita insediativa di margine si intensifica di certo nel '400, ma non è specifica di questo secolo. Appare forte nel corso di tutta la prima metà del secolo XVI, tanto da sollecitare l'intervento pubblico, che comporta l'affidamento di un piano d'insieme a Cristoforo Sabbadino presentato nel 1557, prolungandosi ben oltre questa data e ben oltre quella dell'avvio della sua realizzazione parziale, per raggiungere i primi decenni del '600 e arrestarsi con la grande peste del 1630.
Mentre lo spazio urbano tende a espandersi, tendono a infittirsi le maglie del suo tessuto; si manifestano fenomeni di addensamento insediativo che richiedono ricostruzioni, sopraelevazioni, interventi di edilizia nuova. E comportano, peraltro, l'occupazione di tutti i minuti interstizi abitabili, anche in rapporto all'emigrazione stagionale dalla Terraferma, si traducono in una continua ricerca di alloggio della parte più indifesa del popolo minuto, afflitto nel '500 da quella che più fonti contemporanee non esitano a definire carestia di casa.
Dunque si costruisce un poco ovunque, fuori dei maggiori cantieri pubblici e privati; e sarà bene avvertire che una parte di questo ansioso edificare popolano è ben difficilmente documentabile con mezzi diversi da quelli dell'archeologia urbana medievale e rinascimentale. Perché anche nella Venezia del Rinascimento molti tirano su casa con le proprie mani, molti costruiscono con materiali deperibili (e in questo caso la durata - talora dichiarata - d'una casa di legno è di una trentina d'anni come quella d'una costruzione dello stesso genere nella contemporanea Istanbul ottomana), molti con struttura mista, con materiali di recupero, secondo soluzioni spontanee e sovente improvvisate per i luoghi dell'abitare. Per altro verso, un'altra buona parte di simili attività dipende da interventi accuratamente programmati di più o meno grandi committenti, a scopo di investimento o a fini assistenziali: nobili e Fraterne, Procuratie, conventi, monasteri, clero secolare. Ed è all'attività di questi che ci interesseremo per identificare, nei termini del possibile, le linee di fondo che orientano l'edificazione ῾minore' fra '400 e primo '500 (196). L'abitare dei poveri, le dimensioni minime del vivere nella Venezia tardogotica: tra alcuni altri identificabili, vi è il caso relativamente ben documentato dell'albergo per povere vecchie istituito dai Badoer presso San Giovanni Evangelista - non lontano dalla Scuola grande - costruito a ponte su calle della Lacca e tuttora esistente, a quanto sembra senza aver subito trasformazioni troppo rilevanti nel suo assetto originario.
L'edificazione dell'ospedal novo ha una data precisa, quella della determenation presa il 25 luglio 1414 da Albano Badoer e, caso abbastanza raro, è chiarita da fonti contemporanee. Come si accennava, si trattava di dare alloggio a dodici povere, e le decisioni prese dal nobile a questo proposito sono estremamente chiare. Oltre che la localizzazione e l'andamento del nuovo edificio, la sua lunghezza e larghezza dentro i muri (16 e 7 passi), oltre al nesso urbanistico, per così dire, da stabilire con il vicino rio mediante una fondamenta de piera in testa alla fabbrica, al momento della decisione sono già fissati l'altezza e lo spessore dei muri, il tipo di laterizi da usare e le dimensioni dei singoli alloggi. Costituiti da una sola camera, questi dovranno essere di 9 piedi in lunghezza per 7 in larghezza. L'edificio realizzato, non del tutto corrispondente nei caratteri ai documenti che ne segnano la nascita, mostra comunque la sua dipendenza da questi. Al pianterreno, presso la porta, allinea in doppia serie degli stretti ripostigli, al piano superiore un lungo corridoio mediano nel quale si affaccia una duplice serie di stanze individuali, dotata ciascuna di focolare. Semplici celle, dunque, che tuttavia risultano persino migliori del concetto che si può avere in età rinascimentale della casa del povero, come prova il VI libro di Sebastiano Serlio, il quale scrive appunto "che 'l povero huomo di [...> basso grado vive alla giornata et si accomoda tutte le sue massaritie in un loco solo", giungendo a teorizzare che di conseguenza alla sua abitazione non serve né cucina, né cantina (197).
Ma le ridotte dimensioni per un'altra ragione appaiono significative, sia pure come limite inferiore. Per il fatto cioè, che l'abitazione popolare tardogotica veneziana risulta generalmente di consistenza ridotta, anche quando si tratta di alloggi destinati ad accogliere nuclei familiari. E l'esame del caso dell'ospizio dei Badoer risulta utile per almeno altri due aspetti ancora. Anzitutto per la presenza di un sobrio, ma curato tratto di decoro di una delle facciatine: una biforetta rettangolare in pietra d'Istria con pilastrino ottagono ed elementi di ornato a fogliami. Certamente essa va collegata alla volontà di prestigio della committenza titolare dell'istituzione di carità, il Priorato di Ca' Badoer, dal quale gli alloggi dipendono; e non è isolata fra altri casi simili, tant'è vero che l'ospedale di Santa Maria dei Crociferi, pur riedificato nel '500, nella testata sud reca tuttora traccia dei lavori tardogotica di abbellimento, nel grande oculo con cornice dentellata e nel portale con finestra sovrapposta riquadrato con una cornice analoga e il reimpiego di un rilievo trecentesco raffigurante la Madonna in trono con il Bambino e san Magno (198). La bifora decorata, tuttavia, da un altro punto di vista costituisce anche un esempio databile tra altri dignitosi, per quanto contenuti, abbellimenti nell'edilizia abitativa di livello popolare.
Ma per un diverso, e assai rilevante, aspetto, gli atti preparatori alla costruzione dell'ospedaletto mostrano di presupporre l'esistenza di un modello preciso da seguire; e l'esplicita clausola secondo la quale anche in corso d'opera fosse lecito ad Albano Badoer "dir e determinar ch 'l se faza quello che a lui parerà" mette in evidenza assai bene la misura del controllo esercitato dal committente sull'operazione, rileva un comportamento che ben difficilmente potremmo considerare isolato.
In effetti, proprio fra '300 e '400, nella crescita del tessuto edilizio veneziano si fa determinante il ricorso ad architetture seriali, realizzabili a seguito di interventi programmabili nel loro insieme, componendo ripetitivamente unità modulari delle medesime forme e dimensioni. Interventi, insomma, fortemente organizzati e controllati.
Un caso relativamente precoce è rappresentato dal complesso edilizio di calle Zotti a Santa Sofia, costituito da una serie di case gotiche a schiera edificate procedendo dalla combinazione di due principi: quello appunto dell'aggregazione sistematica di singoli moduli e il secondo, socialmente assai significativo, della reciproca indipendenza delle unità abitative (ciascuna con "porta sola"). La casa di testa della serie, che si affaccia sulla stretta calle del Pistor - un tempo sezione di un lungo percorso commerciale che attraversava il sestiere di Cannaregio parallelamente al Canal Grande - rappresenta bene il tipo di abbinamento funzionale casa-bottega frequente soprattutto nelle contrade centrali della città. Le successive, che si allineano lungo la fronte orientale della calle, accolgono esclusivamente funzioni abitative e come la precedente mostrano al primo piano aperture archiacute, raggruppate a intervalli regolari a formare triforette che danno luce a un piccolo portego. Testimoniano dunque, nell'impianto distributivo che si rende evidente anche in facciata, l'avvenuta adozione a scala ridotta e nella concezione di base dell'impianto della casa da stazio dominicale.
Qui pure, del resto, l'edilizia abitativa popolare non si risolve esclusivamente in stretto funzionalismo. Alcune delle trifore superstiti, infatti, dai piedritti e dalle gracili colonne in pietra con capitelli a calice ornati o meno di semplici foglie angolari a lievissimo rilievo, mostrano tuttora archi acuti in cotto decorati, i cui elementi sono realizzati a stampo: ad archetti trilobati incrociantisi racchiusi in cornice a dentelli, a modanature contornate da cornice dello stesso tipo, a losanghe includenti una rosetta, o anche ornati da un lungo fregio vitineo ricco di foglie e di grappoli.
Alla serialità edilizia si accompagna dunque l'impiego di elementi decorativi di basso costo, altrettanto prodotti in serie dalle due fornaci attive in città o da altre dei dintorni. La diffusione di un ῾piccolo gotico' in termini di modesta qualificazione dell'edilizia popolare quattrocentesca è confermata da altri casi del tutto analoghi giunti fino a noi. Le case di corte Contarina a Castello - una breve doppia schiera di abitazioni d'affitto dietro un corpo edilizio affacciato sul canale e fregiato dello stemma nobiliare, posta dirimpetto al lungo edificio delle Corderie dell'Arsenale - presentano tre varianti di archi acuti del genere appena descritto, profilati da cornici a dentelli: ricompare la sequenza intrecciata di archetti lobati, accanto a un motivo a tralci con corolle e rosette e a un terzo a morbidi fogliami. Versioni più semplificate figurano invece in un importante edificio compreso tra calle de Mezo e calle del Forno, con affaccio su calle delle Cappuccine, in prossimità dello sbocco orientale di Barbaria delle Tole, fra il convento dei Santi Giovanni e Paolo e il monastero di Santa Giustina. Qui, nell'area anticamente di notevole interesse economico degli arsenali da legnami che richiamava manodopera dalla Terraferma, un lungo edificio mantiene tuttora le dimensioni dell'originaria schiera quattrocentesca di unità abitative seriali a pianterreno e un solo piano superiore. E in corrispondenza della testata orientale conserva molti dei caratteri costruttivi originari: dunque ancora la biforetta archiacuta che annuncia all'esterno il piccolo portego d'una casa, con arco in cotto dall'archivolto incorniciato da una cornice dentellata e da una seconda a punte di diamante come quello della vicina monofora. Le finestre del fianco settentrionale, che un tempo davano sulla riva melmosa della laguna, pur gotiche, sono soltanto profilate da una semplicissima modanatura laterizia. Alcuni tratti di arcaicità insediativa della zona hanno permesso la conservazione a poca distanza - in calle Cavalli - d'un caso piuttosto raro di piccola abitazione individuale probabilmente quattrocentesca, anche se in parte alterata, che documenta l'estrema semplicità di casette a solo piano terreno, in questo caso con abbaino di datazione incerta, giusto di fronte a una seconda casetta a un solo piano oltre il terreno: frammenti di dimensioni dell'abitare pertinenti zone urbane di margine. Lo studio dell'edilizia seriale, ad ogni modo, intorno alla metà del '400 sembra interessare alquanto sia i capimastri, sia i committenti, sollecitando tendenze alla formazione e al consolidamento di tipi esistenti parallele ai processi di definizione e di stabilizzazione dei caratteri della casa da stazio, soluzioni per decorazioni a basso prezzo, elaborazioni di modelli insediativi. Poco dopo la metà del secolo, la nascita del quartiere del Ghetto Nuovo - ben antecedente la sua trasformazione in quartiere ebraico, che avverrà nel 1516 - ad opera di Costantino e Bartolomeo da Brolo, appartenenti a famiglia cittadinesca di mercanti, rappresenta un caso emblematico di investimenti in edilizia seriale d'affitto organizzata intorno a una vasta corte chiusa (l'attuale campo) (199). Bonificata con gli scarti di lavorazione delle vicine fonderie pubbliche di rame e con altri materiali di riporto, messa all'incanto nel 1433, l'isola nuova del terren del Geto giunge ai da Brolo nel 1455 per compravendita dai Ruzini. L'iniziativa edilizia è immediata e rapida: le costruzioni sono già avviate entro il 1458 ed entro gli anni 1459-1465 probabilmente già concluse. Si contano comunque venticinque abitazioni, una "corte di case". Le nuove fabbriche venivano a delimitare un'area di pianta all'incirca pentagonale (l'odierno campo) entro la quale pare fosse intenzione dei committenti di far elevare un oratorio di servizio all'isola urbanizzata. Certamente furono costoro a far scavare i tre pozzi del campo e a farvi mettere in opera i puteali fregiati dell'emblema familiare: circostanza non secondaria, poiché si conoscono casi di interventi analoghi per i quali i proprietari non si preoccupano affatto dell'approvvigionamento idrico dei locatari.
Ad esempio, solo quando "molti de li nostri fradeli" lamentano la mancanza di chomodità nelle case loro assegnate, la Scuola grande della Misericordia delibererà che "sia fato in Canaregio ale nostre chaxe nuove uno pozo per chomodità de choloro stano ne le ditte chaxe" (200). Su iniziativa dei da Brolo, inoltre, e in fase di programmazione delle costruzioni viene riorganizzato il sistema di collegamenti del terren con le aree limitrofe: fin dall'atto di acquisto del 1455, infatti, ottengono dai venditori il diritto di transito sul ponte che mette in comunicazione i terreni con il Ghetto Vecchio e di là con la fondamenta di Cannaregio; e gli accordi prevedono subito anche la costruzione di un nuovo ponte per valicare a nord il rio di San Girolamo. Marc'Antonio Sabellico nel 1502 nota il sito, "un campo d'edifici attorniato" (201): in sostanza il Ghetto Nuovo appare come un complesso caratterizzato unitariamente. E ciò vale anche per i tipi edilizi e per la qualità delle abitazioni costruite. La pianta prospettica di Venezia delineata da Jacopo de' Barbari, infatti, riprende con cura l'aspetto delle aggregazioni edilizie lineari lungo le rive del canale, buone abitazioni a pianterreno e forse due piani superiori. Registra la sequenza ritmica delle biforette, che talora si allargano in trifore, e segnalano le stanze principali delle case d'affitto, "da sazenti". Le affinità con numerosi complessi a schiera, in calle Zotti, in salizada San Lio, a Santa Giustina e altrove, sono strette. E lo provano tuttora due finestre ad arco acuto incorniciate in cotto. In una di queste, i laterizi lavorati a stampo ripresentano le morbide foglie tardogotiche di corte Contarina a Castello. Quando, nel 1514, siamo in grado di avere informazioni sui fitti e sugli abitanti delle case dei da Brolo, il quadro ricostruito viene confermato pienamente: si tratta di abitazioni di decorosa condizione popolare, apparentemente omogenee nella qualità, abitate da artigiani e di pochi altri alloggi più modesti ai piani terreni.
Non è l'impianto a corte di questo tipo, comunque, quello più comunemente associato ad edilizia seriale dalla metà del '400 in avanti, sino ai primi del '500. Prevalgono, piuttosto, gli allineamenti a file parallele. Nasce così, ad esempio, la corte Nova della Misericordia, deliberata il 20 aprile 1505, di venti case, da costruire "prenzipiando da la banda verso el paludo et vegnendo verso el rio de la Miserichordia", per 40 passi di lunghezza e 24 di larghezza "con sua chorte in mezo", una corte longitudinale, dunque, con dieci case per lato. Il 3 maggio 1505 si delibererà di aggiungerne altre: è sufficiente aggregare due unità del tipo prestabilito. Il tutto, poco dopo, verrà celebrato epigraficamente "per abitation de nostri fradeli et laude de Dio et de la Virgine Maria et del Serenissimo Principe Misier Leonardo Lauredano et de tuto el suo glorioso stato, che Dio felice lo conservi" (202).
A questo potrebbero essere accostati numerosi altri esempi, da quello delle case di calle dei Volti ai Crociferi (1495), all'altro protorinascimentale di corte Nuova dietro l'Arsenale, a una terza corte Nuova presso San Lorenzo, di non molto più tarda anche se forse su parziali preesistenze gotiche. Non dimenticando, tuttavia, i celebri allineamenti del tardo '400, disposti su tre file parallele, di corte Colonne a Castello: case su tre piani, che si affacciavano sul canal di San Marco con testate ornate da tre ampi tondi, non dissimili, se non nelle dimensioni, da quello tutt'ora visibile all'ospedale dei Crociferi (203).
L'edilizia seriale a schiera sviluppata a formare corti longitudinali appare dunque lo strumento di organizzazione più praticato nelle iniziative di investimento e di speculazione pubblica e privata, confermato come tale nel corso dei primi decenni del '500, e anzi addirittura oggetto di celebrazione letteraria da parte del Calmo in un elogio di Giovan Francesco Priuli, edificatore di "case magnifiche [...> che le par un bosco de una gran citae, ben intese e ben compartite, di longhezza quanto puol tirar un arcobuso, in do corse d'ogni superbo cavalo, con intrada in esse do sole de do mille ducati, oltra la laude de ampliar la tera, come amorevole patrizio" (204).
Non per caso, Sebastiano Serlio, che a Venezia aveva abitato proprio in una casa d'affitto dei Priuli, in questo stesso torno di tempo metterà a fuoco, oltre a quello della casa del gentiluomo veneziano, anche il problema del progettare case in serie per poveri, artigiani e commercianti: perché appunto "talvolta una persona dinarosa ne porrà fare una quantità per affittarle", perché "sarà talvolta [...> nel corpo della città qualche sito dove è più caro il terreno, dove uno ricco vorrà più presto una entrata di piccole case che una casa grande per suo habitare". Perché, insomma, la domanda è forte, costituisce un potenziale campo professionale per l'architetto man mano che ci si inoltra nel '500 e disporre di schemi progettuali predisposti è quanto mai opportuno (205).
Coerente e consapevole, la pratica costruttiva tardogotica aveva dunque sperimentato ampiamente l'edilizia abitativa seriale. Quella primorinascimentale, si diceva, dapprima sviluppa questa stessa linea, semmai operando gli opportuni aggiornamenti nell'ambito delle limitate questioni formali. L'impiego del laterizio ornato, infatti, è lasciato cadere completamente - per quanto se ne sa - nel tardo '400. Corte dei Preti a Castello, anteriore al '500, mostra l'adozione di bifore centinate a tutto sesto con ghiere di mattoni a vista; e alla Marinarezza le bifore e le monofore del primo piano mostrano il modello cinquecentesco più diffuso: stipiti e archi di non ampia luce appena sagomati, rispettivamente all'imposta e all'estradosso. Modelli tanto uniformi, nei primi decenni del '500, da accentuare ancora i caratteri di standardizzazione dell'edilizia popolare intensiva. Ma che vengono adottati anche per modeste abitazioni soltanto abbinate, come prova, ad esempio, la casetta a pianterreno e un piano appartenuta alla Scuola della Misericordia in calle Sacca presso San Francesco della Vigna (206).
Sembra abbia certa diffusione, tuttavia, nei complessi d'affitto di medio livello, la decorazione esterna ad affresco, e naturalmente non mancano talora - semmai nell'edilizia del centro della città - soluzioni eccezionali, ma di notevole interesse sul piano della storia della cultura edilizia: come il ritorno in versione popolare del balcone d'angolo - già tardogotico e protorinascimentale - sulle case dei canonici di San Salvador sopra il campo, parte del complesso ricostruito intorno al 1521 con la deliberata intenzione di incrementare al massimo le entrate (207).
La cultura edilizia di matrice quattrocentesca, com'è stato osservato, non giunse a spingersi più oltre di quanto s'è detto; a elaborare, cioè, organismi più complessi. Fu il '500 inoltrato a mettere a punto soluzioni intensive, tipi a blocco multipiani, a introdurre scale doppie e altro, a razionalizzare e innovare gli impianti distributivi e a perfezionare le simmetrie, con relativa rapidità in rapporto alle esigenze che in sintesi abbiamo già ricordato. In casi sufficientemente studiati come quelli della doppia schiera di calle Pasqualigo a Santo Stefano (1521-1523) o del grande complesso Marcello-Malipiero di calle Larga a Santa Marina tutto questo è già evidente.
Ma se anche in quest'ambito si vorrà identificare una soglia, fissare per comodità di interpretazione i tempi di una svolta, si potrà rinviare a due eventi pressoché concomitanti: il concorso bandito nel 1547 per le case di Castelforte a San Rocco, che vide competere i progetti di Antonio Bognolo, di maestro Vielmo, di Venturin de Etore e dello Scarpagnino e la vittoria di quest'ultimo. E la chiamata di Jacopo Sansovino da parte di Leonardo Moro per l'ambizioso programma edilizio del complesso di case da stazio e da sazenti realizzato a San Girolamo "quasi a sembianza di un grosso castello" tra il 1544 e il 1551. Date pressoché coincidenti, alle quali i saperi progettuali del proto al sal e del proto di San Marco, rivali nelle pagine vasariane, venivano chiamati a competere nel campo del quotidiano "commodo e servizio" (208).
Venezia "che mai non hebbe né mura né rocche": la costruzione di una siffatta immagine politica, cui la cultura umanistica del '400 partecipò attivamente, in realtà segue di non molto la ridefinizione d'insieme del sistema difensivo del Dogado, attuata fra il tardo '300 e i primi del secolo XV come conseguenza della recente, traumatica esperienza dell'attacco genovese e della sia pur temporanea occupazione di Chioggia. Non sorprende, peraltro, che proprio in quest'ultima città fossero realizzate le prime opere di architettura militare successive alla crisi: Clodia, quae a claudendo porta Venetiarum dici potest, che si può chiamar così per il suo chiudere la porta di Venezia, scrive Rafain de' Caresini.
Fra il 1384 e il 1385, infatti, il porto della città venne posto sotto la sorveglianza del castello della Lova, un corpo di fabbrica quadrangolare affiancato da un alto maschio, pure di impianto quadrilatero, rappresentato in pianta e in alzato da numerosi documenti grafici tra '500 e '700 (209).
Pochi anni dopo, presumibilmente alla conclusione di tali lavori, l'attenzione del collegio si sposta verso il Lido.
Qui, fino dal secolo XII un fortilizio edificato nelle immediate prossimità del monastero di San Nicolò aveva assunto rilevanti funzioni di controllo del passaggio marittimo e di una fonte poco lontana, risorsa di approvvigionamento idrico per le galere in partenza per le rotte adriatiche e mediterranee.
Si trattava di un edificio di non grandi dimensioni, di pianta rettangolare, noto più tardi come Castel Vecchio e ben visibile esso pure - entro la più tarda cinta muraria della fortezza del Lido - in vari rilievi settecenteschi. L'antica opera fortificata, sottoposta a restauri considerevoli nel corso del dogado di Michele Steno (1401-1413), sorgeva sulla riva lagunare del litorale, in un sito atto a dominare il punto più stretto del canale portuale, giusto dirimpetto a un alto scanno di sabbia.
Nel 1401 venne decisa la costruzione su quest'ultimo - consolidato mediante una palificata perimetrale - di un nuovo castello di sbarramento, denominato di Sant'Andrea, la cui edificazione completava il controllo dei maggiori accessi marittimi alla laguna. Aveva origine in tal modo il complesso dei Due Castelli, per più secoli nodo delicatissimo dal punto di vista militare. Se si aggiunge che con il 1414 veniva costruita una tozza e robusta torre quadrangolare alla punta della nuova Dogana da mar (per proteggerne i magazzeni da mercanzie e per stabilire, al contempo, un punto di sorveglianza sul canal di San Marco, esattamente al confluire del Canal Grande e del Canale della Giudecca), si può concludere che con i primi decenni del '400 l'assetto difensivo tardomedievale veneziano è definito (210).
Ciò era avvenuto con la diretta partecipazione, come esperti o soprastanti, di numerosi appartenenti alla nobiltà: Pietro Emo, Pietro Mocenigo, Leonardo Dandolo, Pietro Bragadin, Alvise Loredan, il famoso Carlo Zeno a Chioggia; un Querini, che pare in grado di entrare in questioni tecniche di strutture fortificate, nel caso di Sant'Andrea; Sandro Loredan, ancora un esperto di architettura militare, a quanto sembra, in quello del castello di Mestre; Nicolò Taiapiera, Vettor Barbarigo e Giovanni Garzoni a Motta di Livenza, fortilizio con funzioni complementari verso Terraferma, come il precedente (211).
A un tale sistema, come si è visto, la città non appare del tutto estranea. Nella seconda metà del secolo, anzi, l'architettura militare più importante in corso di realizzazione è data dalla nuova cinta muraria, merlata e turrita, dell'Arsenale Novissimo (1473-1510), non dissimile alla vista "aux chastealux et forteresses", annota un osservatore contemporaneo. Ed è, quest'ultimo, un cantiere la cui complessità comporterà la creazione di una nuova figura di tecnico pubblico, quella del proto alle fabbriche, appunto, dell'Arsenale (212).
Il problema difensivo di Venezia riacquistò drammatica urgenza in concomitanza con gli eventi della guerra di Cambrai. Ma fu la laguna meridionale a destare le preoccupazioni maggiori. Nel 1509 s'inviano a Chioggia Paolo Contarini e altri per "far cavar, far conzar boche con legnami, far provision di far bastioni" e per due volte, nel maggio 1510, Girolamo Contarini provveditor all'armata interviene presso il senato suggerendo l'adeguamento delle strutture del castello della Lova. Nel frattempo, un "bastion grando" era stato eretto a difesa della navigazione di Lombardia, dopo che un primo progetto era stato esaminato e respinto da Alvise Dolfin e da Lattanzio Bonghi da Bergamo, che pochi anni prima era stato inviato in Levante insieme con fra Giocondo. Dal 1506 quest'ultimo era stato nominato architetto del consiglio dei dieci, con competenze sulle difese dei lidi, sui fiumi, sulle fortificazioni alla moderna. Se si trattava di una decisione significativa sul piano culturale, la sua attività si esplicò piuttosto negli Stati da terra e da mar (213). In laguna, dal punto di vista delle costruzioni, non si andò più in là.
La revisione radicale del sistema di difesa territoriale in atto dagli anni '20 del secolo XVI, semmai, indusse alla perdita di importanza militare e talora allo smantellamento di più antichi fortilizi circumlagunari esistenti lungo i confini del territorio del Dogado, che lo stesso consiglio dei dieci decise di impiegare come cave per il recupero di materiali laterizi da costruzione (214). In realtà ci si preoccupò piuttosto della sicurezza dell'Arsenale, con l'edificazione di alcune torri. La svolta, anche in questo caso, avverrà infatti più tardi, nel corso degli anni '30 del secolo XVI.
"Li castelli del porto nostro de Venetia, dalla vetustà consumpti e del tutto inutili, abbiamo deliberato reedificarli, sì per ornamento di questa città, come per seguir quello hanno fatto li progenitori nostri": sarà tale decisione a sovrapporre alle difese medievali della città e del suo porto i determinanti interventi architettonici cinquecenteschi. Che risultano originati, insieme, dalla relazione presentata nel 1535 da Michele Sanmicheli (ingegnere alle fortificazioni della Serenissima per nomina del consiglio dei dieci sulla sicurezza di Venezia) e dalle valutazioni e proposte circa le stesse questioni formulate da Francesco Maria della Rovere, duca d'Urbino, capitano generale della Serenissima.
Si ricostruiscono, dunque, le strutture dei Due Castelli, San Nicolò e Sant'Andrea.
Ed è qui che emerge concretamente la specificità del problema fortificatorio veneziano. Nella progettazione delle difese del cuore e anima dello Stato, risulta determinante la considerazione del "mantenere quella equalità e libertà che si è mantenuto fino a qui". Francesco Maria della Rovere induce il consiglio dei dieci a ben considerare "quel contrario che potrebbe portare il veder fare et poi esser fatte queste doe forteze in una città di tanta reputazione e libertà quanto è questa". La ricostruzione dei Due Castelli, infatti, è interpretabile tecnicamente come inserimento d'una cittadella nella città-repubblica sede di libertà. I modelli messi a punto, dunque, andranno adattati e le fortezze di San Nicolò e Sant'Andrea edificate componendo la "fortezza che richiede il bisogno della guerra" e la "debolezza che conviene ad una repubblica in la pace"; vale a dire mantenendone disarmate e strutturalmente vulnerabili le fronti verso la città.
In tal modo l'immagine politica e la realtà militare vengono fatte coincidere; e invocate come ulteriore tratto distintivo dell'unicità della Dominante, protetta dalle acque nelle quali è fondata, dalla sua pietas e dalla sapienza delle sue istituzioni anziché da baluardi e rocche.
Mentre alla terribilità del severo e maturo classicismo di Michele Sanmicheli, del suo bugnato di "grandissime pietre d'Istria che sono d'estrema durezza e reggono ai venti, al gielo ed a tutti i cattivi tempi" è affidato il compito di rinnovare, alla bocca del porto, "la maestà e grandezza delle più famose fabriche fatte dalla grandezza dè Romani": per dimostrare simbolicamente, verso il golfo di Venezia, la perpetuità dell'imperium maritimum della Serenissima (215).
Venezia, del resto, non soltanto è sicura, afferma l'encomio cinquecentesco, ma "con mirabil provvedimento rende anco sicure quelle città che dormono sotto la custodia dei suoi occhi" (216). È ben ovvio come la Repubblica dovesse manifestare interesse alla fortificazione dei propri territori all'indomani stesso della sua espansione in Terraferma. Ma è anche vero che la natura e la forma in cui tale interesse ebbe a esplicarsi nel corso del secolo XV dipesero da concezioni sostanzialmente diverse da quelle che diressero più tardi i grandi interventi di riorganizzazione difensiva dello Stato da terra; e ciò in termini non direttamente correlati alla diversità di tecniche fortificatorie.
In effetti, talune indicazioni di intenti politici di giungere a un controllo unitario delle strutture difensive venete si possono cogliere già nel '400 ed è opportuno tenerne conto, almeno sinteticamente. Quando, il 27 agosto 1409, il senato sollecita le attività generali di restauro e rafforzamento delle fortificazioni secondo il mandato attribuito ai rettori nei territori di Padova, Vicenza, Verona, ciò comporta quanto meno, con la contemporaneità cronologica, un primo momento di unitarietà di intervento all'atto stesso della formazione di un vero e proprio Stato da terra della Repubblica (217). E quando poi Lodovico da Crema viene definito, ancora dal senato, proprio inzegnario inviato per nostrum dominium ad videnda fortilitia nostra, l'attribuzione che gli viene fatta di incarichi a grande scala territoriale implica la diffusione almeno potenziale di tecniche ed esperienze di architettura militare relativamente omogenee nei territori soggetti alla Repubblica di San Marco (218). Significato analogo può essere attribuito ai periodici invii di ingegneri militari nello Stato da mar, come Francesco de Brendolis nella prima metà del secolo XV e maestro Dionigi nella seconda.
E in questa stessa linea vanno viste anche le iniziative, che non sembrano però coerentemente condotte a termine, di ricognizione cartografica della Terraferma.
Si può facilmente rilevare, tuttavia, che allo scadere del '400 l'insieme delle fortificazioni della Repubblica appare più che altro come l'esito della giustapposizione, dell'aggregazione per contiguità di sistemi difensivi locali di matrice comunale e signorile, come ben documenta graficamente la mappa pergamenacea quattrocentesca dello Stato da terra ora alla Topkapi Sarayi Library (219).
Non è appunto privo di significato che il problema della fortificazione, per lunghi decenni ancora, non costituisca campo dell'operare di uno specifico organo tecnico. In realtà nel secolo XV i consigli delle città soggette possono ancora essere chiamati a esprimere soprintendenti ai cantieri di rinnovamento delle difese urbane. E queste risultano ancora leggibili come segno di una autonoma dignitas civitatis, luoghi di immaginazione simbolica e figurativa oltre che dispositivi bellici (220). Tuttavia, a esaminare da vicino il quadro concreto degli interventi fortificatori del secondo '400 veneto, e in particolare quel suo momento maturo costituito dalle attività di Jacopo Coltrino, appare piuttosto chiaro il precisarsi di un primo disegno difensivo nei confronti dei territori della Terraferma (dove questi, oltre che a Brescia, interviene a Rovereto, nel Feltrino, a Gradisca, nel Ravennate) che si integra parzialmente con le contemporanee iniziative di revisione, ristrutturazione, aggiornamento affidategli nello Stato da mar: ad Antivari, Corfù, Cefalonia, Zonchio, forse Modone, Zante e Cattaro.
In questo quadro complesso, uno degli elementi di novità che il tardo '400 introduce e che in qualche modo lo pone in relazione con la grande impresa fortificatoria del secolo XVI è rappresentato dall'instaurarsi, qui pure, di singolari rapporti con le forme e la cultura dell'Antico e con l'emergere di componenti umanistiche.
I casi delle fortificazioni realizzate dai Veneziani a Spalato e a Gradisca sono certamente tra i più significativi da questo punto di vista. Nella costruzione del castello posto a difesa della porta verso il mare della città dalmata - una struttura difensiva edificata nel corso del primo '400 anche con funzione di cittadella intraurbana - la questione delle soluzioni formali si pone con grande evidenza e a livello particolarmente elevato. Si tratta infatti del caso più evidente e diretto, per quanto ci è noto, di ripresa quattrocentesca di un modello tardoantico nel campo dell'architettura militare. La grande torre del complesso, infatti, altro non è che la citazione diretta e immediata di quelle superstiti del palazzo dioclezianeo. La scelta architettonica è certamente deliberata e tutt'altro che occasionale, vista anche la portata dell'intervento. Ma è anche altrettanto vero che essa non inaugura una tipologia. Resta caso circoscritto, verosimilmente con significati allusivi in relazione all'avanzata turca nei Balcani. Molto diverse sono invece le considerazioni che è possibile effettuare a partire dagli interventi veneziani a Gradisca. Sarà opportuno, a questo proposito, riepilogare dapprima le vicende della nascita del centro fortificato friulano, la sola vera e propria città di nuova fondazione del '400 veneto.
Dopo una serie di atti preliminari, tra i quali una lunga ricognizione in Friuli di tre patrizi incaricati di elaborare un programma difensivo, anche a seguito delle pressanti richieste degli oratori della Patria, nell'ottobre 1472 le quattro ville di Farra, Gradisca, Bauma e Viglesso venivano designate come luoghi di acquartieramento delle genti d'arme veneziane. Negli anni immediatamente successivi, tuttavia, si finì per orientarsi per la scelta di una località dove poter concentrare il massimo delle forze militari della Repubblica: "è bene munirne uno", Gradisca, dove una serie di prime opere veniva avviata tra il 1479 e il 1481. L'obiettivo è chiaro già in una ducale del 28 marzo 1480 con la quale si dispone che tutte le truppe delle zone - fanti e cavalieri - prendano alloggio nella nuova cittadella fatta costruire per quel preciso scopo. Con alterne vicende (stasi e accelerazioni dei lavori, queste soprattutto dal 1489 e dal 1497) il cantiere si chiudeva tra la fine del secolo e i primi anni del '500, quando il nuovo assetto insediativo appariva portato a termine: "una bella et forte citadella de grandezza cerca un miglio con belle et large fosse et è ormai cinta da una grossa et forte muraglia" (221). Nel frattempo, l'insediamento viene favorito e regolato attraverso precise forme giuridiche, già dagli anni 1482-1483. Altrettanto precisamente viene definito l'impianto planimetrico dell'abitato, una scacchiera in cui le caxe de campo che costituiscono gli alloggiamenti militari sono costruite su di un modulo di 8 passi di lunghezza per 4 di larghezza, secondo uno schema funzionale che prevede le stalle al pianterreno e gli alloggi veri e propri al primo piano.
A quanto si è detto va aggiunto che per la città in corso di fondazione si formula un singolare progetto: quello di insediarvi i profughi albanesi verso Venezia e i suoi territori, vale a dire l'etnia di provenienza di buona parte delle cavallerie leggere stradiote al servizio della Repubblica. In effetti, dopo la cessione di Scutari, avvenuta nel febbraio 1479, "è sta preso de dar a quei de Scutari la terra de Gradisca in Friul sul Lisonzo" e di dividere il territorio arativo in 150 parti fra loro (222).
Tenuto conto di tutto ciò, è chiaro che la città nuova della piana friulana, nata esplicitamente in funzione antiturca, è concepita come un castrum permanente, anzi come una vera e propria colonia limitanea. Si attinge direttamente all'arte militare antica per risolvere i nuovi problemi di difesa territoriale. La personalità dei principali responsabili dell'impianto gradiscano prova e chiarisce, del resto, tali scelte. Giovanni Emo, che avvia i lavori, si autodefinisce urbis conditor e al castrum vorrebbe imporre il nome di Hemopolis, è appena ritornato da Firenze. Tra i responsabili del piano generale di difesa del Friuli, Zaccaria Barbaro è lo stesso che a Verona promuove la costruzione della loggia detta di fra Giocondo e vi persegue una politica urbana di chiara matrice umanistica, riepilogata in una sua solenne attestazione epigrafica: "nonnullas in agro, tres in urbe arces instauravit. Praetorium hoc sublicium marmoreum fecit. Forum ampliavit. Curiam aedificavit" lascia scritto di sé. E non è da escludere che non si fosse preparato all'incarico leggendo quelle opere di arte militare antica - classiche e bizantine - che Francesco Barbaro e Antonio Panormita s'erano scambiati. Candian Bollani, collega del Barbaro, è l'uomo politico e umanista che già più volte si è incontrato in rapporto a importanti interventi architettonici del primo Rinascimento veneziano. Di Giorgio Sommariva, veronese, soprintendente alla fabbrica di Gradisca nel 1483, basterà ricordare la lunga esperienza tra i provisores ad fortilicia nella sua città e il ruolo determinante avuto nella vicenda della costruzione della loggia del Consiglio (223). Con tutto questo concorda la definizione che le due iscrizioni celebrative dell'intervento veneziano attribuiscono agli inzegnarii coinvolti, dapprima Enrico Lauser e più tardi Jacopo Coltrino, entrambi esplicitamente ricordati con l'umanistico termine di architectus. Appare chiaro che gli anni del programma difensivo del Friuli e del cantiere gradiscano sono anche quelli di un primo rapporto tra res militaris e res aedificatoria che diverrà presto problematico e controverso e che da questo contesto si sviluppano, per quanto in maniera incerta e contraddittoria, anche all'interno dello stesso patriziato veneziano, spinte e tendenze culturali verso una renovatio securitatis legata a nuovi modelli, all'ingresso della cultura vitruviana e al recupero del pensiero e dei modelli di matrice classica nella progettazione difensiva. È in questo contesto, che si avviano tendenze a promuovere forme di rappresentazione architettonica e urbanistica del rapporto tra Dominante e città dominate. Si veda il caso di Ravenna: la restauratio, il ritorno all'Antico - ad priscas vires - per Desiderio Spreti (1489) è veneta, e si manifesta nella struttura della città nell'arx [...> munitissima et inexpugnabilis (1457-1465), progettata da Giovanni Francesco da Massa con caratteristiche tecniche protorinascimentali e fatta edificare da Jacopo Antonio Marcello. E appunto, si accompagna alla riorganizzazione di piazza del Popolo: dove il palazzetto porticato, con bifore di richiamo albertiano, ricostruito da Vitale Lando (1461-1462) reimpiega allusivamente otto colonne antiche con monogrammi teodoriciani. Nello stesso sito urbano, le due colonne di Sant'Apollinare e del leone marciano (1483) appaiono diretta ripresa venetizzante, per di più firmate, come sono, sui basamenti adorni da Pietro Lombardo, forse artefice anche della fronte orientale della Piazza, con i santi Sebastiano e Marco, sormontata dalla torre dell'Orologio (224).
Simile è il caso della ricostruzione della torre dell'Orologio a Udine, la cui riprogettazione (1523-1527), affidata in un primo momento a Benedetto da Cividale, viene assegnata al celebre Giovanni da Udine, rientrato da Roma e da Firenze: le componenti di immagine - il grande emblema del leone alato, gli automi che battono le ore - sono quelle marciane, anche se il bugnato liscio del prospetto si mostra indipendente dal modello veneziano (225).
Va aggiunto, peraltro, che tutto ciò si intreccia sovente con risposte autocelebrative, con affermazioni di autonomia culturale delle quali aristocrazie e consigli cittadini si fanno promotori, basti segnalare, fra gli altri, i casi veronese e padovano.
L'effettivo rinnovamento del sistema difensivo dello Stato da terra è il risultato di un primo programma presentato il 16 marzo 1517 da Andrea Gritti e in parte risalente a Bartolomeo d'Alviano.
Appunto le proposte presentate dal Gritti vanno considerate come concreto avvio delle grandi operazioni di riassetto territoriale del '500 veneto, mentre si accelerano i processi di aggiornamento delle tecniche fortificatorie, soprattutto grazie agli ingegneri militari sovente di origine centro-italiana al seguito dei capitani generali.
Dopo aver previsto l'abbandono di alcuni siti fortificati di impianto medievale lungo il confine veneto-imperiale nel veronese, la principale preoccupazione della proposta del 1517 è rappresentata dalla difesa - e insieme dallo stretto e diretto controllo - delle grandi città della pianura veneta, che si intende integrare con le nuove fortificazioni confinarie previste lungo le frontiere meridionali dello Stato da terra, Asola e Legnago.
In definitiva, nella posizione del Gritti si esprime la profonda preoccupazione veneziana per il consolidamento della sovranità territoriale come problema interno ai propri Stati, che colloca in secondo piano la difesa di confini protetti per buona parte da barriere naturali tutt'altro che trascurabili. E proprio per la dimensione politica interna che lo contraddistingue, quello del Gritti è un programma che ammetterà il ricorso simbolico e celebrativo all'architettura all'antica nelle porte urbane monumentali delle quali la Repubblica si fa committente. La cronologia delle opere è di per se stessa chiarificatrice: ben nove ragguardevoli interventi vengono compiuti fra il 1514 e il 1530 circa. Munire et ornare: l'adeguamento bellico delle mura delle principali città venete è al tempo stesso occasione di riqualificazioni dimostrative che dal contenuto apparato di porta Altinia a Treviso (1514) e dalla nobile ma severa architettura del portale con frontone di porta Liviana a Padova (1517), Si spingono a raggiungere l'aspetto trionfale di ideale romanità a Treviso con porta Santi Quaranta (1517) e ancora più nelle magniloquenti e adorne opere attribuite a Guglielmo de' Grigis, porta San Tommaso, ancora a Treviso, dalle sei colonne aggettanti verso l'esterno (1518) e porta Ognissanti a Padova (1518-1519), dove la magnificenza antica è restituita con l'impiego di colonne binate a scandire il prospetto esterno. "Caratteri d'oro de bronzo de relevo", "in stampo d'oro caratteri negri" riportano ai preziosismi decorativi della contemporanea architettura civile, il "pilastro marmoreo de prima grandezza nel quale son scritte queste parole Hic Vie Nane terminus" posto alla fine del rettifilo di porta Santi Quaranta (Nani) evoca l'erudizione antiquaria (226).
Sarà però Giovan Maria Falconetto, che si firma come architetto a porta San Giovanni e a porta Savonarola a Padova (1528-1530), a rendere aderenti alle regole vitruviane e agli esempi degli archi trionfali romani le architetture delle porte urbiche venete, prima dell'eccezionale esperienza sanmicheliana.
Un successivo momento di passaggio si delineerà quando i cantieri dei nuovi interventi fortificatori già avviati, di proporzioni ampie ma anche di notevole frammentarietà organizzativa, saranno sottoposti al controllo, almeno parziale, e all'esercizio di una serrata critica da parte di Francesco Maria della Rovere. Ma, ancora, al di là di un operare discontinuo e congiunturale, agli inizi degli anni '30 del '500 appare necessaria l'impostazione di una strategia territoriale d'insieme che tenga conto dei grandi spazi potenziali d'un conflitto internazionale. La Terraferma deve divenire "come una città forte, perciocché Treviso, Padova, Vicenza et Verona sono come baloardi fortissimi, che fiancheggiano il stato [...> havendo li monti et fiumi per cortine che legano et incatenano tutto questo paese"; Venezia, si sottolinea, "è tanto congiunta e collegata con li territori padoani et trivisani, che Padoa e Treviso se dieno riputare come borghi di questa città, la quale insieme con quelle è un corpo solo e cusì die esser tenuta" (227).
Qui dunque va vista la nascita di una forma specifica di concezione unitaria della Terraferma veneta, della quale alla metà del '500 si ha perfetta consapevolezza, poiché lo "stato de' Signori veneziani [...> tanto raccolto e unito si trova che una sola città rappresenta [in cui> dansi mano et aiuti gli uni et gli altri luochi a sembianza di un corpo di un huomo, di una sola città". Mentre pure, si afferma, le cose da terra e le cose da mar vanno considerate nelle loro interrelazioni reciproche (228).
La progettazione della difesa, dunque, si complica; e Venezia, tra 1542 e 1550, mette a punto nuovi strumenti, nuovi orientamenti.
Stabilisce gerarchie decisionali, di responsabilità e regole di controllo dei cantieri; istituisce il magistrato dei provveditori sopra le fortezze e un archivio dei progetti in palazzo Ducale. E delibera, infine, il più rigoroso funzionalismo per le architetture militari. Poiché la spesa pubblica deve servire "schiettamente a quel fine al quale l'è ordinata, ch'è la fortezza et la sicurtà di esse città et luoghi nostri, et non a pompa et ornamenti impertinenti [...> nelle fortificazioni delle città et luoghi nostri sì da terra, come da mare, non si possa più mettere in opera pietre lavorate né alla rustica, né in qualch'altra foggia si sia, [...> ma tutte si debbano metter schiette, o squadrate o tonde, secondo che richiederà l'opera che si vorrà fare" (229).
Anche nell'architettura delle fortezze, la metà del '500 invocava il ritorno al rigore; porta Palio del Sanmicheli poté essere condotta a termine soltanto grazie a un decreto specifico sollecitato da Tommaso Contarini, provveditore generale in Terraferma (230).
1. Bernardo Giustinian, Orazione in memoria di Francesco Foscari, 1457.
2. Giorgio Vasari, Le vite [...>, a cura di Gaetano Milanesi, I-IX, Firenze 1906: VII, pp. 502-503. Sul Vasari a Venezia v. Jürgen Schulz, Vasari at Venice, "Burlington Magazine", 103, 1961, pp. 500-511.
3. G. Vasari, Le vite, II, p. 385.
4. Ibid., p. 434.
5. Ibid., V, p. 271.
6. Ibid., VII, p. 503; Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare (con le aggiunte di Giustiniano Martinioni), Venetia 1663, p. 111.
7. Sebastiano Serlio, On Domestic Architecture, a cura di Myra Nan Rosenfeld, Cambridge (Mass.)-London 1978, a fronte tav. LV.
8. Jacob Burckhardt, L'arte italiana del Rinascimento. L'architettura, a cura di Maurizio Ghelardi, Venezia 1991, p. 64.
9. Sulle chiese veneziane e l'architettura religiosa in età gotica v. principalmente Flaminio Corner, Ecclesiae Venetae, Venetiis 1749, e, dello stesso, Chiese e monasteri di Venezia e di Tortello, Padova 1758; Giambattista Soravia, Le chiese di Venezia, Venezia 1822-1823; Pietro Selvatico, Sulla architettura e sulla scultura in Venezia dal Medio Evo sino ai nostri giorni, Venezia 1847; Gianjacopo Fontana, Venezia monumentale e pittoresca, II, I templi, Venezia 1863; Elena Bassi, L'architettura gotica a Venezia, "Bollettino del Centro Internazionale di Studi d'Architettura Andrea Palladio", 7, 1965, pt. II, pp. 195-201 (pp. 185-206); Herbert Dellwing, Studien zur Baukunst der Bettelorden in Veneto, chen 1970; Umberto Franzoi - Dina di Stefano, Le chiese di Venezia, Venezia 1976; Deborah Howard, The Architectural History of Venice, London 1980, pp. 69-77; Ennio Concina, Chiese di Venezia (titolo provvisorio), in corso di stampa. V. anche Wolfgang Wolters, La scultura veneziana gotica. 1300-1460, Venezia 1976, passim. A tali lavori e alla bibliografia ivi riportata rimandiamo quando non ulteriormente precisato per i singoli edifici ecclesiastici.
10. Gino Fogolari, I Frari e i Santi Giovanni e Paolo, Milano 1931; Angelo M. Caccin, La basilica dei Santi Giovanni e Paolo, Venezia 1964; Franca Zava Boccazzi, La Basilica dei Santi Giovanni e Paolo, Venezia 1965.
11. G. Fogolari, I Frari; Antonio Sartori, Guida storico-artistica della Basilica di S. Maria Gloriosa dei Frari, Padova 1949; Isidoro Gatti, S. Maria Gloriosa dei Frari. Storia di una presenza francescana a Venezia, Venezia 1992.
12. Forestiere illuminato intorno le cose più rare e curiose antiche e moderne, Venezia 1745, p. 224.
13. Alvise ZoRZI, Venezia scomparsa, II, Milano 1972, pp. 349, 355, 357; Espedita Grandesso, I Portali Medievali di Venezia, Venezia 1988, pp. 147-150.
14. F. Sansovino, Venetia, p. 56.
15. Marc'Antonio Coccio Sabellico, Del sito di Venezia città [1502>, a cura di Giancarlo Meneghetti, Venezia 1957, p. 24.
16. W. Wolters, La scultura, pp. 229-230.
17. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 1658 (= 8540).
18. Luigi Conton, Per il pavimento Giustiniani a Venezia, "Faenza", 23, 1935, nrr. 4-5, pp. 132-135; Ennio Concina, Documenti e appunti per la pavimentazione Giustinian ad ῾azulejos' valenzani, ibid., 41, 1975, nrr. 4-5, pp. 80-82; Francesco Quinterio, Maiolica nell'architettura del Rinascimento italiano (14410-1520), Firenze 1988, p. 43.
19. Gino Fogolari, La chiesa di S. Maria della Carità di Venezia, "Archivio Veneto Tridentino", 5, 1924, pp. 57-119.
20. Ejnar Dyggve, Il frontone ad arco e trilobato veneziano. Alcune osservazioni sulla sua origine, in Venezia e l'Europa. Atti del XVIII Congresso internazionale di Storia dell'Arte, Venezia 1956, pp. 226-230; E. Bassi, L'architettura, p. 199.
20. Victor Golubew, Les dessins de Jacopo Bellini au Louvre et au British Museum, I, British Museum, e II, Louvre, Bruxelles 1908- 1912; Vittorio Moschini, Disegni di jacopo Bellini, Bergamo 1953; Giordana Mariani Canova, Riflessioni su Jacopo Bellini e sul libro di disegni del Louvre, "Arte Veneta", 26, 1972, pp. 9-30; Bernhard Degenhart - Annegrit Schmitt, Corpus der italienischen Zeichnungen 1300-1450, teil II, Venedig, Band 5-8, Berlin 1990.
22. A.S.V., Collegio, Notatori, reg. 9, c. 150, 22 febbraio 1458 M.V. = 1459.
23. Bernardo Giustinian, Vita Beati Laurentii lustiniani Venetiarum Proto Patriarchae, Roma 1962, p. 96.
24. Quanto a palazzo Ducale v. principalmente Francesco Zanotto, Il Palazzo Ducale di Venezia, Venezia 1853; Giambattista Lorenzi, Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale di Venezia, Venezia 1868; Max Ongaro, Il Palazzo Ducale di Venezia, Venezia 1923; Elena Bassi - Egle R. Trincanato, Il Palazzo Ducale nella storia e nell'arte di Venezia, Milano 196o; Edoardo Arslan, Venezia Gotica. L'Architettura Civile Gotica Veneziana, Venezia 1970, pp. 137-150, 237-250; Egle R. Trincanato, Il Palazzo Ducale, in AA.VV., Piazza San Marco. L'architettura, la storia, le funzioni, Padova 197o, pp. 111-138; Umberto Franzoi, Il Palazzo Ducale di Venezia, Venezia 1976; W. Wolters, La scultura, passim; Umberto Franzoi - Terisio Pignatti - Wolfgang Wolters, Il Palazzo Ducale di Venezia, Treviso 1990.
25. Ennio Concina, L'Arsenale della Repubblica di Venezia, Milano 1984, pp. 62-63; Andrea Da Mosto, I Dogi di Venezia, Firenze 1977, pp. 144-151.
26. Laurentius de Monacis, Chronicon de rebus venetis, [...> edito da Flaminio Corner, Venetiis 1758, pp. 276-277; Raphayni De Caresinis Chronica, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 2, 1922, pp. 30-31.
27. Andrea Dandolo, Chronica per extensum descripta, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1938-1958, pp. 399-405.
28. Sei arcate.
29. V. principalmente W. Wolters, La scultura, pp. 40-49.
30. Ibid., passim, in particolare pp. 173-178, 249-251.
31. Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961, pp. 165-168; A. Da Mosto, I Dogi, pp. 160.
32. V.W. Wolters, La scultura, pp. 281-284 con discussione delle posizioni precedenti; The Restoration of the Porta della Carta, a cura di Serena Romano, Venezia 1980.
33. Michelangelo Muraro, La scala senza giganti, in AA.VV., De artibus opuscula. XL Essays in Honor of Erwin Panofsky, New York 1961, pp. 350-370; Debra Pincus, The Arco Foscari. The Building of a Triumphal Gateway in Fifteenth Century Venice, New York-London 1976.
34. Bartolomeo Cecchetti, La facciata della Ca' d'Oro dello scalpello di Giovanni e Bartolomeo Buono, "Archivio Veneto", 31, 1886, pp. 201-204; Giacomo Boni, La Ca' d'Oro e le sue decorazioni policrome, ibid., 34, 1887, pp. 115-132; Pietro Paoletti, La Ca' d'Oro, "Venezia. Studi di Arte e di Storia", 1, 1920, pp. 89-139; E. Arslan, Venezia, pp. 225-235; Anne Markham Schulz, The Sculpture of Giovanni and Bartolomeo Bon, "Transactions of the American Philosophical Society", 48, 1978, nr. 3, pp. 68-97; Richard J. Goy, The House of Gold: the Contarini and the Ca' d'Oro. Building a Palace in Medieval Venice (1420-1440), Cambridge 1993; Id., La Fabbrica della Ca' d'Oro, "Ricerche Venete", 2, Dal Medioevo al Tardo Rinascimento. Ricerche di storia del costruire a Venezia, 1993, pp. 93-157.
35. Pianterreno.
36. F. Sansovino, Venetia, p. 384.
37. Il Fondaco nostro dei Tedeschi, a cura di Manlio Dazzi, Venezia 1941, p. 56.
38. I Re, 20-30; S. Paolo, Prima lettera ai Corinzi, 3, 12.
39. Modena, Biblioteca Estense, ms. lat. 992 (= alfa. lat. 5.15), c. 177.
40. M.A. Coccio Sabellico, Del sito, p. 32.
41. Oltre ai lavori citati in n. 6 v. principalmente Giorgia Scattolin, Le case-fondaco sul Canal Grande, Venezia 1961; Egle R. Trincanato, Venezia minore, Venezia 1948, pp. 69-81; Sergio Bettini, Venezia, nascita di una città, Milano 1978, pp. 74-78; Paolo Maretto, L'edilizia gotica veneziana, Venezia 1978; Id., La casa veneziana nella storia della città. Dalle origini all'Ottocento, Venezia 1986, pp. 108-158.
42. F. Sansovino, Venetia, p. 384.
43. Raccolta delle vere da pozzo (marmi puteali) in Venezia, Venezia 1889; Alberto Rizzi, Vere da pozzo di Venezia, Venezia 1981; Caterina Chiminelli, Le scale scoperte nei palazzi veneziani, "Ateneo Veneto", 35, 1912, pp. 209-253; E. Arslan, Venezia, passim; W. Wolters, La scultura, passim.
44. Crozzola: stampella, gruccia.
45. F. Sansovino, Venetia, p. 384.
46. Cit. da E. Arslan, Venezia, pp. 245-246.
47. F. Sansovino, Venetia, p. 388.
48. Marin Sanudo, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, ovvero La città di Venetia (1493-1530), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, p. 21.
49. Ibid.
50. Decreto 20 marzo 1462, edito in Marco Cornaro, Scritture sulla laguna, a cura di Giuseppe Pavanello, Venezia 1919, pp. 154-156.
51. Ibid., p. 151.
52. A.S.V., Senato Terra, reg. 4, c. 17, 1456; reg. 6, c. 57, 18 maggio 1469.
53. 1463: Domenico Malipiero, Annali, "Archivio Storico Italiano", 7, 1843-1844, pt. II, p. 654.
54 F. Sansovino, Venetia, p. 388.
55. Rodolfo Gallo, L'architettura di transizione dal Gotico al Rinascimento e Bartolomeo Bon, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 120, 1961-1962, p. 187 (pp. 187-204); F. Zava Boccazzi, La Basilica, p. 34.
56. E. Concina, L'Arsenale, pp. 58, 77.
57. A.S.V., Savi alle Decime, 1537, b. 83, cond. 527; ivi, Marco Barbaro, Arbori de' Patritii, mise. codd., St.Ven. 18.
58. Flavio Biondo, Roma trionfante, tradotta pur hora per Lucio Fauno di latino in buona lingua volgare, Venetia 1544, L. IX, cc. 303v-305.
59. Id., De Italia illustrata, Venetiis 1503, p. 54; D. Malipiero, Annali, p. 111.
60. Orazioni, elogi e vite scritte da letterati veneti patrizi in lode di Dogi ed altri illustri soggetti, Venezia 1798, p. 23.
61. Bruno Nardi, La scuola di Rialto e l'umanesimo veneziano, in Umanesimo europeo e umanesimo veneziano, a cura di Vittore Branca, Firenze 1963, pp. 93-140 e, dello stesso Nardi, Letteratura e cultura veneziana del Quattrocento, in Storia della civiltà veneziana, a cura di Vittore Branca, II, Firenze 1979, pp. 181-204.
62. Robert Weiss, La medaglia veneziana del Rinascimento e l'Umanesimo, in Umanesimo europeo e umanesimo veneziano, a cura di Vittore Branca, Firenze 1963, pp. 341-342.
63. Rodolfo Pallucchini, L'arte a Venezia nel Quattrocento, in Storia della civiltà veneziana, a cura di Vittore Branca, II, Firenze 1979, p. 211 (pp. 205-218); Bernhard Degenhart - Annegrit Schmitt, Ein Musterblatt des Jacopo Bellini mit Zeichnungen nach der Antike, in Festschrift Luitpold Dussler, Miinchen-Berlin 1972, pp. 139-168.
64. Sul rapporto tra Venezia e l'Antico, v. principalmente: Cesare Augusto Levi, Le collezioni veneziane d'arte e d'antichità dal XIV secolo ai nostri giorni, Venezia 1900; Giuseppe Billanovich, Tradizione classica e cristiana e scienza antiquaria, in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 124-134; Marilyn Perry, Saint Mark's Trophies: Legend, Superstition and Archaeology in Renaissance Venice, "Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", 40, 1977, pp. 27-49; Irene Favaretto, L'antichità nella pittura ai tempi di Giorgione: appunti e considerazioni, "Archeologia Veneta", 2, 1979, pp. 145-159; Sarah Wilk, The Sculpture of Tullio Lombardo. Studies in Sources and Meaning, New York-London 1978; Debra Pincus, Tullio Lombardo as Restorer of Antiquities: an Aspect of Fifteenth Century Venetian Antiquarianism, "Arte Veneta", 33, 1979, pp. 29-43; Jean Colin, Cyriaque d'Ancone. Le voyageur, le marchand, l'humaniste, Paris 1981, passim; B. Degenhart - A. Schmitt, Ein Musterblatt; Luigi Beschi, La scoperta dell'arte greca, in Memoria dell'antico nell'arte italiana, III, a cura di Salvatore G. Settis, Torino 1986, pp. 295-372; Irene Favaretto, Arte antica e cultura antiquaria nelle collezioni venete al tempo della Serenissima, Roma 1990. V. inoltre Howard Burns, Quattrocento Architecture and the Antique, in Classical Influences on European Culture, A.D. 500-1500, Cambridge 1971, pp. 269-287; Robert Weiss, The Renaissance Discovery of Classical Antiquity, Oxford 1973.
65. Nicola Jorga, Un viaggio da Venezia alla Tana, "Nuovo Archivio Veneto", 11, 1896, pt. I, pp. 5-14.
66. D. Malipiero, Annali, pp. 73, 78.
67. Città Del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 804, c. 321v.
68. Jacopo Morelli, Viaggiatori eruditi veneziani, Venezia 1808; Ennio Concina, Dell'Arabico. A Venezia tra Rinascimento e Oriente, Venezia 1994, pp. 35 ss.
69. I. Favaretto, Arte antica, pp. 60-61; JÜRG Meyer Zur Capellen, Gentile Bellini, Stuttgart 1985, passim e p. 121; Patricia Fortini Brown, Venetian Narrative Painting in the Age of Carpaccio, New Haven - London 1988, passim.
70. Cristoforo Buondelmonti, Descriptio insule Crete et Liber Insularum, a cura di Marie Anne von Spitael, Heraklion 1981, pp. 277-278.
71. London, British Museum Library, ms. Add.
72. Su siffatti temi conduco delle ricerche.
73. Giovan Antonio Panteo, De laudibus veronae Opusculum, s.n.t. [1484>; Daniele Banda sovrastante alla fabbrica della loggia del Consiglio di Verona, "custos fabricis, docuit Vitruvius artem": Raffaello Brenzoni, La loggia del Consiglio veronese nel suo quadro documentario, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 96, 1957-1958, p. 282 (pp. 265-307).
74. Gustavo Traversari, L'Arco dei Sergi, Padova 1971; circa i rapporti con le cave istriane, anche di Pola, v. Susan Connell, Gli artigiani dell'edilizia, "Ricerche Venete", 2, Dal Medioevo al Tardo Rinascimento. Ricerche di storia del costruire a Venezia, 1993, pp. 31-92.
75. Marin Sanudo, Itinerario per la Terraferma veneziana, Padova 1847, pp. 143-146; Giovanni Candido, Commentariorum Aquileiensium Libri Octo, Venetiis 1521, dedicatoria a Domenico Grimani e Libro I: Antiquitas, situs et mores Aquileiae ac res in ea praecipue memorandae usque ad Christi adventum; Pio Paschini, Le collezioni archeologiche dei Prelati Grimani del Cinquecento, "Rendiconti Pontificia Accademia Romana di Archeologia", 5, 1926-1927, pp. 149-190; Id., Domenico Grimani cardinale di S. Marco, Roma 1943 Marilyn Perry, Cardinal Domenico Grimani's Legacy of Ancient Art to Venice, "Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", 41, 1978, pp. 215-244.
76. Bernardo Giustinian, Historia [...>, dell'origine di Vinegia [...>, tradotta da M. Lodovico Domenichi, Venetia 1608, p. 68.
77. Desiderio Spreti, De amplitudine, de vastatione et de instauratione urbis Ravennae, Venetiis 1489; I. Favaretto, Arte antica, pp. 36-37, 66-70; Loredana Olivato Puppi - Lionello Puppi, Mauro Codussi e l'architettura veneziana del Primo Rinascimento, Milano 1977, p. 23.
78. M. Sanudo, De origine, p. 14.
79. Modena, Biblioteca Estense, ms. lat. 992 (= alfa. lat. 5.15), cc. 177-179.
80. Per il mito realtino, tenendone presenti le diverse formulazioni medievali, v. Donatella Calabi - Paolo Morachiello, Rialto: le fabbriche e il ponte, Torino 1987, p. 11 e bibliografia ivi citata; B. Giustinian, Historia, p. 442.
81. Ibid., p. 443; v. anche Nicolò Zeno, Dell'origine de' barbari che distrussero per tutto 'l mondo l'imperio di Roma, onde hebbe principio la città di Venetia, Venetia 1558, p. 29.
82. B. Giustinian, Historia, p. 24.
83. Ricaviamo il verbo da Giovan Battista Maganza, Herculana in lingua venetiana [...>, Venetia 1571, c. A 2: "muse cantemo, e sia il nostro cantar in stil venetian - perché se mi voro' toscanizar [...> ".
84. La caduta di Costantinopoli. Le testimonianze dei contemporanei, a cura di Agostino Pertusi, Verona 1976.
85. Adolfo Venturi, Storia dell'arte italiana, VIII/2, Milano 1924, pp. 319-320; Pietro Paoletti, L'architettura e la scultura del Rinascimento in Venezia, Venezia 1893, p. 140; Rodolfo Gallo, La porta d'ingresso dell'Arsenale e i leoni del Pireo, "Rivista Mensile della Città di Venezia", 1925, pp. 323-333; John Mcandrew, L'architettura veneziana del primo Rinascimento, Venezia 1983, pp. 32-38; E. Concina, L'Arsenale, pp. 51-70.
86. B. Giustinian, Orazione, p. 40 (elogio funebre di Francesco Foscari).
87. A.S.V., Senato Terra, reg. 5, c. 175, 18 gennaio 1466.
88. Per la storia dell'architettura veneziana del primo 'Rinascimento v. principalmente, P. Paoletti, L'architettura; Luigi Angelini, Le opere in Venezia di Mauro Codussi, Milano 1945; Giovanni Mariacher, Pietro Lombardo a Venezia, "Arte Veneta", 9, 1955, pp. 36-45; Luigi Angelini, Bartolomeo Bono, Guglielmo d'Alzano: architetti bergamaschi in Venezia, Bergamo 1961; Enzo Bandelloni, Pietro Lombardo architetto nella critica d'arte, "Bollettino del Museo Civico di Padova", 51, 1962, pp. 25-56; Guglielmo De Angelis D'Ossat, Venezia e l'architettura del primo rinascimento, in Umanesimo europeo e umanesimo veneziano, a cura di Vittore Branca, Firenze 1963, pp. 435-450; Manfredo Tafuri, L'architettura dell'umanesimo, Bari 1969, pp. 81-88; Wolfgang Lotz - Ludwig H. Heydenreich, Architecture in Italy. 1400 to 1600, Harmondsworth 1974, passim; L. Olivato Puppi - L. Puppi, Mauro Codussi; Lionello Puppi, Venezia: architettura, città e territorio tra la fine del '400 e l'avvio del '500, in AA.VV., Florence and Venice: Comparisons and Relations, Firenze 1980, pp. 341-355; Michael Maek-Gerard, Die "Milanexi" in Venedig. Ein Beitrag zur Entwicklunggeschichte der Lombardi-Werkstatt, "Wallraf-Richartz Jahrbuch", 41, 1980, pp. 105-130; Ralph Lieberman, L'architettura del Rinascimento a Venezia. 1450-1540, Firenze 1982; Anne Markham Sciiulz, Antonio Rizzo. Sculptor and Architect, Princeton 1983; Ead., Giovanni Buora lapicida, "Arte Lombarda", 65, 1983, pp. 49-72; J. Mcandrew, L'architettura; Wendy Stedman Sheard, Bramante e il Lombardo: ipotesi su una connessione, in AA.VV., Venezia Milano, Milano 1984, pp. 25-56; Manfredo Tafuri, Venezia e il Rinascimento. Religione, scienza, architettura, Torino 1985; Norbert Huse - Wolfgang Wolters, Venezia. L'arte del Rinascimento. Architettura, pittura, scultura. 1460-1590, Venezia 1986, pp. 11-68. Quanto all'architettura religiosa veneziana in generale, oltre ai lavori citati in n. 9, v. Wladimir Timofiewitsch, Genesi e struttura della chiesa del Rinascimento veneziano, "Bollettino del Centro Internazionale di Studi d'Architettura Andrea Palladio", 6, 1964, pp. 271-282; James S. Ackerman, Palladio e lo sviluppo della chiesa a Venezia, ibid., 19, 1977, pp. 9-26; Deborah Howard, Le chiese del Sansovino a Venezia, ibid., pp. 49-67; Ralph Lieberman, Venetian Church Architecture around 1500, ibid., pp. 35-48; James S. Ackerman, Observations on Renaissance Church Planning in Venice and Florence. 1470-1570, in AA.VV., Florence and Venice: Comparisons and Relations, Firenze 1980, pp. 287-307. Nelle nn. seguenti, ove del caso, ci limiteremo a segnalare studi specifici relativi a singole chiese.
89. Oltre ai lavori citati in n. 88, v. Bartolomeo Cecchetti, Documenti per la storia della fabbrica della chiesa di San Zaccaria, della Cappella Emiliana nell'isola di S. Michele e della chiesa di S. Salvatore in Venezia, "Archivio Veneto", 31, 1886, t. I, pp. 495-497; Herbert Dellwing, Die Kirche S. Zaccaria in Venedig. Eine ikonologische Studie, "Zeitschrift für Kunstgeschichte", 37, 1974, pp. 224-234; Silvio Tramontin, San Zaccaria, Venezia 1979. La decisione del 1461: A.S.V., Senato Terra, reg. 4, c. 191.
90. F. Sansovino, Venetia, p. 89.
91. Isaia, 6, 21.
92. F. Sansovino, Venetia, p. 496; A.S.V., San Zaccaria, b. 1 (pergamene).
93. Friedrich Wilhelm Deichmann, Corpus der Kapitelle der Kirche von San Marco zu Venedig, Wiesbaden 1981, passim.
94. F. Sansovino, Venetia, p. 82; A.S.V., San Zaccaria, b. 1 (pergamene).
95. Ibid.
96. V. anche Giovanni Pillinini, Bollani, Candiano, in Dizionario Biografico degli Italiani, XI, Roma 1969, pp. 287-288. L'elogio del Moro in Orazioni, elogi e vite, p. 70. Su San Giobbe, oltre ai lavori citati in n. 88, v. Nina Gockerell, Kirchen mit alttestamentarischen Patrozinien in Venedig. Materialien zur Geschichte und Ikonographie der Kirchen S. Giobbe, S. Geremia, S. Moisè, S. Samuele, S. Simeon und S. Zaccaria, Venezia 1978; Ferdinando Finotto, San Giobbe. La chiesa dei Santi Giobbe e Bernardino in Venezia, Verona 19932.
97. Peter Humfrey, Cima da Conegliano, Cambridge 1983, p. 18.
98. M.A. Coccio Sabellico, Del sito, p. 21.
99. Oltre ai lavori citati in n. 88, v. Giacomo Boni, Santa Maria dei Miracoli in Venezia, "Archivio Veneto", 33, 1887, t. I, pp. 236-274; Silvio Tramontin, Santa Maria dei Miracoli, Venezia 1959; Ralph Lieberman, The Church of Santa Maria dei Miracoli in Venice, tesi di Ph.D, University of Michigan, 1972.
100. Per il codice di Giovanni Marcanova v. n. 39; quanto all'attività dei Lombardo e i rapporti artistici tra Venezia e Ravenna nel '400 v. Vincenzo Fontana, De instauratione Urbis Ravennae. Architettura e urbanistica durante la dominazione veneziana, in Ravenna in età veneziana, a cura di Dante Bolognesi, Ravenna 1986, pp. 295-320; Emanuele Mattaliano, La scultura a Ravenna nei luoghi e negli edifici pubblici, ibid., pp. 321-366.
101. F. Sansovino, Venetia, p. 179.
102. F. Biondo, Roma, pp. 316-318, 320. Sulla questione v. Michelangelo Cagiano de Azevedo, Policromia e polimateria nelle opere d'arte della tarda antichità e dell'alto medioevo, "Felix Ravenna", 4, 1970, nr. 1, pp. 223-259; Lorenzo Lazzarini, La frequenza, le cause e le forme di degrado dei marmi e delle pietre di origine greca a Venezia, "Quaderni della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Venezia", 7, 1978, pp. 139-150; Mario Dalla Costa-Cesare Feiffer, Le pietre dell'architettura veneta e di Venezia, Venezia 1981; Lorenzo Lazzarini, I materiali lapidei dell'edilizia storica veneziana, "Restauro e Città", 2, 1986, nr. 3-4, pp. 84-100.
103. M.A. Coccio Sabellico, Del sito, p. 23.
104. F. Sansovino, Venetia, pp. 4-5. V. anche David Rosand, Venezia e gli dei, in "Renovatio urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984, pp. 201-215.
105. F. Sansovino, Venetia, p. 196 e passim.
106. G. Vasari, Le vite, I, pp. 235-236.
107. V. P. Humfrey, Cima; Rona Goffen, Giovanni Bellini, Milano 1990 e la bibliografia ivi riportata. La citazione: Carlo Ridolfi, Le Maraviglie dell'Arte, Venezia 1648, pp. 59-60.
108. Wolfgang Muller-Wiener, Bildlexikon zur To pographie Istanbuls, Tiibingen 1977, pp. 405-411.
109. M.A. Coccio Sabellico, Del sito, p. 39.
110. L'attività notarile del Talenti è documentata in A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 955.
111. Per i precedenti medievali v. Wladimiro Dorigo, Venezia. Origini, fondamenti, ipotesi, metodi, Milano 1983, pp. 631-632.
112. N. Jorga, Un viaggio, p. 11.
113. M. Sanudo, De origine, p. 161.
114. A.S.V., Giudici del Piovego, b. 24/2, cc. 14v-15v, 9 settembre 1529.
115. Oltre ai lavori citati in n. 88, v. principalmente Manfredo Tafuri, "Pietas" repubblicana, neobizantinismo e umanesimo. Giorgio Spavento e Tullio Lombardo nella chiesa di San Salvador, "Ricerche di Storia dell'Arte", 19, 1983, pp. 5-36; Ennio Concina, Una fabbrica "in mezzo della città": la chiesa e il convento di San Salvador, in Progetto San Salvador. Un restauro per l'innovazione a Venezia, a cura di Fulvio Caputo, Venezia 1988, pp. 73-153.
116. F. Sansovino, Venetia, p. 121.
117. Bertrand Jestaz, La Chapelle Zen à Saint-Marc de Venise. D'Antonio à Tullio Lombardo, Stuttgart 1986.
118. Lettera del 26 marzo 1515 edita in Bartolomeo Cecchetti, La Repubblica di Venezia e la corte di Roma nei rapporti della religione, II, Venezia 1874, pp. 349-350.
119. Marino Sanuto, I diarii, I-LVIII, a cura di Federico Stefani et al., Venezia 1879-1903: XLIII, 1507, col. 72; XLIX, 1528, col. 230; LIV, 1530, coll. 54-56.
120. Su San Geminiano v. in particolare Deborah Howard, Jacopo Sansovino: Architetture and Patronage in Renaissance Venice, New Haven-London 1975, pp. 81-84.
121. D. Calabi-P. Morachiello, Rialto, pp. 96-117.
122. Nicola Ivanoff, San Giorgio dei Greci, "Le Tre Venezie", 15, 1940, pp. 13-17; Deno J. Geanakoplos, Bisanzio e il Rinascimento, Roma 1967, pp. 75-76. V. anche Giorgio Fedalto, Ricerche storiche sulla posizione giuridica ed ecclesiastica dei greci a Venezia nei secoli XV e XVI, Firenze 1967.
123. Per gli interventi quattrocenteschi e del primo '500 in palazzo Ducale rimandiamo alla bibliografia indicata nelle nn. 24 e 88.
124. D. Malipiero, Annali, p. 674; P. Paoletti, L'architettura, p. 151; Antonio Foscari - Manfredo Tafuri, L'armonia e i conflitti. La chiesa di San Francesco della Vigna nella Venezia del '500, Torino 1983, pp. 28-29.
125. Thomas Hirthe, Mauro Codussi als Architekt des Dogen-Palastes, "Arte Veneta", 36, 1982, pp. 31-44.
126. Oltre ai lavori citati in n. 88 v. Ettore Vio, La torre dell'Orologio, in AA.VV., Piazza San Marco. L'architettura, la storia, le funzioni, Padova 1970, pp. 139-141.
127. A.S.V., Senato Terra, reg. 7, c. 32, 19 marzo 1474.
128. F. Sansovino, Venetia.
129. M. Sanudo, De origine, p. 25.
130. B. Giustinian, Historia, p. 68.
131. D. Malipiero, Annali, p. 699.
132. Domenico Morosini, De bene instituta re publica, a cura di Claudio Finzi, Milano 1969; Gaetano Cozzi, Domenico Morosini e il "De bene instituta re publica", "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 405-458; A. Foscari - M. Tafuri, L'armonia, p. 29; M. Tafuri, Venezia, pp. 156-162.
133. Oltre ai lavori citati nelle nn. 24 e 88 v. Ettore Vio, Le Procuratie Vecchie, in AA.VV., Piazza San Marco. L'architettura, la storia, le funzioni, Padova 1970, pp. 143-149.
134. F. Sansovino, Venetia, p. 293.
135. Su questi v. anche Michele Caffi, Guglielmo Bergamasco ossia Vielmo Vielmi d'Alzano, "Archivio Veneto", 28, 1884, t. I, pp. 30-42, e Id., Guglielmo Bergamasco ossia Vielmo Vielmi d'Alzano architetto e scultore del secolo XVI, "Nuovo Archivio Veneto", 3, 1892, t. I, pp. 157-179.
136. F. Sansovino, Venetia, p. 366. Sul fontego v. ancora Henry Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi in Venedig, Stuttgart 1887; Manlio Dazzi, Sull'architetto del Fondaco dei Tedeschi, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 99, 1939-1940, pp. 873-896; Il Fondaco nostro dei Tedeschi, a cura di M. Dazzi; Michelangelo Muraro, The Political Interpretation of Giorgione's Frescoes of lhe Fondaco dei Tedeschi, "Gazette des Beaux Arts", 136, 1975, pp. 177-184; Donatella Calabi, Magazzini, fondaci, dogane, in AA.VV., Storia di Venezia, Il mare, a cura di Alberto Teneti-Ugo Tucci, Roma 1991, pp. 803-806 (pp. 789-817).
137. Karl Wultzinger - Carl Watzinger, Damaskus. Die Islamische Stadt, Berlin 1924; Jean Sauvaget, Alep, Paris 1941; Paolo Cuneo, Storia dell'urbanistica. Il mondo islamico, Roma-Bari 1986; Gabriel Mandel, I caravanserragli turchi, Bergamo 1988. V. anche le voci khan e funduk, in Encyclopedie de l'Islam, Leyde-Paris 1934.
138. Edito in Il Fondaco nostro dei Tedeschi, a cura di M. Dazzi, p. 39.
139. M. Tafuri, Venezia, pp. 57-58; D. Calabi, Magazzini, pp. 803-804.
140. Marco Foscarini, Della letteratura veneziana, Venezia 1854, p. 342; Giuseppe Gullino, Contarini, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 264-265.
141. Vitruvius Pollio Marcus, M. Vitruvius per Iocundum solito castigatior factus, Venetiis 1511, c. A.iiii.
142. J. Sauvaget, Alep; v. n. 137.
143. V. principalmente Roberto Cessi - Annibale Alberti, Rialto. L'isola, il ponte, il mercato, Bologna 1934; D. Calabi - P. Morachiello, Rialto.
144. Oltre ai lavori citati nelle nn. 88 e 143, v. Paul C. Hamilton, The Palazzo dei Camerlenghi in Venice, "Journal of the Society of Architectural Historians", 42, 1983, pp. 258-271.
145. Flavio Biondo, Roma, nell'edizione latina, Brixiae 1503, c. LXXXXI.
146. Andrea Calmo, Le lettere, a cura di Vittorio Rossi, Torino 1888, p. 85.
147. W. Muller-Wiener, Bildlexikon, pp. 342-357; Mustafa Cezar, Typical Commercia) Buildings of the Ottoman Classical Period, Istanbul 1983, pp. 174-185.
148. G. Vasari, Le vite, V, pp. 269-272.
149. V. Pollio Marcus, M. Vitruvius, L. V, p. 45, "forum quadratum et columnis ornatum more graeco".
150. Vettor Fausto, Orationes Quinque, Venetiis 1551, Orazione I, cc. 7V-14V, Orazione 11, c. 31; Ennio Concina, Navis. L'umanesimo sul mare. 1470-1740, Torino 1990, pp. 39-41.
151. V. Pollio Marcus, M. Vitruvius, p. 9; F. Sansovino, Venetia, p. 295; Il campanile di San Marco riedificato. Studi, ricerche, relazioni, Venezia 1912.
152. Cit. in D.J. Geanakoplos, Bisanzio, p. 161.
153. Cf. il nostro cit. in n. 150, pp. 28-29.
154. Lia Sbriziolo, Per la storia delle confraternite veneziane [...> Le scuole dei Battuti, in AA.VV., Miscellanea Gilles Gerard Meersseman, II, Padova 1970, pp. 715-763; Brian Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia. 1500-1620, I-II, Roma 1982.
155. Oltre ai lavori citati in n. 88, v. specificamente Pietro Paoletti, La Scuola Grande di San Marco, Venezia 1929; Manfredo Tafuri, Jacopo Sansovino e l'architettura del '500 a Venezia, Padova 1972, pp. 12-1; D. Howard, Jacopo Sansovino, pp. 96- 112; Philip L. Sohm, The Staircases of the Venetian Scuole Grandi and Mauro Coducci, "Architectura", 8, 1978, pp. 125-149; Le Scuole di Venezia, a cura di Terisio Pignatti, Milano 1981; Wendy Stedman Sheard, The Birth of Monumental Classicizing Relief in Venice of the Fafade of the Scuola di San Marco, in AA.VV., Interpretazioni veneziane, Venezia 1984, pp. 149-174; Ulrich Willmes, Studien zur Scuola di San Rocco in Venedig, München 1985.
156. F. Sansovino, Venetia, p. 282.
157. A.S.V., Avogaria di Comun, processi per Nobiltà, b. 485 (Enrico Badoer); San Giovanni Evangelista, b. 131, testimonianza 2 aprile 1346, atto 23 settembre 1364; ivi, b. 163, fasc. M, c. 24, 25 settembre 1437; F. Corner, Ecclesiae, VI, pp. 369-375.
158. Cf. i capitelli con il simbolo della Scuola nel portale di accesso alla corte tra Ca' Badoer e la chiesa di San Giovanni Evangelista.
159. Doc. del 2 aprile 1346 citato nella n. 157.
160. F. Biondo, Roma, c. 317v; nell'edizione latina del 1503, c. CLVI: "qui domos amplas faciebant locum ante ianuam relinquebant quem inter fores domus et viam relictus esset [...> et neque in via stabant, neque intra aedes".
161. Cf. l'espressione "la chaxa de la schola nostra" in A.S.V., Scuola della Misericordia, Not. 1, reg. 166, c. 37v, 14 gennaio 1497.
162. Cit. da L. Olivato Puppi- L. Puppi, Mauro Codussi, p. 218.
163. Genesi 28, 12.
164. Cit. da L. Olivato Puppi- L. Puppi, Mauro Codussi, p. 196.
165. Disegno 1462/dr.
166. J. Meyer Zur Capellen, Gentile Bellini, pp. 106-120.
167. J. Mcandrew, L'architettura, p. 189.
168. M.A. Coccio Sabellico, Del sito, p. 24; F. Sansovino, Venetia, pp. 168, 323, 586; L. Olivato Puppi- L. Puppi, Mauro Codussi, pp. 136, 199, 259; Hospitale S. Mariae Cruciferorum, a cura di Silvia Lunardon, Venezia 1984, p. 38.
169. Ettore Merkel, Sala dell'Albergo, in AA.VV., La memoria della salute. Venezia e il suo ospedale dal XVI al XX secolo, Venezia 1985, p. 118; Renato Polacco, I mosaici moderni dal Cinquecento al Novecento, in AA.VV., San Marco. La basilica d'oro, Milano 1991, p. 318.
170. F.W. Deichmann, Corpus, 274-275, pp. 70-71.
171. A.S.V., Scuola della Misericordia, reg. 166, c. 63.
172. F. Sansovino, Venetia, p. 137; F. Corner, Notizie, p. 90; L. Olivato Puppi - L. Puppi, Mauro Codussi, pp. 134-186.
173. F. Sansovino, Venetia, p. 282.
174. V. in particolare M. Tafuri, Venezia, pp. 125-154.
175. A.S.V., Scuola della Misericordia, Not. i, 1489-1544, passim; Venezia, Museo Correr, mss. Pdc 2602/1, testimonianza Nadal Garzoni 26 gennaio 1529. Sul Sansovino a Pontecasale v. M. Tafuri, Jacopo Sansovino, pp. 99-106.
176. M. Tafuri, Venezia, p. 147.
177. M.A. Coccio Sabellico, Del sito, p. 32.
178. V. n. 132.
179. Oltre ai lavori citati in n. 88, v. ancora Elena Bassi, Palazzi di Venezia. Admiranda Urbis Venetae, Venezia 1976; Peter Lauritzen-Alexander Zielcke, Palaces of Venice, London 1978; Giuseppe Mazzariol, I palazzi del Canal Grande, Novara 1981; P. Maretto, La casa, in particolare pp. 159-196.
180. Oltre ai lavori citati nelle nn. 88 e 179, v. Vittorio Sgarbi, Mito e storia di Giovanni Dario e del suo palazzo tra oriente e Venezia, Milano 1984.
181. F. Sansovino, Venetia, p. 385.
182. Oltre ai lavori citati nelle nn. 88 e 179, v. Luca Beltrami, La Ca' Del Duca sul Canal Grande ed altre reminiscenze sforzesche in Venezia, Milano 1906; John R. Spencer, The Ca' del Duca in Venice and Bartolomeo Ferrini, "Journal of the Society of Architectural Historians", 29, 1970, pp. 3-8.
183. Su palazzo Zorzi v. anche Giorgio Bellavitis, Le pietre di palazzo Zorzi, in L. Olivato Puppi - L. Puppi, Mauro Codussi, pp. 247-254.
184. Solo a titolo d'esempio v. ad Atene la Omorphe Ecclesià e la Agioi Theodoroi Klauthmonos, in Attica il katholikon del monastero di Kaisarianes. Dubbio, per i restauri condotti, il caso di casa Lascaris a Mistrà. Per il palazzetto di Ravenna: V. Fontana, De instauratione, pp. 247-298.
185. V. anche la breve nota all'attribuzione in Andrea Palladio, 1508-1580. The Portico and the Farmyard, a cura di Howard Burns, London 1975, p. 173.
186. Sebastiano Serlio, Regole generali di architettura, Venetia 1537, c. 55v.
187. Cit. in L. Olivato Puppi-L. Puppi, Mauro Codussi, p. 222.
188. F. Sansovino, Venetia, p. 387.
189. V. il nostro Ca' Querini Stampalia, in I Querini Stampalia, a cura di Giorgio Busetto - Madile Gambier, Venezia 1987, pp. 97-104.
190. A. Foscari - M. Tafuri, L'armonia, pp. 24-29.
191. V. il nostro Dell'arabico, pp. 11-26, 77-86.
192. Oltre ai lavori citati in n. 88, v. il nostro "Arca del seme antico". Res publica e res aedificatoria nel Lungo Rinascimento veneziano, in Venedig und Oberdeutschland in der Renaissance, a cura di Bernard Roeck - Klaus Bergdolt - Andrew J. Martin, Sigmaringen 1993, pp. 209-222.
193. S. Serlio, On Domestic, tavv. LII, LVII. Sul Serlio a Venezia, v. Hubertus Gunther, Studien zum venezianischen Aufenthalt des Sebastiano Serlio, "Miinchner Jahrbuch der Bildenden Kunst", 32, 1981, pp. 42-94.
194. Antonio Foscari-Manfredo Tafuri, Un progetto irrealizzato di Jacopo Sansovino: il palazzo di Vettor Grimani sul Canal Grande, "Bollettino del Museo Correr", n. ser., 26, 1981, pp. 71-87; M. Tafuri, Venezia, p. 15.
195. Oltre ai lavori citati in n. 88 v. principalmente: Dietro i palazzi. Tre secoli di architettura minore a Venezia. 1492-1803, catalogo della mostra, a cura di Giorgio Gianighian - Paola Pavanini, Venezia 1984; N. Huse - W. Wolters, Venezia, pp. 12-20, 27-38; Richard J. Goy, Venetian Vernacular Architecture. Traditional Housing in the Venetian Lagoon, Cambridge 1989.
196. Ennio Concina, Venezia nell'età moderna. Struttura e funzioni, Venezia 1989, pp. 73-126.
197. A.S.V., San Giovanni Evangelista, b. 164, fasc. Z; b. 162, fasc. H, c. 28; S. Serlio, On Domestic, tav. XLVIII; Franca Semi, Gli Ospizi di Venezia, Venezia 1983, pp. 228-234.
198. Hospitale S. Mariae, pp. 32-35; Alberto Rizzi, Scultura esterna a Venezia, Venezia 1987, pp. 298-300.
199. V. il nostro Parva ,Jerusalem, in Ennio Concina - Ugo Camerino - Donatella Calabi, La città degli ebrei. Il Ghetto di Venezia : architettura e urbanistica, pp. 9-158, in particolare pp. 16-23, con repertorio delle fonti d'archivio.
200. A.S.V., Scuola della Misericordia, Not. I, reg. 166, 3 marzo 1499, c. 45v.
201. M.A. Coccio Sabellico, Del sito, p. 21.
202. A.S.V., Scuola della Misericordia, Not. I, reg. 166, c. 75, 5 aprile 1505.
203. Oltre ai lavori citati nelle nn. 88 e 195, v. Rodolfo Gallo, Corte Colonne a Castello e le case della
Marinarezza veneziana, "Ateneo Veneto", 123,
1938, pp. 5-12.
204. A. Calmo, Le lettere, pp. 172-173.
205. S. Serlio, On Domestic, tav. XLVIII.
206. A. Rizzi, Scultura, p. 194.
207. E. Concina, Una fabbrica, pp. 98-99.
208. D. Howard, Jacopo Sansovino, pp. 146-154; Dietro i palazzi, pp. 80-82; E. Concina, Venezia, pp. 110.
209. La prima cit. da B. Giustinian, Historia, p. 5; la seconda da R. de Caresinis Chronica, p. 37. Per l'architettura militare veneta nel periodo considerato, v. principalmente: Antonio Bertoldi, Michele Sanmicheli al servizio della Repubblica Veneta, Verona 1874; Giacomo Rusconi, Il Castello di S. Andrea del Lido, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 12, 1906, t. I, pp. 138-160; Michele Sanmicheli architetto veronese del Cinquecento, catalogo della mostra, Venezia 1960; John R. Hale, The First Fifty Years of a Venetian Magistracy. The Provveditori alle Fortezze, in Renaissance. Studies in Honor of Hans Baron, a cura di Anthony Molho - John A. Tedeschi, Dekalb (I11.) 1971, pp. 499-529; Lionello Puppi, Michele Sanmicheli architetto di Verona, Padova 1971; Pietro Marchesi, Il Forte di Sant'Andrea a Venezia, Roma 1980; John R. Hale, Terraferma Fortifications in the Cinquecento, in AA.VV., Florence and Venice: Comparisons and Relations, Firenze 1980, pp. 169-187; Ennio Concina, La macchina territoriale. La progettazione della difesa nel Cinquecento veneto, Roma-Bari 1983; Pietro Marchesi, Fortezze veneziane. 1508-1797, Milano 1984; AA.VV., L'architettura militare veneta del Cinquecento, Milano 1988; Paolo Morachiello, Fortezze e lidi, in AA.VV., Storia di Venezia, Il mare, a cura di Alberto Tenenti-Ugo Tucci, Roma 1991, pp. 111-134.
210. A.S.V., Collegio Notatori, reg. I, cc. 19v-20; reg. 3, cc. 69v, 99.
211. Per Chioggia, Giannagostino Gradenigo, Serie dei Podestà di Chioggia, Venezia 1767, p. 42; per gli altri casi, v. i documenti citati nella n. che precede.
212. Il primo proto citato dalle fonti, Leonardo di Pietro, è già morto tra 1501 e 1502: A.S.V., Patroni e Provveditori all'Arsenal, reg. 133, c. 10.
213. M. Sanuto, I diarii, VIII, coll. 368, 402, 421, 409, 431; X, col. 404 (1509-1510); Raffaello Brenzoni, Fra' Giovanni Giocondo veronese, Firenze 1960; D. Calabi - P. Morachiello, Rialto, p. 192; Ennio Concina, Città e fortezze nelle "tre isole nostre del Levante", in Venezia e la difesa del Levante, catalogo della mostra, Venezia 1986, p. 184 (pp. 184-220); Vincenzo Fontana, Fra Giovanni Giocondo architetto. 1433c.-1515, Vicenza 1888.
214. A.S.V., Consiglio dei X, Misti, reg. 43, c. 56; ivi, Patroni e Provveditori all'Arsenal, b. 7, c. 92; M. Sanuto, I diarii, XXXVIII, col. 111.
215. A.S.V., Consiglio dei X, Secreta, reg. 4, cc. 131 ss., scrittura 9 novembre 1536; G. Vasari, Le vite, VI, p. 348.
216. F. Sansovino, Venetia, p. 3.
217. A.S.V., Senato Misti, Secreta, reg. 48, c. 100v.
218. Ivi, Senato Terra, reg. 6, c. 5v.
219. Rodolfo Gallo, A Fifteenth Century Military Map of the Venetian Territory of Terraferma, Leiden 1955.
220. Cf. il caso di Verona: Francesco Corna da Soncino, Fioretto de le antiche croniche di Verona, Verona 1973, p. 12; Guarino Veronese, Epistolario, a cura di Remigio Sabbadini, Venezia 1915-1919, lettera 143, 1419.
221. Marin Sanudo, Descrizione della Patria del Friuli, Venezia 1853, pp. 23-24.
222. A.S.V., Senato Terra, reg. 6, c. 62v; reg. 8, c. 27; ivi, Luogotenenza della Patria del Friuli, b. 272, reg. G, cc. 121v, 125; Udine, Biblioteca Civica, ms. 865, c. 3v; Pio Paschini, Storia del Friuli, Udine 1953, p. 761; Ennio Concina, Il rinnovamento difensivo nei territori della Repubblica di Venezia nella prima metà del Cinquecento, in AA.VV., Architettura militare nell'Europa del XVI secolo, Siena 1988, pp. 94-95 (pp. 91-110).
223. R. Brenzoni, La loggia.
224. V. Fontana, De instauratione, p. 296.
225. Donata Battilotti, Il Palazzo Comunale e la Piazza Contarena di Udine, tesi di dottorato di ricerca, Istituto Universitario di Architettura di Venezia, 1987, pp. 189-201.
226. A.S.V., Capi del Consiglio dei X, Lettere di rettori, b. 134, c. 225 (Treviso).
227. La prima citazione: relazione del Sanmicheli su Vicenza in A. Bertoldi, Michele Sanmicheli, p. 66; la seconda: relazione del Sanmicheli su Padova, in E. Concina, La macchina, p. 124.
228. Giovan Giacopo Leonardi, Il libro delle fortificazioni dei nostri tempi, a cura di Tommaso Scalesse, Roma 1975, p. 76.
229. A.S.V., Senato Terra, reg. 37, c. 63v.
230. Ivi, reg. 41, c. 56v.