Dal post-Rinascimento al Risorgimento
Nell’Italia della metà del 16° sec. il pathos che aveva sorretto l’impegno ‘politico’ di Niccolò Machiavelli e di Francesco Guicciardini è ormai svaporato come nebbia al sole. Con Carlo Sigonio il modo di fare storia cambia decisamente di segno: egli incarna la cesura tra l’esaurirsi della storiografia fiorentina e l’aprirsi di un nuovo modo di intendere la storia. Intanto, variante non da poco, il volgare fiorentino è abbandonato per un ritorno all’aulico latino. Ma c’è un’altra cosa, importante, a distinguere il prima e il poi, la storiogafia fiorentina e il nuovo approccio alla storia: ossia l’abbandono del dibattito politico a favore della ricerca erudita.
Sigonio (sulla cui figura si rinvia a McCuaig 1989) è, in primis, un erudito, uno storico dell’antica Roma. Il suo primo impegno fu, nel 1550, l’edizione dei Regum, consulum, dictatorum ac censorum romanorum fasti, affidata per la stampa a un editore eterodosso, Antonio Gadaldini, finito in carcere a Roma nel 1557. I suoi rapporti con il cardinale Giovanni Morone, vescovo di Modena, con Girolamo Seripando e con Lodovico Castelvetro lo ponevano nell’ambito dei riformatori raggruppati sotto la definizione di ‘spirituali’. Grazie all’appoggio di Castelvetro e di Francesco Robortello (con il quale si sarebbe in seguito ferocemente scontrato!), nel 1552 otteneva il posto di lettore nella Scuola di San Marco a Venezia, che avrebbe tenuto sino al 1560. Fu il periodo nel quale egli si dedicò totalmente alla storia romana, subendo contemporaneamente l’influsso aristotelico patavino. Nel 1560, grazie al tipografo Giordano Ziletti, Sigonio dava alla luce il De antiquo iure civium Romanorum. Nell’autunno 1566 finalmente metteva piede nella Roma da lui tanto studiata, ma subendone uno sgradevole impatto. In una lettera a Pier Vettori si lamentava della «mala stagione dell’aere» (cit. in McCuaig 1989, p. 59) – la città era nel mezzo dell’Agro, paludoso e malarico – e, per soprammercato, confessando a Fulvio Orsini di essere stato «in tanta colera fin qui» (p. 59 nota), evidentemente deluso nelle sue aspettative alla corte papale.
Quando Gabriele Paleotti, suo amico di gioventù, nel 1566 divenne cardinale e vescovo di Bologna, gli venne affidato il compito di scrivere la storia della città felsinea, parte di un più ampio progetto da lui coltivato di una storia del Regnum Italiae. L’Historia bononiensis fu rapidamente edita, tra il 1570 e il 1571, in forma annalistica, conducendo la narrazione sino al 1267. Il suo rigore e la sua obiettività gli suscitarono contro feroci polemiche, che giunsero sino a Roma: non si accettava che fosse negata la leggenda della fondazione della città e della sua Università da parte dell’imperatore Teodosio II e di san Petronio. Peggio ancora, gli strali si addensarono su di lui quando scrisse in un inciso, a proposito della donazione costantiniana, «ut a piis hominibus creditur» (e fu costretto a una sorta di ritrattazione impostagli dal cardinale Guglielmo Sirleto). Già in quello stesso 1571, parlando dei primi due libri del De Regno Italiae, scriveva con una punta di orgoglio a Giovanni Falloppia, il 18 aprile «ora voglio che il mondo abbia per risposta sei libri dell’istoria di Bologna et otto di quella d’Italia» (cit. in McCuaig 1989, p. 66 nota). La sua fama aveva presto valicato le Alpi: l’anno prima gli aveva fatto visita il giurista Claude Dupuy, del Parlamento di Parigi, e tre anni più tardi lo sarebbe venuto a incontrare Jacques-Auguste De Thou, intrattenendosi più giorni con lui.
Nel 1574, Sigonio pubblicava il suo De Regno Italiae, per i tipi del veneziano Giordano Ziletti. Nonostante l’elezione al soglio del giurista bolognese Ugo Boncompagni e la formazione di una compagnia di patrizi fondatori della Societas typographiae bononiensis, la scelta di un editore veneziano (forse proprio dopo l’ostracismo decretato alla sua Historia bononiensis) fu dettata dalla precauzione di evitare i controlli inquisitoriali romani. Se la sua opera fu presto riproposta oltralpe, lo si dovette all’appoggio di Gian Vincenzo Pinelli e di Jacques Dupuy (McCuaig 1989, p. 7).
Nella sua trattazione, che arriva fino al 1200, egli descrive l’Italia longobarda e la libertas comunale, il conflitto che oppose i Comuni del Nord al tentativo di egemonia imperiale di Federico Barbarossa alla dieta di Roncaglia (1158), e appare ingiusto il giudizio di Eduard Fueter (1911; trad. it. 1970, p. 170), il quale afferma che in Sigonio sono completamente assenti punti di vista storici. Ciò non spiegherebbe come mai Ludovico Antonio Muratori lo considerasse alla pari di Cesare Baronio (anzi lo opponesse a questi) e si facesse promotore, con la Società Palatina di Filippo Argelati, dell’edizione degli Opera omnia nel 1732 (cfr. Bertelli 1960, p. 272 e passim).
Certo, l’Italia della quale Sigonio intende narrare la storia non è più quella di Machiavelli e di Guicciardini. Mentre il loro orizzonte si estendeva all’intera penisola ed era centrato sulla contemporaneità, l’attenzione di Sigonio è spostata sulla formazione del Regno, un regno altomedievale dell’Italia del Nord. Se il Reame di Napoli è scomparso dalle pagine di Sigonio, ciò non toglie che la sua visione della formazione del Regno non sia sorretta da un’idea ‘imperiale’, che riduce al tempo stesso l’incidenza del papato. Nell’introduzione, Sigonio dichiara la volontà di scrivere una storia della libertà d’Italia, avendo la consapevolezza di essere il primo a fornire, rispetto a Biondo Flavio e a Sabellico, un’interpretazione nuova di come si fosse venuta formando la nuova entità statale:
Estinta la romana virtù, il regno fu soverchiato da estere nazioni, longobardi, franchi, germani. I longobardi lo istituirono, i franchi lo accrebbero, i germani lo addolcirono con opportune leggi e dandogli la libertà (De Regno Italiae, cit., libro I, p. 7).
Nel 1578 sembrò che venisse a lui conferito l’incarico di scrivere una Historia ecclesiastica per replicare alle Centurie di Magdeburgo. Nel novembre del 1580 si rivolgeva a Baronio, proponendosi – senza successo – come collaboratore e inviandogli in lettura la stesura dei primi tre libri della sua storia. Finì, al contrario, nell’incorrere nelle censure romane (cfr. Prodi 1977).
La sconfitta degli spirituali, l’imprigionamento di Morone in Castel Sant’Angelo (su questo v. Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, a cura di M. Firpo, D. Marcatto, 6 voll., 1981-1995) sotto il terribile pontificato Carafa furono tutti elementi a lui avversi e la persecuzione continuò anche dopo la scomparsa di Paolo IV (McCuaig 1989, pp. 251 e segg.). Una lettura riduttiva del ruolo della Chiesa operata sia nel De occidentali imperio sia nel De Regno Italiae non poteva piacere a Roma, sicché Sigonio fu il primo autore di questa nuova storiografia a conoscere l’occhiuto controllo inquisitoriale.
Dopo di lui, nuove esperienze sarebbero subentrate, di segno opposto. Benché avesse dato le sue prime prove di studioso proprio con un commento ai Fasti (1558), è difficile riconoscere nell’agostiniano veronese Onofrio Panvinio (1530-1568) un continuatore, anche se autore di un Chronicon Ecclesiasticum a C. Iulii Caesaris dictatoris imperio usque ad imperatorem Caesarem Maximilianum II Austrium (1568). Ma Panvinio si manifesta sopra a tutto con un apologetico De primatu Petri et Apostolicae Sedis potestate libri tres contra Centuriarum auctores (1589) un testo che aprì la polemica contro le luterane Centurie di Magdeburgo. Può ricondursi a questo ambito il suo studio sulle basiliche cristiane (De praecipuis urbis Romae sanctioribusque basilicis quas Septem Ecclesias vulgo vocant, 1570), alla ricerca di un cristianesimo primitivo.
Ancor più difficile trovare delle consonanze tra il De Regno e l’Historia sacra (1570) di Girolamo Muzio (1496-1576), scritta proprio con il proposito di confutare la «diabolica gramigna» sparsa dai Centuriatori (cfr. Bertelli 1973, pp. 61-64).
A parte Muzio e Panvinio, bisogna riconoscere che questo nuovo corso si apre con un sogno. Il 22 maggio 1607, deponendo al processo di beatificazione di Filippo Neri, Baronio testimoniava:
Nel principio che cominciai a ragionare nell’Oratorio, parlava sempre di cose spaventose, come di morte, inferno et giuditio. Il che dopo haver fatto per qualche tempo, mi disse il beato padre, che non ragionassi più di simil materia, ma che pigliassi a raccontare l’historia ecclesiastica; il che, più volte, in diversi tempi mi replicò et comandò. Con tutto ciò, paredomi un poco duro et cosa contraria al mio genio, il Signore una notte, mi fece sapere che questa era sua volontà. Mi pareva ragionare con Onophrio Panvinio, il quale all’hora, componeva alcune storie ecclesiastiche, et, ragionando insieme, io lo pregavo, che volesse seguitare a dare componimento all’historia ecclesiastica; et mentre dicevo questo, mi pareva detto Onophrio non mi volesse ascoltare; et volendo io seguitare il mio ragionamento, sentii, sensibilmente et distintamente, una voce, che disse: “quietatevi Baronio et non vi affatigate più in questo vostro ragionamento, perché l’historie ecclesiastiche l’havete a far voi”. Et questa mi parve la voce del beato padre, et così l’ho sempre tenuto (in G. Incisa della Rocchetta, N. Vian, Il primo processo per San Filippo Neri, 2° vol., 1963, pp. 292-99).
Come si capisce, siamo su una lunghezza d’onda totalmente nuova. Si è persa la laicità dei fiorentini, non abbiamo più la loro passione politica, nemmeno l’indipendenza di giudizio di Sigonio: siamo alla consacrazione del sacro.
Dedicati a Sisto V, gli Annales ecclesiastici (1588) sono una poderosa risposta ai Centuriatori, definiti nell’Apparatus premesso all’opera
innovatori del secol nostro, ignoti ai più, bestemmiatori […] si dichiararono raccoglitori di fatti storici degli antichi a nient’altro spinti che a raccogliere falsità, ostacolando l’accesso a noi aperto, impedendo la via maestra, […] a null’altro impegnati che a innalzare al cielo una nuova torre di confusione, se lo potessero, che contro Dio e i santi combattesse, costruendola avvolti da cieco furore.
Baronio morirà nel 1607. Farà appena in tempo a intervenire, assieme a Roberto Bellarmino, nel profondo rivolgimento che l’interdetto di Paolo V avrebbe causato nel pensiero storico del nuovo secolo. Al di là della controversia giurisdizionale, resta comunque il riconoscimento che l’eredità lasciata da Baronio rappresentò un formidabile aiuto all’impianto controversistico suscitato dall’impresa magdeburgense.
Quale fosse il suo anelito religioso, ossia il proposito di un ritorno alle origini, lo denota un episodio, sia pur marginale, ma che rientra nel fervore degli studi sulla Chiesa paleocristiana che la scoperta delle catacombe di Santa Priscilla, nel maggio del 1578, aveva esaltato (san Filippo Neri e Carlo Borromeo passavano ore e ore, talvolta la notte intera, in preghiera nelle catacombe di San Sebastiano, per accostarsi agli antichi martiri e alla Chiesa delle origini). Cardinale del titolo di Nereo e Achilleo, a Santa Sabina, sulle orme di Panvinio, Baronio volle ricostruire la struttura della basilica, riportandola alla forma primitiva. Così, spostò la collocazione dell’altare, rivolgendo l’officiante verso gli astanti, senza tener conto dell’orientamento del tempio, mentre in realtà l’officiante avrebbe dovuto rivolgersi non già ai fedeli, ma in direzione del sorgere del Sole (oriens Augusti).
Nel 1597 papa Clemente VIII Aldobrandini aveva scomunicato Cesare d’Este impadronendosi del ducato di Ferrara; nel 1605 Genova si era piegata alle minacce d’interdetto per alcuni provvedimenti che la Repubblica aveva preso a proposito di confraternite laiche e di un oratorio. La tracotanza della curia era dunque giunta al culmine.
Nell’estate di quello stesso 1605, il Consiglio dei Dieci di Venezia aveva ordinato l’arresto del canonico vicentino Scipione Saraceni, accusato di atti ingiuriosi dalla nipote; nell’ottobre, era stata la volta dell’abate di Neversa Marc’Antonio Brandolin, accusato questa volta da un nipote di omicidio. Camillo Borghese, appena assurto al trono pontificio con il titolo di Paolo V, forte dei precedenti successi, aveva deciso di cogliere l’occasione per aprire un contenzioso anche con la Serenissima, colpevole, in realtà, di aver appoggiato Enrico IV di Borbone, di aver simpatizzato con le Provincie Unite d’Olanda ribelli alla Spagna, di aver allacciato, nel 1603, rapporti diplomatici con l’Inghilterra. Non solo il papa pretendeva la consegna dei due sacerdoti, ma vi aggiungeva la richiesta di abrogazione di due leggi che subordinavano la costruzione di nuovi edifici di culto e luoghi pii all’approvazione del Senato, e di una terza relativa al diritto di prelazione degli ecclesiastici sui beni enfiteutici. Era una palese intrusione nella sovranità della Repubblica. Al contrario di Genova, Venezia non si piegava alle minacce del papa e all’inizio di gennaio veniva eletto al dogado Leonardo Donà, esponente degli intransigenti. Si giungeva così all’ultimatum del 17 aprile, alla scomunica del Senato e all’interdetto dello Stato veneziano (che comportava la sospensione dell’amministrazione ai fedeli dei sacramenti). Ma Roma non si sarebbe aspettata di incontrare, questa volta, una decisa opposizione. Il 28 gennaio 1606 il Senato assumeva il servita Paolo Sarpi come teologo-canonista, affidandogli l’arduo compito di controbattere le tesi romane.
Iniziava così quella «guerra delle scritture», come l’avrebbe definita l’ambasciatore francese a Venezia Philippe Canaye de Fresnes (Cozzi 1959, pp. 27 e segg.). Una guerra alla quale presero parte con veemenza i cardinali Bellarmino e Baronio, e il carmelitano Giovanni Antonio Bovio (Risposta alle considerationi del Padre Maestro Paolo da Venetia, sopra le censure della Santità di papa Paolo Quinto contra la Repubblica di Venetia, 1606). Il libello (ché di libello davvero si tratta) di Baronio (Paraenesis ad Rempublicam Venetam, 1606) era di inusitata violenza:
voi havete errato, poiché primamente havete fatto leggi contra le persone sacrate a Dio, e perciò a voi non soggette; e di poi l’havete fatte contra luoghi sacri e cose sacre cioè contra beni dedicati a Dio, e finalmente havete in tutto gittato a terra le ragioni sacre, per stabilire le vostre, e di vero non senza gran pericolo di macchiare la candidezza della fede cattolica nel confondere, anzi spiantar l’ordine hierarchico da Dio anticamente nell’istessa Chiesa Cattolica instituito […] Voi anche havete stracciato la tonica di Christo nel Romano Pontefice, e fattala in pezzi con tante rotture, quante arroganti disubidienze havete mostrato (dell’opuscolo esistono moltissime edizioni a testimonianza della diffusione capillare operata dalla Santa Sede; qui si cita da Essortazione dell’illustrissimo et reverendissimo card. Baronio […] alla repubblica di Venezia, tradotta dalla latina nella volgar lingua da Francesco Serdonati fiorentino, 1606, pp. non numerate).
Quanto a Bellarmino, va notato come Sarpi fosse spinto a porre mano, tra il 1610 e il 1611, a un trattato che avrebbe avuto per titolo Della potestà de’ principi, a difesa del giurista scozzese William Barclay e del suo De potestate papae an et quatenus in reges et principes seculares ius et imperium habeat contro l’attacco del cardinale (Tractatus de potestate Summi Pontificis in rebus temporalibus).
Non seguiremo qui le varie fasi della polemica (l’interdetto fu tolto grazie alla mediazione del cardinale François de Joyeuse, nell’aprile 1607), ma quella che va posta in risalto è la svolta storiografica che si operò in Sarpi, grazie ai rapporti personali ed epistolari stabiliti, nel crogiolo della «guerra delle scritture» tra il 1607 e il 1610, con corrispondenti gallicani e protestanti (in particolare con il cappellano dell’ambasciata inglese a Venezia, William Bedell, e nel carteggio con l’ambasciatore sir Dudley Carleton). Si trattò di un triennio «fondamentale per tutta la sua vita» comprensibile solo «nel quadro dei rapporti con gli uomini d’oltralpe» con i quali fu in corrispondenza e che avrebbero dato
alla sua visione politica quella straordinaria ampiezza di orizzonti e di interessi, quella solida conoscenza dei problemi dello stato moderno, ad arricchire la sua cultura storica, giuridica e scientifica: soprattutto ad incidere sulla sua posizione religiosa, ad approfondire la crisi, risolvendola poi con l’accoglimento di nuove prospettive e di nuove idealità, spalancandogli un mondo nuovo, che gli faceva sentire più soffocante, più viziata, la vita italiana (Cozzi 1969, pp. 226-27).
Il maggior frutto di questa profonda esperienza fu la Istoria del concilio tridentino (1619), una «Illiade del secol nostro», come volle definirla lo stesso Sarpi nell’introdurre all’opera, apparsa a Londra presso il tipografo John Bill, sotto lo pseudonimo di Pietro Soave Polano (cfr. Yates 1944).
Certo, su Sarpi grava il giudizio di Hubert Jedin, il massimo storico del Concilio a noi contemporaneo: il servita sarebbe stato «una mente politica», ma come storiografo «inattendibile» (Il Sarpi storico del Concilio di Trento, «Humanitas», 1952, pp. 495-504). Un’affermazione drastica, ma forse ingenerosa. Sin dalla giovinezza, nei quattro anni che Sarpi fu a Mantova (1570-74) nella sua doppia veste di teologo del duca Guglielmo Gonzaga e di lettore di teologia positiva per il vescovo Gregorio Boldrini, egli aveva accarezzato il progetto di stendere una storia del Concilio e avuto modo di intervistare a lungo Camillo Olivo, già segretario del cardinale Ercole Gonzaga, legato pontificio a Trento e, infine, presidente della stessa assemblea. A Venezia, poi, dove si trasferì nel 1575, egli ebbe modo di conoscere l’ambasciatore Arnaud du Ferrier, che era stato l’inviato francese al Concilio, avverso alla curia romana e infine passato al calvinismo (cfr. Chabod 1967). Dunque, aveva avuto ampie informazioni e accesso a documenti riservati (gli arcana imperii, li avrebbe definti il libertinismo erudito: «Le posizioni manifestate dagli scritti privati di Sarpi appartengono a pieno titolo a quella costellazione culturale definita ‘libertinismo’ da Campanella e da Garasse»: V. Frajese, Sarpi scettico. Stato e Chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento, 1994, p. 49), che potevano sorreggere la sua ricostruzione politica di quegli eventi, ed è proprio in questo ritorno alla passione politica (ovviamente nelle forme che il primo decennio del Seicento consentiva, nella temperie religiosa imperante) l’importanza della sua opera storiografica.
Il proponimento mio è di scrivere l’istoria del concilio tridentino, imperò che, quantunque molti celebri storici del secol nostro nelli loro scritti abbiano toccato qualche particolar successo di quello, e Giovanni Sleidano [Johann Philippson di Schleiden, autore dei Commentarii de statu religionis et rei publicae Carolo V Caesare imperatore commentariorum libri XXVI, 1555, sui quali si sarebbe basato lo stesso Sarpi] diligentissimo auttore abbia con esquisita diligenza narrato le cause antecedenti, nondimeno quando bene fosser tutti raccolti insieme, non si comporterebbe un’intiera narrazione. Io, immediate che ebbi gusto delle cose umane, fui preso da gran curiosità di saperne l’intiero […] Racconterò le cause e li maneggi d’una convocazione ecclesiastica, nel corso di 22 anni, per diversi fini e con vari mezzi, da chi procacciata e sollecitata, da chi impedita e differita, e per altri anni 18 ora adunata, ora disciolta, sempre celebrata con vari fini, e che ha sortito forma e compimento tutto contrario al dissegno di chi l’ha procurata et al timore di chi con ogni studio l’ha disturbata: chiaro documento per rasignare li pensieri in Dio, e non fidarsi della prudenza umana (P. Sarpi, Istoria del concilio tridentino, cit., libro I, Dissegno dell’autore).
Quella passione politica che aveva animato, a vario titolo, gli storici fiorentini, si era trasformata adesso in passione religiosa, in anelito di riforma. Sarpi e il suo confratello, amico e collaboratore, fra Fulgenzio Micanzio, guardavano all’Olanda, al sinodo di Dordrecht, parteggiando per i gomaristi, più rigidi nell’ortodossia, opposti agli arminiani di stampo irenico-erasmiano.
Tutto ciò sarebbe divenuto presto palese sotto la penna intinta di veleno del cardinale Pietro Sforza Pallavicino (Lettera a chi legge, in Istoria del concilio di Trento, 1664, pp. non numerate), impegnato nel 1651 a contrapporre al lavoro sarpiano una nuova Istoria del concilio di Trento (1656-1657) contestando le critiche che in esso venivano rivolte al papato. La risposta a Pietro Soave Polano veniva ristampata nel 1654, dedicata a papa Alessandro VII, con una prefazione che spiegava come, dopo il primo successo della sua opera, l’autore potesse mettere da parte gli scrupoli della precedente stesura:
cessa il pericolo che l’accresciuta cultura cagioni sterilità di frutto nell’opera con diminuirne la fede e nasce fidanza che la sua vita sia per distendersi alla posterità, alla quale si dee scrivere con dicitura molto diversa da quella che habbia rispetto solo all’età presente. Quindi è che [all’autore] siasi riconsigliato di slontanarsi più che non fece nel primo suo lavorio da quella foggia di lingua che s’usa in lode delle lettere de’ segretarij, e nelle dicerie di pubblici favellatori.
Quanto alla lingua, se l’autore ha scelto il toscano, lo è stato per il livello da esso raggiunto in Petrarca, Boccaccio e… frate Iacopo Passavante «con fine d’esser letto e gradito dalla posterità».
Libero dunque da remore, dopo aver ricordato come si dovesse all’apostata Marcantonio de Dominis, arcivescovo di Spalato, la stampa in Inghilterra, con dedica a un re eretico, dell’opera di Pietro Soave Polano, Pallavicino in un certo senso scopre le carte, chiamando in causa il Micanzio, pur senza curiosamente mai chiamare con il suo vero nome l’autore:
L’Istorico di cui si parla, non solo ha professata la Religione Cattolica, osservando i riti di essa; anzi l’ha insegnata nelle cattedre, l’ha predicata ne’ pulpiti, e menando tutta l’età in un Ordine Regolare, non pure ha ricevuti, ma esercitati ed amministrati i Sacramenti della Chiesa. E nella vita di lui, composta dal suo più intimo ed amorevole allievo, si narra che la sua lingua era tutto zelo in difesa della Fede Romana. Adunque o egli così credeva o pur s’infingeva, Se veramente credeva, qual maggiore empietà che scriver un libro tutto in discredito di quella fede? […] preponendo quasi sempre gli argomenti de’ tedeschi luterani a quelli de’ Padri tridentini. Onde non ha saputo un ribello della Religione Cattolica offerir più caro don di questo ad un Re protestante, il quale impiegava per l’eresia non men la penna che lo scettro. Ma da un tal sospetto d’haver’egli impugnata la Fede Cattolica co’ libri mentre la custodisse nell’animo, riman liberato evidentemente dalle sue lettere intercette ch’erano indirizzate a Castrino ugonotto in Francia [il calvinista Francesco Castrino], o scritte di sua mano, o con indizi e prove efficaci riconosciute per sue e per tali comunicate al pontefice Paolo V da Roberto Ubaldini suo nunzio in quel regno (Istoria del Concilio di Trento, cit., p. 5).
Il 18 febbraio 1551 il duca di Gandìa Francesco Borgia donava alla Compagnia di Gesù una casa, alle pendici del Campidoglio, per impiantarvi una scuola di materie umanistiche, latino, greco e più tardi ebraico, nonché teologia, filosofia e matematica. Era il primo nucleo di un’attività educatrice che nel 1582-84 avrebbe trovato una più ampia sede in un palazzo progettato da Bartolomeo Ammannati e sponsorizzato dal cardinale nipote Filippo Boncompagni: il Collegio romano.
La Ratio studiorum (1599) vi avrebbe istituito quattro ordini di insegnamento: grammatica, umanità, retorica e dialettica, mentre Antonio Possevino provvedeva a delineare quale dovesse essere il bagaglio culturale dell’uomo cattolico, con la Bibliotheca selecta qua agitur de ratione studiorum in historia, in disciplinis, in salute omnium procuranda (1593). A tracciare i confini della controversistica cattolica si era aggiunto Bellarmino con le Disputationes de controversiis christianae fidei adversus huius temporis haereticos (3 voll., 1586-1593). Con ciò il quadro egemonico che i gesuiti si assegnavano era ben delineato. Una Monarchia Solipsorum (1645), come denunciava Melchior Inchofer (1584-1648; cfr. Spini 1983, pp. 238-41)?
Certo questi solipsi sarebbero stati presto in grado di autorappresentarsi, divulgando la propria storia. Lo avrebbe fatto Nicolò Orlandini (1554-1606), autore di una Historia Societatis Jesu (1615), affidandosi esclusivamente a fonti della Compagnia, accomunando eretici e detrattori di parte cattolica. Fueter lo giudicò «un entusiasta» e la sua narrazione (di nuovo in forma annalistica, stesa in un perfetto latino umanistico) percorsa da «una forte corrente di ardente vita interiore» (1911; trad. it. 1970, p. 367). Focalizzandosi sul proprio Ordine, con Orlandini si usciva dai precedenti schemi della controversistica baroniana. Fu un’apologetica che avrebbe contagiato anche gli altri ordini religiosi, spronandoli a scrivere a propria volta le loro vicende particolari.
Ma il Collegio romano fu qualcosa di più di quella che potremmo considerare una riforma dell’insegnamento rispetto all’università medievale. Esso fu presto il centro verso il quale far affluire tutte le informazioni provenienti dai missionari della Compagnia, sparsi dall’Estremo Oriente alle Americhe.
Giampietro Maffei (1533-1603) fu il primo e più pieno prodotto di questa finestra sul mondo, con una prolissa storia delle Indie orientali, centrata sull’espansione coloniale portoghese, in Asia e in Africa, dove, negli ultimi due libri, pubblicò le trascrizioni di trentadue lettere e relazioni inviate alla Casa madre dai gesuiti missionari, primo fra tutti, da Goa, Francesco Saverio (Historiarum Indicarum libri XVI, 1588; trad. it. Le Istorie delle Indie orientali, a cura di F. Serdonati, 1826-1827). Sulla sua scia si pose il ferrarese Daniello Bartoli (1608-1685) entrato sin dalla giovinezza nella Compagnia con l’anelito del missionario. Il suo destino sarebbe stato invece del tutto diverso. Dopo un periodo di successo come predicatore, nel 1650 il generale Vincenzo Carafa lo nominava storico ufficiale. Le prove del suo talento le aveva dimostrate con l’operetta L’uomo di lettere difeso ed emendato (1645) e con la stesura della biografia dello stesso Carafa (Della vita del padre Vincenzo Carafa, settimo Generale della Compagnia di Gesù, 1651), prendendo a modello Pedro de Ribadeneira, biografo del Loyola (Trattatisti e narratori del Seicento, 1960, pp. 315 e segg.; Renaldo 1979). Spronato dal suo generale a tramandare le imprese dei gesuiti nel mondo, dalla sua stanza al Collegio romano, lui sedentario, viaggiò con la fantasia per l’intero orbe terraqueo, attraverso la lettura dei dispacci dei confratelli. Nacque così la sua grande opera in folio, l’Istoria della Compagnia di Gesù, suddivisa per aree geografiche: Dell’istoria della Compagnia di Gesù. La prima parte, L’Asia (1653), Il Giappone (1660), La Cina (1663); La prima parte dell’Europa, l’Inghilterra (1667), l’Italia (1673). I suoi riferimenti furono di nuovo il Ribadeneira, compilatore di una Bibliotheca scriptorum Societatis Iesu (1602) condotta da Philippe d’Alegambe sino al 1642, e, particolarmente per l’Inghilterra, proseguita sino al 1676 da Nathaniel Bacon Southwell. A essa affiancò la Bibliotheca selecta del Possevino.
Maffei aveva voluto trasferirsi a Lisbona, «sedia del re del Portogallo», per essere capace di intervistare i protagonisti dell’espansione coloniale; a Bartoli bastò viaggiare attraverso gli occhi dei suoi confratelli missionari. Mentre Maffei aveva privilegiato la cronaca, dando spazio agli scontri armati, Bartoli puntò sulle note di colore, sulla descrizione del modus vivendi (si leggano le pagine dedicate al viaggio marittimo, nella sezione sul Giappone, visto come una prova soprannaturale alla quale è sottoposto il padre Marcello Mastrilli), sui costumi dei popoli visitati, esaltando l’eroismo dei primi padri missionari, con una lunga descrizione morbosa dei tormenti inflitti ai cristiani, e con l’ampio spazio riservato alla missione di Francesco Saverio che, in punto di morte, incita alla penetrazione in Cina, cui è riservata una particolare ammirazione. Nel descriverla, si appoggia ai commentari di Matteo Ricci (1552-1610) e ad Alvaro Semedo (1585/1586-1658). Confucio, descritto come colui che «lasciò come forma del perfetto vivere virtuoso il perfetto esemplare della moralmente virtuosa sua vita», è visto come il «ristorator delle lettere». Siamo alle fonti dei riti malabarici che tanto scandalo avrebbero suscitato quando ne giunse notizia in Europa, denunciati da François-Jacques-Hyacinthe Serry (Difesa del giudizio formato dalla S. Sede Apostolica nel dì 20 novembre 1704 e pubblicato in Nankino dal card. di Tournon alli 7 febbrajo 1707, intorno a’ riti e cerimonie cinesi, 1709).
Siamo in pieno Seicento, tempo di streghe e di roghi, e Bartoli non tralascia di annotare la presenza di Satana, di dar credito a certe fantasiose relazioni missionarie, come la storia del cieco Tobia, saggio cristiano, «vincitore degli incantesimi de’ Giambusci», narrata ancora nella sezione sul Giappone. Senso dell’immaginifico, del soprannaturale, fanatismo e torbidi compiacimenti mistici sono sparsi a piene mani nella biografia del padre Mastrilli, chiamato da forze celesti alla propria missione e al martirio in Giappone.
In ogni avvenimento il nostro gesuita vide la mano di Dio, eppure, volle sempre coscienziosamente documentarsi. Quando arrivò a trattare dell’Inghilterra, la sua fonte primaria fu Henry Moore (Historia missionis anglicanae Societatis Jesu ab anno salutis 1580 ad 1619, 1660), ma volle ampliare la propria documentazione andandosi a leggere il De republica Anglorum (1583) di Thomas Smith, segretario di Stato sotto Elisabetta, consultò i Concilia decreta, leges, constitutiones in re ecclesiarum orbis Britannici (1639-1664) di Henry Spelman, The chronicles of England (1580) di John Stow (1631-1632), i Rerum Anglicarum Henrico VIII, Eduardo VI and Maria regnantibus di Francis Godwin (1616; cfr. Renaldo 1979, pp. 56-57), mentre per l’Italia si affidò sopra a tutto a Sforza Pallavicino. Sedentario, si spense serenamente nella sua stanzetta al Collegio romano, chiudendo la finestra che per tanti anni aveva tenuto aperta sul mondo. Maffei e Bartoli avvicinarono l’uomo europeo a popoli e costumi che sino ad allora aveva ignorato.
Ospite anch’egli nel Collegio romano, a sua volta Athanasius Kircher (1601-1680) offriva una China monumentis qua sacris et profanis […] illustrata (1667), contemporaneamente impegnato in una cervellotica decifrazione dei geroglifici egizi, quando, senza attendere Jean-François Champollion e la stele di Rosetta, la decifrazione sarebbe stata a portata di mano, sol che si fosse ricorsi ad Ammiano Marcellino (Storie, libro XVII, 4) e alla sua trascrizione dell’obelisco del Circo Massimo!
Nell’aprile 1566 i delegati del «compromesso dei nobili» (una comunità di membri della piccola nobiltà) si presentavano a Margherita di Parma, figlia di Carlo V (e dunque sorellastra di Filippo II e moglie infelice di Ottavio Farnese), nominata dal padre governatrice dei Paesi Bassi. Si dichiaravano «pezzenti» (gueux), per come erano stati ridotti dalla fiscalità spagnola. Colpiti dalla predicazione luterana, chiedevano in particolare l’abolizione dell’Inquisizione e degli editti contro gli ‘eretici’. Al contrario, l’anno successivo, nell’agosto, quando Margherita venne sostituita nel governo dal duca d’Alba, costui volle instaurare contro i ribelli un regime di ferro, spedendo al patibolo uno dei loro più eminenti esponenti, il conte di Egmont. Fallita la politica del duca, egli venne sostituito da don Luis de Requesens, quindi dal fratello del re don Giovanni, anch’egli però incapace di dominare una rivoluzione che era divenuta al tempo stesso religiosa e sociale. Giovanni morì nell’ottobre del 1578 e Filippo nominò suo successore Alessandro Farnese, il figlio trentenne di Margherita. Diversamente dal duca d’Alba, la sua fu una politica lungimirante: espulsi i predicatori calvinisti, la sottomissione assicurò alle città gli antichi privilegi. Ovvio che quel periodo di governo dei Paesi Bassi fosse avvertito da Alessandro come un momento cruciale della sua vita. Fu così che, divenuto duca di Parma, egli affidò al gesuita Famiano Strada (1572-1649) l’incarico di stendere una storia della rivolta dei Paesi Bassi, condotta dal 1555 al 1590, le De bello belgico decades duae (stampate a Roma nel 1632), mettendogli a disposizione la propria documentazione.
Quei tragici sconvolgimenti, che spostavano il conflitto dalla penisola italica ai Paesi Bassi, produssero un nuovo modo di fare storia. Un primo grande affresco di quelle vicende era stato steso, su incarico degli Stati Generali, da Ugo Grozio (Huig van Groot), con gli Annales et historiae rebus belgicis, apparsi postumi ad Amsterdam nel 1657. Un lavoro sostenuto dalla professione arminiana del loro autore, circostanza che lo portava a sottovalutare il fanatismo religioso delle masse calviniste.
Una posizione aristocratica che fu condivisa da Enrico (o Arrigo) Caterino Davila nel momento in cui si accingeva a stendere una Storia delle guerre civili di Francia (1630), in cui si ricostruiva la lotta tra cattolici e ugonotti, fino alla pace di Vervins (1598). Davila, patavino, figlio del connestabile del regno di Cipro, durante l’occupazione turca era fuggito con i genitori ed era vissuto alla corte francese, affidato, ultimo di nove fratelli, alla sorella maggiore Margherita, dama d’onore di Caterina de’ Medici. Creato a dodici anni paggio della regina, fattosi uomo era divenuto uomo d’armi sotto Henri de Bourbon Vendôme e, come tale, aveva partecipato all’assedio di Laon e, nel 1597, a quello di Amiens. Scosso dai convulsi avvenimenti, tra il 1598 e il 1599 scrive Il theatro del mondo e, rimasto senza incarichi militari, rientra in Veneto, vivendo il periodo dell’interdetto e allestendo una compagnia di trecento fanti per la Repubblica di Venezia. Nel 1609 ottiene il governo di Tine e la sovrintendenza delle milizie del Bellunese; nel 1618 viene nominato governatore di Cattaro, nel 1623 di Zara, per poi trasferirsi a Padova. Nel 1630 esce a Venezia, per i tipi di Tommaso Baglioni, la sua Storia delle guerre civili di Francia. Nel 1631 è nominato governatore di Crema, ma il 25 maggio, mentre sta compiendo il trasloco con la famiglia e le masserizie, ha un violento diverbio con chi vi avrebbe dovuto provvedere e in una rissa generale, nella locanda dove alloggia, viene ucciso.
A Strada e Davila presto si aggiunse Guido Bentivoglio, che di quelle vicende era stato anch’egli, come Davila, diretto partecipe, essendo stato nunzio nelle Fiandre dal 1607 al 1615, a Parigi dal 1618 al 1621, prima di essere eletto alla porpora da Luigi XIII come protettore di Francia. Egli era dunque in grado di stendere un resoconto fededegno, che abbracciava più o meno un uguale arco cronologico spingendosi sino al 1609 (Historia della guerra di Fiandra, 1632-1639).
Si aprivano così le porte a una nuova storiografia, tutta politica, fattuale, il cui modello era stato proposto, già in precedenza, da Francesco Sansovino (1521-1586), autore del Supplimento delle croniche universali del mondo di F. Iacopo Filippo da Bergamo (1575), e da Tommaso Porcacchi (1530-1585), autore del Giuditio […] sopra l’historia di M. Francesco Guicciardini gentil’ huomo fiorentino, nel quale di discoprono tutte le bellezze di questa Historia (1574): il modello guicciardiniano, riproposto dall’edizione di Remigio Nannini (1521-1581; La Historia d’Italia […] dove si descrivono tutte le cose seguite dal MDCXLVIII […], 1568). Secondo Porcacchi, quella era addirittura una storia taumaturgica:
il diletto dell’historia ha fin guarito l’infermità dell’animo e del corpo. Testimoni ne sono fra gli altri Alfonso et Ferdinando Re di Spagna et di Sicilia: uno de’ quali dal leggere Tito Livio, et l’altro dall’historia di Q. Curtio recuperarono quella sanità, che per opera de’ medici non havevan potuto. Lorenzo de’ Medici padre delle lettere scrivono parimente, che senz’altra medicina, che dell’historia di Corrado III dalla sua infermità fu fatto sano (Giuditio, cit., c. 14v).
Quel modello, in un certo senso, oltre che da Sansovino e da Porcacchi, era già stato indicato da Paolo Paruta nel secondo libro dei suoi Discorsi politici […] (1599), dove si analizzavano le vicende italiane tra fine Quattrocento e prima metà del 16° sec., avendo attenzione a «Machiavelli, nome già famoso per la curiosità delle materie de’ quali si pòse a scrivere ne’ suoi discorsi, ma che hora condennato dalla Santissima sede Apostolica non è pur lecito di nominare» (p. 416) e a Guicciardini «eccellente historico» (p. 436). Era una rivisitazione storica dell’immediato passato, ponendo al centro del proprio discorso la storia di Venezia. Il primo quesito verteva sulla mancata espansione territoriale della Serenissima, individuata nella sua innata disposizione più «alla pace et a’ negocij mercantili, che all’armi» e dal «non havere ella provato mai alcuno importante travaglio di domestiche discordie», rendendo superfluo
il darsi ordini militari […] quali per l’acquisto di uno grande imperio sarebbono necessarij; percioché, et sin da principio nel suo nascimento attese, come è detto, alle cose di mare, non a fine di soggiogarsi altre città et nationi, ma più tosto, come portava la conditione di quelle cose, et di quei tempi, per occasione et commodità di traffichi, et di utili mercantili, a’ quali tornava commodo il conservare la pace et tenere il commercio aperto et libero con tutti (pp. 374, 384-85).
Non contraddiceva questa scelta, l’essere i veneziani intervenuti a sostegno della ribellione pisana, perché ciò era stato dettato dalla compassione per un popolo angariato e stremato dalla dominazione fiorentina. Sulla base degli stessi principi di giustizia, Venezia aveva insediato Massimiliano Sforza, legittimo duca, su Milano. Ma proprio la «ragion di stato» (ecco un termine nuovo entrare nel discorso politico cinquecentesco) aveva impedito che Milano estendesse il proprio dominio su Pisa (discorso secondo, pp. 402 e 404). Paruta passava poi a discutere (discorso terzo) la rotta veneziana alla Ghiara d’Adda nel 1509, e qui l’analisi verteva tutta sul confronto tra l’irruenza di Bartolomeo d’Alviano e la tardanza nel soccorrere la sua retroguardia di Niccolò Orsini conte di Pitigliano, paragonata al sapiente temporeggiare di Fabio Massimo, il quale aveva evitato lo scontro aperto, estenuando l’esercito cartaginese (pp. 427-31, 494).
Machiavelli è sempre sottinteso, quando non richiamato espressamente. Nel descrivere la discesa di Carlo VIII, Paruta si rapporterà quasi ad verbum all’Arte della guerra: gli italiani, «dinanzi avezzi alle guerre, che si facevano in Italia, con poco valore et con poca disciplina et quasi senza spargimento di sangue, ad uso più tosto di spettacolo fatto per giuoco, che di vera contesa di guerra, convenivano temere l’inusitato incontro de’ Francesi» (p. 451). Uno degli ultimi capitoli tratta della lunga quiete goduta dall’Italia dopo l’incoronazione dell’imperatore a Bologna e il consolidamento al potere di Cosimo I, dovuta, a suo giudizio, all’equilibrio delle forze in campo, imperiali e francesi. Uno degli ultimi discorsi (l’ottavo) è tutto machiavelliano: «Se le fortezze introdotte in uso molto frequente da’ prencipi moderni, apportino commodo et vera sicurtà a gli Stati» (pp. 540-77).
In quegli stessi tempi, per l’esattezza nel 1609, Alessandro Campiglia, vicentino (incerte le date di nascita e di morte), dava alle stampe un dialogo che intitolava La Rotonda, overo Delle perturbationi dell’animo. Dialogo […] nel quale si ragiona de gl’affetti filosoficamente, e dell’arte, colla quale l’oratore ha da perturbare l’animo, ambientando l’incontro di un gruppo di patrizi veneziani nella Rotonda palladiana, e dedicando l’opera al doge Leonardo Donà. Trasferitosi a Venezia, Campiglia sarà accolto in ambienti anticuriali e filofrancesi. Nel 1617 pubblicherà a Venezia Delle turbolenze della Francia in vita del re Henrico il Grande libri X, dedicando il libro a Luigi XIII, ma incontrando un’astiosa demolizione da parte del prete pesarese Omero Tortora (Historia di Francia, 1619) e finendo all’Indice.
Quell’incendio, divampato nelle Fiandre, presto si sarebbe esteso a tutta l’Europa. Il conte Galeazzo Gualdo Priorato (1606-1678), vicentino, ha una vita a dir poco avventurosa. Quindicenne aveva seguito il padre, colonnello della Serenissima, sotto le bandiere dello statolder principe Maurizio Nassau-Orange. Dopo essere stato soldato di ventura in Fiandra, sotto il conte Peter Ernst di Mansfeld, e aver preso parte alla difesa di Breda, nel 1625, all’indomani della sconfitta dei protestanti inflitta dal Wallenstein, a Dessau (aprile 1626), era riparato in Inghilterra per essere quindi all’assedio de La Rochelle. Tornato al servizio del conte Giovanni Maurizio di Nassau, con lui si imbarcava per il Brasile dove contava di combattere i portoghesi, ma giunto alle coste dell’Africa rinunciava all’impresa avendo intanto avuto modo di conoscere la corte di Fez e Algeri. Rientrato in Italia raggiungeva il padre che era stato chiamato al comando della cavalleria a Creta. Dopo una missione diplomatica in Svezia per la Repubblica veneta, si ritirerà a Vicenza (1635-52) trasformandosi in storico e poligrafo. La sua Historia delle guerre di Ferdinando II e Ferdinando III imperatori e del re Filippo IV di Spagna contro Gostavo Adolfo re di Svetia e Luigi XIII re di Francia, successe dall’anno 1630 sino all’anno 1640, dedicata al re di Francia, venne stampata a Venezia dai Bertani in quattro volumi tra il 1640 e il 1651. A essa seguì Il guerriero prudente, dedicato al cardinale Richelieu. Nel 1643 è la volta della Historia della vita d’Alberto Valstein. Carico di onori, Luigi XIV lo nominò maresciallo delle sue truppe in Italia (6 ottobre 1653) e Alessandro VII cittadino romano. Cristina di Svezia, giunta a Roma, lo scelse come suo gentiluomo di camera. Nel 1659, a Venezia, pubblicò la Scena d’huomini illustri d’Italia. Nel 1663 ricevette a Vienna il titolo di storiografo di corte. Nel 1666 giunse a Milano per stampare l’Historia di Francia e la Relatione della città e Stato di Milano, nel 1668 la Relatione della città di Fiorenza, nel 1671 pubblicherà a Vienna una delle sue ultime opere: L’huomo chiamato alla memoria di se stesso e della morte, un commiato dalla vita. Ma farà in tempo a scrivere ancora una Historia di Leopoldo Cesare (3 voll., 1670-1674) e, infine, il Teatro del Belgio (1673).
Con Davila, Bentivoglio e, adesso, con Priorato, la parola passa dunque ai protagonisti. Tra costoro, annoveriamo Girolamo Brusoni (1614 ca.-post 1686), originario di Badia Vangadizza di Polesine. Lasciata Ferrara nel 1633, a seguito di vicende amorose, si trasferisce a Firenze, dove scrive a imitazione di Traiano Boccalini altri Ragguagli di Parnaso (1641). Rientrato a Ferrara, travolto questa volta da vicende finanziarie causate da un congiunto, si fa monaco certosino. Attorno al 1639 va a Venezia, divenendo amico di Ferrante Pallavicino (resterà colpito dalla sua morte tragica sul patibolo) ed entra nell’Accademia degli Incogniti di Giovan Francesco Loredan (cfr. G.F. Loredan, Le glorie degli Incogniti, overo gli huomini illustri dell’Accademia, 1647). Sua nuova prova letteraria sarà il romanzo La fuggitiva (1639). D’animo irrequieto, entra ed esce dalla Certosa di Padova, tanto da suscitare un ricorso del nunzio alla Repubblica. Nel 1644 finisce in prigione per alcuni mesi. Per ingraziarsi la Repubblica, nello stesso anno, ne scrive un panegirico, Le glorie marittime. Appoggiato dagli amici Incogniti, e da Giovan Battista e Carlo Contarini, nel 1656 pubblica la Storia delle guerre d’Italia dal 1635 al 1655, opera che verrà successivamente ampliata nel 1676, e infine, a Torino, nel 1680. Vi si narrano la guerra per la successione di Mantova e del Monferrato, quella di Castro contro i Farnese, le insurrezioni di Napoli e di Palermo, l’assedio di Messina e la guerra di Candia, con una struttura annalistica, ma con diretta esperienza degli avvenimenti, fatta eccezione per gli anni 1627-34, per i quali dipende da Le historie memorabili de’ nostri tempi (1646) di Alessandro Zilioli (cfr. Bertelli 1973). Dal 1671 la preparazione della terza edizione lo vede subire le pressioni della corte torinese perché modificasse le pagine dedicate a Cristina di Francia e Carlo Emanuele II. Per tacitarlo, gli viene versata una patente di 500 ducatoni e conferita la nomina a consigliere e storico di corte. Si trasferirà così a Torino, dove diverrà direttore dell’Accademia reale, da lui stesso istituita. Nel 1673 pubblica, estraendo dalla Historia, ma con nuovi documenti, una Historia dell’ultima guerra tra Veneziani e Turchi (pubblicata prima a Venezia nel 1673, poi a Bologna nel 1676).
A essa si aggiungono Varie osservazioni sopra le relazioni universali di G. Botero (1659), integrate con notizie dell’ultimo sessantennio, avvalendosi delle relazioni di viaggiatori e missionari su Polonia, Russia, le Indie, la Cina, la Persia, la Terra del fuoco e il Cile. Un suo manoscritto, La regina scurtata (ossia scortata), forse commissionatogli dalla stessa regina Cristina di Svezia in sua difesa, si conserva nel Museo Correr.
Tra gli storici del Piemonte seicentesco va ricordato Emanuele Tesauro (1592-1675) con i Campeggiamenti overo istorie del Piemonte (1643), che contiene, fra l’altro, la ricostruzione della Rivolta della fortuna del Piemonte per l’assedio di Casale l’anno 1640, che costituiva, di fatto, una testimonianza diretta della guerra condotta a sostegno della reggente Maria Cristina di Savoia.
Ma Tesauro non si limitò alla storia del Piemonte, volle tornare a Iornandes e alla sua rappresentazione di un Nord vagina gentium. Nel 1453 Enea Silvio Piccolomini aveva scritto un’epitome del De origine actibusque Getarum di Iornandes, intitolandola Historia Gothorum. Era il primo contatto di un uomo del Rinascimento con la storia dei popoli del Nord. Nella sua Istoria d’Europa (apparsa postuma e incompiuta nel 1566) Pierfrancesco Giambullari (1495-1555) avrebbe ripreso Iornandes, parlando di una Scandinavia «sì grande e sì smisurata, quanto è dai liti vandalici sino a dove il popolo di tramontana direttamente le piomba in capo», costretta «per discaricare se medesima di quel soperchio che l’aggrava», a mandare fuori «più volte dagli amplissimi suoi confini eserciti quasi infiniti e moltitudini senza numero». Il tema era ripreso da Étienne Pasquier (1529-1615), avvocato generale della Chambres des comptes sotto Enrico III, nella sua opera Les recherches de la France, in cui risaliva ai propri antenati, al di là e oltre la dominazione romana.
Nei suoi quindici libri Historiarum de Regno Italiae (1574), Sigonio aveva distinto la storia della penisola in due periodi: l’età imperiale e il regno fondato «ab exteris nationibus, Romana virtute iam pridem extincta, Longobardis, Francis et Germanis». Per questo la sua storia principiava dal 565, anno della scomparsa di Giustiniano, «ab adventu Longobardorum et primis italici regni principiis», conducendola sino all’anarchia medievale, quando le città italiane «memorabilia inter se bella gesserunt, gravissimaque seditiones exercuerunt» (la sua storia si arresta infatti al 1199).
A quelle tematiche di Sigonio tornava ora Tesauro, antesignano degli studi altomedievali, con la lussuosa edizione in folio, con rami a piena pagina, Del regno d’Italia sotto i barbari (1644), che precedeva di una decina di anni l’Historia Gothorum, Vandalorum et Langobardorum (1655) di Grozio.
L’opera era dedicata «Alla regale altezza di Carlo Emanuele duca di Savoia, re di Cipri» e offrendola diceva il suo autore:
Come allo stemma de’ patriarchi già da me dato alle stampe per ubidire alla gloriosa memoria di Carlo il Grande; ho inserito gli più famosi principi di questo secolo, così allo stemma de’ pontefici, che vò continuando; necessariamente ho fraposto gli re d’Italia. Ma il secolo di questi re, benché chiaro d’incendi, fu così oscuro di memorie, che dagli storici è chiamato il secolo tenebroso. Il che mi ha stretto a durarvi più accurata fatica; et a compilarne un volume a parte nel nostro idioma; accioché l’Italia specchiandosi dentro se stessa, confronti la malvagità di que’ tempi con la felicità de’ presenti: et principalmente del Regno longobardo, del quale ha Iddio commessa all’Altezza vostra così gran parte.
Quella di Tesauro era una storia che risaliva lontano nel tempo, alla fondazione dei primi regni barbarici,
Popoli usciti dalla Scandia per predar la Europa e regnar nella Italia. […] Svevi, Norvegi; Slavi o Sclavi eran popoli della Scandia sotto i Norvegi, […] Heruli, […] Scyti: Goti che scacciati con gli Heruli dalla Scandia, passarono al Mar Caspio et al Caucaso, et di lì vennero con gli Heruli nella Italia; Hunni, popoli fieri e brutali alla palude Mertide, nati da donne malefiche scacciate dalla Gotia et mescolate con gli Sciti; che vivendo spartiti a centurie come le mandrie di armenti, dalle centurie fur detti Hunni. Vennero nell’Italia con Attila lor re, et al ritorno occuparono la Pannonia, la quale preso altro nome da loro si chiamò Hungheria; Burgundi; […] vari; […] Baioarij o Bavari; […] Rughi o Rugij […]. Franchi, che dalla Franconia passato il Reno presero Marsiglia colonia de’ Greci nella Provenza; indi col buon governo più tosto che con la forza si reser padroni della miglior parte della Gallia transalpina et ne’ tempi di Narsete fur invitati in Italia da’ Goti; Sarmati (Del regno d’Italia, cit., pp. 15 e segg.).
Ecco dalla vagina della Scandia uscire un formidabil ferro, che maneggiato con poco senno, trapasserà le viscere a quegli stessi Romani, che lo sfodrarono. Da quella vasta Regione ferace di huomini feroci, più che di alimenti a nutrirli, traheva il Romano Impero numerosissime e bellicosissime squadre, senza cui radamente moveva l’armi felici […] (p. 19).
Alla fine del primo libro (p. 45) si aggiungevano le Annotationi dell’abbate don Valeriano Castiglione benedettino, istorico della Real casa di Savoia. L’opera si concludeva con il Secondo regno d’Italia sotto i Longobardi (pp. 49 e segg.) e con Alboino, primo re dei Longobardi in Italia (p. 53).
Di nuovo al Medioevo longobardo si trovava a dover far fronte il monaco benedettino dom Benedetto Bacchini, impegnato nella scrittura della storia del monastero di San Benedetto Polirone, in quel di Mantova. Il monastero doveva la propria fondazione alla contessa Matilde, e tornava sotto la sua penna la rivalutazione dei Longobardi. Di Bacchini si era sparsa fama che si fosse imbattuto nel codice del Liber pontificalis dell’Agnello ravennate, con le serie dei vescovi di quella città, ma tardava così tanto a pubblicarlo da far ironizzare su quel progetto l’arcivescovo di Ancira, Giusto Fontanini. In realtà, la pubblicazione dell’opera fu a lungo ostacolata nel timore che riaccendesse polemiche sui diritti della sede episcopale di Ravenna. Fu infine stampata nel 1708 a Modena, per i tipi Capponi, e venne ripresa da Muratori nel secondo volume dei Rerum italicarum scriptores. Ma Bacchini non era solo un monaco erudito, al quale nel 1692 sarebbe stata affidata la cura della Biblioteca Estense. Egli si era assunto il compito della compilazione del «Giornale de’ letterati», avvalendosi del costante appoggio del bibliotecario mediceo Antonio Magliabechi e ben presto trasformandosi in divulgatore dei nuovi lavori eruditi che venivano pubblicando i monaci di Saint Germain-des-Près.
Fu così che fra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio 1683 dom Benedetto ricevette a Parma una cassa di libri, tra i quali era per lui una copia del saggio di Jean Mabillon De Pane eucharistico azymo et fermentato (1674) e l’Histoire des grandes chemins de l’Empire Romain di Nicolas Bergier, che lo stesso Bacchini avrebbe tradotto in latino più tardi. Gli altri volumi avrebbero dovuto essere inoltrati a Magliabechi. Dalla lettera di ringraziamento, assai cerimoniosa, che Bacchini indirizzava al confratello francese, il 4 febbraio, esternando il suo grande compiacimento per il dono (Bacchini a Mabillon, Parmae die 4 februarii 1683, in Correspondance inédite de Mabillon et Montfaucon avec l’Italie, éd. M. Valéry, 1847, pp. 40-41), non si riesce a dedurre se vi fosse stata fra i due una precedente corrispondenza, ma certo un simile invio fa pensare che Mabillon sapesse molto bene a chi stesse indirizzandosi. In questo rapporto, una figura centrale fu proprio quella del bibliotecario di Cosimo III, che lo stesso Mabillon, un giorno, volle definire sua stella polare («Vous étiez comme notre étoile polaire pour ce qui regarde les letters»).
Era da un decennio che Mabillon aveva intrapreso le sue ricerche in archivi e biblioteche, principiando dalle Fiandre, la Borgogna, la Champagne. Come attesta dom Thierri Ruinart (Abregé de la vie de dom Jean Mabillon, 1709, pp. 39-40; Leclercq 1957, 1° vol., p. 97), si muoveva a piedi, qualche volta a cavallo o in vettura. Nell’estate di quell’anno avrebbe compiuto un nuovo viaggio, questa volta in Germania, nonostante le nubi della guerra, la conquista di Strasburgo e l’assedio di Vienna. Il viaggio era stato sponsorizzato, come lui stesso scrisse, «ex voluntate et munificentia illustrissimi J.B. Colberti […] qui ex regia pecunia ad hoc iter ultro ac liberaliter elargitus est». Il successo della missione invogliò a estendere le ricerche alle biblioteche italiane. Scomparso il potente ministro di Luigi XIV, la protezione fu assunta dall’arcivescovo di Reims, Charles-Maurice Le Tellier, il quale, presentando Mabillon al re, sanciva l’ufficialità della missione. Lo avrebbe accompagnato, com’è noto, il confratello dom Michel Germain. Nelle istruzioni, l’arcivescovo li indirizzava a Lione, dal libraio Anisson. Da costui avrebbero ricevuto le necessarie lettere di credito e a lui avrebbero fatto capo, sia per la corrispondenza, sia per l’invio dei libri che fossero riusciti a reperire (Leclercq 1957, 1° vol., p. 298). La prima meta sarebbe stata Milano, da dove avrebbero raggiunto Venezia, per poi spostarsi a Roma e a Napoli. Così iniziava, il 1° aprile, l’Iter italicum (1687).
Il 25 maggio i due benedettini giungevano al monastero di Parma, incontrando Bacchini «noster primus amicus» (Museum italicum, 1687, p. 208). Già il primo numero del «Giornale de’ letterati» del 1687 conteneva la recensione del Museum italicum (pp. 335-40).
Oltre alla grande raccolta di testi inediti, il valore maggiore dell’opera di Mabillon, il libro che lo avrebbe reso famoso, fu senza dubbio il Traité des études monastiques (1692; cfr. Leclercq 1957, 2° vol., pp. 503 e segg.), che rappresentò una pietra miliare nel rinnovamento dell’erudizione di fine Seicento. Era la risposta al pirronismo storico di Armand-Jean Bouthillier de Rancé, abate de la Trappe:
La pena da noi provata nella dilatione di giungere copia di questo utilissimo libro ci è stata ricompensata dalla incredibile soddisfazione provata nel leggerlo, arrivatocene un esemplare donatoci dalla gentilissima consideratione c’ha per noi il cortesissimo e dottissimo autore […] opera la quale dovrebbe essere letta da ognuno che professi la vita ecclesiale, e molto più posta in esecutione per pubblico beneficio della Chiesa, benché scritta a’ soli monaci della congregatione di S. Mauro […] Siamo in questo punto avisati dall’eruditissimo Sig. Magliabechi essergli arrivata la risposta alle oppositioni fatte dall’Abate della Trappa a questo utilissimo libro. Riserbiamo di darne quello sarà di dovere quando avremo ancor noi la buona fortuna che ce ne arrivi copia («Giornale de’ letterati», 1692, pp. 319-32).
Accanto al Traité andrà ricordato, sempre di Mabillon, il De re diplomatica (1681), un trattato sulla critica del testo, che riprendeva l’opera di Daniel Papenbroeck, il Propylaeum antiquarium circa veri ac falsi discrimen in vetustis membranis, apparso in appendice agli Acta Sanctorum aprilis (1675). La difesa del Propylaeum stesa da Bacchini, contro i carmelitani, causò la sospensione del «Giornale», ordinata dall’Inquisizione, nel 1696.
Ricordava Edward Gibbon nella sua autobiografia che nella biblioteca del Magdalen College di Oxford i ripiani lignei degli scaffali si erano incurvati sotto il peso delle edizioni dei padri benedettini di Saint-Germain-des-Prés.
La traduzione italiana degli Etudes monastiques di dom Mabillon, a opera di Nicola Gerolamo Ceppi (La scuola mabillona, 1701, e Gli stimoli mabilloni per muovere li religiosi ad applicare agli studi, 1725) e la diffusione delle opere dei maurini da parte di Bacchini segnarono una profonda svolta negli studi storici italiani.
Non si potrebbe misurare meglio l’influsso esercitato tra noi dalla scuola di Saint Maur, che prendendo a esempio l’impegno del marchese Scipione Maffei, in un certo qual senso loro emulo. Coetaneo di Prospero Lambertini (il futuro Benedetto XIV), del quale fu grande amico, era a Roma in Arcadia a fine Seicento, e nel 1704 era andato volontario con il fratello generale Alessandro, a Donauwörth, durante la guerra di successione spagnola. Ma non era il mestiere delle armi nel suo futuro. Assieme ad Apostolo Zeno e Antonio Vallisneri, a Padova aveva patrocinato la pubblicazione di un «Giornale dei letterati d’Italia» che riprendesse l’iniziativa di Bacchini. Nel 1713 conosceva la fama con la rappresentazione a Modena, il 12 agosto, della Merope, tragedia in versi sciolti sulla vicenda della regina di Messenia (Gasperoni 1955, pp. 183 e segg.). Fu proprio il legame di amicizia con dom Bacchini (pp. 174-76) che lo spinse nella direzione dei padri maurini, convincendolo a intraprendere, a sua volta, un’indagine approfondita sui depositi della Biblioteca capitolare veronese, risultata infruttuosa per Mabillon. Al quale tuttavia non mancò di rivolgersi, informandosi se nel monastero Lobiense, da questi visitato, non avesse per caso rintracciato documenti relativi a Raterio e alla storia veronese, proponendogli di pubblicarli a suo nome a Verona: «non avesse discaro che queste opericciole (che tali le suppongo) fossero stampate qui, ove avrebbero un ottimo luogo in certa raccolta ch’io ora vo mettendo insieme» (cit. in Gasperoni 1955, p. 165).
Convinto il canonico Carlo Carinelli a condurre accurate ricerche in tutti gli armadi, scaffali, scansie, finalmente, nel 1712, era venuto alla luce il fondo dei codici, tanto a lungo cercato. Era tutta la storia di Verona che chiedeva di essere riscritta. Occorreva ripercorrere tutta la serie dei vescovi della Chiesa veronese, rivedere gli statuti e l’origine delle famiglie nobili, magari appoggiandosi alle ricerche di Ottavio Alecchi (1670-1730), un erudito locale in rapporti con Apostolo Zeno, Muratori, Francesco Bianchini (Gasperoni 1955, pp. 107 e segg.). La scoperta rivoluzionò i piani di studio di Maffei, impostando quella che, tra il 1709 e il 1712, concepì come una Bibliotheca Veronensis manuscripta, quasi antesignana dei successivi Rerum italicarum scriptores di Muratori, al quale, occorre riconoscerlo, non mancò di somministrare documenti e testi (pp. 162 e 167). All’abate Antonio Conti, Maffei aveva esposto, il 1° novembre 1714, il progetto da lui coltivato, non senza un qualche orgoglio:
Se Dio mi darà grazia di terminarla, sarà intitolata Bibliotheca Veronensis Manuscripta. Conterrà il catalogo dei manoscritti che sono in Verona, ma fatto in modo e con notizie e riflessioni che forse non avremo catalogo di questo stile. Stordiranno, vi assicuro, gli eruditi in vedere una raccolta di manoscritti che parlando di latini non ha altrettanto il re di Francia, la qual circostanza non bisogna però dire a Parigi, perché si farebbe subito odiosa. Conosceranno da ciò che cosa è l’Italia, mentre tali cose eschìno fuori in una città, dove non si è mai saputo che ci sia pure un codice e dove niente hanno saputo trovare un Mabillon e un Montfaucon. La seconda parte conterrà cose inedite che ho tratto da questi codici, cioè le Complessioni di Cassiodoro e più altre cose che saranno di qualche momento all’erudizione (Epistolario, a cura di C. Garibotto, 1° vol., 1955, pp. 199-200).
La progettata Bibliotheca non vedrà mai la luce, non riuscendo Maffei a raccogliere quei necessari finanziamenti che sostennero, invece, l’impresa dei soci palatini dell’Argelati. Non mi soffermerò qui sulle sue generose battaglie di pretto stampo illuministico da lui condotte, dal saggio Dell’impiego del danaro (1744), che tante polemiche suscitò al suo apparire, al trattato Della formazione de’ fulmini […] anche degli insetti rigenerantisi, e de’ pesci di mare sui monti, e più a lungo dell’elettricità (1747), che si riallacciava a Pierre Bayle e alle sue Pensées diverses à l’occasion de la comète qui parut au mois de Decembre 1680 (1682 e ancora 1694 e 1704), uno dei maggiori testi del libertinismo erudito, sino alla battaglia contro le credenze sulla stregoneria, dall’Arte magica dileguata (1749) e Arte magica distrutta (1750), sino all’Arte magica annichilata (1754). Tutte opere che lo fanno considerare degno di figurare nel patheon del primo Illuminismo, accanto a Cesare Beccaria. Sul finire della sua vita, Muratori gli scrisse:
Non potevate con più affezione e cordialità farmi sentire il vostro cordoglio per la perdita, ch’io ho fatta de gli occhi. Ho ben fatto questa perdita, ma ho ricuperato la vita. Siete entrato ancor voi nell’opinione della non magia. Non vi prendiate fastidio s’io l’avessi tenuta, è, perché io non sono stato animoso come voi. Le Sacre Scritture mi fanno paura; e giacché nulla è stato proibito finora del mio, non vorrei neppur da qui in avanti. Di miglior guscio siete voi, che io; per me poco importa, che la finisca in breve. Prego Dio, che conservi voi, perché siete il campione più vigoroso e coraggioso della letteratura in Italia. Con che caramente vi abbraccio e mi ricordo (Epistolario, a cura di M. Campori, 14 voll., 1901-1922, nr. 5853, p. 5409).
Era il 20 gennaio 1750. Tre giorni dopo Muratori sarebbe spirato, e questo sarebbe stato il suo ultimo, nobile messaggio a un campione del nostro Illuminismo.
Del grande progetto della Bibliotheca restano solo i quattro tomi della Verona illustrata […]. Parte prima contiene l’istoria della città e insieme dell’antica Venezia dall’origine fino alla venuta in Italia di Carlo Magno (1732). Non proprio una local history, come lascerebbe supporre il titolo, ma piuttosto un’ennesima storia d’Italia che, partendo dal Basso impero, riprende, come in tutti gli storici post-Sigonio, il tema della dominazione longobarda, conducendo la narrazione sino a Carlomagno.
A mio parere, Maffei è il primo che si ponga concretamente il problema di definire cosa si intendesse per ‘Italia’:
Nel nuovo sistema principiato in Italia da Diocleziano e stabilito da Costantino, mirabil cosa fu, come tutta questa parte, che ne’ tempi antichi politicamente non era Italia, e non veniva perciò compresa sotto tal nome, diventasse all’incontro allora la Italia propria, e sola poi con tal nome venisse intesa […] Non ha l’antica geografia division dell’Italia più universale, e più determinata, di quella di diecisette regioni o provincie […] Come la geografia è un occhio della istoria, così questi nomi, ed altri che si scoprissero, potrebber servire di sicura scorta a rintracciar l’origine de’ primi, che ad abitar l’Italia vennero. In tal prima descrizione sarebbe da partir l’Etruria di mezzo in dodici parti, di dodici parimente quella di là dal Tevere ed in altre dodici per l’autorità di Strabone quella di qua dall’Appennino […] (Verona illustrata, cit., libro VIII, coll. 169-70).
Quell’animosità nei confronti dell’erudizione straniera, espressa nella lettera all’abate Conti, la si ritrova nella sua storia, con il rimpianto per un’indipendenza smarrita:
Tra’ Romani e tra’ Greci antichi, che viveano in libertà, e dove per conseguenza nel contribuire a conservarla consistean la virtù e l’honore, buono era e lodevole tutto ciò che al pubblico giovava, e che secondava le buone leggi; ma ridotta l’Italia tutta in servitù o de’ Longobardi, o de’ Greci, instituito dominio, in cui gl’Italiani non avean parte, e incominciate ordinazioni, che solamente a spogliar miravano, e a’ dominanti giovevoli ma non al popolo, s’incominciò a stimar onorevole il contravenire alle leggi, e vergognoso in molte importanti occasioni il tener col governo e col suo vantaggio. Allora fu che disfatta la propria società, e comunanza, e svanitone però l’amore, si prese a non far plauso, se non a ciò che straniero fosse, e si diede luogo a quel perfido spirito d’invidia, che sopra ogn’altro nell’Italia s’inviscerò e instillò, di servire a tutti più tosto che veder sovrastare un de’ suoi, onde mai più risorse (libro X, coll. 276-77).
Vi sono qui, in nuce, due spunti che saranno oggetto della futura storiografia: il rapporto tra vinti e vincitori, proposto da Alessandro Manzoni, e l’insorgere di un orgoglio nazionale, che troveremo nelle pagine di Alessandro Verri.
L’appendice di questo primo tomo della Verona illustrata sembra un’anticipazione di quel Museum veronense (1749) che fu l’impresa maggiore sua. Il secondo tomo riguarda L’istoria letteraria o sia la notizia de’ scrittori veronesi, mentre la terza parte ha un carattere decisamente antiquario, nel quale Maffei riversa tutto ciò che ha saputo raccogliere su monumenti, monete, epigrafi (celebre la sua raccolta epigrafica, murata nel cortile del proprio palazzo) relativi alla sua città.
La Gallia christiana di Claude Robert (1564/1565-1637), ripresa e continuata da Scévole de Sainte-Marthe (1571-1650) ricevette un ulteriore impulso dalla ricostruzione della storia ecclesiastica francese grazie alla grande opera dei maurini, in specie dagli Annales Ordinis Sancti Benedicti di Mabillon, nonché dalla grande produzione editoriale di Bernard de Montfaucon. In Spagna, Gil Gonzalez Davila (1577-1658) stampava a sua volta nel 1645 un Teatro eclesiastico de las iglesias metropolitanas, che era la prima raccolta del genere per la Castiglia. L’impresa sarebbe stata proseguita da un sacerdote italiano, Gaetano Cenni, polemico recensore degli Annali muratoriani, con due volumi di dissertazioni De antiquitate Ecclesiae hispanae (1741), preannunziando la grande España sagrada di Henrique Florez (1702-1773), giunta, alla morte del suo autore, al ventisettesimo volume.
Diverso il caso italiano, dove non vi erano confini visibili e condivisi (dovendo versare il primo contributo per la discesa di Massimiliano d’Asburgo a incoronarsi a Roma, Machiavelli li indicava a Chiusa di Rivoli).
L’Italia sacra che Francesco Ughelli dava alle stampe in nove tomi tra il 1643 e il 1662 non poteva che ricalcare la struttura ecclesiale romana. L’opera era, in effetti, suddivisa in venti Provincie e diocesi che mancavano d’ogni riferimento ai confini dei molteplici Stati nei quali era divisa la penisola, anche se non mancava un’esaltazione dell’Italia «domicilio della religione, asilo della fede cristiana, arte della pietà, prontuario dei dogmi cattolici, sede di pontefici, genetrice di imperatori, nutrice delle arti, di santità, gravida di rigogliosi campi, partoriente di uomini sempre egregi e forti» (dunque una sorta di nuova vagina gentium). L’opera era un monumento di erudizione, densa di documenti (agiografici, epigrafici, diplomatici, con riproduzione di sigilli e iscrizioni). Come si avvisa nell’introduzione generale, i testi venivano riportati «con le stesse parole, per lo più barbare e ridicole»! Era un nuovo approccio alle fonti, certamente dovuto all’insegnamento della scuola di Saint Maur. Potrebbe essere infatti istruttivo un confronto tra quest’opera e le Antiquitates italicae Medii Aevi di Muratori.
Non è chiaro che cosa indusse il duca Rinaldo d’Este a ordinare improvvisamente a Bacchini di rientrare nel proprio monastero, assumendovi l’incarico di cellerario. Incerta è anche la ricostruzione dei rapporti intercorsi tra il benedettino e Muratori, nonostante i frequenti scambi epistolari intercorsi tra loro. È certo che proprio Muratori fu destinato a sostituirlo alla Biblioteca Estense, richiamato da Milano dal suo sovrano, a sorreggere le ricerche di Gottfried Wilhelm von Leibniz sulle origini della casa Este-Wolfenbuttel. Lasciata la Biblioteca Ambrosiana e il mondo dei Borromeo, nel quale si era felicemente ambientato, costretto a rientrare a Modena, Muratori fu subito coinvolto non solo nelle ricerche su Casa d’Este, ma sulla dimostrazione dell’infeudazione imperiale agli Este delle valli di Comacchio, occupate dalla Chiesa al tempo della devoluzione di Ferrara. Il matrimonio di Rinaldo I con Carlotta Felicita di Hannover aveva convinto il duca a puntare sulla carta dell’impero, divenendo base militare e diplomatica della politica imperiale nella penisola. Ben presto le due ricerche si accavallarono: la storia della feudalità imperiale, per una parte dei possedimenti estensi, si fondeva con la ricostruzione genealogica del casato. La disputa sul possesso di Comacchio, anche se aprì la lotta giurisdizionalistica settecentesca, avrebbe avuto una particolarità rispetto alla pubblicistica successiva. Essa non operò in un ambiente culturale schiettamente italiano, come sarebbe stato per gran parte del contemporaneo movimento giurisdizionalistico napoletano e siciliano, ma subì fortemente l’egemonia culturale germanica, essendo i suoi campioni, al pari degli scrittori dell’altra disputa contemporanea su Parma e Piacenza, legati a una zona d’Italia che a quell’influenza era sottomessa non solo culturalmente, ma politicamente. I polemisti delle due rivendicazioni politico-diplomatiche trovarono un punto di accordo, avendo a sostegno, per il ducato farnesiano, l’Accademia di Kiel, per il possesso estense, l’Accademia di Tubinga. Il riferimento metodologico era ovviamente a Melchior Goldast e al De imperio summarum potestatum circa sacra (pubblicato postumo nel 1647) di Grozio. Tra questi polemisti, una posizione rilevante spetta a Johann Wolfgang Jäger, autore di una Defensio Augustissimi Romanorum Imperatoris Josephi contra Curiae Romanae bullas (1709), assieme a Filippo Lodovico Brennero, con la difesa estense apparsa nel 1710 a Tubinga (Augustissimi Caesaris et S. Imperii romanogermanici horumque vasalli […]). Jäger era tra l’altro autore di un lavoro quant’altri mai eterodosso: Spinocismus, sive Benedicti Spinosae famosi Atheisti Vita et doctrinalia (1710) ed era pertanto portato a trascinare la polemica sul piano protestante.
In realtà, quando questi polemisti si rifacevano al De iure belli ac pacis (1625) di Grozio, al De iure naturae et gentium (1672) e al De officio hominis et civis juxta legem naturalem (1673) di Samuel Pufendorf, lo facevano spinti da motivi essenzialmente politici, dettati dalla necessità di svincolare gli Este dalla loro dipendenza dalla Chiesa romana. Si è spesso parlato di un alunnato muratoriano nei confronti di Bacchini, ma la battaglia giurisdizionalistica ingaggiata assieme a Leibniz spostò in realtà Muratori sul versante della pubblicistica germanica. A lui la corte viennese volle affiancare Christian von Lynker, che avrebbe coperto il settore giuridico, lasciando a Muratori la parte documentaria (Bertelli 1960, p. 135). Ciò fu non senza contrasti fra i due eruditi, per le posizioni troppo radicali del tedesco nei confronti del potere temporale pontificio, ciò che alla fine spinse Muratori a svincolarsi completamente da ogni rapporto con lui. Costantemente, nel corso della controversia, Muratori fu attento a non cedere alle inclinazioni protestanti dei propri alleati, mantenendo piuttosto come riferimento il Trattato dell’interdetto (1606) di Paolo Sarpi.
I polemisti di parte imperiale avevano il vantaggio di avere alle spalle la grande erudizione che dai Centuriatori magdeburgensi si era sviluppata attraverso opere quali il De iure natura et gentium e il De imperio summarum potestatum circa sacra di Grozio, negli scritti di Pufendorf e di Hermann Conring. Nulla di tutto ciò aveva alle spalle il giovane Muratori. Certo non potevano essere punto di riferimento gli Annales ecclesiastici baroniani. L’unico riferimento valido, eludendo accuratamente il versante religioso, restava il De republica ecclesiastica (1617-1622) di Marcantonio De Dominis, dove il temporale e lo spirituale erano nettamente separati, consentendogli di discutere del solo aspetto terreno della potestà pontificia. Nel 1600 a Francoforte, Andreas Schott aveva dato alla luce una raccolta di scrittori di cose italiane: Italiae illustratae, seu Rerum urbiumque italicarum scriptores varii, dove trovavano posto scrittori del Quattro e del Cinquecento, e Johann Georg Graeve avrebbe pubblicato tra il 1704 e il 1725 un Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae. Non restava dunque che organizzare in proprio la raccolta dei documenti necessari per il proprio lavoro. Muratori aveva scritto nella seconda parte del suo celebre trattato Riflessioni sul buon gusto intorno alle scienze e le arti (1708), con l’occhio probabilmente volto agli Etudes monastiques:
Si riferisce pertanto all’erudizione il conoscere tutte le cose e i loro effetti, quali sono tutte le azioni umane di diversi tempi e luoghi, e i tempi e i luoghi stessi, e i vari corpi e sentimenti de gli uomini e i riti de’ popoli, e le opinioni de i letterati e cento altre simili cose avvenute o esistenti nel mondo. Tutto ciò insomma che può cadere sotto il nome d’istoria, viene compreso anche sotto quello d’erudizione (p. 41a).
Se tu prendi a far annotazioni, se componi qualche trattato, se scrivi qualche istoria, buon per te se hai comodità di buoni archivi, di buone gallerie e di biblioteche celebri, ove sieno codici scritti a penna, perciocché il trearne fragmenti, operette, iscrizioni, ed altre memorie antiche, non pubblicate dianzi, e l’inserirle opportunamente in quella tua fatica, è cagione che i lettori non potendo essi altronde ricavar sì fatte notizie, abbiano sempre venerazione, se non per altro solo per questo, de’ tuoi volumi (pp. 249-50).
Era l’enunciato di quanto avrebbe presto messo in pratica. Così Muratori decise di dare alla luce i risultati delle proprie ricerche e fu un primo volume di Antichità estensi (cfr. Bertelli 1960, pp. 205-20). Nel mondo barocco le storie delle famiglie nobili erano delle «genealogie incredibili» (Bizzocchi 1995) e benché si fosse ormai – almeno sin dai tempi di Valla – in un mondo di filologia critica, discendenze più o meno mitologiche continuavano a essere sfornate più come status symbol, senza pretendere che venissero credute. Era sufficiente venissero accettate come riconoscimento del proprio status sociale. Così gli Este avrebbero avuto come loro antenati Antenore e Ateste troiani, o sarebbero discesi dalla gens romana degli Acci, i Massimo sarebbero discesi da Fabio Massimo cunctator, gli Orsini da un’orsa mitologica e via dicendo. Orpelli che solo casate di un’alta e vetusta nobiltà potevano consentirsi. Mutatis mutandis, rivestivano la stessa funzione della parrucca binet alla corte di Re Sole, che distingueva i cortigiani di maggior rango. Tutti orpelli che esulavano dall’acribia erudita di Leibniz e Muratori. Introducendo al primo volume delle proprie Antichità estensi, Muratori scriveva:
Non sanno formarsi alcuni altra idea in capo, se non quella, che viene dall’avere per progenitori eroi o popoli celebrati da i poeti più cogniti […] Il perché i greci chiamarono una volta barbare tutte l’altre nazioni e i romani all’incontro nel colmo della gloria e fortuna non riconobbero se non se stessi per nobili, regalando anch’essi gli altri popoli col titolo di barbari […] Ma egli è da dire, non esserci ragione, per cui abbia principe veruno a sdegnar di trar l’origine sua dall’antica Germania, e da i Longobardi. Imperocché quantunque si conceda la prerogativa di certe nazioni colte, quali per vero furono la greca e la romana, a petto di moltissime altre, con tutto ciò anche la Germania ha sempre avuto di che costruire la nobiltà de’ suoi principi e popoli (Delle antichità estensi ed italiane, trattato, 1717, cap. X, pp. 70-71).
Verso la fine del 1714, Muratori annunciava a Leibniz la volontà di svincolarsi dal rapporto con lui, con l’intenzione di aggiungere alle Antichità estensi ed italiane un’appendice dove avrebbero trovato posto «strumenti antichi» venuti in luce nel corso delle ricerche archivistiche; ma già l’anno dopo il progetto si ampliava oltre i confini di una genealogia e l’8 gennaio 1716 annunciava quelle che sarebbero divenute le Antiquitates italicae Medii Aevi: «Penso io di trattare dei riti e costumi de’ secoli di mezzo e in tal congiuntura produrre tutta quella mercatanzia, che ho raccolto da molti archivi d’Italia», un’opera fondamentale per la storia d’Italia, che avrebbe visto la luce ben ventidue anni più tardi.
Per la verità, il progetto non era originale. Sin dal luglio 1701 Zeno aveva scritto a Muratori della sua intenzione di allestire una raccolta di autori che avessero scritto «delle cose della nostra Italia» e che avrebbe intitolato Rerum italicarum scriptores hactenus desiderati. Chiamato a Vienna come «poeta teatrale cesareo», Zeno non poté mettere in atto il suo progetto e il fratello Catterino si limitò a pubblicare gli Istorici delle cose veneziane che hanno scritto per pubblico decreto, con il grave difetto, però, di escludere tutti i testi in volgare – «anzi popolare» – dando semmai la preferenza a testi in latino, fosse anche «barbaro e semplice» (Bertelli 1960, p. 363). Un criterio contestato da Maffei e da Muratori, che muovevano la stessa critica alle raccolte di Johann Georg Graeve e di Peter Burman. Maturava l’idea di una vera raccolta di Rerum italicarurm scriptores, in cui trovassero posto i testi nelle loro stesure originali. La data a quo era indicata nel 6° sec. e la raccolta sarebbe stata condotta sino al Quattrocento, avendo come areale l’intera penisola (cfr. Bertelli 1960, pp. 258 e segg.). Un’iniziativa concomitante sarebbe stata quella di Giovan Battista Caruso (1673-1724), con la sua Bibliotheca historica Regni Siciliae (1723).
Accanto – ma non certo a margine – giungeva a compimento, quasi contestualmente, quella che sarebbe stata l’opera massima di Muratori: le Antiquitates italicae Medii Aevi, uscite in tre volumi, sempre per i tipi della Società palatina. Si trattò, in un certo senso, di un’opera rivoluzionaria. Ughelli si era limitato a inserire nell’Italia sacra testi, diplomi e cronache relativi alle singole diocesi. Questa volta Muratori non seguì un ordine cronologico, ma procedette per tematiche. L’attenzione fu rivolta adesso non tanto all’evolversi storico, quanto alla ricostruzione del più generale quadro di vita e di costume, di credenze e di superstizioni, sulla base del metodo comparativo, rintracciando, fin dove possibile, il legame tra il passato e quanto ancora permaneva nell’oggi. Il fine delle Antiquitates era la ricostruzione di un mondo che gli uomini del suo tempo potessero penetrare. Dai Goti ai Longobardi, dai Franchi ai Germani – ebbe a scrivere nella seconda parte delle Riflessioni sul buon gusto –, «sempre seguitiamo la nostra storia, qualora rintracciamo le gesta e i costumi de i tempi barbarici» (pp. 246-47).
La sua produzione aveva un ritmo stupefacente. I ventiquattro tomi dei RIS uscirono tra il 1723 e il 1738, mettendolo in contatto con tutti gli eruditi della penisola (e non solo) che era riuscito a mobilitare in suo favore, spronandoli a loro volta a ricercare il proprio passato locale. Il secondo volume delle Antichità estensi venne terminato nell’autunno del 1737; i sei tomi in folio delle Antiquitates uscirono tra il 1738 e il 1742. Di esse la più pregnante definizione fu data da Benedetto Croce: «una vera e propria Kulturgeschichte Italiens im Mittelalter» (Conversazioni critiche, s. I, 1950, p. 209).
A conclusione di un così lungo percorso, Muratori decise di affontare una nuova impresa: gli Annali d’Italia. «Sappia in confidenza» – scrisse a Pier Paolo Ginanni il 12 dicembre 1738 – «ch’io sto tessendo gli Annali d’Italia dall’anno 410 sino al 1500. Fors’anche, se avrò tanto di vita, darò loro principio dal principio dell’Era cristiana» (Epistolario, 3985, p. 3838h). I termini cronologici, che per i Rerum italicarum scriptores erano partiti dal 500, venivano adesso spostati indietro e fatti coincidere con il sacco del 410. Resta da capire perché abbia poi voluto risalire addirittura alla nascita di Cristo e dunque agli inizi dell’era volgare, seguendo l’esempio della storiografia teologica medievale, snaturando il concetto di «Italia barbarica» che era stato di base in tutta la sua precedente produzione storiografica (si è già visto come Sigonio avesse fissato la propria datazione alla scomparsa di Giustiniano). Si trattava di un motivo religioso? Eppure, nella prefazione, avvertiva che la sua sarebbe stata «una storia civile», e che «non avrebbe trattato della storia che riguarda gli avvenimenti della Chiesa di Dio», avendone già trattato Baronio, il padre Antonio Pagi, il domenicano Abraham Bzowski (Bzovius, 1567-1637). Ciò nonostante, gli esempi apertamente riconosciuti erano quelli delle loro storie ecclesiastiche, da Baronio a Claude Fleury, a Louis-Sébastien le Nain de Tillemont. Con una bella prova di incoerenza, giungeva ad augurarsi che altri si accingessero in futuro «a trattar la storia d’Italia dal principio del mondo fino a quell’anno dove io comincio la mia» – lui che aveva così severamente giudicato le storie universali dei cronisti medievali nell’approntare l’edizione dei RIS. In effetti, tutta questa prima parte degli Annali – i primi due volumi – sa di posticcio, di ripresa di lavori altrui.
Bisogna giungere all’ambasceria di Leone Magno ad Attila perché Muratori, in un certo qual senso, si risvegliasse dal torpore e prendesse posizione contro Baronio (attirandosi per questo le critiche di Gaetano Cenni dalle pagine del «Giornale de’ letterati» di Roma, del 1746, pp. 16-18). L’Historia Langobardorum di Paolo Diacono (da lui stesso edita in RIS, I, I), qua e là integrata da Gregorio di Tours, sorregge ora la narrazione del Medioevo barbarico. Il modello al quale intende riferirsi è quello di Sigonio: «Certamente obbligo grande abbiamo a Carlo Sigonio, insigne scrittore modenese, per aver egli assunto questa fatica e trattata la storia ne’ suoi libri de Occidentali Imperio et de Regno Italiae, che tuttavia sono in onore e meritano bene di esserlo». Nella prefazione alle Antiquitates italicae Medii Aevi (qui si cita dalla traduzione curata dallo stesso Muratori) volle scrivere:
Il modenese Sigonio, cui tanto debbono le antichità romane, che se non è il primo, certamente è superiore a quanti prima di lui delle cose d’Italia de i bassi tempi scritto aveano, degno di sé riputando un tale studio, a questa impresa si accinse, e co i suoi libri Dell’impero occidentale e del Regno d’Italia, eccellentissimamente questa parte di erudizione trattò, e largo campo ai posteri aperse, per cui quegli dapoi liberamente scorressero. Così a poco a poco gli uomini grandi cominciarono ad illustrare i secoli barbarici e i forestieri in maggior numero e con maggior premura degl’italiani (Dissertazioni sopra le antichità italiane, 1° vol., 1765, pp. XX-XXI).
Giunto a parlare del contrasto tra Longobardi e Franchi, la narrazione è tutta pervasa da un forte anticurialismo, che si trasformerà in sostegno alla politica asburgica in funzione antifrancese, quando Muratori arriverà a parlare dell’urto fra Carlo V e Francesco I.
Secondo il progetto iniziale, l’opera avrebbe dovuto arrestarsi al 1500. Ma i pressanti inviti di amici ed estimatori lo convinsero a riprendere in mano il progetto, conducendolo «fino al compimento della pace universale, che nel presente anno 1749 ha rimessa la concordia fra i Potentati d’Europa». Per gran parte del Cinquecento, la fonte primaria di riferimento era stata la Storia d’Italia di Guicciardini, ma si era persa quella miniera di documenti, diplomi e cronache che aveva fino ad allora fatto da sostrato alla ricostruzione del passato. Ora, come scrivevano i compilatori del «Giornale de’ letterati» di Roma, questi ultimi tre tomi non corrispondevano ai nove antecedenti: «Ci sembrano anzi gazzette, che Annali».
Il decimo volume dell’edizione della stamperia di Agostino Olzati (1764) reca in apertura una severa critica di questi Annali, formulata dall’oratoriano Giuseppe Catalani, riprendendo ampiamente la stroncatura apparsa sul «Giornale» romano e tutta rivolta a sostegno dell’autorità temporale del papato.
Naturalmente, non poteva piacere che, giunto all’anno 1511, Muratori deplorasse «uno spettacolo che fu e sarà sempre deplorabile nella Chiesa di Dio, e cioè un vecchio Papa fare da generale d’armata e comandare artiglieri e assalti. Senza curare l’alta sua dignità e i doveri di chi è Vicario del mansueto e pacifico nostro Salvatore» (Annali d’Italia, 1764, libro X, p. 58). Quanto alla devoluzione di Ferrara, Muratori si rimetteva a ciò che aveva precedentemente scritto nelle Antichità estensi, non certo favorevole al colpo di mano di papa Aldobrandini.
L’undicesimo volume, stampato sempre da Olzati, si apriva con la pace tra Enrico IV e Carlo Emanuele di Savoia, per poi affrontare l’interdetto di Paolo V, dando lo spunto al recensore del «Giornale romano» di osservare come l’autore fosse «inclinato al suo solito alla parte contraria a Roma». Ma l’accusa più grave, mossa dallo stesso Catalani a Muratori, giunto all’anno 1642, la si può leggere a proposito della guerra tra Roma e il duca di Parma, «messa in ridicolo dall’Annalista», accomunato a un libertino quale Ferrante Pallavicino e alla sua Buccinata, ovvero battarella per le Api Barberini in occasione della mossa delle armi di Nostro Signore papa Urbano VIII (Annali d’Italia, cit., libro XI, p. XXXI). Pur se alla fine di tante critiche, lo stesso Catalani le attenuava asserendo che esse nascevano «per amore della verità. E senza pregiudizio veruno all’alta stima di un letterato di tanto merito e fama, qual si è senza contrasto, il chiarissimo scrittore de’ presenti Annali» (p. XXXII).
Quello che colpisce, in questi ultimi tre volumi degli Annali, è la limitatezza dell’orizzonte: non si esce dalle vicende della penisola, la copiosa letteratura sulle guerre di Fiandra e sulle guerre di devoluzione è passata quasi inosservata. Riconosciamo di avere a che fare davvero con delle gazzette.
Il bergamasco Gerolamo Tiraboschi, seguendo una prepotente vocazione, era entrato a quattordici anni nella Compagnia di Gesù, divenendo nel 1755 insegnante di retorica a Brera, riordinandone nel contempo la biblioteca. Il suo primo cimento erano stati i tre tomi dei Vetera humiliatorum monumenta annotationibus ac dissertationibus prodromis illustrata (1766-1768). Un lavoro che gli valse la chiamata a Modena, nel 1770, a succedere al Muratori. Due anni dopo, riprendendo l’esempio del maurino Antoine Rivet de la Grange (1683-1749; non senza alcune punte polemiche!), e partendo dal dizionario biografico degli Scrittori d’Italia di Gian Maria Mazzuchelli (1707-1765 ca.) – fermo, per la verità, alle sole lettere A e B e uscito in sei tomi tra il 1753 e il 1763 – metteva in cantiere un’ambiziosa Storia della letteratura italiana.
Dell’interruzione dell’opera di Mazzuchelli si rammaricava Tiraboschi, augurandosi che i lavori preparatori, restati manoscritti per l’improvvisa scomparsa dell’autore, fossero ripresi «dai suoi degnissimi figli». A sentire Tiraboschi, sembra che Leibniz avesse spronato Magliabechi ad accingersi a un’opera simile, che adesso era da lui stesso affrontata. La propria Storia fu un’impresa eccezionale: stendere una Storia della letteratura, dai primordi, conducendola sino ai suoi tempi. Che vi fosse un riferimento all’esempio dei benedettini di Saint-Germain è indubbio quando leggiamo nella prefazione alla prima edizione di aver voluto l’autore fornire un contributo visto che «tutta insomma l’Italia pare ora ardentemente rivolta a tali studi, che forse in addietro eran troppo trascurati e negletti». La sua è una rivendicazione di orgoglio «nazionale»:
Non vi ha scrittore alcuno imparziale e sincero, che alla nostra Italia non conceda volontieri il glorioso nome di madre e nutrice delle scienze e delle bell’arti. Il favore di cui esse hanno tra noi goduto, e il fervore con cui da’ nostri si son coltivate e ne’ più lieti tempi del romano impero e ne’ felici secoli del loro risorgimento, le ha condotte a tal perfezione e a tal onore le ha sollevate, che gli stranieri, e quegli ancora tra essi che della lor gloria son più gelosi, sono astretti a confessare che da noi mosse primieramente quella sì chiara luce che balenò a’ loro sguardi e che gli scorse a veder cose ad essi fin allora ignote (Storia della letteratura italiana, 1° vol., 1772, incipit).
La sua opera è dettata dal desiderio «di accrescere nuova lode all’Italia e di difenderla ancora, se faccia d’uopo, contro l’invidia di alcuni tra gli stranieri». Fu un lavoro che lo impegnò per dieci anni, dal 1772 al 1782. Ugo Foscolo lo definì un «archivio ordinato de’ fatti, delle date e dei nomi de’ libri e de’ documenti letterati di molti secoli», ma i precedenti potevano essere rappresentati dal Mare Magnum (i cui volumi manoscritti sono conservati nella Biblioteca Marucelliana di Firenze) di Francesco Marucelli (1625-1703), nonché dal catalogo posto in appendice al Metodo per istudiare la storia (1726) di Langlet du Fresnoy.
Seguendo le orme degli Annali muratoriani, anche Tiraboschi prendeva le mosse dalla letteratura romana, inserendovi i concetti di «progresso, decadenza, risorgimento, di tutte le diverse vicende che le lettere hanno incontrate in Italia». Difficile, secondo i nostri parametri, considerare la sua fatica una vera e propria storia della letteratura italiana. Di quale Italia? Di nuovo, come per gli Annali muratoriani, il concetto di Italia era assai incerto, dal momento che l’opera prendeva le mosse dalla latinità repubblicana dei Plauto, Terenzio, Lucrezio, confondendo in tal modo l’età classica con quella barbarica. I primi due tomi partono infatti dalle origini della letteratura romana, sino a giungere all’età aurea augustea. Approdiamo infine all’età barbarica che, secondo il sentire illuministico, corrisponderebbe a un’epoca di «caligine e oscurità», superata la quale giungiamo al Duecento e al Trecento, all’emergere della perfetta poesia, espressa da Francesco Petrarca: al quale «noi dobbiamo la luce del giorno che or ci risplende». Il Quattro e il Cinquecento rappresentano l’apice, con Ludovico Ariosto, da lui giudicato superiore a Torquato Tasso, mentre rappresenta una decadenza il secolo successivo, se si eccettuano le scoperte galileiane.
Quanto ai limiti geografici, se ai maurini fu lecito abbracciare nella loro storia «tutto quel tratto di paese che or chiamasi Francia, permettan dunque a noi pure che, usando del nostro diritto, nostri diciamo tutti coloro che vissero in quel tratto di paese che or dicesi Italia. Ad essa appartengono similmente l’isole, che diconsi adiacenti, ed esse perciò ancora debbono in questa Storia aver parte, e la Sicilia singolarmente, che di dottissimi uomini in ogni genere di letteratura sin da’ più antichi tempi fu fecondissima» (Storia della letteratura italiana, cit., 1° vol., Prefazione).
Questa storia sembra seguire il modello delle Centurie magdeburgensi, dal momento che è ripartita per secoli, «entro cui ragionare partitamente di ciascheduna scienza ed esaminare quai ne fossero allora i progressi e le vicende». Ma resta un monumento al quale è proficuo rivolgersi ancora oggi.
Non v’è dubbio che tre battaglie giuridico-diplomatiche furono foriere di una nuova storia: Comacchio per gli Este, Parma e Piacenza per i Farnese, la Sicilia per Vittorio Amedeo di Savoia. Grandi scontri diplomatici con Roma, che abbracciarono la prima metà del Settecento, coinvolgendo la penisola nelle guerre di successione e in quella dei Sette anni, dando vigore alle correnti anticuriali e giurisdizionalistiche, ormai diffuse per tutta Europa.
Di Comacchio si è già detto. Ma è a Napoli che si concentra la battaglia giurisdizionalistica a difesa dell’autonomia dello Stato rispetto alla Chiesa. Un testo fondamentale fu il De re beneficiaria (1709) di Gaetano Argento (1661-1730), steso a sostegno della Prammatica sanzione di Carlo VI che vietava la trasmissione delle rendite e benefici ecclesiastici a stranieri, contro Clemente XI. Proprio all’Argento, nel 1709, Alessandro Riccardi dedicava un suo scritto polemico contro Carlo Maiello, le Considerazioni sopra il nuovo libro intitolato “Regni neapolitani erga Petri cathedram religio adversus calumnias anonymi vindicata” (un estratto a cura di G. Recuperati, in La letteratura italiana. Storia e testi, 44° vol., t. 5, Dal Muratori al Cesarotti, 1978, pp. 726-38). Accomunato in questa battaglia troviamo Costantino Grimaldi (1667-1749) con le Considerazioni teologico-politiche fatte a pro degli Editti di S.M. Cattolica intorno alla rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli (1708-1709).
Sappiamo che egli scrisse anche un trattato – non pervenutoci – sulla legislazione longobarda (come attesta G.M. Mazzuchelli, Notizie storiche e critiche intorno a Costantino Grimaldi, patrizio ed illustre scrittore napoletano, in Raccolta d’opuscoli scienfici e filosofici, 65° vol., 1751, pp. I-LXXI), che ci avrebbe consentito di accomunarlo al gruppo degli epigoni di Sigonio (se così fosse lecito definirli): Muratori, Giannone, Carlo Denina (quest’ultimo autore Delle rivoluzioni d’Italia, 1769-1770).
In quegli stessi anni un nuovo contenzioso si aprì con la Santa Sede, a proposito di un caso siciliano. Il 22 settembre 1713 il duca Vittorio Amedeo di Savoia veniva riconosciuto a Torino come re di Sicilia. Non tardò a prendere possesso del suo regno: il 3 ottobre si imbarcava a Nizza sulla nave dell’ammiraglio inglese John Jennings, alla volta di Palermo. Aveva appena preso possesso del nuovo Stato, che si trovò coinvolto in una controversia giurisdizionalistca con Roma. Nel 1711 gli agenti fiscali di Lipari avevano preteso di sottoporre al plateatico (o gabella di piazza) un sacco di ceci, che i messi del vescovo intendevano vendere al mercato. Ne era nata una controversia, dal momento che il vescovo vi vedeva lesi i propri antichi privilegi, non esitando a ricorrere all’arma della scomunica contro gli esattori. L’iniziativa del vescovo era lesiva dei diritti regi, andando contro la giurisdizione regia che si estendeva in campo ecclesiastico, in base alla Apostolica Legazia e contro di essa fu fatto ricorso al Tribunale della Regia Monarchia, che annullò la scomunica. Quando Roma intervenne, rimettendo in discussione l’Apostolica Legazia, la polemica cambiò segno, trasformandosi da una semplice questione di diritti di plateatico in un problema giurisdizionale che adesso investiva l’autorità regia dello stesso Vittorio Amedeo. «Duravano intanto, anzi ogni dì maggiormente si accendevano le controversie fra la Santa Sede e quel Real Sovrano, sostenitore risoluto dell’appellata Monarchia di Sicilia. Nel novembre di quest’anno [1714] fece il Santo Padre pubblicar due formidabili Bolle contro pretesi diritti di quel tribunale» (L.A. Muratori, Annali, cit., ad annum 1714). In risposta, a difesa dei diritti regi, Vittorio Amedeo incaricò un celebre scrittore di storia ecclesiastica, gallicano, di sapore giansenista, autore di una monumentale storia della letteratura ecclesiastica (Nouvelle bibliothèque des auteurs ecclésiastiques, 1686-1714) e di un trattato sulla Chiesa paleocristiana (De antiqua Ecclesiae disciplina dissertationes historicae, 1686), ristampato a Napoli nel 1769 e dedicato a Bernardo Tanucci, il potente ministro di Carlo di Borbone, un fervente ‘giannoniano’, che suscitò le censure di Jacques-Bénigne Bossuet per il suo acceso gallicanesimo: Louis Ellis Dupin (1657-1719), un erasmiano, che nel 1718 avrebbe tentato, con l’arcivescovo di Canterbury William Wake, l’impossibile riconciliazione tra cattolici e anglicani.
In sostegno di Dupin, a procurargli le necessarie pezze d’appoggio, fu chiamato il palermitano Giovan Battista Caruso (1673-1724), un giovane sacerdote che a Parigi aveva incontrato Mabillon, e che gli fornì l’aiuto necessario per la Défense de la monarchie de Sicile (1716), inviandogli il testo del proprio Discorso istorico-apologetico della monarchia di Sicilia (poi stampato nel 1863), mirante a dimostrare il fondamento storico e la legittimità dell’Apostolica Legazia, unendovi il testo steso dal marchese di Giarratana, Girolamo Settimo, Della sovranità de’ serenissimi re dell’Isola di Sicilia, tutto volto a rivendicare l’indipendenza politica del Regno da Roma.
Corrispondente di Muratori, con Caruso si stendeva sull’erudizione sicula l’ombrello della scuola maurina. Aveva divisato di scrivere una storia generale dell’isola, dall’antichità ai suoi tempi, ma si arrestò a un volume (rimasto manoscritto) che intitolò Memorie istoriche di quanto è accaduto in Sicilia dal tempo de’ suoi primi abitatori alla coronazione del re Vittorio Amedeo, un sovrano nel quale vedeva il restauratore dell’indipendenza politica del Regno, in funzione antispagnola.
Il frutto maggiore del movimeno giurisdizionalista settecentesco fu l’Istoria civile del Regno di Napoli (1723) di Pietro Giannone. Un’opera che fu giudicata da Giovanni Gentile (1904) «una colossale memoria defensionale», e non v’è dubbio che fu strutturata secondo un preciso disegno giurisdizionale, componendo in modo organico, e manipolandoli, brani di vari storici precedenti (da Domenico Antonio Parrino ad Angelo Di Costanzo, da Giovanni Battista Castaldo a Guicciardini, al più recente gesuita Claude Buffier, autore di una Histoire de l’origine du royaume de Sicile et de Naples, apparsa nel 1701), trasformandoli in un discorso coerente con la rivendicazione di un’autorità regia, svincolata da ogni dipendenza dal potere ecclesiastico. Un collage di materiali e un procedimento certo non inusuale per il tempo e che è dato ritrovare anche in molti musicisti della sua età. È lui stesso a riconoscerlo, quando esterna la propria ammirazione per Angelo Di Costanzo (1507 ca.-1591), un autore da lui saccheggiato per la sua Istoria del Regno di Napoli: «Per questa cagione l’istoria di questo insigne scrittore sarà da noi più di qualunque altra seguitata, né ci terremo a vergogna, se alle volte colle sue medesime parole, come assai gravi e proprie, saranno narrati i loro avvenimenti» (Istoria civile, cit., t. 3, libro XX, pp. 3-4). Giannone, scrisse Gian Domenico Rogadeo, volle lavorare sempre sulle fatiche altrui,
e però né poco né molto si intrigò ne’ punti, la cui strada non era stata da altri appianata […] ond’è che la parte maggiore dei punti trattati in questa opera si veggono da lui omessi […] La cagione di questa omissione derivò dall’aver trascurato le fonti, sicché si fermò solo in quel che dagli altri era stato prima ponderato […] Non lieve difetto è ancora, in un’opera così illustre, il non avere l’Autore di lei avuto ricorso alle fonti, che di radissimo […] Egli riposò sulla fede altrui, onde avviene che l’opera si scuovre piena d’innumerevoli falli (Saggio di un’opera intitolata “Il diritto pubblico e politico del Regno di Napoli”, 1767, p. 85).
Nel suo libro su Il pensiero politico meridionale (1921) Guido De Ruggiero tracciò un giudizio che ancora oggi si può condividere:
La storia civile si rivela opera di un giurista, di un avvocato, vissuto nella tradizione anticuriale del regno napoletano. Il termine civile aggiunto a questa storia denota nel pensiero stesso dell’autore una specificazione che non ha alcun riscontro in lavori precedenti, ma, come specificazione, è in pari tempo un limite. Egli premette che non intende parlare né della guerra, né del clima, né della fertilità dei campi, ma “sarà questa storia tutta civile e perciò se io non sono errato tutta nuova, ove della politia di sì nobile reame, delle sue leggi e costumi partitamente tratterassi”. Civile val per lui quanto “giuridico” (1921, poi 1946, p. 25).
Giannone non è, in senso proprio, uno storico. Ha un progetto in mente e intende realizzarlo. In questo non è solo, è l’esponente di punta di un gruppo di giuristi napoletani, raccolti nell’Accademia dei saggi, in casa di Gaetano Argento, alla quale facevano capo Francesco D’Andrea, Domenico Aulisio, Costantino Grimaldi, il già rammentato Alessandro Riccardi. Che si trattasse di una battaglia anticurialista condotta da un gruppo di giuristi e non da un singolo autore ne erano convinti sia Giusto Fontanini, che ne scriveva a Domenico Passionei l’8 maggio 1723, sia Pietro Metastasio, in una lettera indirizzata a Saverio Mattei nell’ottobre 1735: «Adesso a Napoli un tal Giannone con la direzione di altri settari ha stampata una Istoria di Napoli volgare in tomi IV in quarto, piena di orrendissime furfanterie contro il Papato ex professo» (S. Maffei, Memorie per servire alla vita del Metastasio, 1785, p. 33).
Che Giannone non fosse un autore singolo lo possiamo dedurre dal modo in cui la sua opera venne accolta alla sua apparizione. Come avvisava il nunzio al cardinale segretario di Stato, il 23 marzo, il 17 il presidente della Deputazione cittadina, Gaetano Argento, aveva convocato gli Eletti della Deputazione «per discorrere la rimunerazione che si dovea fare all’avvocato Pietro Giannone, per l’utile che si pretende abbia recato a questo publico coll’opera stampata ultimamente». In quella riunione, su proposta di Vincenzo d’Ippolito, era stato deciso che all’autore «se gli dovesse dare, come si è fatto, un regalo di trenta doppie di Spagna, e dichiararlo avvocato della città colla provvisione di dugento ducati l’anno. E quanto all’opera fu decretato che si dovesse riporre nell’archivio segreto della medesima deputazione» (Bertelli 1959, pp. 178-79).
Dunque, gli amici dell’Accademia dei saggi si erano mossi subito, a sostegno di quell’istoria-manifesto. Fino a quando e fino a che punto si sarebbero spinti per sorreggerlo? Da Modena, il 19 aprile, Muratori scriveva a Grimaldi, che «agl’ingegni focosi e liberi di Partenope si dee condonare qualche verità detta a visiera calata» (Epistolario, cit., nr. 2169, p. 2321).
Ma la campagna d’odio scatenata dal clero, la minaccia di non far sciogliere il sangue di san Gennaro furono tutti elementi che spaventarono, nel ricordo del processo agli ateisti. Il viceré, cardinale Althann, si mosse per far sospendere la delibera degli Eletti il 12 aprile. Dieci giorni più tardi Giannone era costretto a fuggire da Napoli, cercando protezione a Vienna, presso l’imperatore, a malgrado dell’allerta del nunzio Girolamo Grimaldi, il quale aveva avuto premura di informare il marchese di Rialp e l’arcivescovo di Valenza (Bertelli 1959, p. 185).
Il 1° luglio l’opera era inserita nell’Index librorum prohibitorum, nonostante un teologo di Benedetto XIII avesse confessato che l’opera giannoniana
contiene molte verità che non si possono impugnare; che per quella parte che è contaminata si scredita di per se stessa e che, impugnandola, s’ecciterebbero le penne dei compagni del Giannone, e quella di lui medesimo a fare nuovi insulti alla Chiesa, che allora si potrebbe rispondere, quando la risposta fosse tale che chiudesse la bocca agli avversari; che in quella parte in cui il Giannone tratta l’istoria civile, cioè nella massima parte, è un libro utilissimo e ricevuto con plauso universale (F. Nicolini, L’Istoria civile di Pietro Giannone e i suoi critici recenti, «Atti dell’Accademia pontaniana», 1907, memoria 11, pp. 12-13 e 32-43).
Ennesima conferma di come l’Istoria civile non fosse vista, in realtà, come il frutto di una sola mente.
In effetti, l’origine dell’Istoria civile risale almeno a vent’anni prima, quando le discussioni nell’Accademia dei saggi avevano messo in luce quanto fosse necessario affrontare lo studio di quel diritto longobardo «a quo feudalia iura fluxerunt», come aveva notato per primo Francesco D’Andrea nella sua Disputatio an fratres in feuda nostri Regni succedant (1694), un’opera nella quale un intero capitolo era riserbato all’esame dello jus Langobardorum e alla disamina «qua ratione in nostro regno est jus commune». D’Andrea, con ciò, apriva le menti dei giuristi meridionali sulla disputa tra lois civiles e coutumes, parlava di jus naturae et gentium sulle orme di Grozio e di Pufendorf, polemizzava con il potere feudale, intaccava le prerogative, anche giudiziarie, del baronaggio nel Reame. Lo scarto impresso da Giannone fu nell’allargare l’indagine sui diritti del baronaggio a quella sui diritti della feudalià ecclesiastica. Una volta stabilita l’impossibilità di affrontare la storia del diritto senza inglobarla nella più ampia storia civile (secondo l’indicazione baconiana, come lo stesso Giannone riconosce) ci si accorse che
il diritto canonico non dovea più riguardarsi come appartenenza al civile e avvisarlo ne’ codici degli imperadori Teodosio e Giustiniano, e nelle Novelle degli altri imperadori d’Oriente, ed in Occidente ne’ Capitolari di Carlo Magno, di Lodovico e degli altri successori imperadori. Se n’era già fatto corpo a parte, separato e independente, che riconosceva altro monarca e legislatore, anzi, emulo delle leggi e del diritto civile, cercava abbatterlo e sottoporlo a’ suoi piedi (P. Giannone, Vita, a cura di S. Bertelli, 1971, p. 57).
Nell’introdurre alla sua fatica, avviserà: «la mia Istoria non assorderà […] non diletterà […] non farà restare stupiti». Il suo è piuttosto un manifesto politico. Dirà ancora nell’introduzione:
L’istoria civile, secondo il presente sistema del mondo cattolico, non può certamente andar disgiunta dall’istoria ecclesiastica. Lo stato ecclesiastico gareggiando il politico e temporale de’ principi, si è per mezzo de’ suoi regolamenti, così forte stabilito nell’imperio e cotanto in questo radicato e congiunto, che ora non possono perfettamente ravvisarsi li cambiamenti dell’uno senza la cognizione dell’altro. Quindi era necessario vedere come si fusse l’ecclesiastico introdotto nell’imperio e che di nuovo arrecasse in questo Reame. Il che di vero fu una delle più grandi occasioni del cambiamento del suo stato politico e temporale; e quindi non senza stupore scorgerassi, come contro a tutte le leggi del governo, abbia potuto un imperio nell’altro stabilirsi e come sovente il sacerdozio, abusando la divozione de’ popoli e ’l suo potere spirituale, intraprendesse sopra il governo temporale di questo Reame che fu rampollo delle tante controversie giurisdizionali, delle quali sarà sempre piena la repubblica cristiana e questo nostro Regno più che ogni altro.
È qui enunciato il tema centrale dell’opera e, scorrendo il suo epistolario, non si tarderà ad accorgersi come Giannone abbia sempre fatto appello alla solidarietà di gruppo, abbia lavorato sfruttando una nutrita schiera di amici, i quali compivano con lui le ricerche e gli fornivano materali: da Aulisio a Nicola Capasso, professore di diritto canonico all’Università di Napoli, a Costantino Grimaldi (ma si veda anche l’esaltazione dell’«incomparabile» Francesco D’Andrea, del quale egli si prefigge di proseguire l’opera). Riparato a Vienna, tornò a chiedere aiuto agli amici, tramite il fratello Carlo (Bertelli 1968, Fondi romani, pp. 213 e segg., nrr. 10, 30, 41).
È sintomatico che la parte più sviluppata, più curata dell’opera, risieda proprio nei libri IV e V del primo tomo, dedicato al momento longobardo. Qui torna il termine, ripreso da Iornandes, della Scandia vagina gentium e sono da evidenziare i riferimenti bibliografici che vanno dal richiamo all’Agnello ravennate di Benedetto Bacchini (citato in contrasto con Baronio) e da «il chiarissimo» Sigonio, «i quali mirabilmente convengono» (Istoria civile, libro IV, cap. I, I, p. 243), sino a Grozio, idealizzando la formulazione delle leggi, vista come una collaborazone fra sovrano, nobili e magistrati (Giannone riserva un intero capitolo alle Leggi de’ Longobardi ritenute in Italia, ancorché da quella ne fussino cacciati: loro giustizia e saviezza: Istoria civile, cap. I, pp. 355 e segg.; cfr. Falco 1951), da Liutprando a Rachi a Desiderio. Il quarto capitolo è dedicato all’Origine del dominio temporale de’ Sommi Pontefici in Italia, individuato nell’interregno iconoclastico e nella successione tra Paolo I e Stefano IV. Il sesto capitolo si chiude con l’elogio di Liutprando,
principe, se ne togli la soverchia ambizione del dominare, fornito di tutte le perfezioni desiderabili in un re, o per la pace o per la guerra […] Le sue leggi tutte savie e prudenti; e quantunque non avesse coltivato il suo spirito collo studio delle buone lettere, aveva egli pure trovato da se stesso nel suo proprio fondo tutta la forza e sottigliezza di un filosofo.
È a partire dal VI libro che si entra nel pieno della storia del Regno di Napoli, con i ducati di Benevento, di Napoli, quindi della formazione dei principati di Salerno e di Capua. In Roberto il Guiscardo Giannone vede le premesse per la formazione del Regno del Sud, un processo interrotto dalla morte di Roberto nel 1085. Due figure emergono successivamente: Innocenzo III e Federico II. È con Federico II che la sua storia raggiunge il punto più alto della trattazione, mentre il giudizio è netto su Bonifacio VIII:
non fu pontefice al mondo, che tenesse sì alti, e fantastici concetti del papato quanto Bonifacio VIII: Era egli persuaso, che non meno dello spirituale, che del temporale fosse assoluto monarca dell’universale […] egli per far maggior pompa di se, comparve nelle cerimonie colle duplicate corone sopra il camauro e vestito del manto imperiale […] Egli perciò credea di poter togliere e dare i regni a sua posta […].
Allo stesso modo non manca di biasimare Carlo d’Angiò, per il favore accordato alla Chiesa, al tempo di Onorio IV. Attaccando Odorico Rinaldi, l’oratoriano continuatore degli Annales baroniani, il quale aveva criticato i sovrani del Regno per non aver osservato le norme sancite dai pontefici, dirà:
Terminiamo perciò ancor noi questo discorso con un altro consimil ricordo a’ principi, di guardarsi molto bene dal commettere la cura ed il governo de’ loro stati ad altri che a se stessi ed a loro più fedeli ministri, perché se, o per riverenza, o per bisogno, vorranno farci intrigare i pontefici, ancorché si cominci per poco, essi poi per la loro esquisita diligenza, quel che prima era consiglio, o divozione, lo mutano in autorità e dominio, e fan sì che da padri divengano signori, ed essi da figlioli divengano servi (Istoria civile, t. 3, libro XXI, cap. VI).
Davanti a simili affermazioni, non è arduo capire le rabbiose reazioni che l’apparizione dell’opera suscitò a Napoli come a Roma. Costretto a cercare asilo a Vienna, ottenne una pensione sui tributi della Sicilia, sino a che questi non cessarono, con la perdita dell’isola da parte dell’impero. Sino ad allora, si era appoggiato a Pio Niccolò Garelli, prefetto della Biblioteca palatina e archiatra dell’imperatore, a Nicola Forlosia e a Bernardo Andrea Lama, illustri emigrati italiani, gravitanti nella cerchia libertina del principe Eugenio.
Antesignano di un Rousseau, rifiutò ogni legame familiare, liberamente unendosi con Elisabetta Angela Castelli che
con volere di sua madre vedova e de’ fratelli ebbi verginella in mio potere […] Con lei, che m’amava tanto quanto da me riamata, e che io aveva posta in città, in sicura custodia di donne oneste e sovente l’avea per compagna nelle mie solitudini di Posilipo e “Due porte” [la propria residenza] alleggeriva le mie tetre e malinconiche occupazioni; e poiché teneva somma cura del mio corpo e delle mie cose domestiche, io riposava in lei, né mi dava altro impaccio che de’ miei studi (P. Giannone, Vita, cit., pp. 75-76).
Quando, uscita alla luce l’Istoria civile, i suoi detrattori lo accusarono di concubinato, puntigliosamente volle dimostrare con una lunga dissertazione sul Concubinato de’ Romani la legittimità di una libera convivenza: «Era quest’una congiunzione di uomo sciolto con donna sciolta, approvata dalle leggi e pattuita, non a fine di aver prole, ma per soccorrere alla fragilità umana, ed alle cure domestiche» (Opere postume, 1° vol., 1760, pp. 110 e 112).
Una volta costretto ad abbandonare Napoli, affidò la sua compagna e la figlia da lei avuta a un convento e, pur non condannando i figli all’orfanotrofio, quando si fece raggiungere dal figlio Giovanni, a Venezia e poi nella fortezza di Ceva, lo presenterà come un suo servitore. Era una rigorosa distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, che manterrà anche nell’esilio viennese. Il fratello Carlo, l’8 novembre 1735, gli riferiva di voci malevoli che circolavano in Napoli, che «In Vienna eravate da tutti odiato e disprezzato, che miserabilmente vestivate e che sostenivate un pubblico concubinato in mezo a tante donne che davate a vivere spendendo tutto il vostro in queste» (Bertelli 1968, p. 441).
Lasciata Vienna il 29 agosto 1734 in compagnia dell’abate Marcello Cusani, in direzione di Trieste, con il proposito di imbarcarsi per Manfredonia, raggiungeva Venezia, dove scopriva che la corte romana era riuscita a fargli negare il passaporto per il rimpatrio a Napoli (Vita, cit., pp. 166-68, 267 nota, 288). Trovata ospitalità presso il senatore Angelo Pisani di Sant’Angelo, si era trovato ben inserito in una comunità di patrizi, mentre i tipografi Pitteri e Bernardi progettavano la ristampa dell’Istoria civile con l’aggiunta di un quinto tomo. In Francia, intanto, il libraio Bousquet impostava una sua traduzione (pp. 280-81, 291). Tornando dal soggiorno presso la villa del Pisani a Rovere di Crè, Giannone aveva l’amara sorpresa di scoprire che i gesuiti venivano spargendo per Venezia accuse contro la cerchia di gentiluomini e gentildonne («nel numero di ottanta») che l’avevano accolto. Li si accusava di deridere nelle loro conversazioni
le tante confratanze de’ secolari ch’erano in Venezia, e le particolari divozioni a’ loro santi, che non osservavano i digiuni ed alcuni non si astenevano dal mangiar carne nel venerdì a sabato, che i tanti miracoli che si raccontavano erano imposture de’ frati, com’erasi già scoverto che la lingua rubiconda e fresca di sant’Antonio, che si mostrava in Padoa da que’ franciscani, non era di carne, ma di legno dipinto a color di carne, per ingannar la semplice e devota moltitudine […] (p. 293).
Il 13 luglio, rientrando dopo una serata di conversazioni in casa dell’avvocato Domenico Pasqualigo, veniva arrestato in piena notte ed espulso dal territorio della Repubblica. Dopo avere evitato di finire nello Stato ecclesiastico, riusciva a raggiungere Modena, dove trovava l’appoggio di Muratori. Ma ormai non restava che cercare di raggiunge Bousquet, il suo editore ginevrino, facendosi raggiungere dal figlio (p. 305). «Partii da Milano il 24 del mese […] Giunsi a Ginevra la sera del lunedì, 5 di dicembre» (p. 313). Il problema era adesso quello di non ripercorrere le orme degli esuli lucchesi (Bertelli 2004, pp. 273 e segg.): l’Istoria civile viveva e avrebbe mantenuto il suo potere dirompente fino a che il suo autore fosse restato all’interno del cattolicesimo. Per questo, per difendere la propria battaglia anticuriale, cadde nel tranello tesogli da un agente sabaudo che lo convinse ad attraversare il lago Lemano per osservare il precetto pasquale. Accerchiato, insieme al figlio, da un nugolo di armigeri, fu condotto a Chambery e di qui rinchiuso nel castello di Miolans. Il Savoia lo aveva venduto a Roma, in cambio di un vantaggioso concordato fra Stato e Chiesa.
Nel giugno del 1764 Pietro Verri presentava il primo numero di un nuovo periodico, destinato, ogni dieci giorni, a raccogliere le conversazioni della bottega del caffè di Demetrio, un citereo approdato a Milano dopo aver peregrinato per il Levante. Lo affiancava nell’impresa il ventiquattrenne fratello Alessandro, nonché i frequentatori dell’Accademia dei Pugni che Pietro aveva radunato in un’ala del palazzo avito, ritagliandovisi un proprio spazio indipendente. L’impostazione di quella che si dimostrò una vera battaglia culturale sarebbe stata enunciata da Pietro nelle Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano (1763):
Per poco che del passato argomentiamo l’avvenire, ognuno vede che ci accostiamo al passo di scegliere nell’alternativa: o il totale deperimento della Provincia, ovvero un nuovo metodo per dirigere il commercio; e se l’universale ignoranza ci rendeva per lo passato ad armi uguale colle altre nazioni, ora che in ogni parte dell’Europa si sono riscossi gli ingegni, ora che i filosofi hanno dettato i precetti ai legislatori, e che vari di questi li hanno ascoltati, ora che i veri interessi degli stati e la reale e fisica loro forza si vedono nelle botteghe dei librai; ora che il governare una nazione non è più un’arte magica, ma sibbene una scienza pubblica e sottoposta alle leggi del raziocinio; ora che l’universal luce ha riscaldato gli animi degli Europei; ora finalmente che ogni stato sta in guardia e in attività per profittare della sonnolenza dei vicini, altro partito non ci resta che di riscuoterci anche noi a mirare e meditare sulle verità alimentatrici della felicità delle Provincie, ovvero presentare placidamente il collo a quel giogo che i popoli industriosi impongono agli infingardi, né più lagnarci della dipendenza o della miseria da noi voluta (Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano, a cura di C.A. Vianello, 1939, pp. 202-203).
Occorre riconoscere che, da Maffei a Verri, l’Italia è percorsa da un senso di riscatto (una «boria nazionale», Croce 1947, 1° vol., p. 52) che si era già avvertito in Bacchini e in Zeno, dopo l’impatto con le campagne archivistiche condotte negli archivi e nelle biblioteche italiane da Mabillon e da Montfaucon. Ancora più esplicito, recensendo le Lettere inglesi di Saverio Bettinelli, Pietro Verri asseriva:
Da dieci anni a questa parte gl’ingegni d’Italia hanno fatto progressi grandi: pare che le Alpi non sieno più tanto una costiera impermeabile, siamo entrati in una società coll’Europa più che per lo passato […] la letteratura francese, la inglese, la tedesca comunicano colla nostra, va accrescendosi il numero di quei che giudicano per principî non per costume, e decidono per ragione non per autorità («Estratto della letteratura europea», 1767, 2, p. 46).
È secondo queste direttive di ricerca che si muove anche il fratello Alessandro (1741-1816), quando si cimenta nella stesura del Saggio sulla storia d’Italia, un impegno che lo occuperà sino al 1765, anche se non vide mai la luce. Per la scrittura, scelse il modello tacitiano: frasi brevi, asciutte, concetti ridotti all’essenziale. Una delle sue massime la esprime a proposito delle lotte di religione: «Lo storico imparziale accorcia con piacere il lungo catalogo degli umani delitti, né v’è per lui scoperta più grata che ritrovar insussistenti queste voci ingiuriose alla religione e all’umanità» (Saggio sulla storia d’Italia, a cura di B. Scalvini, 2001, p. 214).
Naturalmente, il discorso storico si accentra sui Longobardi, un tema che, come s’è visto, percorre tutta la ricostruzione della storia italiana, nello scontro tra ‘ghibellini’ (Sigonio e i suoi estimatori) e ‘guelfi’ (gli epigoni baroniani). Scrive ancora Alessandro Verri:
Vennero in seguito le leggi de’ Longobardi, né queste per lungo tempo abolirono il diritto romano, ma bensì era permesso a ciascuno di scegliere con quale delle due legislazioni viver volesse: laonde troviamo in tante carte un tale vivens lege Longobardorum, oppure lege Romanorum. Era obbligato ciascuno a fare publica e solenne professione a qual legge volesse esser sottoposto (Saggio sulla storia d’Italia, cit., p. 112).
Un sottinteso richiamo alla tolleranza. E ancora: «Benché i Longobardi fossero ariani-idolatri tollerarono, come i Goti, la religione de’ vinti. Non inquietarono i cattolici per tal motivo. In quasi tutte le città v’era un vescovo ariano ed un altro cattolico» (p. 115).
La difesa dei Longobardi si fa esplicita nella critica a Gregorio Magno: «Gregorio M. dipinge la nazione de’ Longobardi come un aggregato di mostri, ed il loro governo crudelissimo. Essi aveano spopolata, secondo lui, l’Italia, riunate le città e quasi ridotta a deserto questa provincia». Ben al contrario, «Paolo Diacono così ne scrive: “Vi fu ciò di meraviglioso nel governo de’ Longobardi, che non v’era alcuna violenza; non insidie, non angherie, non oppressioni, non furti, non ladroneggi. Ciascuno poteva andar dove più gli piaceva sicuro e senza timore”» (p. 116). Sono concetti che avevamo già notato in Bacchini e nel Muratori delle Antichità estensi e che ritroveremo nel saggio di Gino Capponi, Sulla dominazione dei Longobardi in Italia (1844-1853) oltre che in Carlo Troya.
Sotto la penna di Alessandro Verri torna forte il disprezzo illuministico per il fanatismo religioso:
Non v’era guerra più costante di quella delle teologiche opinioni. Ella forma la più funesta, lepida e copiosa parte della storia di questi tempi. Appena sopita la controversia de’ monoteliti un’altra ne venne in campo, coll’avere l’imperatore Leone Isauro proibito in tutti i suoi Stati il culto delle immagini. L’imperatore era in buona fede. Credeva che questo fosse un avanzo d’idolatria e che la potesse far revivere. Vi entrava anche la politica. Si persuadeva che distruggendo queste, ch’ei credeva reliquie del gentilesimo, il suo regno sarebbe divenuto più stabile, e si comprometteva di riacquistar l’Italia. Non eran sublimi questi ragionamenti. Dispiacque a tutti quest’editto, e la violenza con cui Leone lo volea far eseguire. Non fu però egli il primo che facesse guerra alle immagini. Bardane Filippico gliela fece prima di lui (Saggio sulla storia d’Italia, cit., p. 119).
Se Alessandro Verri abbandonò l’idea di portare a termine il proprio impegno, lo si dovette alle nuove esperienze compiute nei suoi viaggi a Parigi e a Londra. «Trovo Londra la città a preferenza di ogni altra degna di essere scelta per viverci. Che bella cosa potersi qui tutti trasportare i caffettisti. Vi assicuro che ci staremmo bene a un segno che non si può credere. Avremmo libertà e tranquillità perfettissima» (lettera del 9 dicembre 1766, in Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di E. Greppi, A. Giulini, 1° vol., t. 1, 1923, p. 120). La storia d’Italia aveva perduto la sua urgenza.
Divisa in dieci libri, la Storia del reame di Napoli o delle Due Sicilie di Pietro Colletta ripercorre il periodo che va dalla salita al trono di Carlo di Borbone (1734) alla feroce repressione antigiacobina del 1799, per concludersi con la rivoluzione del 1820-21 e la morte di Ferdinando IV (1825). Certo in Colletta non può non riconoscersi una vita avventurosa. Avviato alla carriera militare, nel 1799 aderiva alla Repubblica partenopea, finendo imprigionato al rientro di Ferdinando di Borbone, salvandosi solo con la corruzione di alcuni dei suoi giudici. Nel 1808 offriva il suo appoggio a Giuseppe Bonaparte e nel 1812 era nominato direttore generale del corpo d’ingegneri di ponti e strade. In seguito diveniva consigliere di Stato di Gioacchino Murat. Nel 1815 otteneva un successo militare, sconfiggendo gli austriaci nella battaglia del Panaro. Dal nuovo regime costituzionale era nominato ministro della guerra e il 20 maggio di quello stesso anno, a Casalanza, nei pressi di Capua, firmava la convenzione in base alla quale Murat veniva deposto. Accusato di tradimento, cercherà di addossare l’intera colpa a Guglielmo Pepe e agli altri comandanti. Arrestato e imprigionato nel 1821 dal capo della polizia, il principe di Canosa Capece Minutolo, si salvò ancora una volta, ma, quando gli fu concesso il rientro, preferì un volontario esilio in Toscana, accolto dalla cerchia di Gino Capponi.
Fu nella tranquillità della Firenze leopoldina che il vecchio generale, imbottito dei ricordi di Pagano e di Filangieri, mise mano a una storia che, al tempo stesso, si trasformava nelle sue memorie. Di qui le critiche con le quali fu accolta l’opera, quando, ormai scomparso il suo autore, ne curò la stampa, Capponi con la data di Capolago 1834, conoscendo ben ventitré ristampe tra il 1835 e il 1879. Al di là delle critiche cui fu sottoposta, la Storia del Reame di Napoli si impose subito come un referente culturale indispensabile per interpretare il periodo storico da Carlo a Ferdinando di Borbone.
In una lettera a Nicola Nisco, un liberale implicato nei moti del 1848, Cavour diceva: «Il Colletta ha reso spregievoli ai Napoletani i Borboni: noi li abbiamo aiutati a togliersi il peso di questa vergogna: essi ci hanno applaudito e l’Italia è fatta!» (cit. in A. Bravo, introduzione a P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, a cura di A. Bravo, 1995, 1° vol., p. 128).
Impietoso, giudicandola, il generale Guglielmo Pepe definì la Storia del Reame «un elegante cumulo di menzogne». Un astio che ha la sua ragion d’essere come risposta ai giudizi espressi sui «murattiani […] abborriti dal re» e ai sospetti nutriti su Pepe stesso, «tenuto nemico e traditore» (Storia del Reame di Napoli, cit., 6° vol., p. 14), accusato del crollo militare del 1821.
Non si dimentichi che Colletta narrava quegli avvenimenti da protagonista, essendo stato tra i generali dell’esercito napoletano. Tutto il terzo capitolo del libro IX (Regno di Ferdinando I. Reggimento costituzionale) è una requisitoria proprio contro il generale Pepe, accusato di essere stato il responsabile della disfatta borbonica.
Il quadro tracciato della vita civile e militare del Reame, al momento dell’ascesa al trono di Carlo di Borbone, è impietoso:
Assai peggiori delle istituzioni civili erano le militari. Si usavano per levar soldati tutti i modi illegittimi: i gaggi, la seduzione, la scelta de’ condannati o de’ prigionieri, la presa de’ vagabondi, l’arbitrario comando de’ baroni, il solo mezzo giusto della sorte non era usato. I pessimi delle città erano quindi eletti al più nobile ufficio dei cittadini, e si mandavano per guerre lontane in Italia o più sovente in Ispagna, dove con abito spagnuolo, sotto non propria insegna, per nome e gloria d’altri combattevano. Napoli intorpidiva in servitù scioperata, i Napoletani stavano in guerra continua ed ingloriosa. Non erano nell’interno ordini di milizia: milizie straniere guardavano il paese […] La stessa feudalità era caduta di onore […] E i viceré avari vendevano feudi, titoli, preminenze innalzavano al baronaggio i plebei purché ricchi; involgavano la dignità feudale […] Rimane da dire della Chiesa. Chi scrivesse con verità e ampiezza le vite ed opere de’ pontefici, distenderebbe la storia civile della Italia; tanto si legano al pontificato le guerre, le paci, gli sconvolgimenti e mutamenti di Stato, la civiltà rattenuta o retrospinta. E, per dir solamente del nostro regno, le brighe de’ pontefici arrestarono, poi spensero il bene civile che faceva la stirpe sveva: i pontefici doppiarono i mali della stirpe angioina: i pontefici alimentarono le guerre domestiche sotto i re aragonesi […] in uno stato di quattro milioni d’abitanti erano gli ecclesiastici il ventotto nel mille: eccesso dannevole alla morale perché celibi, alla umanità perché troppi, alla industria e ricchezza pubblica perché oziosi (Storia del Reame di Napoli, cit., 1° vol., libro I, cap. X, Regno di Carlo di Borbone, pp. 172-76).
Da questa lunga citazione si comprende perché Pietro Giordani (1774-1848) considerasse Colletta superiore a Giannone. Ma il punto più alto di questa storia Colletta lo raggiunse nella denuncia della restaurazione borbonica del 1821, dopo i moti carbonari e l’ammutinamento a Nola dei sottotenenti Michele Morelli e Giuseppe Silvati. È qui che si raggiunge la più aperta denuncia delle mosse di Pepe: «Il general Pepe accoglieva nei campi di Avellino e Salerno milizie, settari [intendi: carbonari], liberali delle vicine provincie, egli non autore della rivoluzione, voleva ingrandirla per carpirne il frutto e la fama» (libro IX, cap. I, La costituzione chiesta, data, giurata, p. 38).
Carico di rancore, quando Colletta vuole descrivere la sfilata dei carbonari da Nola, il 9 luglio, trasformandola in burletta, non esita a scrivere che il generale, alla testa dei dimostranti, «sconciamente imitava le fogge e il gesto del re Gioacchino» (p. 43).
La denuncia della restaurazione la si legge nel cap. II, Riordinamento dell’assoluta monarchia. Arrivano le proscrizioni, le condanne capitali, i roghi dei libri, la restaurazione del più cupo bigottismo: «La religione, che ne’ padri nostri era di coscienza, oggi diventata d’interesse, fu ipocrisia ed inganno: infimo stato dell’anima» (p. 217).
Altro supporto alla comprensione dei moti costituzionali del 1821 fu fornito da Cesare Balbo, che scrisse le Memorie sulla rivoluzione del 1821, sua prima opera, alla quale sarebbero seguite pagine di storia avvicinabili ai grandi tableaux di Carlo Troya, quali una Storia d’Italia dal 476 al 774 (1830), che si interrompe alla dominazione longobarda, e il Sommario della storia d’Italia (1846). L’opera sua maggiore furono però le Meditazioni storiche (pubblicate in dispense tra il 1842 e il 1845), che cercavano di far coincidere la storia biblica e la rivelazione cristiana.
Ma prima di Balbo e subito dopo Colletta, quasi a suo controaltare, occorrerà rammentare le Memorie del general Guglielmo Pepe intorno alla sua vita e ai recenti casi d’Italia (1847) «che ritraggono con molta naturalezza le esperienze e i sentimenti onde un giovane soldato dell’antico regime passò via via a gallofilo e repubblicano, a fautore dell’indipendenza italiana contro i francesi, a sostenitore della monarchia, a carbonaro e costituzionale nel 1821, e infine a italianissimo difensore di Venezia contro gli austriaci nel 1848» (Croce 1947, 1° vol., p. 100).
Croce ebbe a scrivere che «le storie del Colletta e del Balbo furono parti integranti del mito effettivo del Risorgimento italiano: la prima dell’Italia meridionale che si rinnova in anti borbonica e liberale, la seconda dell’Italia tutta che si volge contro il dominio austriaco a rivendicare l’indipendenza come fondamento di nuova vita civile; la prima arma di battaglia dei liberali napoletani, la seconda arma di battaglia dei politici piemontesi» (Croce 1948, p. 298).
«Voi» – Capponi scriveva a Troya il 13 gennaio del 1841 – «non avete voluto intedescarvi con l’almanaccare troppo intorno alle parti induttive. Avete pigliato le testimonianze come sono, pesandole come fa il giudice criminale. Di ciò forse taluni saranno in collera, io non vi biasimo, perché il rifare la storia a priori è il vizio del nostro tempo, e la vostra è opera tutta italiana, quanto alla forma ed al criterio come all’intendimento» (Croce 1947, 1° vol., p. 49).
L’impegno di Carlo Troya verso gli studi medievali era nato al tempo dell’esilio seguito alla rivoluzione del 1820-21 (la stessa nella quale era stato implicato Colletta), con il saggio sul Veltro allegorico di Dante (1825), al quale avrebbe fatto seguito, nel 1832, il Veltro allegorico dei ghibellini e, infine, i quattro volumi della Storia d’Italia nel Medioevo (1839-1855), che si arrestano al regno longobardo. Storico napoletano del tutto ligio al papato romano, non aveva esitato a definire Giannone un «paglietta imbroglione» e la sua opera una «allegazione storica» (Croce 1947, 1° vol., p. 4).
«Della penisola italiana, circondata com’ella è dalle Alpi e dal mare, io prendo a scrivere le istorie dall’anno quattrocento settantasei di nostra salute, allorché i barbari spensero l’imperio d’occidente: ma innanzi ogni cosa tratterò delle origini e de’ costumi di que’ barbari e degli altri che prima d’essi erano venuti in Italia»: è questo l’incipit della sua Storia d’Italia del Medio-Evo (1839). In realtà, tutti i primi nove libri si rivelano un enorme centone, un coacervo di dati tratti dalle fonti più disparate, dagli scrittori latini ai cronisti medievali, con una assai scarsa distinzione delle fonti utilizzate, tanto da far ricordare le ricostruzioni fantasiose di Guillaume Postel. Quanto vi fosse di favoloso lo si può arguire sin dalle prime pagine: «s’afferma che non per la prima volta vennero i barbari dopo l’imperio […] quanto di simil sentenzie sia la parte del vero cercherò d’investigare nel primo volume delle istorie che scrivo e massimamente nel primo libro, il quale contiene le tradizioni e le favole delle origini de’ Goti e degli Sciti e sulla venuta in Italia dei primi barbari avanti la guerra di Troia» (sic! Storia d’Italia del Medio-Evo, cit., p. 8). Bontà sua, confesserà: «oscuro è affatto diciassette generazioni avanti la guerra di Troia, lo stato degl’indigeni d’Italia» (p. 38).
Per giungere ai Longobardi, Troya non esita a risalire all’anno 1410 avanti l’era volgare, trovandone le fonti negli annali d’Irlanda dei «quattro maestri», da dove apprende come vi fossero state «molte guerre» tra Engusio eroe d’Irlanda e quel popolo barbarico (libro I, par. XXXII, p. 66). Pelasgi e Dauni sono qui ripresi, nella convinzione che «non del tutto favolose debbano credersi le navigazioni di sì fatti popoli», che sarebbero avvenute «due o tre generazioni prima della guerra di Troia», la quale, sotto la sua penna, pare diventata un punto di riferimento cronologico essenziale (libro I, par. XXXII, p. 74).
Giunto al capitolo quinto, dirà che «nella stessa Roma, i più vecchi ed i più versati nei maneggi delle cose pubbliche aveano perso la memoria del trattato concluso co’ Cartaginesi nell’anno della morte di Tarquinio», aggiungendo non essere suo compito «esaminare le cagioni di tanta differenza nello spazio di circa tre secoli e mezzo trascorsi da Tarquinio a Terenzio, il quale innanzi ogni altro raggentilì e nobilitò la favella del Lazio nel tempo che Polibio viveva in Roma» (libro V, par. I, p. 264).
Finalmente, con il libro VIII, entrano in scena i Longobardi (per essere subito sommersi dal minuto catalogo di altri, innumeri popoli barbarici!): «La primitiva patria de’ Longobardi sembra essere stata di là dall’Elba, sibbene le loro tribù passassero sovente il fiume accorrendo alla difesa dei concittadini» (libro VIII, par. III, p. 417).
La ricostruzione del regno longobardo cede però il passo ai Goti, il cui regno è descritto come pacifico e rispettoso della religione. Troya è un neoguelfo, e non riesce a parteggiare per un popolo che ha abbracciato la fede ariana e ha ostacolato l’espansione del potere papale. «I Goti divennero per lui l’antitesi dei Longobardi» (Croce 1947, 1° vol., p. 128) e li fece discendere dai Geti, basandosi sull’assenza nei loro ordinamenti del guidrigildo (Storia d’Italia del Medio-Evo, cit., libro II, par. II, pp. 513-15). Il riscatto sarebbe avvenuto con il trattato del 754 fra Romani e Franchi, sul quale si sarebbe basato il diritto pubblico europeo medievale (libro II, par. III, p. 1184). Questo il nuovo storico che aveva rifiutato di «intedescarsi»? Un uomo mosso da una fede incrollabile nel papato che lo porta ad attaccare Dante e il suo ghibellinismo (Croce 1947, 1° vol., pp. 125-26).
In quegli stessi anni – tra il 1821 e il 1822 – mentre era impegnato nella stesura dell’Adelchi, Alessandro Manzoni affrontava un Discorso sopra alcuni punti della storia sui Longobardi con il quale rovesciava tutte le precedenti interpretazioni della storia dei rapporti tra barbari e vinti, contestando una fusione del ceppo latino con i sopraggiunti popoli barbarici, teorizzata da Bacchini, da Muratori, da Giannone. In ciò, Manzoni era influenzato dalla frequentazione del circolo parigino degli idéologues, riuniti alla Maisonnette attorno a Claude Fauriel (1772-1844) e punto d’incontro del movimento romantico. A una concezione ‘ghibellina’ se ne opponeva adesso una compiutamente ‘guelfa’. Sull’esempio di Augustin Thierry e di François Guizot: «l’interessamento si rivolgeva ai popoli vinti, a quei vinti romani e celti, che formarono poi il popolo del Terzo stato, la borghesia e crearono nel Medioevo i Comuni, e nei tempi nuovi avevano presa la direzione della società umana» (Croce 1947, 1° vol., p. 123).
In questa galleria di rivisitatori del nostro Medievo barbarico, si incontra ora Luigi Tosti, monaco dell’abbazia di Montecassino, con una biografia che ci riporta a dom Bacchini, ma con una diversa lettura del passato longobardo. Dopo aver steso una storia in tre volumi della sua abbazia (1842-1843), Tosti era passato a scrivere una Storia di Bonifazio VIII (1846) e una Storia della Lega lombarda (1848). In quest’ultimo anno, acceso dai moti liberali, accostatosi a Gioberti, aveva scritto un opuscolo politico: Il Veggente del sec. XIX, aggiungendo alla sua Storia una sorta di appello:
Mentre io ero tutto in queste storie, dico in questo salutifero anno 1848, fu tale e tanto repentino scroscio di umani fatti, che addivenne intempestivo il ministero dello storico, che a quei fatti indirizzava. Io scrivevo per Italiani italiane glorie, quando tutta Italia trabalzò in piedi e si mosse per là dove la vanno scorgendo i placati cieli […] Levai tosto la mano da queste pagine, ed alla patria che esce, come da feudale castello, dagli steccati del Medioevo io, uomo del Medioevo, consegno questo volume […] Ite, o fratelli; osate e la vostra mente basti non solo al concetto della vostra nazione, ma anche a quello di tutta l’umanità (cit. in Croce 1947, 1° vol., p. 141).
Tornò in seguito ai temi preferiti, con un saggio su Abelardo (1851) e ancora su La contessa Matilde e i romani pontefici (1859).
A sostegno delle tesi neoguelfe, con un’altrettanta profluvie di dati, accorrevano Carlo Capponi con le Lettere sulla dominazione dei Longobardi in Italia (edite nell’«Archivio storico italiano»,1844 e segg., poi in Scritti editi e inediti di Gino Capponi, a cura di M. Tabarrini, 1° vol., 1877), in buona sostanza concorde con Troya, e Cesare Cantù, con un’impresa monumentale: settantadue dispense raccolte in venti volumi, una Storia universale, compilata fra il 1838 e il 1845, ampliata tra il 1883 e il 1890. Furono i frutti della scuola cattolico-liberale alla quale appartennero Manzoni, Troya, Capponi, Cesare Balbo, Vincenzo Gioberti, Luigi Tosti, «tutti cattolici di sentimento, tutti fervidi patrioti e liberali» i quali «operarono nella vita pratica secondo quel che credettero di aver visto delineato nella storia come perseguimento del futuro», tutti apertamente compromessi in responsabilità politiche e istituzionali, senza sottrarsi, quando fosse stato necessario, al combattimento (Croce 1947, 1° vol., p. 121).
Un posto a parte spetta a Gian Domenico Romagnosi, che qui ricorderò, tralasciando i suoi contributi giuridici, solo per il suo saggio Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento: con esempio del suo risorgimento in Italia (1831), nel quale si ripresentava il tema dei rapporti tra Longobardi e papato (per un approfondimento cfr. Croce 1947, 1° vol., pp. 209-12).
Alla rivoluzione del 1820-21 narrata da Colletta e, nelle proprie memorie, da Pepe, si affiancava nel 1842, diremmo sotto false spoglie, una storia dei Vespri (La guerra del Vespro) scritta da Michele Amari, «Forse la prima opera che allora apparisse degna di essere collocata accanto alle straniere per uso di documenti originali e severa critica delle fonti, ma che segna assai bene il passaggo dalla storiografia di tendenza alla storiografia scientifica» (Croce 1947, 1° vol., p. 231). In essa si riverberava il contrasto che aveva opposto le due valve del Reame nel 1820-21 e di nuovo nel 1848. Come dichiarava lo stesso autore, con il pretesto di narrare un brano di storia duecentesca, si finiva con il «gridare la rivoluzione (contro Napoli) senza che il vietasse la censura […] Forse perché sono nato in Sicilia e in Palermo, io ho potuto meglio comprendere la sollevazione del 1282, sì come essa nacque, repentina, uniforme, irresistibile, desiderata ma non tramata, decisa e fatta al girar d’uno sguardo» .
Ovviamente opera talmente invisa al governo borbonico che la censura obbligò a mutarne sino il titolo, con un anodino: Un periodo delle istorie siciliane del secolo XIII. Quell’opera avrebbe costretto il suo autore a un lungo esilio in Francia, che sarebbe durato sino al 1860 (salvo la breve interruzione del 1848-49, quando la rivoluzione gli permise di rientrare in Sicilia per essere eletto deputato al Parlamento e nominato ministro delle finanze).
Il lungo esilio francese segnò una svolta, non solo nei suoi studi, ma più latamente in tutta la storiografia italiana del tempo. Sotto la guida dell’arabista Joseph Toussaint Reinaud, Amari s’impegnò nello studio dell’arabo e ciò gli consentì di affrontare un momento rilevante nella storia della sua Sicilia. Di invasioni barbariche l’Italia – o almeno una sua parte importante – oltre ai Longobardi ne aveva conosciuta almeno un’altra, nel suo Mezzogiorno: quella degli Arabi. Narrarne la storia fu l’impegno che si assunse Amari, il cui frutto maggiore furono i tre volumi della Storia dei Musulmani di Sicilia (1854-1872).
«Per quale profonda ragione il secolo decimonono si presentasse come il ‘secolo della storia’ non era per solito chiaro ai tanti che allora avvertivano e affermavano quel carattere, ma chiarissimo è a noi che sappiamo come storia valga svolgimento, e che lo svolgimento fu il criterio politico-sociale e il pensiero filosofico del nuovo secolo […] uno dei motivi che avevano condotto a ricercare una scienza della storia o la storia come scienza, era stato di procurare certezza alla storia e, come suonava la formula vichiana, di convertire il certo nel vero» (Croce 1947, 1° vol., pp. 21 e 30).
Le opere di Friedrich Schelling e di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, di Victor Cousin e di Jules Michelet impressero una svolta profonda nella storiografia, non solo italiana. Una rivoluzione pari a quella operata sugli eruditi del Settecento dalla scuola di Saint-Maur. Fu allora di nuovo sprone agli studiosi italiani un’opera apparsa oltre confine, di uno svizzero amante dell’Italia (vi soggiornò a lungo, in Toscana), amico di Madame de Staël della quale frequentò il salotto nel castello di Coppet, un seguace di Adam Smith: Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi (1773-1842), autore di una grande Histoire des républiques italiennes du Moyen-âge (1807-1808).
«Ritornava la storia, ma con altri impulsi. Non si trattava più di diritti territoriali. La sete del dominio e dell’influenza era dissimulata da motivi più nobili. Venivano in nome delle idee moderne. Gli uni gridavano libertà e indipendenza nazionale, dietro alle loro baionette ci era Voltaire e Rousseau. Gli altri, proclamatisi prima difensori del papa e ristoratori del vecchio, finivano promettitori di vera libertà e di vera indipendenza. Le idee marciavano appresso a’ soldati e penetravano ne’ più umili strati della società. Propaganda a suon di cannoni, che compì in pochi anni quello che avrebbe chiesto un secolo»: così Francesco De Sanctis, nelle ultime pagine della sua grande Storia della letteratura italiana (1870).
G. Gentile, Pietro Giannone plagiario e grand’uomo per equivoco, recensione a G. Bonacci, Saggio sull’Istoria civile, Firenze 1903, «La Critica», 1904, pp. 216-51.
E. Fueter, Geschichte der neueren Historiographie, München-Berlin 1911 (trad. it. Storia della storiografia moderna, ed. riv. e corretta, Milano-Napoli 1970).
N. Cortese, La vita di Pietro Colletta, Roma 1921.
N. Cortese, I ricordi di un avvocato napoletano del Seicento, Francesco D’Andrea, Napoli 1923.
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