Dal "primo triumvirato" agli inizi dello scontro tra Cesare e Pompeo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dopo il ritorno di Pompeo, a Roma viene costituito il cosiddetto "primo triumvirato", accordo personale tra il vincitore di Mitridate, Cesare e Crasso. Le problematiche della politica interna restano tuttavia aperte; personaggi abili e ambigui come Clodio riescono così a ritagliarsi ampi spazi. Quando Cesare, autore della conquista della Gallia, decide infine di tornare nell’Urbe per candidarsi a un nuovo consolato, finisce per scontrarsi con Pompeo, ormai entrato nell’orbita senatoria.
Tra i molti e non sempre fondati timori vissuti da Cicerone durante la congiura di Catilina vi è anche quello legato al ritorno di Pompeo. Una inquietudine condivisa da buona parte della classe dirigente, che il console del 63 a.C. riesce momentaneamente a mantenere unita grazie alla repressione dei ribelli e al concetto di concordia ordinum, in seguito sviluppato nei suoi scritti politici.
Cicerone e il pensiero repubblicano
Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), oltre che oratore e politico di primo piano, fu anche un fertile e poliedrico teorico, universalmente riconosciuto dalla cultura occidentale sino al XIX secolo. Fu allora che la sua figura ebbe la sventura d’incappare nei giudizi filosofici di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), che ne condannò il pensiero, ritenendolo privo di originalità, e in quelli storici di Theodor Mommsen (1817-1903), "cesarista" convinto. Cicerone fu anche autore di opere di riflessione politica. Tra queste: l’orazione In difesa di Sestio (56 a.C.), in cui il "conservatore illuminato" auspica il consenso di tutti i boni, gli "uomini dabbene"; La repubblica (55-51 a.C., rinvenuta da Angelo Mai solo nel 1819, fatta eccezione per alcune citazioni e per il notissimo Sogno di Scipione), che espone teoria e storia costituzionale di Roma, traendone un nesso tra istituzioni e morale; Le leggi (52 a.C.), che affronta il rapporto tra legislazione, diritto naturale, forme di governo e funzioni dello stato; I doveri (44 a.C.), in cui si delinea una morale per la classe dirigente romana. Uno dei concetti ciceroniani più importanti è quello di res publica, ovvero "ciò che appartiene al popolo": popolo che non è "ogni moltitudine di uomini riunitasi in maniera qualsiasi, ma una società organizzata che ha come fondamento l’osservanza della giustizia e la comunanza degli interessi" (La repubblica, I 25). La vera libertà esisterebbe "solo in quella repubblica in cui il popolo ha il sommo potere" e comporterebbe "assoluta uguaglianza di diritti", in quanto "la libertà […] non consiste nell’avere un buon padrone, ma nel non averne affatto" (La repubblica, II 25). Tra i pensatori politici del secondo dopoguerra più attenti a Cicerone vanno ricordati Hannah Arendt (1906-1975) e tutta la corrente critica – soprattutto anglosassone – che si ispira al modello repubblicano come "terza via" tra liberalismo e posizioni comunitarie.
Il generale, tornato a Roma nel 62 a.C., non pare però voler approfittare della propria forza. Smobilita le legioni, trovandosi così messo in scacco da un senato che temporeggia sulla ratifica del suo nuovo assetto orientale e ne ignora le richieste a favore dei veterani.
È solo nel 60 a.C., con il ritorno del propretore Cesare dalla Spagna, che la situazione si sblocca. Anch’egli scioglie l’esercito, rinunciando al trionfo (che, richiedendo la permanenza in armi fuori dall’Urbe, gli avrebbe impedito di candidarsi al consolato). Propone quindi a Pompeo e Crasso un accordo privato, definito spesso – in riferimento al patto ufficiale del 43 a.C. tra Ottaviano, Antonio e Lepido – "primo triumvirato". Esso in particolare garantisce a Pompeo – che sposerà Giulia, la giovane figlia di Cesare – l’approvazione delle proprie richieste e a Crasso disposizioni molto favorevoli ai publicani.
Console nel 59 a.C., il patrizio Cesare avanza riforme in senso decisamente popularis.
Se la normativa sui publicani, volta a offrire agli esattori d’Asia un forte sgravio d’imposta, non solleva problemi, l’approvazione delle due leggi agrarie si rivela difficile. La prima, che assegna ai veterani di Pompeo quanto resta del demanio italico, giunge al voto solo impedendo con la forza l’opposizione dell’altro console, l’ottimate Marco Calpurnio Bibulo. Questi, barricatosi nella propria dimora, rimarrà inattivo per l’intero anno, a scrutare quei segni del cielo che potevano, per tradizione ma in ben altre circostanze, interrompere la vita politica. Una seconda proposta, rivolta alla plebe urbana, assegna il territorio campano – particolarmente fertile e costellato di ricche ville – a 20 mila padri di famiglia bisognosi. La commissione incaricata di applicarla incontra tuttavia difficoltà operative ed economiche – molte delle terre devono essere acquistate –, accompagnate da boicottaggi: una sistemazione verrà raggiunta solo tra il 46 e il 44 a.C. Cesare fa poi confermare quanto stabilito da Pompeo per l’Oriente; le nuove provinciae di Bitinia-Ponto, Cilicia e Siria danno così a Roma la possibilità di raddoppiare le entrate fiscali. Una normativa de repetundis vieta ai governatori delle provinciae di accettare doni e rende loro obbligatorio il deposito di rendiconti non solo a Roma ma anche in due città dei territori amministrati. Per togliere efficacia alle tattiche ostruzionistiche Catone era riuscito, con discorsi-fiume, a bloccare il dibattito senatorio sulla riforma agraria) e forse ancora memore della condanna dei seguaci di Catilina, Cesare stabilisce la pubblicazione degli acta senatus, ciò che già avveniva per gli acta populi.
Dopo questi passi bisogna assicurarsi continuità. Il tribuno filocesariano Publio Vatinio propone allora una legge che, contro la prassi ma sull’esempio di Gabinio (67 a.C.) e Manilio (66 a.C.), conferisce al console, sino al marzo del 54 a.C., Gallia Cisalpina e Illirico. È tuttavia l’assegnazione senatoria dell’allora tranquilla Gallia Narbonese a dare a Cesare la possibilità di realizzare le proprie ambizioni di potere.
In una Roma ancora nelle mani dei "triumviri", nel 58 a.C. sale al tribunato Publio Clodio (già Claudio) Pulcro, che in quell’anno, grazie al sostegno della plebe urbana e alla violenza di piazza, riesce a mettere in ombra l’iniziativa di tutti gli altri magistrati.
Il giovane patrizio – fratello e probabilmente amante della disinvolta "Lesbia" cantata dal poeta Catullo – aveva già fatto parlare di sé in Asia, dove aveva guidato la ribellione delle truppe di Lucullo (68 a.C.), e a Roma, dove, travestito da donna, era entrato (62 a.C.) nella dimora del Pontefice massimo Cesare, profanando così le cerimonie della Bona Dea. Per quest’ultimo gesto era stato processato per sacrilegio, uscendone, nonostante la pesante testimonianza di Cicerone, assolto. Proprio Cesare, nel 59 a.C., gli aveva permesso il "passaggio alla plebe": i patrizi (l’antichissima aristocrazia di sangue, allora ridotta a una manciata di famiglie) non potevano infatti diventare tribuni. È così che, tra le altre cose, Claudio aveva mutato il proprio nome nel più "plebeo" Clodio.
La sua attività legislativa è particolarmente ampia, così come vari sono i giudizi storiografici sulla sua figura. Egli sancisce, per la prima volta nella storia, la totale gratuità delle distribuzioni di grano, ottenendo anche il controllo sulle liste degli aventi diritto (aumentati a dismisura a partire dal 62 a.C.). La misura, popolare ma costosa, metterà in crisi il disegno cesariano di allontanare, con le distribuzioni terriere, i disoccupati dall’Urbe. Ma proprio e solo l’Urbe è il punto di riferimento di ogni tribuno: Clodio riesce a controllarla riportando in vita i collegia, le corporazioni – professionali e cultuali – soppresse nel decennio precedente per ragioni di ordine pubblico. Ciò gli fornisce la base per organizzare i propri sostenitori, nonché bande armate che per molto tempo agiteranno la vita cittadina. Per venire incontro ai costi delle distribuzioni di grano ma in totale disprezzo delle prerogative senatorie in politica estera, riduce poi a provincia la ricca isola di Cipro e ordina la requisizione dei beni del re Tolemeo, accusato di complicità con i pirati. Un’altra legge – passata con il beneplacito dei "triumviri" – sanziona con l’esilio l’uccisione di un cittadino non condannato: evidente è il riferimento al nemico Cicerone e alla repressione dei seguaci di Catilina.
L’interessato fugge da Roma e dall’Italia; un altro provvedimento, questa volta ad personam e retroattivo, ne sancisce allora lo stato di esule e, accusandolo di avere falsificato, nel dicembre del 63 a.C., i verbali del senato, fa cadere su lui solo il peso di una decisione in realtà ampiamente condivisa. Proprio per questo, secondo alcuni, Clodio era divenuto tribuno: i "triumviri" volevano punire Cicerone.
Sostenuto forse da Cesare o da Crasso, attacca infine Pompeo, ancora l’uomo più potente di Roma. Alla violenza delle bande del tribuno, in una città che non conosceva le "forze dell’ordine", viene opposta quella di gladiatori appositamente assoldati; gli scontri di piazza si trascineranno così, nel quinquennio successivo, quasi senza sosta.
In quel clima incandescente, Pompeo decide di richiamare Cicerone dall’esilio; ciò avviene nel settembre del 57 a.C., con il voto di un’assemblea centuriata gremita di cittadini provenienti da tutta la penisola. Poco dopo, in seguito a una grave carestia, causata dalla legge di Clodio sul grano o – più probabilmente – da un boicottaggio organizzato ad arte dai governatori provinciali amici di Pompeo, quest’ultimo ottiene l’incarico di gestire approvvigionamenti e distribuzioni.
Il disordine diffuso convince molti optimates di poter spezzare il fronte "triumvirale". Hanno così inizio le prove di quanto si realizzerà negli anni a venire: l’accerchiamento di Pompeo, gradualmente spinto contro il popularis Cesare. Dura è l’opposizione senatoria nei confronti delle riforme agrarie, i cui costi sono incompatibili con le già ingenti uscite legate alle distribuzioni di grano, e insidioso il progetto di destituire il proconsole dal comando in Gallia. Il tempo, però, darà ragione a Cesare.
Di lì a poco, la pubblica attenzione si sposta verso Occidente, da dove Cesare, con abile propaganda, pubblicizza e giustifica successi e metodi di una spietata guerra di conquista, spesso inaccettabili persino al non morbido "diritto internazionale" dell’epoca.
Roma e la "guerra giusta"
Gli eventi dell’11 settembre 2001 e il successivo impegno militare occidentale – inteso come "guerra preventiva" – in Afghanistan e Iraq hanno, nuovamente, portato il mondo a domandarsi se e in quali termini possa esistere una "guerra giusta". Il problema, come naturale, ha un’ampia tradizione, che parte dal Medioevo e giunge sino ai nostri giorni. Anche Roma antica si poneva tale interrogativo, ma con sensibilità molto diversa. La "guerra giusta", per Roma, era infatti la guerra che seguiva le procedure previste. Il sacerdote feziale – membro dell’omonimo collegio, garante del "diritto internazionale" dell’epoca – si recava presso il "confine" (prima reale e in seguito simbolico) con una lancia e, recitata la formula con cui dichiarava guerra, la gettava nel "territorio nemico". Cicerone, ne I doveri, scrive che la giustizia "della guerra è stata religiosamente prescritta dal diritto feziale del popolo romano. Ne deriva quindi che nessuna guerra è giusta se non quella che si intraprenda dopo regolare domanda di soddisfazione e sia stata prima minacciata e dichiarata" (I 36, trad. A. Resta Barrile). Scrive inoltre che "esiste anche un diritto di guerra, e spesso si deve osservare col nemico la fede del giuramento", ma ciò a seconda del tipo di nemico; ad esempio, il pirata "non è annoverato fra i nemici di guerra, ma è nemico comune di tutti, e con lui non possiamo avere in comune né la fede né il giuramento" (III 107). Il dibattito di metà del II secolo a.C. sulla terza guerra punica, i massacri della guerra sociale e civile, nonché la denuncia dell’ottimate Catone "Uticense" contro i crimini del popularis Cesare in Gallia, dovevano tuttavia avere indotto un mutamento di questa rigida e arcaica percezione. Sempre Cicerone, infatti, fa anche notare che "si deve intraprendere la guerra solo per poter vivere in pace e senza offesa e, ottenuta la vittoria, si devono risparmiare quelli che non furono in guerra né crudeli né malvagi" (35) e che "quelle guerre che si intraprendono per la gloria devono essere condotte con minore asprezza" (I 38).
La Gallia – che comprendeva gli odierni stati di Francia e Belgio, nonché la parte di Germania alla sinistra del Reno –, era divisa in circa 60 tribù. Unite da un modello di governo aristocratico e dalla religione druidica ma spesso in conflitto tra loro, afferivano a tre diversi gruppi etnici: celtico (centro), iberico (Aquitania) e germanico (Belgio). Ciò, accanto alle non precise cognizioni geografiche dell’epoca, rende difficile seguire le fasi del lungo conflitto, pur tratteggiate con cura negli scritti di Cesare.
Casus belli sono le richieste degli Elvezi (nell’odierna Svizzera occidentale), i quali, non reggendo più la pressione dei Germani di Ariovisto, intendono spostarsi oltre il Rodano e la romana Gallia Narbonese. Le fortificazioni costruite dal proconsole, tra Giura e lago di Ginevra, sono inutili: quando gli Elvezi riescono a passare per le terre dei Sequani (nell’odierna Franche-Comté), egli interviene. Sconfigge i Sequani a Bibracte (oggi Autun); quando Ariovisto chiama in Gallia altre tribù germaniche, in un’aspra battaglia, avvenuta probabilmente nella piana di Ochsenfeld (presso l’odierna Mulhouse), Cesare trionfa. Belgi e Nervi (nell’estremo nord) vengono a loro volta bloccati, mentre le tribù di Bretagna e Normandia si arrendono. Quando il proconsole, alla fine del 57 a.C., informa Roma che l’intera regione è in pace, la notizia è accolta con 15 giorni di festeggiamenti: ogni minaccia da settentrione pare ormai un lontano ricordo.
Cesare però non si ferma. Nel 56 a.C. si sposta in Bretagna e nel 55 a.C., presso Treveri (oggi Trier), massacra Usipeti e Tencteri, avendone prima arrestato ambasciatori, capi e anziani: ciò induce Catone a chiedere che egli fosse consegnato alle vittime. Si spinge poi in Germania e sbarca in Britannia, dove sconfigge le genti che ne popolano il sud-est: può così annunciare a Roma di avere portato le legioni oltre l’Oceano. Una nuova e pericolosa agitazione in Gallia, però, lo costringe a rientrare.
I ribelli popoli del nord vengono affiancati, l’anno seguente, da una sollevazione di massa, che prende il via dalle terre dei Carnuti (nell’odierno Centre). Vercingetorige, giovane re degli Arverni (nell’odierna Auvergne), ne assume il comando, mettendo in atto efficaci tecniche di guerriglia. Cesare cerca di ribaltare la situazione espugnando Cenabum (oggi Saint Benoît-sur-Loire, presso Orléans) e ponendo l’assedio a Gergovia (oggi Clermont-Ferrand); dopo uno scontro tra cavallerie, Vercingetorige, con 80 mila uomini, si chiude infine in Alesia (forse l’odierna Alise Sainte-Reine). Il proconsole, con soli 30 mila legionari, stringe d’assedio la città, costruendo un doppio vallo fortificato, per chiudere da una parte i difensori e per proteggersi dall’altra dai 250 mila guerrieri che stanno sopraggiungendo in soccorso del re. L’operazione ha successo e, come tale, entrerà con ogni onore nei manuali di strategia militare. Lo sconfitto Vercingetorige – poi divenuto, nella seconda metà del XIX secolo, l’eroe del ferito orgoglio nazionale francese – deve arrendersi. Roma saluta la vittoria con altri 20 giorni di festeggiamenti.
Vercingetorige
Vercingetorige (80-46 a.C.), in celtico "grande capo di guerrieri", re degli Arverni e in seguito di tutta la Gallia in rivolta, è conosciuto quasi esclusivamente attraverso le parole del nemico Cesare. Questi, in un resoconto non certo imparziale, scrive che, attorno a Gergovia, egli "cominciò a radunare nelle campagne i poveri e gli sbandati"; in seguito "i suoi partigiani lo proclamarono re"; il personaggio "alla grande diligenza univa una grande severità nel comando; costringeva gli incerti con la paura delle pene più severe. Condannava al rogo o ad ogni sorta di supplizi chi era colpevole dei delitti più gravi, a chi commetteva qualcosa di più lieve faceva tagliare le orecchie o cavare un occhio, poi li rimandava alle proprie case, perché fossero di ammonimento per gli altri e li atterrissero con la gravità delle pene" (La guerra gallica, VII 4, trad. F. Brindesi). In occasione della definitiva sconfitta presso Alesia, nel 52 a.C., "convocato il consiglio, dichiarò di avere intrapreso la guerra non per proprio tornaconto, ma per la libertà di tutti e poiché bisognava cedere alla sorte egli era pronto a fare ciò che i suoi avessero deciso, sia che volessero con la sua morte dare soddisfazione ai romani, sia che lo volessero consegnare vivo" (VII 89). Restò sino al 46 a.C. prigioniero a Roma, sinché fu trascinato in catene per celebrare il trionfo di Cesare e subito dopo mandato a morte. Nel secolo XIX la sua figura fu riscoperta in chiave romantica e nazionalistica, per assurgere a quella di ideale primo re francese; Amédée Thierry nel 1828 fu autore di una popolare Storia dei Galli, che come tale lo celebrava; l’imperatore Napoleone III, già molto attento alla figura di Cesare, fece realizzare ad Aimé Millet una statua alta ben sette metri, per ricordare, nel presunto sito di Alesia, il coraggioso re degli Arverni. La sua figura, in Francia, trovò ancora maggiore rilievo dopo la sconfitta del 1870 contro la Prussia e la conseguente nascita della Terza Repubblica. Più in generale, nel corso del XX secolo, è stato spesso considerato come eroe della "resistenza" all’"imperialismo" romano.
La lunga assenza di Cesare, i continui scontri tra Pompeo e Clodio e le pressioni senatorie rendono necessario un nuovo patto triumvirale: nell’aprile del 56 a.C., a Lucca, per l’occasione confluisce gran parte della classe dirigente romana. Pompeo e Crasso ottengono un nuovo consolato congiunto per l’anno successivo. Tra i loro atti vi è una legge, passata con la forza e contro il volere del senato, per assicurare a Cesare otto legioni e il rinnovo del mandato proconsolare in Gallia. Difficile è per noi ricostruirne il termine temporale; esso sarà invece causa di una nuova, spaventosa guerra civile. A Pompeo, già impegnato a Roma dalle questioni granarie, viene concesso di gestire il nuovo comando sulla Spagna tramite legati.
Nell’angolo rimane Crasso; desideroso di eguagliare gli illustri colleghi, pianifica allora una spedizione contro il grande impero orientale dei Parti. Innumerevoli segni infausti, raccolti da sacerdoti e auguri, non riescono a smuoverlo dal temerario intento. Le conseguenti maledizioni che ne accompagnano l’irrituale partenza per la Siria paiono invece avere effetto: nel 53 a.C., a Carre (oggi Haran, al confine turco-siriano), la sua armata di 35 mila uomini, logorata dai 10 mila arcieri e dai cavalieri catafratti del generale Surena, viene pesantemente sconfitta. Il proconsole e il figlio trovano la morte; Roma trova a sua volta, per il futuro, un nuovo nemico.
Nel frattempo si protrae la "questione egiziana", che si ripropone con regolarità dall’87 a.C. – quando Tolemeo Alessandro I aveva lasciato un testamento in favore di Roma –, soprattutto quando l’Urbe ha bisogno di denaro. Solo nel 59 a.C. i "triumviri" avevano riconosciuto, dietro lauta tangente, Tolomeo XII sovrano dell’Egitto e alleato. L’anno successivo, tuttavia, in seguito all’annessione di Cipro, governata dal fratello, Alessandria era insorta, accusando il proprio re di passività. Costretto a rifugiarsi a Roma, egli è al centro di intrighi di ogni genere, alimentati anche dal numero sempre crescente di creditori. Sarà posto nuovamente sul trono nel 55 a.C., dal proconsole pompeiano Gabinio: questi non se la caverà a buon mercato, subendo processi sia per essere uscito dalla propria provincia (la Siria) sia per corruzione.
Gli optimates mordono il freno. Cicerone, che aveva sperato in un ruolo da protagonista, rimane semplice spettatore dell’accordo di Lucca; Catone invece torna alla sua politica intransigente, non da ultimo condannando i crimini di guerra di Cesare. Negli anni successivi, in ogni caso, i legami "triumvirali" si affievoliscono: oltre a Crasso, nel 54 a.C. muore Giulia, l’amatissima figlia di Cesare e moglie di Pompeo, che spesso tra i due – per quanto la condizione femminile dell’epoca lo consentisse – era stata importante intermediaria. Pompeo, rifiutata la mano di Ottavia, pronipote di Cesare, sposa Cornelia, vedova di Crasso e patrizia di alto lignaggio: anche questo è segno che qualcosa sta mutando.
Nel 53 a.C., ostruzionismo, brogli e violenze impediscono il ricambio delle magistrature. Clodio, candidato alla pretura per il 52 a.C., lascia intendere che proporrà di distribuire i liberti, gli schiavi affrancati, in tutte le 35 tribù (invece che nelle sole 4 urbane); si tratta di una temibile arma politica, in grado di mutare gli equilibri elettorali. Nel gennaio del 52 a.C., a Boville, sui colli Albani, egli viene infine ucciso dai gladiatori di Tito Annio Milone, ottimate fedele a Cicerone e Pompeo e allora candidato al consolato; all’episodio, forse, non è estraneo neppure Cesare, ormai stanco dello scomodo personaggio.
La morte di Clodio provoca ampi disordini di piazza; i suoi molti sostenitori plebei, con gesto di grande valore simbolico, pongono il suo cadavere nella Curia, trasformata in pira funeraria. La reazione del senato, dopo l’incendio della sua sede più importante, non può tardare: Pompeo viene nominato, con prassi eccezionale, console unico.
Il suo nuovo dominio su Roma è assolutamente temporaneo. Cesare, ancora in Gallia, chiede infatti una proroga del proprio mandato o, in alternativa, la possibilità di candidarsi al consolato per il 48 a.C. senza presentarsi nell’Urbe. La ragione è semplice: tra la scadenza del mandato e la candidatura, egli rimarrebbe privato cittadino, e come tale passibile di processi o peggio; Pompeo manterrebbe invece il proprio esercito. Dopo una serie di rifiuti da parte del senato, si passa all’assennata proposta di Caio Scribonio Curione, tribuno da poco cesariano: i due contendenti dovranno sciogliere, contemporaneamente, le armate.
Il supremo consesso approva con ben 370 voti contro 22, ma proprio il giorno seguente (il 2 dicembre del 50 a.C.) il console ottimate Caio Claudio Marcello si reca da Pompeo, offrendogli l’incarico di difendere l’Italia.