Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La medicina araba arricchisce le conoscenze antiche anche grazie ad alcuni apporti derivanti dalla tradizione persiana e indiana, dando vita a “manuali” e compendi la cui importanza è stata a lungo sottovalutata dalla critica storica occidentale. Anche dal punto di vista della formazione del medico e della pratica terapeutica il mondo arabo offre interessanti spunti di indagine e di confronto con l’Occidente.
Una delle maggiori conquiste della medicina araba è la creazione di “manuali” o compendi, in grado di trasmettere in occidente un galenismo “agile” e quindi utile per la pratica. Vengono creati e usati generi testuali diversi, anche tavole sinottiche, che rimandano implicitamente all’esistenza e alle esigenze di una pratica medica sviluppata e diffusa. Le pratiche di cura meritano dunque più attenzione, forse, di quanto si sia loro prestata, ribadendo fino a pochi decenni fa il pregiudizio cinquecentesco occidentale nei confronti della medicina araba “ripetitiva” e libresca. Di fatto la medicina islamica, nella sua lunga storia e nella sua complicata geografia, non può essere ridotta a questa prospettiva.
Uno dei settori più sviluppati è quello della materia medica e della farmacologia, che ha grande impulso grazie alla traduzione del De materia medica di Dioscoride. La materia medica antica viene arricchita con apporti originali ricavati dalla tradizione persiana e dalla medicina indiana, da cui sono riprese sia la descrizione di alcune droghe ignote al mondo classico che nuove tecniche per la loro preparazione, risolvendo così in parte il difficile problema della disponibilità della materia medica, che si ripresenta ogni volta che il testo botanico prevale sull’esperienza diretta. Ma il mondo arabo conosce anche insigni esempi di erborizzazione e osservazione botanica diretta, riflessi nella redazione di splendidi testi illustrati: così nell’opera di al-Suri. Ibn al-Baytar di Malaga, trasferitosi in Egitto e infine a Damasco, grande botanico, è un suo allievo e scriverà diverse opere di materia medica. Tra i farmaci semplici più utilizzati nel mondo arabo si trova lo zucchero, prodotto “rivoluzionario” che viene agli Arabi dalla conquista della Persia, dove lo si raffina a partire dalla canna. Lo zucchero consente di prolungare attraverso preparazioni specifiche (sciroppi, elettuari) la durata dei rimedi semplici. L’altro farmaco molto utilizzato, nonostante le prescrizioni religiose che ne vietavano l’uso anche medico, è il vino.
Sul piano professionale, la figura del farmacista è nettamente distinta da quella del profumiere/droghista e dal preparatore di sciroppi e bevande; della preparazione e della somministrazione dei farmaci si occupano dunque direttamente o indirettamente medici, droghisti, botanici ed erboristi. Non si hanno notizie precise sulla formazione del farmacista, ma a partire dal XIII-XIV secolo esiste, nelle aree urbane, la figura del muhtasib, ispettore che sorveglia anche l’attività dei curanti, e dunque anche quella delle botteghe di questa specialità.
Una delle caratteristiche più sorprendenti della farmacologia araba è l’esistenza di raccolte (tra le quali una di Rhazes, di “farmaci sperimentati” sui pazienti. In linea di massima si preferisce la terapeutica farmacologica a quella chirurgica – un uso poi molto criticato dalla chirurgia rinascimentale – e si dà fiducia soprattutto ai farmaci semplici. Così al-Biruni, importante farmacologo sostiene che gli alimenti sono i farmaci migliori.
Tuttavia la farmacologia resta in gran parte ancorata al testo, soprattutto alle due opere galeniche De compositione medicamentorum (secundum locos e per genera). La teoria dei farmaci ha un interessante sviluppo nel IX secolo, quando il matematico al-Kindi prende in considerazione per la prima volta il farmaco e le sue qualità in modo geometrico. Nonostante il ragionamento non sia ancorato all’esperienza clinica, l’idea che la sostanza medicinale possa essere studiata in sé e utilizzando la geometria per descriverne gli effetti rappresenta un’assoluta e decisiva novità rispetto al mondo antico e, infatti, la teoria e il connesso dibattito saranno ripresi in Occidente da Arnau de Villanova. A sua volta, Averroè considera l’effetto del farmaco sul corpo secondo una teoria della “quantità minima” necessaria perché l’azione di un farmaco si manifesti. Le discussioni non si limitano agli effetti dei farmaci semplici, ma si estendono al tentativo di determinare l’azione di un farmaco composto a partire dai semplici componenti; il processo di quantificazione ha riflessi anche a livello pratico, nella preparazione dei farmaci. L’importanza della farmacopea araba per lo sviluppo storico successivo della terapeutica, e la sua efficacia, accresciuta dai rapporti con l’arte chimica e distillatoria, sono riflesse nella singolare vicenda testuale e “biografica” di un personaggio esistito, ma a cui sono attribuite opere che non ha mai scritto. Si tratta di Mesue il Giovane: inesistente nelle fonti arabe, egli diviene in Occidente un’autorità indiscussa sulla preparazione dei semplici e dei composti.
Dal punto di vista professionale, anche il medico, pur dotato di una cultura elevata, risente dell’incerta posizione della medicina nell’enciclopedia delle scienze. Gli si richiedono correttezza etica e consapevolezza deontologica: lo prova il fatto che il muhtasib, l’ispettore di cui si è detto, richiede ai medici il giuramento di Ippocrate. L’utilizzazione di questo testo dalla sorprendente fortuna, scritto in età classica, adottato nel lungo periodo da civiltà e culture del tutto differenti, e giunto fino a noi, è una spia dell’esistenza di una comunità medica sviluppata a diversi livelli e dotata di un potere di autoaffermazione e di autoregolazione.
La cultura medica aveva peraltro un suo pubblico ampio; anche i numerosi testi contra medicos, e sull’opportunità o meno di pagarli, testimoniano paradossalmente della fortuna sociale di questa figura professionale e delle tensioni associate alla sua attività. Nonostante ciò, non si sa molto sulla formazione effettiva del medico arabo, per il quale si raccomanda lo studio sui testi ma anche il tirocinio pratico al letto del malato. Nel complesso, non sembra si possa parlate di scuole formalizzate, ma di rapporti individuali e “privati” tra maestri e allievi, anche se spesso questi si svolgono sullo sfondo dell’istituzione ospedaliera, che in area islamica aveva conosciuto uno sviluppo notevole, a partire dai precedenti bizantini.
Il termine bimaristan (la “casa” o il “luogo” dei malati), utilizzato nel mondo islamico per definire l’ospedale, è persiano. Una leggenda che elabora elementi di verità vuole che in epoca abbaside si sia adottato il modello di ospedale di Gondishapur, città che era stata sede di una celebre accademia medica sasanide; i medici cristiani che vi lavoravano avevano accesso alle diverse tradizioni culturali: araba, persiana, indiana e greca. L’ospedale di Baghdad sarà fondato nel IX secolo e sarà presto seguito da altri, nella capitale e altrove, soprattutto in Asia (una tendenza che sarà seguita in misura minore in Africa e in Spagna). Se è ancora una leggenda che Rhazes abbia partecipato direttamente alla sua fondazione, è vero che queste istituzioni, ereditate da altre simili già presenti nel mondo bizantino e orientale, hanno segnato il mondo medico islamico costituendone una delle principali novità.
Alla metà del XII secolo viene fondato il Nuri Bimaristan (1154) di Damasco, un ospedale che era anche un luogo pio, dove l’istituzionalizzazione della medicina diviene un fatto compiuto grazie anche alla presenza di una scuola di medicina dotata di una biblioteca specializzata. L’insegnamento avviene attraverso l’esempio, e il ricorso ai testi è integrato dalla la pratica clinica. Si tratta di un’innovazione di grande importanza, sia sul piano della didattica che su quello dell’istituzione in sé. Sul modello di quello di Damasco sarà fondato l’ospedale del Cairo, al-Mansuri, che ammetterà sia uomini che donne. Ma la medicina è insegnata ad alto livello anche in altre istituzioni coeve, quali il bimaristan al servizio della madrasa (“scuola”) al-Mustansiriyya di Baghdad, che ha anche una farmacia interna e che, pur non svolgendo in prima istanza una funzione di istruzione medica, essendo rivolta alla formazione della burocrazia di governo e alla creazione di una classe di funzionari colti (diwan), avrà però una notevole importanza nella trasmissione della medicina.
Il personale che lavora negli ospedali arabi ha quattro specializzazioni professionali: fisiologia, oftalmologia, chirurgia e ortopedia, assistenza (per i dipendenti amministrativi e gli infermieri). Gli ospedali hanno spesso sia un “ambulatorio” per pazienti esterni che reparti di degenza. La loro diffusione fa sì che per questi edifici si elaborino modelli architettonici specifici e funzionali, ancora oggi leggibili e visitabili.
La funzione didattica degli ospedali non è la sola innovazione offerta dalle istituzioni ospedaliere arabe: esse sono anche le prime a dare ricovero e cura ai malati mentali, spesso in reparti specializzati e isolati da quelli degli altri pazienti. I “folli” sono curati con la musica e con farmaci. Esistono del resto diversi testi arabi sulla follia o malinconia (letteralmente eccesso di bile nera: la nosologia araba si basa in questo sulla tradizione classica), tra i quali quello di Ishaq ibn Irman, un medico del X secolo di Kairouan in Tunisia, che pur rifacendosi a Rufo di Efeso e ad altri autori greci, tra i quali Areteo, mostra una consapevolezza nuova della dimensione psicosomatica del disturbo mentale.
Lo sviluppo della pratica medica, ma anche gli ostacoli imposti all’osservazione clinica dal peso della cultura medica scritta ed ereditata – non diversamente da quanto sarebbe accaduto nel Medioevo occidentale – si nota nel numero relativamente scarso di patologie diverse dalle antiche che sono descritte dai medici arabi. Dal nostro punto di vista, è particolarmente difficile da comprendere lo squilibrio tra la conoscenza approfondita delle fonti greche e l’esperienza di una patocenosi (insieme di malattie presenti su un territorio) del tutto diversa da quella antica, che tuttavia non sembra fornire spunti osservativi realmente significativi. Vi sono comunque eccezioni.
Tra queste l’identificazione di alcune malattie parassitarie, come la scabbia, di cui si riconosce l’acaro come agente, pur nel quadro di un’eziopatogenesi tradizionale; e soprattutto la spettacolare vena medinensis (dracunculosi), causata da un parassita che cresce sotto la cute. Già Paolo di Egina ne aveva riconosciuto la natura “verminosa”, mentre Galeno si chiedeva se si trattasse di un nervo; nel X secolo sarà identificata da Qusta ibn Luqa, che ne assimilerà la natura a quella dei parassiti intestinali.
Rhazes invece descrive e identifica con certezza una delle malattie che avrebbero caratterizzato la storia e l’immaginario occidentale fino al XVIII secolo: il vaiolo. Sconosciuto all’antichità classica, come il morbillo, che Rhazes considera una sua forma blanda, il vaiolo era endemico in Oriente e produceva danni gravi all’apparato visivo degli ammalati. Anche la spiegazione del contagio rimane quello della medicina antica: riconosciuto e considerato semplicemente come l’epifenomeno dell’alterazione degli umori causata dalle “arie, acque, luoghi” cattivi, se ne descrive in testi veterinari il meccanismo e i modi per difendersene. L’atteggiamento dei medici arabi, che non avevano assistito ad alcuna pandemia di peste, assente dal mondo mediterraneo per un lungo periodo (fra quella, detta “di Giustiniano”, del 541 e quella del 1348), non è diverso da quello dei medici occidentali della stessa epoca: molti la descrivono ma pochi, tra i quali Ibn al-Khatib, conservano un atteggiamento laico e accettano i provvedimenti di isolamento degli infetti e di difesa delle popolazioni messi in atto dalle autorità civili.
Un’attenzione particolare deve essere riservata alla chirurgia. Dalle evidenze testuali che ci sono rimaste, sembra di poter dedurre che la chirurgia era conosciuta nella medicina araba soprattutto attraverso le fonti greche, e in particolare Paolo di Egina. Le operazioni descritte sono però poco praticate, e in genere sono riservate solo ai casi in cui l’esito può essere considerato certo o almeno non mortale. Si ha l’impressione che molte descrizioni di operazioni chirurgiche siano solo teoriche. È una leggenda priva di fondamento, dovuta a una lettura errata di testi, che gli Arabi conoscano e pratichino il taglio cesareo o la tracheotomia, per non parlare della chirurgia addominale. Ma una qualche forma di chirurgia non invasiva, così come il trattamento delle fratture e delle bruciature, continuerà certo a essere praticata. Un’eccezione è costituita dalla chirurgia oftalmologica, campo nel quale i chirurghi arabi eccellono.
Il mondo arabo non conosce l’anatomia, anche perché la dissezione è proibita da precetti religiosi; vi sono alcune osservazioni dirette – come quella che consente la correzione della credenza galenica nella bipartizione dell’osso mascellare inferiore – condotte sui numerosissimi scheletri di persone morte e non sepolte durante una terribile carestia in Egitto nel XIII secolo. Un discorso diverso deve essere fatto per la scoperta della circolazione polmonare, considerata un’acquisizione importante della medicina araba: sostenuta da Ibn al-Nafis e poi ripresa da Michele Serveto nel XVI secolo, la nozione è teorica e non sostanziata da osservazioni empiriche, e non avrà quindi un effetto significativo di modificazione del sistema di fisiologia galenica, con il quale verrà integrata.