Dal Neolitico all'età dei metalli. I modelli della neolitizzazione in Europa e nel bacino del Mediterraneo
Uno dei grandi temi della ricerca preistorica, per il quale V.G. Childe coniò l'espressione "rivoluzione neolitica", intendendo non tanto un avvenimento repentino in termini temporali quanto una svolta determinante nello sviluppo dell'umanità, è costituito dagli inizi dell'economia produttiva (agricoltura e allevamento), base di un'evoluzione sociale ed economica in senso moderno. Delineando le tappe di questo sviluppo dall'area vicino-orientale all'Europa e al Mediterraneo negli anni Venti del Novecento, molto prima della scoperta delle datazioni assolute al ¹⁴C e utilizzando solo il metodo della comparazione, egli si avvicinò in modo sorprendente a quella realtà archeologica che i decenni successivi sono venuti man mano definendo, su basi sempre più controllate in fase di ricerca. È ancora oggi impossibile non tenere conto di quella prima, pionieristica e sorprendentemente attuale definizione del Neolitico, non più inteso in senso tassonomico come J. Lubbock, che fu il primo a usare questo termine, intendeva nel suo saggio Prehistoric Times del 1865. Il Neolitico di Childe costituisce una tappa fondamentale nella storia dell'umanità, una delle grandi trasformazioni che, partendo dall'invenzione dell'agricoltura e dell'allevamento alla base dell'economia produttiva, innescava tutta una serie di cambiamenti radicali sul piano sociale, economico e tecnologico. L'ipotesi di Childe forniva una spiegazione convincente del cambiamento e, come tutte le ipotesi ben costruite, il suo pensiero sulla neolitizzazione dell'Europa ha influenzato a lungo il corso degli studi. Eppure un problema fondamentale non veniva pienamente affrontato: perché dalle sedi originarie del Vicino Oriente questo modello di vita si era progressivamente esteso a nicchie ecologiche tanto diverse, a volte del tutto inadatte, come se questo tipo di "progresso" costituisse un'ineluttabile necessità. Teoria archeologica, antropologica ed etnografica hanno costituito insieme un sinergismo che per alcuni decenni ha contribuito a rafforzare il mito della superiorità "naturale" di questa svolta economica. Da J.G.D. Clark a R.J. Braidwood, da F. Boas a L. White, l'assenso verso il fondamentale balzo in avanti dovuto ai progressi tecnologici indotti dalla "rivoluzione neolitica" fu pressoché totale, unica voce fuori dal coro quella di E. Service in Profiles in Ethnology del 1963. Da questo suo lavoro e dalle sue osservazioni sul tempo libero della tribù degli Arunta maturerà la prima reale inversione di tendenza nel saggio di M. Sahlins Stone Age Economics del 1972. Alla fine degli anni Sessanta, le ricerche di R. Lee e di I. De Vore sulla dieta, le condizioni e le abitudini sociali dei cacciatori-raccoglitori contribuirono a porre fine al lungo mito della ricerca incessante di cibo, delle risorse naturali scarse e incerte, dell'assenza di surplus economico, che avrebbero caratterizzato la "mera economia di sussistenza". Bisogna però attendere gli anni Settanta perché la visione pessimistica circa le insormontabili difficoltà ambientali con cui devono misurarsi i cacciatori venga globalmente riconsiderata come "uno dei primi pregiudizi chiaramente neolitici, una valutazione ideologica della capacità del cacciatore di sfruttare le risorse terrestri, perfettamente consona al compito storico di privarlo di queste". Secondo Sahlins questa visione, estremamente limitante, relativa all'economia di caccia e raccolta costituirebbe un'antica eredità culturale scaturita da un'ottica "neoliticocentrica", i cui echi sono ancora rintracciabili nei più antichi testi scritti dell'antichità classica e non, dalla Bibbia al De rerum natura di Lucrezio Caro. Un punto di vista incrementato anche dal retaggio degli studi antropologici sulla "povertà paleolitica", le cui radici sarebbero da ricercare nel contesto economico, storico e culturale in cui ha operato l'antropologia nell'attuale economia industriale. L'implacabile critica di Sahlins, rivolta a un cacciatore "armato di impulsi borghesi e di arnesi paleolitici", ha avuto il grande merito di non fornire più agli archeologi l'alibi della superiorità scontata dell'economia di produzione a fronte dell'inefficienza dell'economia di caccia e raccolta, riportando piuttosto i termini del problema della neolitizzazione al tentativo di spiegare perché questa basilare trasformazione si sia affermata, a volte faticosamente, ma complessivamente con ampio successo, guadagnando anche ambienti e territori, com'è il caso di molte aree europee, a essa di certo non favorevoli. I parametri economici della "rivoluzione neolitica" fissati da Childe sono stati da allora in poi ben presenti nella letteratura e nella ricerca preistorica. "La zona ora desertica dell'Africa settentrionale e dell'Asia anteriore era una prateria erbosa quando l'Europa settentrionale era ancora una tundra o un campo di ghiaccio. Là germogliavano le erbe selvatiche che, una volta coltivate, divennero il nostro frumento e il nostro orzo; montoni e mandrie di animali di grossa taglia adatti alla domesticazione, erravano allo stato selvaggio (...). L'allevamento e la coltivazione delle piante erano delle tappe rivoluzionarie nell'emancipazione dell'uomo dal suo ambiente esterno. Essi diedero all'uomo il controllo della propria sussistenza (...). L'estensione della civiltà, attraverso i suoi propri mezzi, favorì l'espansione dei rivoluzionari stessi (...). Al fine di procurare il cibo per le nuove generazioni, il metodo più semplice era di mettere a coltura nuove terre". Con questa semplice descrizione Childe nel 1925 fissava i parametri ambientali, economici e sociali che davano l'avvio alla rivoluzione neolitica e ne spiegava allo stesso tempo il successo espansionistico. Una grande importanza attribuita ai fattori ecologici si registra anche nelle opere di J.G.D. Clark, in cui si evidenziano le difficoltà di adattamento delle nuove forme di economia, basate sull'agricoltura e l'allevamento, ai climi e agli ambienti dell'Europa temperata e ancora più di quella settentrionale. Qui i coloni neolitici si trovarono in condizioni di clima, suolo e vegetazione profondamente diverse da quelle delle aree asiatiche e vicino-orientali e i problemi incontrati nelle nuove situazioni variarono notevolmente nel grado di difficoltà. I cambiamenti nel rapporto uomo-ambiente, la simbiosi tra uomo e animali costretti a frequentare insieme, a causa dell'incipiente processo di inaridimento, aree ricche d'acqua (Teoria delle Oasi e Theory of Propinquity) favorirono il processo di domesticazione degli animali e l'osservazione dei processi riproduttivi dei cicli vegetali. Secondo questa ipotesi, fu la maggiore sedentarietà a favorire prima la nascita di insediamenti stabili e poi, indirettamente, un incremento demografico. Clark accentuò, ancora più di quanto aveva fatto Childe, l'importanza dei mutamenti climatici avvenuti dopo il termine dell'ultima glaciazione. Secondo la sua ricostruzione, alla fine del Pleistocene la soglia di equilibrio tra le tre componenti base (cultura, bioma inteso come insieme degli esseri viventi e habitat) fu alterata per i cambiamenti avvenuti nel clima (habitat), i quali a loro volta si ripercossero sull'ambiente e, in particolare, sulla vegetazione (bioma). L'intero sistema entrò in crisi e generò una serie di cambiamenti che condussero a un nuovo rapporto di equilibrio, diverso dal precedente, tra uomo e ambiente. Questa teoria del rapporto dinamico e di equilibrio tra sistemi e sottosistemi sarà successivamente ripresa. La Teoria delle Oasi costituì l'ipotesi di partenza di uno dei maggiori progetti realizzati sul campo subito dopo la seconda guerra mondiale. In quegli anni il Vicino Oriente fu teatro, quasi contemporaneamente, di grandi scoperte e scavi, tra cui quelli di K. Kenyon a Gerico e di J. Mellaart a Çatal Hüyük. R.J. e L. Braidwood diedero vita a una ricerca imperniata su un progetto largamente interdisciplinare, che ha costituito un modello per generazioni di ricercatori e ha completamente trasformato le conoscenze sulle origini dell'agricoltura. Il progetto si sviluppò nell'arco di oltre un decennio e interessò un'area del Kurdistan iracheno settentrionale. Gli scavi si concentrarono sul sito di Giarmo e tra i risultati di questa ricerca vi fu quello di verificare che le condizioni climatiche ipotizzate da Childe, alla base della Teoria delle Oasi, non si riscontravano nelle zone in cui si era sviluppata l'agricoltura. Nacque così una nuova teoria, quella della Zona Nucleare, che individuava nei fattori culturali e non in quelli ambientali l'elemento chiave per le origini dell'agricoltura e dell'allevamento. Negli anni Sessanta, sempre nella prospettiva ecologica dello studio delle origini del Neolitico, importanti avanzamenti sugli inizi della domesticazione provennero dalle ricerche compiute in Iran da K.V. Flannery e F. Hole e dagli studi di S. Bökönyi. Il complesso delle ricerche sviluppate in quegli anni in varie regioni del Levante mise in risalto l'esistenza di comunità sedentarie, con villaggi stabili, precedenti la nascita dell'agricoltura. Alla fine degli anni Sessanta, partendo proprio dall'osservazione che il processo di sedentarizzazione aveva preceduto e non seguito l'instaurarsi della produzione del cibo, L.R. Binford elaborò una nuova teoria valida non solo per il Vicino Oriente, ma per la nascita dell'agricoltura a livello mondiale. Secondo questo studioso i cambiamenti ambientali postpleistocenici avrebbero indotto diversi adattamenti importanti nelle comunità preistoriche: l'innalzamento del livello del mare e la conseguente inondazione della piattaforma continentale avrebbero portato alla creazione di ambienti costieri e fluviali ricchi di pesci e di uccelli migratori. In questi habitat ricchi di risorse le popolazioni sarebbero progressivamente divenute stanziali e la sedentarietà avrebbe favorito la crescita demografica; quest'ultima avrebbe a sua volta comportato la necessità di sfruttare nuove risorse alimentari, prima ritenute di importanza secondaria. Fra i vari processi di adattamento dei comportamenti umani, resi necessari dai cambiamenti climatici e ambientali verificatisi dopo l'ultimo periodo glaciale, avrebbe trovato posto anche la selezione di piante e animali, successivamente domesticati. Le ipotesi avanzate in Post-Pleistocene Adaptations costituirono il manifesto della New Archaeology, con la caratteristica ricerca di leggi generali qui individuate nelle analogie di percorso scaturite dai grandi eventi dell'ultima età glaciale. Il problema della nascita dell'agricoltura e dell'allevamento, analizzato da Binford in termini processuali, fu da lui stesso rivisitato all'inizio degli anni Ottanta soprattutto per quanto concerne i meccanismi della crescita demografica. Nacque così il cosiddetto "modello di addensamento", secondo il quale ogni specie avrebbe delle zone di riproduzione ottimale, nelle quali l'alta densità di popolazione renderebbe necessario lo spostamento di piccoli gruppi nelle zone limitrofe, limitando progressivamente la mobilità con l'occupazione sempre maggiore di territori destinati allo sfruttamento intensivo delle risorse alimentari. La sedentarietà non sarebbe quindi stata, come nell'ipotesi iniziale, la causa ma uno degli effetti della crescita demografica. Limitando gli spazi liberi si limitava la mobilità degli altri gruppi, nomadi o seminomadi, portando a una trasformazione progressiva sia dell'ambiente sia delle comunità. Al principio degli anni Settanta il perno delle problematiche relative agli inizi del Neolitico si identificò sempre più con le origini dell'agricoltura e dell'allevamento, anche in conseguenza dei grandi progressi conseguiti dalla ricerca in questi due campi. Gli apporti dell'archeobotanica e dell'archeozoologia suscitarono grandi interessi, fino a costituire un tentativo di autonomo filone di ricerca. È in questo clima che si accentuarono, in contrapposizione ai "modelli migrazionisti" e nel filone di sviluppo delle ricerche sull'autonomia culturale dell'Europa, i maggiori tentativi di spiegazione secondo "modelli evoluzionisti". La Palaeoeconomy, fondata da E.S. Higgs e M.R. Jarman, ebbe un ruolo determinante in questo senso. Vennero sondate tutte le possibilità di sfruttamento intensivo delle risorse selvatiche disponibili nell'ambiente forestale e a querceto misto, che costituiva un habitat altamente produttivo, e le possibilità se non di domesticazione almeno di controllo e di stretta relazione tra l'uomo e alcune specie animali, ad esempio il cervo, che sarebbero state semidomesticate. Nelle zone di foresta temperata erano inoltre disponibili gli antenati selvatici del bue (l'uro) e del maiale (il cinghiale), ma i tentativi di domesticazione di queste due specie sembrano avere seguito, e non preceduto, l'introduzione del "pacchetto neolitico". Un momento importante di concentrazione sulle posizioni più avanzate circa i problemi della domesticazione di piante e animali fu sintetizzato negli atti di un convegno su questo tema tenuto a Londra nel 1968 e al quale intervennero i maggiori studiosi sull'argomento. Mettendo a confronto gli sviluppi rilevati nel Vicino Oriente e nell'America Centro-Meridionale, K.V. Flannery ipotizzò che l'adozione dell'agricoltura e quella dell'allevamento si fossero verificate come meccanismo di difesa verso possibili situazioni di stress alimentare dovute a cause ambientali e demografiche. Nelle aree periferiche alle zone nucleari di crescita spontanea dei cereali, la loro coltivazione artificiale sarebbe stata introdotta per ovviare alle carenze dovute all'aumento della popolazione ai margini del cosiddetto "crescente fertile" e la domesticazione animale sarebbe servita a garantire un surplus nel caso di perdite dei raccolti. Tuttavia il dibattito sulle diverse motivazioni che potevano avere indotto le comunità preistoriche a orientarsi verso l'utilizzazione di nuove risorse era lungi dall'essere esaurito. Secondo M.N. Cohen le ragioni che avrebbero portato le popolazioni preistoriche all'adozione del nuovo modello economico andrebbero ricercate in un incremento demografico iniziato già prima della fine del Pleistocene. Questo processo avrebbe alla lunga determinato uno squilibrio tra risorse disponibili e popolazione esistente, costringendo le comunità preistoriche a modificare le proprie abitudini alimentari e a rivolgersi verso altre risorse, soprattutto scegliendo quelle che, pur imponendo un maggior lavoro, erano controllabili attraverso la riproduzione. La crescita demografica sarebbe stata talmente graduale da non imporre preliminarmente limitazioni, ma da implicare a un certo punto della crescita la necessità, secondo Cohen universale, del passaggio all'agricoltura su scala mondiale. Negli stessi anni, partendo da un punto di vista diverso e sino ad allora trascurato da tutti i modelli interpretativi basati sull'impostazione ecologica o sui fattori demografici, B. Bender prese in considerazione i fattori sociali, ai quali anche altri studiosi avevano riservato uno spazio tutt'altro che secondario, ponendoli però in primo piano per tentare di spiegare i meccanismi di sviluppo che condussero dall'economia di caccia e raccolta allo sviluppo dell'economia agro-pastorale. La svolta antropologica degli anni Sessanta e Settanta ha inciso profondamente su quel versante della disciplina archeologica che si occupa della ricostruzione dei sistemi sociali del passato, conducendo a una crescita esponenziale del numero di studi esplicitamente dedicati a questo aspetto. Alcuni, profondamente radicati nella tradizione antropologica angloamericana, si occupano in maniera più specifica e in modo quasi esclusivo di aspetti teorici, altri invece sono eccessivamente impegnati nel controllo tecnico dei dati e finora l'integrazione di questi due tipi di approccio è stata abbastanza rara. Contrario alla visione generalizzata di una fondamentale semplicità dei modelli di società neolitica, B. Hayden ha a più riprese proposto un'interessante ipotesi, secondo la quale la domesticazione di piante e animali sarebbe avvenuta nel contesto di comunità di cacciatori-raccoglitori complessi, semisedentari, spinti sia dall'incremento demografico che dai dislivelli all'interno della società. Tuttavia la produzione del cibo sarebbe stata più legata a fattori di accumulazione e consumo destinato a occasioni di incontro sociale, come feste e banchetti, che non alla risoluzione di un problema di scarsità di cibo. Non si tratterebbe quindi di una spinta dettata da motivi di necessità, ma piuttosto da una nuova possibilità di accumulazione e consumo, in un contesto nel quale la produzione del cibo non sarebbe imposta dalle strategie di sopravvivenza, ma piuttosto da quelle della competizione sociale. L'apporto di discipline come la biologia molecolare ha condotto ad affiancare l'analisi dello spettro genetico delle popolazioni attuali europee allo studio sulla trasformazione e diffusione delle specie vegetali e animali domesticate, a dimostrazione delle migrazioni umane che avrebbero accompagnato l'espansione di tali specie. Partendo dal presupposto che solo la diffusione avvenuta durante il Neolitico abbia avuto un carattere talmente generale da giustificare le osservazioni effettuate a partire dalle popolazioni europee attuali, A. Ammerman e L.L. Cavalli Sforza hanno dimostrato che, partendo dal Vicino Oriente, gli effetti sulla composizione del patrimonio genetico si attenuano man mano che ci si allontana dal centro verso la periferia. Poiché questo fenomeno di colonizzazione non si è svolto in un territorio spopolato, gli autori hanno osservato che gli apporti esogeni, derivanti dall'integrazione con le popolazioni preesistenti, si sono fusi in numero progressivamente decrescente partendo dai Balcani e andando verso la Penisola Scandinava. L'ipotesi della diffusione demica è stata testata attraverso l'analisi dei principali componenti (PCs) delle frequenze dei geni. Un primo studio, elaborato statisticamente, delle mappe di 39 geni ha fornito le basi alla teoria di Ammerman e Cavalli Sforza, visualizzata secondo il cosiddetto "modello dell'onda di avanzamento", formulato per la prima volta nel 1937 da un genetista, R.A. Fischer in The Wave of Advance of Advantageous Genes, basato originariamente sull'avanzamento dei geni favorevoli. Un modello matematico, elaborato dagli autori sulla base delle poche datazioni assolute allora disponibili per il Neolitico europeo, dava a questo movimento di flusso migratorio un ritmo di avanzamento di un chilometro all'anno. L'aspetto meccanicistico di quest'ultima ipotesi è stato molto criticato, partendo dalla semplice osservazione di una qualunque carta di distribuzione diacronica del Neolitico in Europa, che esalta l'aspetto selettivo delle scelte locazionali dei primi agricoltori, lasciando, soprattutto inizialmente, ampie aree vuote accanto ad altre densamente frequentate come la Tessaglia o l'Italia sud-orientale. A questo primo studio ha fatto seguito più di recente una nuova indagine basata su un numero molto più ampio di geni, 95, tra cui particolarmente rilevante il marcatore genetico HLA, un sistema associato a rare malattie genetiche e fondamentale per la compatibilità nei trapianti d'organo. Quest'ulteriore ampliamento dei dati ha rafforzato i risultati delle indagini precedenti. Le simulazioni hanno confermato il potenziale dei PCs per separare le diverse migrazioni e focalizzarne l'origine quando questa fosse abbastanza distinguibile geograficamente. È stato così possibile creare mappe genetiche "stratificate" che forniscono una serie di importanti indicazioni. Le critiche più frequentemente poste al modello demico sono di non tenere conto, ma non era questo lo scopo iniziale degli autori, dei complessi processi di interferenza e acculturazione verificatisi durante l'espansione del Neolitico in Europa, di presupporre nelle prime comunità agricole un'elevata densità e una pressione demografica tutte da dimostrare, di dare per scontata la superiorità del modello economico e, infine, che gli stessi dati genetici su cui la teoria poggia potrebbero essere la risultante di ondate migratorie successive al Neolitico. Poiché è evidente che l'occupazione neolitica nel nostro continente ha seguito inizialmente un criterio selettivo nella scelta di nuovi territori, la convivenza tra cacciatoriraccoglitori e coloni è perdurata in alcune zone molto più a lungo che in altre. La linea di frontiera tra i due modelli di vita, sia che fosse mobile sia che fosse statica, rimase costantemente un potenziale filtro di passaggio. Le strategie di sfruttamento delle risorse durante il Mesolitico dimostrano la grande capacità di adattamento dei gruppi ai cambiamenti ambientali che si verificarono nell'Europa postglaciale, tanto da non rendere assolutamente necessaria l'adozione dell'agricoltura che in taluni casi, essendo meno flessibile dei sistemi di mobilità logistica elaborati dai cacciatori- raccoglitori e intrusiva rispetto all'ambiente naturale, diveniva un sistema artificioso, più dispendioso dal punto di vista delle energie richieste, più rischioso per le difficoltà di adattamento e funzionalmente meno produttivo. Il processo di transizione al Neolitico in Europa si è dimostrato così articolato e con un tale ventaglio di situazioni intermedie da avere reso difficile, e talora inutilizzabile, l'uso dei criteri distintivi tradizionalmente considerati gli indicatori qualificanti del Neolitico: sedentarietà, insediamenti stabili, presenza di piante coltivate, animali domestici, ceramica, ecc. Esistono aree nelle quali il "pacchetto neolitico" (agricoltura, con cereali e leguminose; domesticazione delle cinque specie classiche, bue, maiale, pecora, capra e cane; villaggi stabili; presenza di ceramica) si diffonde simultaneamente e nell'arco di pochi secoli l'egemonia culturale del Neolitico diviene totale; altre in cui questi elementi penetrano singolarmente in un arco di tempo enormemente più lungo; altre ancora in cui il "pacchetto neolitico" non giungerà mai completo. Tenere conto di questa situazione di complessità, in cui la coesistenza dei diversi modi di vita ha dato luogo a un'infinità di situazioni specifiche regionali, è un punto di vista necessario per affrontare lo studio della transizione neolitica in Europa e nel bacino del Mediterraneo. Secondo il "modello della disponibilità" proposto da M. Zvelebil, l'affermazione dell'economia agro-pastorale nei nuovi territori, soprattutto dell'Europa centrale e settentrionale ma anche altrove, sarebbe avvenuta in tre fasi: disponibilità, sostituzione, consolidamento. Nella prima fase, pur venendo sporadicamente a contatto ed effettuando tra loro scambi occasionali, i gruppi neolitici e quelli mesolitici sarebbero stati indipendenti tra loro, sia culturalmente che economicamente. Nella seconda fase il ventaglio delle possibilità si amplia e diverse nuove situazioni possono essersi verificate, sia che le comunità agricole abbiano iniziato a estendersi in territori in precedenza utilizzati dai cacciatori-raccoglitori, con le conseguenti ovvie trasformazioni dell'ambiente, sia che i cacciatori- raccoglitori abbiano adottato alcune pratiche, agricoltura o allevamento o entrambe, proprie dell'economia dei gruppi neolitici, iniziando a integrarsi o comunque a interagire più strettamente con questi. Nella terza fase la sostituzione delle basi economiche è ormai completamente attuata. È evidente che questo modello si applica particolarmente bene e descrive con molta accuratezza i passaggi possibili nelle aree in cui i coloni neolitici convissero a lungo, inizialmente senza interferenze importanti, con i gruppi mesolitici. Le strategie di utilizzazione del territorio, il depauperamento dei suoli conseguente ai raccolti annuali e all'estendersi delle coltivazioni hanno di certo comportato una spinta sempre maggiore, dopo la prima fase della neolitizzazione, verso l'occupazione di nuove aree, spinta motivata a questo punto anche da una crescita demografica, con la conseguenza di una progressiva restrizione delle zone disponibili per i cacciatori-raccoglitori, fino a mettere totalmente in crisi l'equilibrio del sistema e cancellare per sempre questo tradizionale modo di vita dal continente europeo. Esso continuerà a essere praticato nelle aree marginali del Circolo Polare Artico, in condizioni climatiche estreme. Ma se in molte regioni, come l'Europa centrale o la Penisola Iberica, vi fu una lunga e fiorente tradizione mesolitica, in altre aree in cui il Neolitico si affermò precocemente, come la Grecia o l'Italia meridionale, la tradizione mesolitica è molto meno consistente. Sia l'ipotesi demica che quella del modello di disponibilità, basata sull'integrazione e l'acculturazione delle popolazioni autoctone, sono applicabili quali modelli di spiegazione per la neolitizzazione nelle varie aree d'Europa. Prendendo le mosse dal modello dell'onda di avanzamento e confrontando i risultati delle più recenti ricerche di biologia molecolare con quelli della linguistica e dell'archeologia, C. Renfrew ha riproposto in una nuova prospettiva un dibattuto problema della linguistica storica: la diffusione delle lingue indoeuropee. Questo tema è stato affrontato in passato a più riprese, dal punto di vista archeologico, da V.G. Childe, P. Bosch Gimpera, M. Gimbutas, per citare solo alcuni autori che partendo dal punto di vista dell'archeologia preistorica si sono occupati del problema. Riesaminando le dinamiche del processo di neolitizzazione in Europa, C. Renfrew ha presentato nel 1987 una nuova ipotesi esplicativa, successivamente ripresa e rielaborata, anche in risposta alle critiche ricevute. Partendo dall'Anatolia centrale dal VII millennio in poi i protolinguaggi indoeuropei si sarebbero espansi in varie direzioni al seguito della colonizzazione neolitica, secondo il modello demico delle onde di avanzamento, con una vera e propria penetrazione di popolazioni che, oltre allo specifico bagaglio tecnologico, importavano anche il proprio linguaggio. In una successiva elaborazione A. e S. Sherratt hanno configurato come quattro lobi l'area originaria dalla quale sarebbe partita in diverse direzioni l'economia agro-pastorale accompagnata dai vari linguaggi, differenziati inizialmente in quattro grandi gruppi, tutti formatisi a partire da un'ipotetica lingua cosiddetta "nostratica". Il protoindoeuropeo si sarebbe diffuso a occidente verso i Balcani e il resto dell'Europa, il protosemitico dal Levante verso la Penisola Arabica e l'Africa, il gruppo dei protolinguaggi elamito-dravidici dai monti Zagros verso oriente e, infine, i dialetti delle famiglie uralo-altaiche dal Turkmenistan verso oriente. Questa stimolante teoria è dagli autori ritenuta solo un'ipotesi speculativa e gli stessi non negano che i problemi archeologici a essa collegati siano molteplici e di notevole spessore. Lo stesso punto di partenza della concezione quadrilobata dell'area nucleare di origine dell'agricoltura appare opinabile. D. Zohary e M. Hopf hanno chiaramente indicato tutte le pendici della zona montagnosa del Vicino e Medio Oriente, che costeggia la Mezzaluna Fertile e in cui sono presenti gli antenati selvatici dei cereali domestici, come l'area nucleare che vide il primo emergere dell'agricoltura e dell'allevamento; tuttavia non vi è reale contemporaneità cronologica nello sviluppo dell'economia agricola tra il Levante e le aree comprese negli altri tre lobi, e le difficoltà di ordine archeologico sono molteplici anche quando si esce da quest'area primaria. La gamma delle critiche e delle soluzioni alternative non è riassumibile e attraversa vari stadi, dal rifiuto totale a livello teorico della diffusione sotto forma di ipotesi migrazionista alla proposta di diversi tipi di mediazione, tra i quali quella avanzata da M. e K. Zvelebil per l'Europa sembra tra le più compatibili con il tipo di documentazione archeologica attualmente disponibile. Essa offre il vantaggio di conciliare, con la possibilità di stratificazioni successive, il modello classico proposto a suo tempo da Childe e in seguito formalizzato chiaramente da Gimbutas, secondo il quale il lessico protoindoeuropeo comprendeva una serie di termini che designano l'aratro, il carro, il cavallo e i suoi finimenti, tutti elementi che non potevano essere giunti in Europa con la prima colonizzazione neolitica, ma solo in un momento molto più tardo, indicato da Gimbutas con l'espansione dei popoli delle steppe, o popoli dei kurgan, nel corso del IV millennio a.C. Recentemente una nuova serie di dati sembra indicare che il cavallo in età postpleistocenica sia stato presente in varie zone d'Europa, tra cui ad esempio la Penisola Iberica, e non nella sola pianura carpatica indicata in precedenza anche da S. Bökönyi come una delle aree di possibile domesticazione e reintroduzione di questa specie, oltre alla steppa eurasiatica. Sembra probabile che dopo una prima colonizzazione vera e propria, ipotizzabile per il Neolitico dei Balcani, per l'area danubiana meridionale e per il Mediterraneo sud-orientale, la diffusione successiva delle lingue indoeuropee si sia svolta in una serie di tappe anche molto distanziate nel tempo, l'ultima delle quali all'inizio dell'età dei metalli, secondo l'ipotesi già sostenuta da Gimbutas. Sui problemi centrati sulle origini, diffusione e adozione dell'agricoltura in Europa (ma anche in altri continenti), matura dagli anni Novanta una serie di sintesi che prende spunto dalla profonda trasformazione simbolica e sociale avvenuta nelle prime comunità agricole. J. Cauvin per il Levante impernia la sua interpretazione sui fondamenti di una religione che avrebbe trasformato l'atteggiamento delle comunità e costituito al tempo stesso la molla per l'espansione degli elementi del Neolitico. Analizzando le tappe formative della rivoluzione neolitica nel Vicino Oriente, Cauvin individua nello sviluppo di un complesso sistema simbolico la spinta verso una profonda, quanto irreversibile, trasformazione sociale. La rivoluzione delle forme simboliche avrebbe determinato nuovi processi cognitivi importanti e i miti e il pensiero religioso avrebbero avuto un ruolo fondamentale nelle dinamiche di cambiamento nella sfera sociale. Egli vede questa trasformazione in atto a partire da 12.000 anni fa circa, ovvero già presente nelle strutture sociali delle comunità preagricole. All'inizio degli anni Novanta, riprendendo in modo sistematico una serie di ipotesi già adombrate in precedenti lavori, I. Hodder affronta il problema della neolitizzazione dell'Europa da un punto di vista nuovo, cercando nel sistema di contrapposizione delle strutture simboliche operanti in seno alla società la chiave di lettura unificante per l'espansione, in vari tempi e modi, dell'economia agricola. A seconda dei casi presi in esame, egli utilizza tanto il concetto di diffusione che quello di adozione progressiva dell'economia neolitica nelle diverse aree europee e non è nella vecchia antinomia che l'autore vede la soluzione del problema, ma in un approccio diverso che abbia il suo punto di partenza nelle strutture cognitive delle società neolitiche. Le basi teoriche del suo saggio, che è divenuto comunque un riferimento nell'ambito dell'archeologia sociale, attingono dallo strutturalismo sia antropologico sia linguistico. La metafora dietro la quale si celano le strutture nascoste dei gruppi sociali del primo Neolitico europeo è individuata in una serie di contrapposizioni simboliche significative: domestico e selvaggio, morte e vita, maschile e femminile, esterno e interno.
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