Dal Rubicone ad Azio
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Agli inizi del 49 a.C., Cesare oltrepassa il Rubicone, entrando nell’Italia peninsulare e allontanando definitivamente Pompeo; l’anno seguente lo sconfigge a Farsalo, inseguendo poi, per tutto il Mediterraneo, i resti delle sue armate. Cesare tenta di dare a Roma un nuovo assetto, ma viene ucciso in una congiura d’ispirazione ottimate e repubblicana. Da allora, nella lotta per il potere, emergono nuovi personaggi, quali Antonio e Ottaviano; quest’ultimo, dopo un lungo periodo di compromessi, riesce infine a imporsi nella decisiva battaglia di Azio (31 a.C.).
Il 1° gennaio del 49 a.C., Cesare invia al senato un ultimatum per lo scioglimento in contemporanea del proprio esercito e di quello di Pompeo. Sei giorni dopo, nonostante la mediazione di Cicerone, il supremo consesso lo dichiara nemico pubblico, proclamando lo stato di emergenza. Pompeo, ormai considerato l’unico difensore della res publica, effettua nuove leve e prende importanti contatti: con Giuba, re della Mauritania, ma anche con i numerosi alleati, governatori romani e dinasti che presidiano le regioni e i confini orientali dell’impero. La guerra civile che si profila sarà combattuta, per la prima volta, con l’apporto di forze straniere.
Il 10 gennaio, con una sola legione, Cesare attraversa il Rubicone, spingendosi a sud. Sorretto dalle simpatie di popolo e cavalieri, in soli 60 giorni conquista l’Italia, superando episodiche resistenze. Pompeo, sopraffatto dagli eventi, fa allora vela per Durazzo con al seguito un contingente di truppe e un gran numero di senatori. Sua intenzione è tornare in forze dall’Oriente e stringere il nemico in una morsa grazie alle legioni in Spagna, ancora ai suoi ordini.
Proprio per tale ragione Cesare – lasciato a Marco Emilio Lepido il controllo sull’Urbe e a Marco Antonio quello sull’Italia –, con la consueta rapidità passa in Spagna, dove sconfigge i nemici presso Ilerda (l’odierna Lleida). I pompeiani, però, hanno nel frattempo ottenuto successi militari in Africa, mentre la loro flotta, di ben 600 navi, controlla ancora il Mediterraneo.
Lo scontro definitivo ha luogo il 9 agosto del 48 a.C., in Tessaglia, nella piana di Farsalo (presso l’odierna Farsala). In realtà Pompeo, stratega non inesperto, avrebbe preferito continuare a rafforzarsi, logorando nel frattempo il nemico; decisiva è invece l’impazienza di luogotenenti e senatori al suo seguito. 47 mila uomini vengono così sconfitti dai 22 mila di Cesare, che ha modo di mostrare la propria clemenza verso ben 24 mila prigionieri.
Molti, anche altrove, iniziano così ad arrendersi, mentre l’Africa diviene meta degli irriducibili, guidati da Catone. Pompeo, a sua volta rifugiatosi in Egitto, viene fatto assassinare da Tolemeo XIII, da poco unico sovrano: salito al trono con la sorella Cleopatra VII, era infatti riuscito ad allontanarla. A Cesare, entrato in Alessandria con soli 3000 uomini, viene consegnata la testa del nemico; la reazione non è quella sperata: lo sdegno per il gesto avvicina il proconsole alla donna. Rimasto sotto assedio per sei mesi nella città (dove un incendio distrugge parte della maggiore biblioteca nel mondo antico), ottiene infine rinforzi: riesce così a sconfiggere, in campo aperto, lo stesso Tolemeo XIII, facendo nelle fila nemiche 25 mila morti e 12 mila prigionieri. A Cleopatra e al fratello minore Tolemeo XIV egli assegna, il 27 marzo del 47, il trono dell’Egitto. La relazione tra Cesare e Cleopatra, da cui nascerà il figlio Cesarione, ha chiari scopi politici: l’anno successivo ella si recherà a Roma, dove rimarrà sino al 44 a.C.
Cleopatra
"Se il naso di Cleopatra fosse stato più corto, sarebbe cambiata l’intera faccia della terra", recita un aforisma di Blaise Pascal (1623-1662), il filosofo francese del dubbio e dell’esprit de finesse. La fisiognomica lega infatti la lunghezza del naso alla forza di carattere. Cleopatra VII, una delle donne più famose di tutti i tempi, nonostante, oppure anche grazie a questa caratteristica fisica – accompagnata da ampie qualità intellettuali –, riuscì ad ammaliare quelli che allora erano i potenti della terra: Cesare, che ebbe da lei un figlio, e Antonio, che ne ebbe tre. Plutarco ricorda che "la sua bellezza in se stessa non era incomparabile o tale da stordire quelli che la vedevano, ma la sua compagnia aveva una presa irresistibile. Nell’insieme l’aspetto, il fascino della conversazione, il suo modo di trattare con gli altri, lasciavano il segno. Era anche un piacere ascoltare il suono della sua voce; e poiché ella volgeva facilmente la lingua, come uno strumento musicale a parecchie corde, a qualsiasi idioma volesse, erano ben pochi i barbari con i quali doveva trattare per mezzo di un interprete" (Vita di Antonio, 27, trad. R. Scuderi). Cleopatra riuscì a seguire Antonio, avendo ben compreso ciò che egli desiderava: "giocava ai dadi con lui, beveva con lui, andava a caccia con lui, assisteva ai suoi esercizi militari; perfino di notte, quando Antonio si fermava alle porte e alle finestre della gente del popolo e sbeffeggiava quelli di dentro, vagabondava per le strade con lui, indossando una veste da serva. Anche a lui piaceva camuffarsi così" (29). Plutarco narra anche che, quando ormai Ottaviano aveva occupato l’Egitto, Antonio si diede la morte, erroneamente convinto che Cleopatra avesse già fatto altrettanto. In realtà, invece, fu la donna a seguirlo: "la trovarono morta, sdraiata su un letto d’oro, abbigliata coi suoi ornamenti regali" (85), vittima di un aspide o di veleno. Cleopatra e la sua storia di amore e morte con Antonio furono rese immortali dai più grandi artisti.
Poco dopo, Cesare affronta e sconfigge, con una guerra-lampo, nel Ponto e più precisamente a Zela (l’odierna Zile), Farnace II, figlio di Mitridate VI e alleato di Pompeo.
L’anno successivo riparte dall’Italia, questa volta per l’Africa, dove Catone e i pompeiani superstiti avevano raccolto dieci legioni. Dopo innumerevoli difficoltà, il 6 aprile li sconfigge a Tapso (presso l’odierna Moknine, sulla costa orientale tunisina). Catone, mettendo in atto i suoi principi stoici, muore suicida a Utica (nell’odierno golfo di Tunisi, città che si era rifiutata di resistere): da qui il soprannome di Uticense. Il regno di Giuba viene annesso ai domini romani, formando la provincia dell’Africa Nova, affidata al già pretore e in seguito grande storico Caio Sallustio Crispo.
Tornato nell’Urbe, Cesare può così celebrare, a partire dal 25 luglio, un quadruplice trionfo (su Gallia, Egitto, Ponto e Africa).
Nel frattempo, in Spagna, Cneo e Sesto, figli di Pompeo, raccolgono 13 legioni; Cesare li sconfigge, il 17 marzo del 45 a.C., presso Munda (tra le odierne Siviglia e Malaga). La vittoria è totale e il dittatore, per la prima volta dal passaggio del Rubicone, avvia una repressione spietata, dalla quale si salva il solo Sesto Pompeo; nell’ottobre del 45 a.C. ottiene così il suo quinto trionfo, il primo mai celebrato per la vittoria di un romano su romani.
Le vittorie cesariane sono intervallate da soggiorni a Roma, durante i quali egli può consolidare il proprio potere e attuare, soprattutto a partire dal 46 a.C., una serie di riforme. Problema principale è, naturalmente, la legittimazione del potere, che gli viene riconosciuta in tempi brevi. Agli inizi del 49 a.C., un’Urbe sguarnita gli aveva confermato il mandato proconsolare; tornato dalla Spagna a dicembre, egli aveva ottenuto la dittatura (deposta però agli inizi del 48 a.C., dopo l’elezione a console). Una dittatura di maggior durata gli era stata conferita dopo Farsalo, mentre con Tapso ottiene attributi esclusivi: dittatura decennale, potere censorio, inviolabilità tribunizia e diritto di disporre sui magistrati (costretti a giurare sul suo "Genio"). Agli inizi del 44 a.C., la dittatura diviene perpetua: Cesare, che ha anche iniziato a farsi chiamare pater patriae e imperator, ha ormai imboccato la strada dell’autocrazia.
Da un punto di vista sociale, tra le sue molte riforme vanno ricordate la decurtazione degli interessi arretrati dei debitori, il richiamo di numerosi esuli, la reintegrazione dei figli dei proscritti sillani, la riduzione degli aventi diritto alle distribuzioni di grano (da 320 a 150 mila), l’applicazione della legge agraria del 59 a.C., la sistemazione di molti veterani e, più in generale, di 80 mila coloni in nuove fondazioni (tra cui Cartagine e Corinto), nonché l’impiego dei disoccupati in consistenti opere pubbliche.
Dal punto di vista istituzionale e amministrativo, Cesare aumenta il numero dei magistrati (portando i pretori sino a 16 e i questori sino a 40) e dei senatori (da 600 a 900). La Cisalpina ottiene la cittadinanza romana, mentre Creta viene separata dalla Cirenaica e Cipro unita alla Cilicia; alle provinciae si aggiungono Acaia (staccata dalla Macedonia), Illirico, Africa Nova e Gallia Comata. Importante riforma, infine, è quella del calendario: la durata dell’anno viene fissata in 365 giorni (contro i 355 del sistema in uso, che si fa risalire al mitico re Numa Pompilio), disponendo l’aggiunta di un 366° giorno ogni quattro anni. Si ha così un computo "solare”, vale a dire allineato alle stagioni e non più alla durata del mese lunare. Il nuovo calendario, detto "giuliano" e poi "gregoriano" – per una leggera modifica subita nel 1582 a opera di papa Gregorio XIII (la sottrazione di tre giorni ogni 400 anni) –, è ancora oggi quello ufficiale nella maggior parte dei paesi del mondo.
Agli inizi del 44 a.C., quando erano già in corso i preparativi per una spedizione contro i Parti, Cesare rinuncia al titolo regio (a Roma sinonimo di tirannide) e al diadema, offertigli da Antonio e connessi a un vaticinio: la vittoria orientale sarebbe stata possibile solo a un sovrano.
Qualcuno, però, aveva già deciso d’interrompere quella straordinaria ma altrettanto inquietante parabola politica. Il 15 marzo del 44 a.C., tre giorni prima della partenza, Cesare viene assassinato nella curia; a capo dei congiurati – decine di senatori, optimates e repubblicani convinti – vi sono i pretori Caio Cassio Longino e Marco Giunio Bruto. La presenza di quest’ultimo ha un forte valore simbolico, in quanto discendente di quel Lucio Giunio Bruto che nel lontano 509 a.C. aveva scacciato da Roma i Tarquinii, permettendo la nascita della repubblica. A Bruto e Cassio, posti da Dante nella parte più bassa dell’Inferno, assieme a Giuda, si sarebbe guardato, durante la Rivoluzione francese, come agli eroi repubblicani per eccellenza.
La morte di Cesare lascia una situazione complessa. Egli aveva infatti messo mano alla riforma dello stato ma non si era posto il problema della continuità; anche i suoi assassini paiono privi di un progetto, pure solo di massima, confidenti forse che la repubblica avrebbe potuto risorgere con le proprie sole forze.
I primi segnali sono invece quelli, sinistri, di una nuova guerra civile. I congiurati, di fronte all’ostile accoglienza della plebe romana, trovano rifugio sul Campidoglio; Lepido invia un gruppo di soldati ad assediarli.
A evitare un nuovo bagno di sangue è il console Antonio, che propone al senato – nel quale Cesare aveva introdotto molti suoi fedeli – un accordo. Se si fosse stabilito che il defunto era un tiranno, sarebbe stato necessario invalidarne gli atti, tra cui benefici personali e assegnazioni ai veterani; più ragionevole sarebbe stato risparmiare gli assassini e allo stesso tempo attuare le volontà di Cesare, di cui egli possedeva gli scritti. La proposta viene approvata all’unanimità.
Cesare e Napoleone, “cesarismo” e “bonapartismo”
Cesare, dalla sua morte sino all’età contemporanea, è stato riferimento politico centrale e costante. È tuttavia nelle riflessioni di Napoleone I, riprese e ulteriormente approfondite da Napoleone III, sul personaggio romano (oggetto, da parte di entrambi, di estrema identificazione personale), che nacque il concetto di "cesarismo", fondendosi quindi e inevitabilmente con quello di "bonapartismo". Si tratta, in sostanza, della legittimazione di una sovranità che promana dalla figura di un capo carismatico e che si basa sul suo rapporto diretto e privilegiato con il popolo, organizzato e gestito con metodi plebiscitari. Da un punto di vista storico, tale fenomeno nasce generalmente dalla crisi di strutture politiche preesistenti e assume, pertanto, carattere provvisorio. Tra i maggiori interpreti di "cesarismo" e "bonapartismo" si devono ricordare Karl Marx (1818-1883), Max Weber (1864-1920) e Antonio Gramsci (1891-1937). Interessante notare come Marx, nella prefazione alla riedizione del 1869 de Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, abbia osservato che l’analogia tra "bonapartismo" e "cesarismo" rischi di far dimenticare "fatto essenziale che, specialmente nell’antica Roma, la lotta di classe si svolgeva solo all’interno di una minoranza privilegiata, tra i ricchi e i poveri che erano liberi cittadini". Per Weber, "bonapartismo" e "cesarismo" sono da considerare come reazioni alla burocratizzazione della società. Gramsci, nelle Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno, osserva come i due fenomeni esprimano "soluzione arbitrale, affidata a una grande personalità, di una situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica". "Cesarismo" e "bonapartismo" restano ancora oggi termini intercambiabili; a essi sono a volte associati – in maniera non troppo appropriata – fenomeni diversi, quali bismarckismo, fascismo e gollismo.
Cesare riceve funerali solenni presso il Campo Marzio, accanto alla tomba dell’amatissima figlia Giulia; la sua veste, trafitta dalle pugnalate dei congiurati, è messa in bella mostra; viene poi appiccato un colossale rogo, mentre monta la rabbia popolare verso gli assassini. Antonio – come ricordato da Plutarco e mirabilmente ripreso da Shakespeare – eccita gli animi. Sorpresa vi è all’apertura e lettura pubblica del testamento, che indica molti congiurati tra gli eredi; il favorito è tuttavia il diciottenne pronipote Caio Ottavio. Questi, di lì a poco, ritornerà dall’Oriente, assumerà il nome di Caio Giulio Cesare Ottaviano e proverà, all’inizio senza grandi risultati, a reclamare i propri diritti.
Se inizialmente Antonio, per venire incontro ai desideri del senato, abolisce l’istituto della dittatura e usa una certa prudenza, finisce in seguito per spingersi al di là delle volontà di Cesare. A tale proposito, Cicerone lo accusa a più riprese, nelle orazioni Filippiche, feroci invettive politiche, di avere prodotto falsi di ogni genere.
È in ottobre che Ottaviano, sostenuto dallo stesso Cicerone, chiama a raccolta i veterani di Cesare, dopo avere denunciato un tentativo di omicidio ai propri danni. Antonio parte invece per la Cisalpina, intenzionato a togliere il comando della provincia al congiurato Decimo Giunio Bruto Albino: suo disegno strategico è controllare l’Italia da nord, accaparrandosi le Gallie.
Assente Antonio, la situazione romana muta. Il senato, sollecitato da Cicerone, sembra riprendere iniziativa: blocca così i governi delle provinciae, ricostituendo la situazione dell’anno precedente. Ad Antonio viene tolto ogni potere e ad Albino ordinato di resistere con l’esercito in Cisalpina. Sempre su proposta di Cicerone, il giovanissimo Ottaviano è nominato propretore, mentre i consoli Aulo Irzio e Caio Vibio Pansa vengono incaricati di reclutare nuove truppe.
Sulle questioni aperte non si giungerà mai a un confronto politico: il senato annulla l’opera di Antonio – nella realtà difficilmente separabile dalle volontà di Cesare – e proclama, nel febbraio del 43 a.C., lo stato di emergenza. Ad aprile, Irzio e Pansa, affiancati da Ottaviano – che aveva a sua volta raccolto, privatamente, un esercito – sconfiggono Antonio a Forum Gallorum (presso l’odierna Castelfranco Emilia) e sotto le mura di Modena; entrambi i consoli, però, muoiono. Altri colpi di scena ribaltano i rapporti di forza: Antonio, inseguito da Albino sino nella Transalpina, viene infatti raggiunto da Lepido, mentre anche gli eserciti di Spagna Ulteriore e Gallia Comata si schierano dalla sua parte. Alla fine dell’estate, alla testa di ben 22 legioni, può così occupare la Cisalpina.
In maniera altrettanto improvvisa, Ottaviano – che dopo la morte dei consoli si è trovato a capo di un enorme esercito – marcia su Roma, dove ottiene il consolato, non avendo ancora compiuto i vent’anni. Annulla allora l’amnistia e costituisce un tribunale speciale per gli assassini di Cesare.
Dopo tanti e tali rivolgimenti, per gli uomini più potenti di Roma è giunto il momento di fare chiarezza. Grazie a Lepido, Antonio e Ottaviano s’incontrano a Bologna verso la fine di ottobre; i tre possono così marciare sull’Urbe alla testa di 43 legioni. Nasce allora il "secondo" triumvirato, non più accordo privato come il "primo", bensì magistratura quinquennale per il consolidamento dello stato ma, di fatto, passo ulteriore verso la fine della repubblica.
Uno dei primi atti dei triumviri è il massacro degli avversari, ciò che avviene con una nuova proscrizione – con liste aperte e costantemente rinnovate –, nella quale sono uccisi circa 300 senatori (tra cui Cicerone) e 2000 cavalieri: i loro beni servono per mantenere le promesse fatte ai soldati. I tre nuovi padroni di Roma hanno, però, molti altri problemi.
La Sicilia è controllata da Sesto Pompeo, il superstite di Munda che era riuscito a raccogliere soldati e una flotta. Ancora peggio, tutto il settore orientale è nelle mani dei congiurati e allora propretori Bruto e Cassio, che erano riusciti a portare dalla loro governatori e alleati di Roma (a eccezione di Cleopatra). Lo scontro, inevitabile, avviene nell’ottobre del 42 a.C. in Macedonia, a Filippi (presso l’odierna Drama), dove in due distinte battaglie, combattute a distanza di venti giorni, vengono sconfitti prima Cassio e poi Bruto: entrambi si danno la morte. Vero vincitore sul campo è l’abile Antonio, non l’inesperto Ottaviano.
A Lepido, sospettato di tramare assieme a Sesto Pompeo – a sua volta bersaglio di un’abile propaganda, che lo accusa di pirateria – viene assegnata l’Africa; Ottaviano ha le due Spagne; Antonio ottiene la Gallia Narbonese e tutta la parte orientale dell’impero, deciso com’è a continuare i progetti espansionistici di Cesare e a mettere freno alla sempre crescente aggressività dei Parti.
Se Antonio può così aspirare a nuova gloria, decisamente impopolare è il compito di Ottaviano: rimasto in Italia, deve infatti sistemare decine di migliaia di veterani. Ciò è possibile solo con una serie di confische terriere – ai danni di 18 città, scelte probabilmente a caso –, ancora più consistenti di quelle sillane. Tra le conseguenze vi è una rivolta di possidenti e veterani, a capo della quale si pongono il fratello e la combattiva moglie di Antonio.
Dopo avere messo in seria crisi le armate romane, essi si trovano infine assediati a Perugia, dove, nell’inverno tra il 41 e il 40 a.C., sono costretti alla resa da Marco Vipsanio Agrippa, fedelissimo di Ottaviano; Antonio evita d’intervenire, e i suoi vengono graziati. Poco dopo, quando Ottaviano s’impadronisce, senza colpo ferire, della Gallia, egli assedia Brindisi, ma i soldati di entrambi gli schieramenti, uomini che hanno combattuto assieme, evitano lo scontro. Il successivo accordo prevede che tutta la parte occidentale dell’impero vada a Ottaviano e quella orientale ad Antonio; a Sesto Pompeo vengono riconosciute Sicilia e Sardegna, nonché il Peloponneso, in cambio della cessazione del blocco navale che sta affamando l’Urbe.
Ottaviano però, di lì a poco, s’impadronisce a tradimento della Sardegna e attacca la Sicilia con due squadre navali. Dato che ha la peggio, Antonio – che più di ogni altra cosa desidera pace tra romani e nuovi legionari per l’impresa orientale – deve cedergli 120 navi. Lo fa a malincuore e solo dietro la promessa di un contingente di 20 mila uomini (che, tuttavia, non gli arriveranno mai). Può così avere luogo, nel 36, lo scontro finale tra Ottaviano – in realtà Agrippa – e Sesto Pompeo; nelle acque di Nauloco (tra gli odierni Milazzo e Capo Peloro), due formazioni di 300 imbarcazioni ciascuna si scontrano nella maggiore battaglia navale combattuta sino ad allora.
Sesto Pompeo, sconfitto, fugge in Asia, dove, catturato da un ufficiale di Antonio, viene messo a morte. Lepido, ancora una volta accusato di doppiogiochismo, trascorrerà i suoi ultimi vent’anni al confino presso il Circeo, con l’incarico ufficiale di pontefice massimo.
A partire dal 36 a.C., Ottaviano pone la pace interna alla base del suo programma ideologico e propagandistico: fa perciò distruggere un gran numero di libelli e documenti, testimoni dell’inimicizia con Antonio.
Nel frattempo, questi – che tre anni prima aveva sposato Ottavia, sorella di Ottaviano – intraprende, con l’appoggio economico dell’amante Cleopatra e con un esercito di 100 mila uomini, una spedizione contro i Parti. Dall’Egitto, egli non marcia sulla Mesopotamia per la via più breve, temendo la cavalleria pesante nemica, favorita dalle pianure. Preferisce invece, secondo i piani di Cesare, raggiungere l’altipiano iranico, da dove poi scendere a sud; un tradimento, che causa la perdita, in Armenia, di due legioni, lo costringe invece a ripiegare.
Dopo due anni fa ritorno, detronizzando Artavasde, considerato responsabile di quanto accaduto. La vittoria è l’occasione per le cosiddette donazioni di Alessandria: durante il trionfo, irritualmente celebrato nella capitale egiziana, Antonio riconosce Cesarione come figlio legittimo di Cesare, offrendo a lui e a Cleopatra il governo di Cipro e dell’Egitto e assegnando inoltre ai figli avuti dalla regina la tutela di territori appena conquistati o già romani, quali Armenia, Cilicia, Cirenaica, Libia, Media e Siria.
L’unione ufficiale tra Antonio e Cleopatra (33 a.C.) e il divorzio da Ottavia (32 a.C.) fanno precipitare ancora più rapidamente la situazione, facilitando l’opera di propaganda di Ottaviano. Questi compie un atto che per Roma è irrituale e sacrilego, ma astuto: sottrae di persona alle sacerdotesse Vestali, che ne erano custodi, il testamento di Antonio; lo legge di fronte al senato, inizialmente meravigliato ma poi inorridito da quanto sta ascoltando. Antonio chiedeva di essere sepolto in Egitto, giurava che Cesarione fosse figlio di Cesare e menziona i doni elargiti ai dinasti egizi. Oggi si pensa spesso a un falso, cosa che forse, anche allora, in molti devono aver sospettato; il timore, reale, che s’impadronisce di tutti è però che Antonio volesse fare di Cleopatra la regina di Roma e trasferire la capitale dell’impero in Egitto.
I municipia dell’Italia e l’Occidente tutto sanciscono allora un giuramento di fedeltà nei confronti di Ottaviano, che sollecita e ottiene dal senato la dichiarazione di guerra nei confronti di Cleopatra (ma non di Antonio), ennesimo conflitto civile che egli era riuscito a propagandare come scontro tra due mondi e civiltà.
L’atto finale avviene in Epiro. Al fianco di Antonio c’è Cleopatra, a capo della propria flotta. Presso Azio (di fronte all’odierna Preveza), base navale nemica, Ottaviano – o, meglio, Agrippa – inizia una guerra di logoramento, condotta via terra da 30 legioni e via mare da 600 navi. Quando, il 2 settembre del 31 a.C., le 60 imbarcazioni egiziane riescono a forzare il blocco e a prendere il largo per fuggire, conducendo con sé Antonio e Cleopatra, le altre 200, guidate da ufficiali ormai demotivati, si arrendono.
Ottaviano fa il suo ingresso trionfale ad Alessandria l’anno successivo (1° agosto), dopo avere conquistato anche l’Egitto. Antonio si uccide e Cleopatra lo segue, in una delle morti più celebrate e romantiche della storia. Inizia così, per Roma e per il mondo intero, una nuova epoca.