Dal telefono alla radio (e ritorno?)
Due media, due idee
Telefono e telegrafia senza fili (abbreviata in Italia come tsf, ma conosciuta anche come wireless) comparvero a distanza di pochi anni in uno dei periodi di maggiore sviluppo della storia dei media, ossia quello che va dal 1875 alla fine del 19° secolo. Nel corso di circa vent’anni, la linotype, le macchine per la piegatura veloce dei giornali, la macchina fotografica, il fonografo e il grammofono, la cinematografia e, appunto, il telefono e la telegrafia senza fili rivoluzionarono il paesaggio visivo e sonoro contemporaneo, ampliando le modalità con cui gli esseri umani potevano comunicare (Ortoleva 1995, pp. 40 e seg.).
Telefono e wireless nacquero entrambi sulla scorta di un mezzo di comunicazione precedente, che aveva costituito la prima applicazione pratica dell’elettricità e che, soprattutto, fu il primo medium a permettere la trasmissione a distanza e praticamente istantanea del pensiero umano: il telegrafo elettrico. Unite da un progenitore comune, telefonia e telegrafia senza fili vennero introdotte a distanza di soli vent’anni l’una dall’altra. Convenzionalmente si ritiene che il telefono nacque il 14 febbraio 1876, quando lo scozzese Alexander Graham Bell (1847-1922) depositò un brevetto sul «telegrafo parlante» un paio d’ore prima di Elisha Gray (1835-1901; cfr. Flichy 1991). In realtà, molti inventori avevano lavorato in precedenza a un sistema per la trasmissione a distanza della voce: uno dei più noti fu Antonio Meucci (1808-1889) che, soltanto nel giugno del 2002, è stato riconosciuto dal Congresso degli Stati Uniti come il primo inventore del telefono.
Anche sulla paternità della telegrafia senza fili le dispute furono feroci. Molti Paesi hanno vantato scienziati ed entrepreneurs che introdussero sistemi del tutto innovativi o semplici migliorie nella trasmissione a distanza di segnali senza l’uso dei fili, elemento per il quale il wireless si distingueva appunto dal suo diretto progenitore. Dal francese Édouard Branly al russo Aleksandr S. Popov, dall’inglese Oliver Lodge agli americani Lee De Forest e Reginald Fessenden, dal tedesco Ferdinand Braun agli italiani Augusto Righi e Guglielmo Marconi, la corsa per attribuire una priorità e una paternità all’invenzione fu tortuosa ed ebbe anche notevoli ricadute sulla proprietà dei brevetti. Anche se molti sostennero che non introdusse particolari innovazioni tecnologiche, Marconi, fin dai suoi esperimenti effettuati negli anni Novanta dell’Ottocento, ebbe l’indubbio merito di pensare al wireless non come a un esperimento da laboratorio, ma come a una reale applicazione in grado di modificare la vita quotidiana: da un lato, lo considerò un vero e proprio nuovo medium che avrebbe potuto sostituire o integrare la telegrafia elettrica, in particolar modo nelle zone dove era più difficile e costoso installare reti di cavi e fili (o dove era impossibile, come sul mare); dall’altro, proprio per rendere il nuovo mezzo uno strumento utile, lo promosse come adatto a comunicare su grandi distanze, dichiarando di avere per laboratorio il mondo intero e compiendo esperimenti su larga scala che, nel primo decennio del Novecento, diedero enorme popolarità al wireless (Aitken 1976).
Dal telegrafo, telefono e telefonia senza fili scaturirono anche alcune idee fondative: in primo luogo, la possibilità di trasmettere un messaggio senza il trasporto fisico dello stesso, grazie appunto all’elettricità; in secondo luogo, l’erezione di infrastrutture e l’invenzione di appositi strumenti tecnici atti all’emissione, all’indirizzamento e alla ricezione dei messaggi; infine, l’idea stessa di telecomunicazione come conversazione intima tra due soggetti, un mittente e un destinatario, i quali potevano scambiarsi i ruoli dal momento che tale colloquio era interattivo. Telefono e wireless vennero, insomma, pensati principalmente come mezzi di comunicazione punto-a-punto, atti a collegare due persone impegnate sia a decidere le sorti del mondo sia a discutere delle ultime notizie di gossip sia che si trovassero nelle proprie abitazioni, sia che fossero in viaggio attorno al globo. Due media, un’unica idea: quella di mantenere due soggetti in contatto istantaneo e interattivo.
I mezzi di comunicazione, specie in una prima fase del loro sviluppo, sono tuttavia estremamente flessibili, possono cioè essere utilizzati per scopi e usi differenti. Niente nella natura del telefono o del wireless suggeriva che essi dovessero essere usati come mezzi di comunicazione punto-a-punto secondo le logiche del vecchio telegrafo elettrico; niente prescriveva che il telefono dovesse essere un telegrafo parlante o il wireless un telegrafo cui mancavano i fili. Qualcuno, infatti, ebbe l’idea di sperimentare in maniera alternativa i due strumenti: oltre a mettere in contatto privato e interattivo un mittente e un destinatario, telefono e tsf vennero impiegati come mezzi uno-a-molti, ossia come sistemi di comunicazione grazie ai quali si poteva trasmettere un messaggio uniforme a un pubblico indifferenziato di persone: un giornale parlato o, meglio, quello che, a partire dagli anni Venti del Novecento, si sarebbe chiamato broadcasting, forse la più potente struttura che i media abbiano ideato nel 20° secolo.
Nelle sue prime fasi di sviluppo, quindi, il telefono fu sia un mezzo di comunicazione punto-a-punto, così come lo conosciamo oggi, sia un medium circolare uno-a-molti, grazie al quale l’abbonato poteva fruire tramite il proprio ricevitore informazione, educazione e intrattenimento (un uso che è oggi quasi scomparso, se si eccettua la filodiffusione). Il wireless, allo stesso modo, fu uno strumento che permise sia la comunicazione a distanza senza fili (quello che oggi chiameremmo telefono mobile), sia la diffusione di notizie ricevibili – o, secondo alcuni, intercettabili in maniera fraudolenta – da chiunque possedesse un apparecchio (idea questa che sta alla base della radiotelevisione).
In ciascuno dei due media, in altre parole, convivevano in maniera sorprendentemente simile e intrecciata due delle principali idee di comunicazione: uno-a-uno e uno-a-molti. Queste pagine vogliono ricostruire l’origine, gli sviluppi e le traiettorie simili e, per certi versi, intrecciate dei due mezzi di comunicazione nel panorama italiano tra Otto e Novecento, con una particolare attenzione rivolta a chi pensò telefono e telegrafo senza fili dal punto di vista politico, economico e culturale.
Il telefono come punto-a-punto
A un solo anno dal deposito del brevetto di Bell, nel 1877, in Italia vennero avviate le prime sperimentazioni del telefono, a Milano, Roma e Venezia (dove non segnalato, la storia della telefonia italiana di queste pagine è basata su Balbi 2011).
Occorsero però alcuni anni prima che il nuovo mezzo fosse regolato anche dal punto di vista legislativo, con il decreto legge proposto dall’onorevole Alfredo Baccarini nel 1881; questo decreto, così come la maggior parte di quelli che vennero promulgati a cavallo tra Ottocento e Novecento, fu dominato da una sorta di ‘paradigma telegrafico’ o, in altri termini, dall’esplicita volontà politica di proteggere il telegrafo dalla possibile concorrenza del telefono (Fari 2008).
Fu questa, a dire il vero, una strategia comune di molti Paesi europei, ma quella che in Italia si rivelò persistente fu l’incertezza politica in materia telefonica. Annoverato immediatamente tra i monopoli pubblici, il telefono tra Otto e Novecento fu gestito alternativamente dai privati, ai quali inizialmente venne demandata l’espansione delle reti urbane, da un sistema misto e, con la nazionalizzazione ancorché parziale del 1907, dal governo stesso.
Questa «incertezza inevitabile», come venne definita in Parlamento, causò numerosi problemi allo sviluppo telefonico italiano, che, infatti, a partire dagli anni Novanta del 19° sec. rimase endemicamente arretrato rispetto a quello degli altri Paesi europei e degli Stati Uniti. Le aziende cui vennero date in concessione le reti, gestite in larga maggioranza da capitali di origine straniera (e in particolare americani, della Bell Telephone, greci, francesi, svizzeri), si trovarono sempre in una condizione di precarietà d’esercizio e sotto la continua minaccia del riscatto: per questa ragione, oltre che per banali logiche di profitto, investirono soltanto nelle zone più remunerative, senza quindi seguire un piano di sviluppo preordinato e uniforme per tutto il Paese.
I tecnici, da parte loro, invocarono a lungo un disegno preordinato dell’intera rete, che avrebbe potuto fornirle una certa organicità e una struttura globale, nonché favorire la standardizzazione tecnologica, com’era avvenuto anni prima per il telegrafo. Naturalmente questa logica si scontrava con quella delle concessionarie telefoniche e con la menzionata volontà di estendere la rete in certe zone del Paese a discapito di altre: agli esordi della telefonia italiana fu insomma chiaro che i privati, secondo una logica tuttora valida nelle telecomunicazioni più avanzate, quali le reti a banda larga, non avevano gli interessi né la vocazione per estendere uniformemente la diffusione del nuovo mezzo, compito che spettava (e spetta) agli organi pubblici. Di conseguenza, prima della Grande guerra la rete telefonica italiana che, a partire dagli anni Novanta dell’Ottocento, cominciò a dotarsi delle prime e sparute linee interurbane, fu sempre disomogenea, scarsamente interconnessa ed estremamente frammentata; addirittura, anche la statalizzazione del 1907, che pure aveva l’obiettivo di unificare il sistema telefonico, di fatto ne favorì la frammentazione e lo rese poco funzionale.
Non si deve però pensare che il sistema telefonico italiano fosse arretrato tout court. Anzi, una delle caratteristiche principali di questa fase storica del medium fu un costante intreccio tra arretratezza e innovazione (Ortoleva 2000): per es., la prima centralina automatica mondiale venne realizzata proprio in Italia da Giovan Battista Marzi (1860-1927) a metà degli anni Ottanta dell’Ottocento e venne applicata al sistema telefonico vaticano; o, ancora, il cavo interrato previsto dalla legge sulla telefonia interurbana promossa dal ministro Teobaldo Calissano nel 1913 prevedeva la realizzazione del più esteso collegamento telefonico sotterraneo del mondo.
Un terzo effetto, questa volta indiretto, ma altrettanto persistente, dell’incertezza politica in relazione alla telefonia fu la frustrazione di una domanda vivace come e più che in altri Paesi europei. Fu addirittura questa «sete telefonica» italiana, come venne definita all’epoca, a mettere in crisi i gestori del servizio, che spesso non riuscirono a soddisfare le richieste d’allacciamento e crearono lunghe liste d’attesa (e un diffuso malcontento) per ottenere il servizio. La dinamicità della domanda italiana emerse in almeno due momenti distinti della storia telefonica del Paese: negli anni Ottanta dell’Ottocento e, soprattutto, nel periodo che seguì la nazionalizzazione del 1907, quando l’amministrazione statale non riuscì a soddisfare tutte le richieste d’allacciamento.
Politici, imprenditori, tecnici e abbonati avevano quindi una visione peculiare e, spesso, divergente su come dovesse essere gestito il servizio telefonico italiano e su quali funzioni economico-sociali dovesse avere. Ma non ci furono soltanto divergenze. Un altro carattere specifico delle origini del telefono in Italia fu infatti la materializzazione di veri e propri conflitti di interessi che, dai primi anni di sviluppo del servizio fino al riscatto statale dei telefoni nel 1907, portò parlamentari e uomini legati al potere politico a sedersi nei consigli d’amministrazione delle aziende telefoniche. Nomi che oggi non dicono granché, ma che all’epoca, visto il conflitto d’interessi palese, provocarono l’avvio di una commissione d’inchiesta sulla telefonia nei primi anni del Novecento: a essere messi sotto accusa furono, tra gli altri, Antonio Marescalchi, Ignazio Florio, Fabrizio e Antonio Ruffo di Scaletta, Cesare Vanzetti, Francesco Perez e Nicolò Cusa.
I veri signori della nascente telefonia italiana, però, furono altri personaggi. Anzitutto gli azionisti di quella che divenne la principale società telefonica italiana, grazie a un processo di concentrazione proprietaria repentino avviato nei primi anni Novanta dell’Ottocento e volto ad acquisire la gestione universale della rete, ossia la Società generale dei telefoni e applicazioni elettriche. In particolare, gli imprenditori greci Tossizza (Tositsas) e i rappresentanti dell’International Bell Telephone, quali il belga Louis de Groof, e tutti i loro uomini di fiducia: Domenico Gallotti, Raffaele Colacicchi, Matteo Maurogordato, Marco Besso, Enrico Adlerstein. Anch’essi, nei primi anni del Novecento, furono travolti dalle pressioni politiche e dalle critiche dell’opinione pubblica e di noti personaggi – come l’ingegnere elettrotecnico e imprenditore Giacinto Motta – che provocarono un nuovo passaggio proprietario nel 1903: le reti della Società generale vennero infatti acquistate dalla Banca commerciale italiana e, infine, furono nazionalizzate dal governo pochi anni dopo, nel 1907. A gestire il passaggio, dal «gruppo straniero [che] desiderava disfarsi delle reti» alla preparazione di «un’equa convenzione di riscatto da parte del Governo» (secondo le parole dello stesso Consiglio d’amministrazione della banca), furono note personalità, anch’esse legate agli ambienti politici, tra cui i senatori Giovanni Battista Pirelli e Alfonso Sanseverino Vimercati, il finanziere Marco Besso, Giulio Navone, Giulio Venino.
Gli interessi politico-economici sul telefono, molto spesso profondamente intrecciati e conniventi, facevano da contorno a una difficile comprensione sociale del nuovo medium. Gli abbonati italiani così come, peraltro, quelli di altri Paesi, commisero a lungo veri e propri errori, che andavano dalle modalità d’uso, alle difficoltà nell’avviare e concludere una semplice telefonata, ai timori di natura tecnica e sociale che spesso circondarono il telefono di un alone di diffidenza. Si trattava, d’altra parte, del primo mezzo di comunicazione entrato direttamente nelle abitazioni e in grado di mettere in discussione una distinzione fino a quel momento stabile, quella tra la sfera pubblica e la sfera privata (Bertho 1981).
Una scrittrice come Grazia Deledda, in alcuni dei suoi racconti (La lettera, 1923; Piccolina, 1926; Forse era meglio, 1930), mise in luce come il telefono irrompeva nella quiete dell’abitazione, portandovi voci di persone sconosciute e sovvertendo un’etichetta sociale – evidentemente ancora più forte nella Sardegna dell’epoca – al punto da rompere il rigido rituale codificato dei contatti uomo-donna. Era questo il massimo effetto del mezzo punto-a-punto: la possibilità di conversare con l’estraneo, con l’altro, in un gioco di botta e risposta interattivo che ha portato all’anonimato sulle chat e che è oggi alla base della socialità del web 2.0. Era questa, però, una preoccupazione condivisa, per altre ragioni, con l’altro uso del telefono, quello uno-a-molti. Quel telefono circolare che, in questo caso, portava all’interno delle mura domestiche gli strepiti della realtà sociale, le notizie, le informazioni utili, ma anche l’intrattenimento, che fino a quel momento erano stati fruiti principalmente fuori casa.
Il telefono uno-a-molti come radio: l’Araldo telefonico
Fin dai primi anni di diffusione, il telefono venne dunque sperimentato e pensato non solo come un mezzo di comunicazione punto-a-punto, ma anche come un mezzo d’intrattenimento rivolto a un pubblico in ascolto (Marvin 1988). Tanto in Italia quanto nel resto del mondo le reti telefoniche venivano inaugurate con la trasmissione di concerti di musica classica o spettacoli teatrali, che potevano così essere fruiti dagli abbonati direttamente all’interno delle proprie abitazioni e attraverso il normale telefono da muro. Un altro esempio di ascolto telefonico di gruppo, questa volta oltre i limiti della privacy, consisteva nell’origliare i discorsi altrui attraverso le linee collettive, le cosiddette party lines, che furono molto popolari in Italia dal momento che permettevano di ridurre il costo dell’abbonamento, attraverso la condivisione di una linea con un gruppo di altre famiglie.
Tra Otto e Novecento divertirsi e informarsi al telefono, però, diede vita anche a un vero e proprio nuovo medium: il telefono circolare. Si tratta di un mezzo di comunicazione internazionale che nacque durante l’Esposizione elettrica di Parigi del 1881 con il nome di Théȃtrophone; a Budapest, seconda capitale dell’impero austroungarico, negli anni Novanta dell’Ottocento venne ribattezzato Telefon Hírmondó (Araldo telefonico) e soprattutto trovò grande popolarità grazie all’azione dell’ingegnere Tivadar Puskás de Ditró (1844-1893), che aveva lavorato alla corte di Thomas Edison; venne ancora sperimentato a Londra (Electrophone), Newark (Telephone Herald) e Roma (Araldo telefonico).
Fu l’ingegnere Luigi Ranieri, nel primo decennio del Novecento, a capire che un ‘giornale parlato’ avrebbe potuto interessare i cittadini romani, così come aveva fatto con quelli di Budapest (per la storia dell’Araldo telefonico, cfr. Balbi 2010). La struttura tecnologica e il modello artistico dell’Hírmondó vennero così trapiantati nella capitale d’Italia. Da una centralina telefonica situata non distante da piazza Navona venivano trasmessi i programmi attraverso una rete di fili distinta da quella telefonica, che portava i contenuti direttamente nelle case degli abbonati: si trattava di una struttura di rete uno-a-molti perché, naturalmente, le singole trasmissioni venivano inviate simultaneamente da un unico punto (la centralina telefonica) verso molteplici punti. Anche la programmazione dell’Araldo riprese quasi integralmente quella del Telefon Hírmondó e riservò ampio spazio alle notizie, allo sport, agli indici di borsa, ai concerti musicali trasmessi in diretta dall’Accademia di Santa Cecilia e da alcuni dei più famosi teatri e caffè-concerto romani, alle lezioni di lingue straniere, alle prediche del noto monaco francescano Carmelo da Petrella Liri, al teatro telefonico (diventato poi radiofonico) del marionettista Vittorio Podrecca (1883-1959).
Il personaggio più noto di questi primi anni di servizio fu però l’annunciatrice dell’Araldo telefonico, Maria Luisa Boncompagni (1892-1982), che si occupava di introdurre i programmi e leggere notiziari informativi; quest’attività le valse grande popolarità, tanto da essere ricordata con il nome di Notizie Stefani, dal momento che si occupava di fornire agli abbonati le news raccolte dalla nota agenzia di stampa. Quella che può essere definita la prima ‘signorina buonasera’ dei media italiani sarebbe divenuta poi celebre a partire dal 1924: dopo aver lavorato anche per il Radio Araldo, infatti, la Boncompagni fu la prima annunciatrice dell’URI (Unione Radiofonica Italiana), la società concessionaria dei servizi di radiofonia antenata dell’attuale RAI.
Non fu tuttavia soltanto la Boncompagni a legarsi alla nascente radio italiana: anche Ranieri e suo figlio Augusto, nei primi anni Venti del Novecento, parteciparono alle trattative per formare la prima compagnia di radiodiffusione circolare in Italia, forti dell’esperienza maturata con il telefono e con le sperimentazioni di Radio Araldo, ma fragili nei loro appoggi politici e nelle disponibilità economiche. La partita delle concessioni radio era appetibile e attirò alcuni colossi dell’epoca che, con relativa semplicità, esclusero i Ranieri dal gioco: le statunitensi Western electric e Radio corporation of America (RCA), ma soprattutto l’inglese Marconi’s wireless telegraph company capeggiata da Marconi, divennero le principali azioniste della nascente Unione radiofonica italiana.
Nonostante l’esclusione dall’URI, ai Ranieri e all’Araldo telefonico spetta però un ruolo rilevante nella storia della radiofonia. Questo perché il telefono circolare, come venne ricordato in una sentenza del tribunale di Roma del 1917, era qualcosa di differente rispetto alla telefonia punto-a-punto:
Comunicare, infatti, è diverso da trasmettere, perché implica possibilità di rispondere; ciò che l’Araldo, per la natura dei suoi apparecchi non poteva fare. Esso distribuiva quotidianamente, e a ore fisse, le notizie politiche e la musica, che Ranieri raccoglieva; avendo più stretta somiglianza con il giornale, che con il telefono. Ranieri, anziché servirsi della stampa, divulgava quel notiziario a mezzo di un impianto, fondato sul principio della telefonia, ma che non era telefono nel significato comune della parola, quale poteva essere nella intenzione del legislatore che si ispira alla realtà. Né comunicazione, quindi, né telefono. […] l’appellante deve essere assolto dalla contravvenzione non essendo espressamente preveduto come reato il fatto da lui commesso, mancando al preteso reato uno dei requisiti essenziali, il carattere oggettivo di comunicazione telefonica, che nel servizio dell’Araldo dovrebbe riconoscersi per essere punibile. (‘Araldo Telefonico’ - Non costituisce ‘comunicazione telefonica’ - Contravvenzione - Competenza, «Rivista delle comunicazioni», 1917, 6, p. 168).
Se, nel linguaggio dell’epoca, comunicare implicava possibilità di rispondere, ciò significa che il telefono era già riconosciuto come un mezzo di comunicazione interattivo e punto-a-punto; se trasmettere, anche per la natura tecnologica della rete dell’Araldo, non prevedeva questa interattività, il telefono circolare era qualcosa di diverso dal telefono ‘tradizionale’ e somigliava di più al giornale quotidiano. Naturalmente il parallelo con il quotidiano appariva l’unico sensato al tempo, dal momento che non era ancora entrato nell’uso comune il medium che più di tutti poteva essere paragonabile al telefono circolare, ossia la radio.
Proprio il telefono circolare introdusse però alcuni degli elementi e delle caratteristiche che, in seguito, sarebbero divenuti fondanti della radiofonia e poi della televisione, in altre parole del broadcasting. Le continuità più significative tra Araldo e radiofonia furono due: l’idea stessa del broadcasting (la cui originale etimologia agreste significava «seminare grano a spaglio», cfr. Flichy 1991; trad. it. 1994, p. 174 n. 25; cfr. Oxford English dictionary: http://www.oed.com/view/Entry/23508#eid13325433) e la logica di palinsesto. Il broadcasting radiofonico è una modalità di diffusione di contenuti uno-a-molti che, come detto, permette di trasmettere programmi da un’unica stazione centrale emittente verso molti apparecchi riceventi all’interno delle abitazioni, nelle automobili, in luoghi pubblici. Il broadcasting radiotelevisivo, in altri termini, ha permesso di raggiungere simultaneamente con un identico messaggio milioni di persone, realizzando una nuova e potente forma di controllo sociale, quella che il sociologo John Thompson ha definito (1998) «simultaneità despazializzata». Tutte queste caratteristiche del broadcasting (l’uno-a-molti, la simultaneità e la possibilità di raggiungere i fruitori nelle proprie abitazioni) erano già presenti in nuce nella telefonia circolare.
L’Araldo telefonico fu inoltre il primo sistema di comunicazione a prevedere una sorta di ‘palinsesto’, ovvero una griglia temporale all’interno della quale venivano inserite, con scadenze orarie, giornaliere o settimanali, le trasmissioni che componevano l’intera programmazione telefonica. Le logiche che guidarono il palinsesto dell’Araldo telefonico sono ancora presenti nei sistemi radiotelevisivi contemporanei e, per questa ragione, si può sostenere che l’Araldo anticipò una delle funzioni principali che i due maggiori media di massa hanno svolto nel Novecento: la radiotelevisione ha infatti rappresentato una sorta di ‘orologio pubblico’, ha strutturato i tempi e i ritmi quotidiani di milioni di persone e l’ha potuto fare soprattutto grazie alle regolarità del suo palinsesto.
Due sono invece le differenze sostanziali tra telefonia circolare e broadcasting radiotelevisivo. In primo luogo, l’Araldo telefonico conservò una caratteristica tecnica tipica delle telecomunicazioni a filo, quali il telefono: i costi elevati per la stesura e l’estensione della rete. Con i sistemi radiotelevisivi (e quelli wireless) questi costi sono assai inferiori, dal momento che non occorre costruire una rete fisica di distribuzione e i programmi vengono irradiati e ricevuti da chiunque sia dotato di un ricevitore. La seconda differenza fondamentale consiste proprio nelle possibilità di ricezione: potevano ascoltare i programmi dell’Araldo soltanto coloro i quali erano fisicamente collegati alla rete di cavi che aveva origine dalla centralina telefonica di Ranieri, mentre con il broadcasting radiofonico, e poi televisivo, tutti coloro i quali sono dotati di ricevitore e si trovano nell’area di diffusione del segnale ricevono la programmazione. La possibilità di captare i messaggi fluttuanti attraverso apparecchi semplici e tutto sommato economici fu una caratteristica, e secondo alcuni il principale problema, di un altro mezzo di comunicazione che precedette la radiofonia, la telegrafia senza fili, divenuta celebre grazie a Marconi.
Il wireless come punto-a-punto: il telefonino di Marconi
Nel 1896 Marconi lasciò Bologna e si trasferì in Inghilterra per brevettare e sfruttare commercialmente il suo telegrafo senza fili, fondando un anno dopo The wireless telegraph & signal company limited, rinominata nel 1900 Marconi’s wireless telegraph company limited. L’inventore italiano aveva un’idea molto precisa del nuovo medium: esso avrebbe permesso una comunicazione privata e interattiva tra due soggetti che si trovavano o in movimento o in zone nelle quali le reti telegrafiche (e telefoniche) non potevano essere erette per varie ragioni.
D’altra parte, lo stesso termine wireless indicava un’assenza: quell’intreccio di linee e reti che aveva caratterizzato i precedenti sistemi di comunicazione punto-a-punto. Questa mancanza ebbe una valenza positiva almeno per due ragioni: da un punto di vista economico e strutturale, la posa e manutenzione della rete in filo o in cavo costituiva il maggior costo d’impianto di telegrafia e telefonia, mentre con il wireless i collegamenti erano immateriali (il canale attraverso cui la corrispondenza veniva instradata fu ribattezzato etere); in secondo luogo, le reti telegrafiche e telefoniche erano spesso state percepite come pericolose e deturpanti il paesaggio ed eliminare queste ‘ragnatele’ stese sui territori nazionali poteva rappresentare di per sé un merito della nuova tecnologia.
Nei primi decenni del Novecento il telegrafo senza fili venne utilizzato per tre scopi principali: la comunicazione tra mezzi di trasporto e, in particolare, tra imbarcazioni e stazioni di costa; le trasmissioni di natura militare per coordinare le operazioni terrestri e navali; infine, per ragioni di controllo politico, in particolare per comunicare direttive e strategie di governo tra Stati coloniali europei e colonie africane e asiatiche.
L’Italia impiegò il nuovo mezzo in tutti e tre i campi. In primo luogo, il ministero della Marina fu costantemente interessato allo sviluppo della telegrafia senza fili e, anzi, concesse più volte le proprie navi a Marconi per compiere vere e proprie campagne mondiali di sperimentazione della tsf (famosa fu quella della Carlo Alberto nel 1902).
Sempre la marina, con i ministeri dell’Esercito e degli Affari esteri, ebbe un notevole interesse anche per le applicazioni belliche del nuovo mezzo, tanto che la guerra di Libia del 1911-12, che l’Italia combatté contro l’impero ottomano, fu una delle prime occasioni in cui il wireless venne sperimentato con efficacia come strumento di guerra (Antinori 1963).
Infine, la telegrafia Marconi si rivelò anche per l’Italia un potente strumento per mantenere legami politico-sociali con altri Paesi e in particolare, da un lato, con le colonie del Benadir (la futura Somalia) e dell’Eritrea e, dall’altro, grazie alla stazione di Coltano gestita dal ministero delle Poste, con l’Argentina, dove numerosi italiani erano emigrati nel corso dell’Ottocento (Cavina 2009).
Cinque/sei ministeri (andrebbe infatti ricordato anche quello dell’Interno) si ‘spartirono’ e in più occasioni si contesero la gestione della telegrafia senza fili italiana: troppi, anche a causa delle esigenze contrapposte, per poter pensare di elaborare una visione unitaria e strategica del nuovo mezzo. Di conseguenza, anche la legge del 1910 che, per la prima volta, regolò il wireless in Italia, fu alquanto contraddittoria e, così com’era capitato per i telefoni in precedenza, non venne chiaramente stabilito se la tsf avesse un carattere di servizio pubblico. In particolare, il Parlamento rimase incerto, ancora una volta, se gestire direttamente la rete o se affidarla ai privati (o meglio a una compagnia privata).
In realtà, più ancora che per le lotte ministeriali e per l’endemica incertezza politica, i primi decenni di sviluppo della telegrafia senza fili furono segnati dallo stretto rapporto e dalla vera e propria dipendenza tra la compagnia inglese di Marconi (e lo stesso Marconi) e il governo italiano. La presenza e la rilevanza nazionale e internazionale dello scienziato condizionarono lo sviluppo del wireless italiano in diversi momenti. Un chiaro esempio si ebbe in occasione della prima e della seconda conferenza internazionale di Berlino del 1903 e 1906, organizzate dal governo tedesco al fine di rompere il monopolio britannico nel settore della radiotelegrafia esercitato appunto dalla Marconi.
Essa acquisì il monopolio delle comunicazioni radio sia perché fu la prima azienda a darsi una struttura internazionale e ad acquisire un gran numero di brevetti, sia per la cosiddetta strategia della non intercomunicazione: gli operatori della Marconi, seguendo naturalmente delle precise direttive della compagnia, non rispondevano alle richieste di comunicazione che provenivano da operatori che utilizzavano altre apparecchiature, come, per es., quelle della Telefunken. Questo sistema rinforzava il potere monopolistico della Marconi, dal momento che i suoi strumenti erano i più diffusi a livello mondiale e, per comunicare liberamente, occorreva dotarsene. Nelle conferenze di Berlino si affrontarono due schieramenti contrapposti rispondenti ad altrettanti interessi commerciali: Gran Bretagna e Italia (la seconda, più ancora della prima) difesero strenuamente le ragioni della Marconi, mentre Francia, Stati Uniti e soprattutto Germania (visto l’interesse della Telefunken nel conquistare un ruolo di primo piano nel mercato mondiale) lottarono per l’instaurazione di un regime concorrenziale (Tomlinson 1945).
L’Italia si trovava in una posizione molto delicata, dal momento che, fin dal 1903, era l’unica nazione a essersi legata contrattualmente a Marconi. Nel 1901, infatti, Marconi offrì ai ministeri italiani della Marina e della Guerra i suoi brevetti in uso gratuito per i soli scopi bellici. Con una legge dell’aprile 1903, inoltre, il Parlamento italiano decise d’installare una stazione ultrapotente a Coltano per comunicare, come detto, con l’Argentina; ma, al fine di ratificare tale legge, Marconi e il governo dovettero giungere a un accordo e l’Italia s’impegnò a non usare per scopi commerciali apparati diversi da quelli Marconi. In altre parole, a pochi mesi dall’apertura della conferenza internazionale di Berlino, l’Italia s’impegnò in un accordo economicamente interessante, ma strategicamente deleterio: da un lato, poteva usare gli strumenti Marconi gratuitamente, ma dall’altro s’impegnava a impiegare solamente quelli. Allo stesso modo, la convenzione siglata da Marconi con i ministeri delle Poste e della Marina nel maggio 1904 conteneva la clausola che il governo italiano potesse utilizzare e addirittura riprodurre i suoi brevetti gratuitamente, ma allo stesso tempo stabiliva che le stazioni wireless italiane intercomunicassero soltanto con le stazioni Marconi per altri quattordici anni (Paoloni 2006).
Questa convenzione faceva parte di una strategia marconiana nei confronti del suo Paese natale che perdurò per tutti gli anni Dieci e Venti del Novecento e che possiamo definire di do ut des. In cambio dell’uso gratuito dei suoi brevetti, Marconi pretese fedeltà assoluta dal governo italiano. Non stupisce, quindi, che i delegati italiani alle conferenze internazionali ingaggiarono una lotta furibonda con gli altri rappresentanti per tentare di dimostrare l’utilità d’impiegare un ‘unico sistema’ a livello mondiale che era, ça va sans dire, quello Marconi. Nella conferenza di Berlino del 1903, il più attivo difensore della società inglese, stipendiato all’epoca sia dal ministero delle Poste sia (in segreto) dalla stessa Marconi, fu Luigi Solari: l’uomo che sarebbe diventato il braccio destro di Marconi in Italia, il direttore della sussidiaria italiana della compagnia inglese che nacque a Genova nel 1909 e, infine, il suo biografo. L’efficacia di questa strategia si palesò nel fatto che l’Italia fu l’ultima nazione europea a poter siglare gli accordi di Berlino, dipendendo dal beneplacito di Marconi che giunse solo nel 1911 (Balbi 2012).
Le ragioni per cui Marconi decise di concedere all’Italia l’uso gratuito dei propri brevetti sono probabilmente l’elemento fondamentale per tentare di comprendere il primo ventennio di sviluppo della radio italiana e, in base a ricerche d’archivio tutt’ora in corso, possiamo avanzare una serie di ipotesi a riguardo. Anzitutto, si potrebbe sostenere una tesi filantropica secondo cui l’inventore abbia voluto effettivamente favorire il proprio Paese natale. Questa possibilità è però mitigata dalla logica di do ut des appena illustrata. In secondo luogo, infatti, concedendo l’uso gratuito dei brevetti, Marconi potrebbe avere avuto in mente di assicurarsi l’appoggio di un altro Paese nel caso in cui la sua azienda inglese avesse avuto problemi di natura finanziaria, come in effetti ebbe alla fine del primo decennio del Novecento; non è un caso che alcune fonti interne alla compagnia indichino come, proprio in quegli anni, Marconi pensò seriamente di trasferire il suo business in Italia. In terzo luogo, si potrebbe avanzare un’ipotesi di lock in secondo la quale Marconi, grazie alla già citata non-intercommunication policy, intendesse estendere il più possibile il proprio sistema al fine di imporne l’utilizzo generalizzato a livello mondiale. In questo senso, concedere gratuitamente i brevetti all’Italia, un Paese chiave dal punto di vista navale, avrebbe rappresentato un ulteriore passo verso l’imposizione generalizzata dei sistemi Marconi. In quarto luogo, in cambio dei suoi brevetti, Marconi ottenne non solo di usare alcune imbarcazioni italiane per i propri esperimenti, ma anche di appropriarsi delle eventuali migliorie tecniche apportate dai tecnici del ministero della Marina. In un certo senso, questo ministero funse sia da centro di ricerca e sviluppo gratuito, sia da controllore italiano per la Marconi inglese. Da un lato, infatti, secondo gli accordi sottoscritti, il ministero della Marina doveva cedere a Marconi tutte le innovazioni tecniche e gli eventuali brevetti che fossero derivati dalle sperimentazioni con i suoi apparati; dall’altro, l’obbligo di impiegare esclusivamente apparati Marconi implicava anche un’azione governativa di polizia e punizione degli usi di altri apparecchi che ebbe come conseguenza quella di limitare drasticamente sia la possibilità d’investimento nel mercato italiano da parte di altre aziende, sia la propensione e la profittabilità delle sperimentazioni, dal momento che tutte le migliorie divenivano di diretta proprietà della Marconi inglese. Non stupisce quindi che noti inventori italiani dell’epoca (tra i quali Alessandro Artom, Quirino Majorana, Giancarlo Vallauri, Alessandro Tosi ed Ettore Bellini) dovettero limitare le proprie esperienze oppure emigrare all’estero o ancora allearsi con la Marconi cedendo i brevetti sviluppati sul suolo italiano.
Il freno alle sperimentazioni contribuì a deprimere tutta un’attività radioamatoriale che in altri Paesi, come la Gran Bretagna e soprattutto gli Stati Uniti, era invece in pieno fermento. Se nei Paesi anglosassoni decine di bricoleurs erano stati contagiati dalla febbre di comunicare a distanza senza fili, ma anche dalla possibilità di restare in ascolto e di captare i segnali che fluttuavano nell’etere (Douglas 1989), in Italia queste esperienze furono sparute. Tuttavia, contrariamente a quanto ha sostenuto la ricerca fino a poco tempo fa, esse furono comunque portate avanti, con un’idea della radio profondamente diversa da quella di Marconi. Come detto, il senatore, per gran parte della sua vita, immaginò un mezzo di comunicazione atto a scambiare messaggi privati tra due interlocutori in movimento, quello che oggi identificheremmo con una sorta di telefonia cellulare. I radioamatori, accanto al telegrafo/telefono mobile, pensarono invece a un wireless uno-a-molti: è questa la seconda via che portò alla radio di broadcasting.
Il wireless come uno-a-molti
Marconi, attraverso la penna del già citato Solari, ricordò come nella sua mente la radiotelegrafia fu a lungo un mezzo di comunicazione esclusivamente punto-a-punto, tanto che egli tentò di eliminare in anni di sperimentazioni un difetto che, per un mezzo di comunicazione come il telegrafo o il telefono, è gravissimo ossia la possibilità che tutti ascoltino i messaggi scambiati privatamente tra mittente e destinatario.
Io mi sono ‘arrabattato’ per molti anni nell’intento di limitare la ricezione dei messaggi alla sola stazione cui erano diretti e non mi sono accorto di avere in mano una fortuna di inestimabile valore: la radiodiffusione. La possibilità di ricevere contemporaneamente in molte località un’unica trasmissione fu considerata per molti anni un gravissimo difetto della radio (L. Solari, Sui mari e sui continenti con le onde elettriche, 1942, p. 186).
La radiodiffusione ha avuto praticamente inizio verso il 1919. […] per circa venticinque anni è stato considerato come un grave difetto della radio la facilità con cui potevano essere captate le radiotrasmissioni. Gli studi dei radiotecnici sono stati rivolti durante tutto questo periodo di tempo alla ricerca di mezzi atti ad assicurare la segretezza delle radiotrasmissioni […]. È stato dopo la guerra mondiale, nel 1919, che si è pensato di trarre vantaggio da ciò che era stato considerato sino allora un gravissimo difetto delle radiotrasmissioni, e cioè dalla facilità con la quale le radiotrasmissioni potevano essere ricevute da tutti coloro che disponessero di un adatto apparecchio entro il raggio d’azione di una stazione trasmittente (G. Marconi, O.M. Corbino, L. Solari, Radiocomunicazioni, 1936, pp. 86-87).
Marconi, in altre parole, combatté a lungo per fare della sua telegrafia senza fili un mezzo di corrispondenza privata, intima e segreta: combatté contro il broadcasting.
Secondo Arthur Burrows (1924), uno degli ingegneri che lavorò alla Marconi inglese e che fu tra i primi in seno all’azienda a capire le potenzialità dell’altro uso della radiotelegrafia, fin dall’inizio la tsf ebbe una potenzialità inespressa dell’uno-a-molti, tanto che egli individuò almeno tre forme di broadcasting antesignane del broadcasting.
Prima che venisse trasmessa la voce e prima che venissero istituite le stazioni radiofoniche circolari a partire dagli anni Venti del Novecento, almeno tre utilizzi del telegrafo senza fili (tutti in codice Morse) erano stati uno-a-molti: la trasmissione degli SOS indirizzati da una nave a tutte le stazioni navali o di terra poste entro il suo raggio (proprio una richiesta di aiuto lanciata dal Titanic nel 1912 contribuì a salvare centinaia di vite umane nonché a rendere estremamente popolare il nuovo mezzo); i bollettini meteorologici o informativi comunicati da alcune stazioni di terra a tutte le imbarcazioni in navigazione, ma anche alle altre stazioni di recezione interessate a riceverli (in questo caso furono famosi quelli spediti dalla Tour Eiffel a partire dalla fine del primo decennio del Novecento); infine, le stazioni di tsf dei giornali quotidiani che si occupavano di captare le notizie e ritrasmetterle verso le altre stazioni della stampa, ma che erano intercettabili da chiunque avesse un ricevitore (e che portarono notizie fresce e inedite a casa dei radioamatori durante la Grande guerra).
In Italia la telegrafia senza fili venne utilizzata per tutti e tre questi scopi. Le imbarcazioni italiane in navigazione, così come quelle degli altri Paesi, erano interessate a ricevere i bollettini emessi dalle diverse stazioni e, in seguito, a distribuire tra l’equipaggio veri e propri giornali quotidiani stampati a bordo grazie alle notizie giunte via wireless (E. Guarini, La telegrafia senza fili e la canalizzazione dell’elettricità senza fili. Conferenza fatta in Roma il 29 giugno nel salone dell’Associazione artistica internazionale, 1900, p. 24). In particolare, fu l’ascolto dei bollettini della Tour Eiffel a favorire la formazione di quella che potrebbe essere vista come la prima audience radiofonica. I primi e più attivi radioascoltatori furono alcuni studiosi e ricercatori degli osservatori astronomici, che per le loro sperimentazioni necessitavano di conoscere l’ora esatta e le previsioni del tempo fornite dalla stazione francese diverse volte al giorno, sempre agli stessi orari (una sorta di palinsesto fatto di appuntamenti fissi). Per es., l’Osservatorio Ximeniano a Firenze e l’Osservatorio di Moncalieri erano gestiti da due dei maggiori esperti italiani di wireless al tempo, entrambi religiosi ed entrambi attenti radioascoltatori: padre Guido Alfani e padre Dionigi Boddaert (G. Alfani, L’Osservatorio ximeniano e il suo materiale scientifico: V (la stazione radiotelegrafica), 1912; D. Boddaert, L’impianto radiotelegrafico dell’osservatorio di Moncalieri, 1913).
Più in generale, si creò fin dagli anni Dieci un folto ma difficilmente quantificabile gruppo di radioamatori italiani che fece dell’ascolto dei messaggi Morse il proprio hobby preferito. Ascolto dei bollettini della Tour Eiffel, che avviò un servizio di news giornaliero proprio negli anni Dieci; ascolto del ‘bollettino ufficiale delle notizie’ che la marina italiana cominciò a trasmettere prima della Grande guerra; ascolto di tutto ciò che era nell’aria, anche messaggi privati e personali che venivano intercettati, un po’ come succedeva con le party lines descritte in precedenza. Telefono e wireless, insomma, condivisero anche la possibilità di violare la privacy altrui.
Che i radioamatori italiani fossero numerosi è testimoniato da una fonte inedita e interessante: i verbali dei numerosi processi che li vide coinvolti durante la Prima guerra mondiale. Ancor prima di entrare nel conflitto, infatti, l’Italia decise di revocare le licenze accordate per l’erezione e l’uso di stazioni wireless domestiche. Fino a quel momento si pensava che la telegrafia senza fili interessasse soltanto una porzione limitata di cittadini, per lo più studiosi e sperimentatori, con gli usi pubblici gestiti dal governo (e in particolare dalla marina) e quelli commerciali dalla Marconi. Nel momento di sospendere le licenze, però, ci si rese conto che numerosi radioamatori avevano installato stazioni private senza chiedere autorizzazioni e che, per evitare l’utilizzo di tali stazioni durante il conflitto, il governo non avrebbe soltanto dovuto revocare le concessioni, ma anche individuare gli impianti presenti in svariate abitazioni lungo tutta la penisola.
Per questa ragione, a partire dal 1914, decine di radioamatori furono denunciati dal ministero delle Poste e dei Telegrafi perché trovati in possesso di stazioni radiotelegrafiche. La maggior parte venne sorprendentemente assolta con diverse motivazioni. In primo luogo perché le loro stazioni erano così rudimentali e incomplete da non poter funzionare. In secondo luogo, in quanto alcune stazioni erano dedicate esclusivamente a fare esperienze didattiche, e questo era contemplato dalla legge. Infine, cosa certamente di maggiore interesse, alcuni radioamatori vennero assolti perché le stazioni trovate nelle loro abitazioni erano in grado solamente di ricevere messaggi, ma non di trasmetterli (T.C. Giannini, Gli impianti radiotelegrafici abusivi davanti alla giustizia penale, «Rivista delle comunicazioni», 1915, pp. 133-38).
Questa decisione era strettamente connessa a una delle peculiarità e delle maggiori stranezze della legge italiana sulla radiotelegrafia approvata nel 1910: all’art. 1 veniva infatti stabilito che il monopolio di Stato si poteva applicare soltanto a quegli impianti che impiegassero «energia allo scopo di ottenere effetti a distanza senza l’uso di fili conduttori»; in altre parole, una stazione radiotelegrafica veniva considerata tale, e quindi soggetta alla legge, solo se poteva sia ricevere sia trasmettere informazioni, se cioè era simile a un telegrafo o a un telefono, a un mezzo di comunicazione interattivo punto-a-punto. Alcuni radioamatori, invece, fecero un uso del radiotelegrafo completamente diverso, essendo interessati esclusivamente a ricevere messaggi e non a trasmetterli: essi interpretarono la telegrafia senza fili come un mezzo di comunicazione a una via, uno-a-molti, radiofonico o di broadcasting (come si direbbe oggi), in cui il divertimento consisteva esclusivamente nell’ascoltare. Era questo un modo inedito e alternativo di pensare alla telegrafia senza fili che, in un articolo del 1920, venne paragonata proprio all’altro uso del telefono che abbiamo ricordato, l’Araldo telefonico:
La possibilità che molte persone ricevano contemporaneamente lo stesso messaggio apre la via a una più vasta industria che mediante il telefono ordinario ha potuto trovare convenienza soltanto in un sistema – quale il tipo ‘Araldo’ – limitato a una cerchia troppo ristretta. Ho ricordato la trasmissione dell’ora; passando ad un campo diverso mi consenta il lettore che io riproduca il tenore di un annuncio lanciato l’11 marzo 1913 dalla Torre Eiffel: ‘Si vous voulez avoir des enfants sains, vigoureux, robustes, nourrissez-les avec de la phosphatine Fallières’. Quale varietà di applicazioni rispondente alla febbrile attività di una ripresa della vita civile non ci offre dunque la telegrafia senza fili! (T.C. Giannini, La radiotelegrafia nell’economia e nella legislazione, 1920, p. 12).
Nasceva così, negli anni Dieci del Novecento e grazie a un’interpretazione della legislazione che si era rivelata inadatta a regolare il wireless in tutte le sue forme, sia la logica del broadcasting radiofonico sia il movimento dei radioamatori italiani, di cui una parte era interessata più all’ascolto dei messaggi Morse che al dialogo.
Nei primi anni Venti del Novecento, dopo l’inevitabile interruzione dovuta alla guerra, ma anche grazie al fatto che molti soldati vennero a contatto con le nuove apparecchiature radiotelegrafiche, il movimento radioamatoriale riprese grazie alle attività dei Ranieri a Roma, di Umberto Bianchi tra Roma e Firenze con la sua rivista «Audion», del gruppo milanese cresciuto attorno a Eugenio Gnesutta ed Ernesto Montù, che avrebbe poi dato vita nel 1927 all’Associazione radioamatori italiani (ARI), ancora oggi attiva (sui primi radioamatori italiani, cfr. il sito di Carlo Bramanti: www.carlobramantiradio.it/storia_dei_radioamatori.htm, 20 sett. 2013).
Quest’ultimo movimento venne duramente contrastato, sempre tra la fine degli anni Dieci e l’inizio dei Venti, da una strana convergenza: da un lato, la Marconi mirava a limitare le sperimentazioni personali ed era estranea a un modello di business dal quale apparentemente non poteva trarre profitti; dall’altro, lo stesso governo italiano, interessato a mantenere una forma di controllo monopolistico sulle comunicazioni senza fili, regolò le concessioni radioamatoriali in maniera a tal punto restrittiva da deprimere il nascente movimento. L’azione combinata di interessi privati e pubblici contribuì a limitare anche l’espansione di un’industria radiofonica nazionale, tanto che, come già ricordato, la nascita dell’URI venne promossa essenzialmente da capitali e compagnie stranieri.
Naturalmente, prima di arrivare alla radio nella forma che noi conosciamo, e quindi alla trasmissione a distanza della voce, occorreva un’ulteriore evoluzione tecnologica. Accanto all’uso della telegrafia senza fili per la trasmissione verso molti di segnali Morse, sempre nel primo decennio del Novecento venne infatti sperimentato anche un altro medium ‘gemello’: il telefono senza fili. Anche la trasmissione della voce a distanza fu inizialmente pensata nell’ottica punto-a-punto, vera e propria progenitrice di quello che negli ultimi decenni del Novecento sarebbe divenuto il telefono mobile. Ancora più del telegrafo, però, il telefono senza fili venne sperimentato anche in modalità uno-a-molti, se è vero che il ricercatore americano che inventò la valvola che serviva ad amplificare la trasmissione e così a trasmettere la voce senza fili (Lee De Forest), disse: «Il mio compito attuale (particolarmente piacevole) è di diffondere dolci melodie “a spaglio” in tutte le città e i mari, in modo che i marinai lontani possano ascoltare, attraverso le onde, la musica di casa loro» (cit. in Flichy 1991, trad. it. 1994, p. 174). Egli stesso organizzò, come altri ricercatori, esibizioni di telefonia senza fili circolare, come quella famosa del 1908 in cui trasmise un’opera, grazie all’aiuto della moglie pianista, utilizzando come antenna la stazione della Tour Eiffel.
La trasmissione della voce, in luogo dei segnali Morse, apportava all’idea uno-a-molti del wireless una componente fondamentale: la user-friendliness. Non occorreva più essere telegrafisti abili nella ricezione dell’alfabeto Morse per far parte di un’audience radiofonica, ma il semplice possesso dell’apparecchio e l’abilità di sintonizzarlo poteva ora far entrare l’ascoltatore in un universo di voci, suoni, rumori immediatamente comprensibili. Le ‘idee alternative’ del telefono, della telegrafia senza fili e, quindi, della telefonia senza fili diedero vita alla radio di broadcasting, in Italia come in altri Paesi. L’URI nacque nell’agosto e cominciò le sue trasmissioni nell’ottobre 1924, ma la radiofonia italiana divenne rilevante solo a partire dagli anni Trenta, anche a causa di una certa diffidenza del regime fascista e dello stesso Benito Mussolini che perdurò per tutti gli anni Venti.
1923-1925: punto-a-punto e uno-a-molti in Italia
Nel giro di tre anni il fascismo regolò telegrafia senza fili, radiofonia e telefono dando in concessione tutti e tre i mezzi di comunicazione a società private. La partita radiotelegrafica, per molti versi quella più appetibile delle tre, si cominciò a giocare all’inizio degli anni Venti e fu profondamente intrecciata con la storia dei cavi sottomarini e dell’Italcable, l’azienda che si formò proprio in quegli anni per assicurare un collegamento telegrafico via filo tra Roma e Buenos Aires, ancora una volta Italia-Argentina.
Nel giugno 1921, Marconi diede vita alla SISERT (Società Italiana SErvizi Radiotelegrafici e Radiofonici), emanazione italiana della sua compagnia inglese che inizialmente sembrava favorita per ottenere la concessione. Un fronte contrario al senatore (che nel frattempo era stato coinvolto anche nel fallimento della Banca italiana di sconto) cominciò però a formarsi tra il 1921 e il 1922, composto in particolare da due soggetti: il ministro delle Poste Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, ostile all’assegnazione del monopolio della tsf al solo Marconi, e le principali aziende concorrenti della Marconi, la Radio Italia (legata alla francese Société générale de télégraphie sans fil) e la Radio elettrica (legata alla tedesca Telefunken). Il ministro Colonna di Cesarò propose ai tre soggetti di fondersi in un’unica compagnia, la Italo Radio, ma Marconi oppose un netto rifiuto, non volendo né rinunciare al monopolio sul territorio italiano posseduto praticamente dall’inizio della radiotelegrafia, né condividere i propri brevetti con aziende concorrenti.
Nell’agosto del 1923 il governo siglò una convenzione con la Italo Radio, in cui erano appunto confluiti interessi francesi e tedeschi, che però vide la clamorosa esclusione, o meglio autoesclusione, di Marconi. Al tempo stesso vennero fatte pressioni sull’Italcable affinché partecipasse alla Italo Radio, cosa che avvenne dapprima nel settembre 1924 con un consistente ingresso azionario, e definitivamente nel 1935, quando la Italo Radio venne fusa per incorporazione nella stessa Italcable. Le telecomunicazioni punto-a-punto italiane a grande distanza, con o senza filo, trovarono in quest’occasione una struttura politico-economica ben definitiva (Bottiglieri 1995; Paoloni 2007).
Il 1924 fu invece l’anno della partita del broadcasting, che per molti versi, alcuni dei quali sono già stati ricordati, attirò un interesse minore. Questa volta fu lo stesso Marconi, attraverso la società Radiofono, a spuntarla. L’azionista di maggioranza inglese, con interessi statunitensi (Western electric e RCA) e italiani (in particolare la Fiat, ma anche alcune aziende elettriche), diede quindi vita all’URI nell’agosto 1924, trasformatasi (e ‘piemontesizzata’ con ingresso di capitali SIP-Società Idroelettrica Piemonte) in EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche) nel 1928 e infine in RAI nel 1944. Anche la scia del broadcasting uno-a-molti italiano, da quello radiofonico a televisivo, venne quindi tracciata (cfr. Monteleone 1976; Monticone 1978; Richeri 1980).
Il 1925, infine, vide l’assegnazione del servizio telefonico a cinque concessionari principali, ciascuno attivo in una specifica regione (Bottiglieri 1990). La prima e più importante zona, corrispondente a Piemonte e Lombardia, venne assegnata alla STEP (Società TElefonica Piemontese), poi STIPEL (Società Telefonica Interregionale Piemontese E Lombarda), una società legata al gruppo SIP e quindi alla Banca commerciale italiana e alla Siemens. La seconda zona (Tre Venezie, Fiume e Zara) venne assegnata alla società TELVE (TELefonica delle VEnezie) e la terza (Emilia, Marche, Umbria, a eccezione del circondario di Orvieto, Abruzzi e Molise) alla TIMO (Telefoni Italia Medio Orientale). Nel giro di tre anni anche queste due ultime società furono assorbite dalla SIP e, quindi, nella seconda metà degli anni Venti, più della metà del sistema telefonico italiano era già controllato da un unico gruppo. La quarta zona (Liguria, Toscana, Lazio, Sardegna e circondario di Orvieto) venne assegnata alla società TETI (TElefonica TIrrena), costituita dai gruppi Orlando e Pirelli. Infine, la quinta zona (Italia meridionale e Sicilia) fu assegnata alla SET (Società Esercizi Telefonici), costituita da imprenditori biellesi e dai rappresentanti italiani della Ericsson svedese. Una sesta asta, che riguardava la rete telefonica interurbana, andò invece deserta e il governo decise di gestire autonomamente lo sviluppo delle reti a grande distanza attraverso l’Azienda statale per i servizi telefonici (ASST).
La precisa suddivisione delle zone e delle compagnie telefoniche entrò in crisi pochi anni dopo: come già ricordato, le prime tre zone si trovarono sotto il controllo della SIP (o meglio della SIET, Società Industrie EleTtrofoniche, appositamente creata) già nel 1928, ma a seguito dell’onda lunga della crisi del 1929, tutto il settore telefonico si ritrovò nelle mani pubbliche a partire dal 1931. In quell’anno, infatti, venne avviato un tentativo di salvataggio delle due maggiori banche finanziarie italiane tramite lo smobilizzo delle loro partecipazioni industriali, tra cui la telefonia: la Banca commerciale, cui erano legate le sorti della SIP, e il Credito italiano, che deteneva in portafoglio la maggioranza delle azioni TETI e SET. A tal scopo vennero create due società statali, la Sofindit e l’Elettrofinanziaria, che si ritrovarono quindi a far rientrare in orbita pubblica le compagnie telefoniche cedute ai privati appena sei anni prima.
La SIP telefonica che nacque nel 1964 non sarebbe stata altro che un’erede di questo modello delle partecipazioni statali con un controllo pubblico sicuro e indiretto e l’impiego di capitali privati per investimenti. Fu questo il modo in cui venne risolto, fino alla privatizzazione di Telecom Italia del 1998, l’eterno dilemma pubblico/privato nato alle origini della telefonia italiana e protrattosi per oltre centodieci anni.
Telefono e/o radio
Il telefono e la radio sono per noi due mezzi di comunicazione radicalmente distinti. Il primo, oggi diventato sempre più senza fili, è un medium che serve (o fino a poco tempo fa è servito, come diremo nella parte finale di questa conclusione) a scambiare conversazioni, messaggi scritti e audiovisivi tra due persone o tra gruppi ristretti di persone. La sua natura interattiva, intima, segreta (ci aspettiamo infatti che le comunicazioni che scambiamo privatamente non siano ascoltate da altri) o, in una parola, punto-a-punto deriva dalla telegrafia elettrica, dalla telefonia di Bell, dalla telegrafia senza fili di Marconi.
La radio, diventata anch’essa un mezzo di comunicazione che accompagna l’ascoltatore durante l’intera giornata come ‘rumore di fondo’ della vita quotidiana, è invece uno strumento di massa che trasmette un’unica programmazione a un pubblico che può fruirla simultaneamente pur essendo dislocato in diversi luoghi. Ha una natura, in questo caso, monodirezionale (non si può, o meglio non si poteva, comunicare con la radio se non attraverso lettere), pubblica (la programmazione è destinata a un’audience numerosa, anzi lo scopo della radiotelevisione commerciale è proprio quello di massimizzare gli ascoltatori), collettiva o, come più volte ricordato, uno-a-molti. Queste caratteristiche del mezzo si configurano come eredità del giornale quotidiano, del telefono circolare, del radiotelegrafo (e radiotelefono) inteso da alcuni dei primi radioamatori.
Questa scissione tra comunicazione punto-a-punto e comunicazione uno-a-molti che ha caratterizzato i media elettrici per gran parte del Novecento, ha avuto origine nel periodo qui analizzato e proprio con lo strutturarsi dei due mezzi ricordati: il telefono e la radio. Come detto, non c’era alcun elemento nella natura del telefono che ne facesse un mezzo di telecomunicazione o comunicazione punto-a-punto; tanto che l’altra opzione, la telefonia circolare, fu parallela a questa e ancora oggi è presente, seppure in maniera minoritaria, con la filodiffusione. Al tempo stesso, il destino del radiotelegrafo (e del radiotelefono) non era necessariamente quello di divenire un medium uno-a-molti, come poi accadde con la radiofonia. La telegrafia senza fili, anzi, per almeno vent’anni fu considerata un sistema di comunicazione punto-a-punto, per poi essere connotata con il più noto broadcasting. Ma anche in questo caso, e più ancora rispetto alla filodiffusione, l’idea di trasmettere senza fili e punto-a-punto segnali o voce non è scomparsa, ma ha attraversato tutto il Novecento: basti pensare al radar, ai sistemi a microonde, ai satelliti, al telefono mobile. Era proprio quest’ultimo il mezzo che Marconi aveva in mente, ritrovandosi però nelle mani, inaspettatamente, come abbiamo letto dalle sue stesse parole, il broadcasting.
In quest’analisi emergono due elementi fondamentali per i media studies. In primo luogo che, specie nella prima fase della loro vita, i mezzi di comunicazione furono estremamente malleabili o, come direbbero le teorie della costruzione sociale della tecnologia, ‘flessibili’: lo stesso medium può quindi essere visto, e usato, in modi diversi e gli utilizzi applicati sono tutti plausibili e possono convivere. Il telefono come telegrafo parlante convisse con il telefono come radio e, allo stesso modo, il radiotelegrafo come telegrafo senza fili (o come telefonino) convisse con il radiotelegrafo come radio. Certamente, a un certo punto della loro storia, il telefono fu considerato come un mezzo di comunicazione interpersonale e la radio, al contrario, come un medium di massa.
Non è facile individuare quali siano le ragioni della stabilizzazione degli usi e della cristallizzazione, sempre momentanea, di un’idea di comunicazione. Probabilmente si tratta di individuare gli elementi che stanno a cavallo tra ragioni tecnologiche (diffondere contenuti circolari attraverso una rete di cavi, per es., è costoso e via wireless lo è decisamente meno) e sociali (la preferenza e le scelte sociali, così come la capacità di un mezzo di adattarsi e addirittura di rispecchiare la realtà sociale, sono elementi decisivi nell’adozione di lunga durata di alcune possibilità di comunicazione).
In secondo luogo, questa storia fa emergere una caratteristica fondante dei media: la loro evoluzione costante. Telefono e radio si sono trasformati nel corso del tempo da un punto di vista politico, economico e culturale e, ancora oggi, stanno modificando la propria natura. Grazie alla storia, però, si può seguire e apprezzare questo processo di lunga durata e quindi comprendere a fondo la natura mutevole e le diverse modalità con cui questi mezzi sono stati interpretati, usati e metabolizzati dalle società contemporanee.
La storia del telefono e della radio può essere importante anche per capire la condizione attuale dei due media. Ironicamente, infatti, la cosiddetta convergenza dei media ha mischiato nuovamente le carte a partire dagli anni Ottanta del Novecento, con la sovrapposizione di tre settori della comunicazione prima distinti, quali l’informatica e, appunto, contenuti editoriali (o, in altre parole, le comunicazioni uno-a-molti) e telecomunicazioni (punto-a-punto). Pur considerando le differenze storiche, insomma, la situazione attuale ha delle similitudini con quella di fine Ottocento descritta in questo contributo. Non è un caso che telefono e radio siano andati nuovamente a convergere in un medium che, più di tutti gli altri della storia, sta avendo una funzione di centrifuga dei mezzi di comunicazione precedenti: la rete Internet. Essa, in stretta associazione con le potenzialità dei computer e l’ubiquità degli smartphone, è infatti sia un insieme di telegrafo-telefono-tsf alla Marconi (perché permette una comunicazione intima-interattiva-segreta) sia una piattaforma adatta alle comunicazioni di massa-pubbliche-collettive del tipo telefono circolare-radiotelevisione. Attraverso la rete si può telefonare (per es., via Skype, ma non solo) e si può fruire di un programma radiofonico o televisivo (in podcast o attraverso YouTube). Eppure, sia il significato di telefono, sia quello di radio(televisione), al tempo di Internet, non sono più gli stessi che si sono formati tra Otto e Novecento, perché il nuovo mezzo ha cambiato anche il modo di intendere i vecchi.
Per concludere, insomma, ancora una volta i media si dimostrano in movimento e, con essi, i loro veri significati: telefono e radio, i cui usi incerti tra Otto e Novecento si sono poi fissati nel processo storico che abbiamo descritto, torneranno probabilmente ad assumere una natura flessibile, instabile. Torneranno a essere nuovi media.
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