Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I numerosi reperti fossili rinvenuti nel corso del Novecento hanno consentito di ricostruire in modo abbastanza dettagliato le principali fasi della nostra storia evolutiva iniziata in Africa circa 7 milioni di anni fa con il Sahelanthropus tchadensis. A questa forma sono poi succeduti l’orrorin, gli ardipiteci, gli australopiteci e il keniantropo e, a partire da 2,5 milioni di anni fa, altre due linee evolutive: quella dei parantropi, che si è estinta 1 milione di anni fa, e quella del nostro genere Homo. La prima uscita dall’Africa dell’umanità antica risale a circa 2 milioni di anni fa, quando piccoli gruppi di Homo ergaster si sono diretti verso la Georgia, evolvendosi nell’Homo georgicus, e poi verso oriente, dove si sono evoluti nell’Homo erectus. La colonizzazione dell’Europa è stata più tarda, risalendo solo a circa 800 mila anni fa. Un notevole impulso allo studio della nostra evoluzione è giunto verso la fine del secolo scorso dall’affermarsi dell’antropologia molecolare. L’analisi del DNA, infatti, ha permesso di stabilire che la nostra specie Homo sapiens è nata in Africa circa 200 mila anni fa e che da lì è quindi migrata in tutto il resto del mondo; si è giunti inoltre alla conclusione che i neandertaliani non sono stati affatto i nostri progenitori.
Dal “bambino di Taung” all’“uomo di Flores”
Il Novecento è stato per l’antropologia un secolo breve, che si è consumato in soli ottant’anni. E precisamente, tra il 7 febbraio 1925, quando Raymond Dart ha pubblicato su “Nature” l’articolo relativo alla scoperta del “bambino di Taung”, e il 28 ottobre 2004, quando Peter Brown ha pubblicato (ancora su “Nature”) l’articolo relativo alla scoperta dell’“uomo di Flores”. Prima che venisse alla luce il fossile di Taung, un piccolo centro a nord della città sudafricana di Kimberley, la storia umana era conosciuta solo attraverso alcuni reperti di sapiens e di altre specie del genere Homo provenienti da siti archeologici europei (l’uomo di Neanderthal o Homo neanderthalensis) e asiatici (l’Homo erectus) e non andava oltre i 500 mila anni fa. Improvvisamente, invece, le nostre radici si allungano indietro fino a ben 2,3 milioni di anni fa e si fissano in Africa, proprio là dove nell’Origine dell’uomo, pubblicato a Londra nel 1871, Charles Darwin aveva posto la nostra culla, sostenendo che: “È quindi probabile che l’Africa fosse inizialmente abitata da scimmie estinte, strettamente affini al gorilla e allo scimpanzé. Poiché queste due specie sono ora le più vicine all’uomo è alquanto più probabile che i nostri primi progenitori abitassero sul continente africano che non altrove”.
L’ipotesi sostenuta da Dart – secondo cui il cranio infantile e incompleto da lui studiato, e per il quale aveva coniato il nome Australopithecus africanus, sia appartenuto a un ominino e quindi alla sottofamiglia zoologica della quale fanno parte l’umanità attuale e tutti i suoi antenati fino alla separazione dallo scimpanzé – è osteggiata dagli studiosi dell’epoca, che ravvisano erroneamente in quelle ossa immature le fattezze di un piccolo di scimmia antropomorfa, nonostante i canini non superino in altezza gli altri denti e dalla faccia sia ormai scomparso gran parte del prognatismo, ma soprattutto nonostante la posizione del foro occipitale indichi la postura eretta e l’andatura bipede. L’origine di quel macroscopico abbaglio va ricercata nella convinzione allora imperante che la nostra evoluzione abbia avuto inizio con lo sviluppo massiccio del cervello; quello del “bambino di Taung”, invece, è molto piccolo: 405 centimetri cubici che sarebbero diventati 440 nell’adulto. Passeranno non pochi anni – e nei musei si accumuleranno non pochi fossili – prima che quel paradigma venga superato spostando l’attenzione, per così dire dalla testa ai piedi: fu l’andatura bipede a fare di noi degli uomini quando il cervello aveva ancora le medesime dimensioni di quello delle altre antropomorfe.
L’onore scientifico fu restituito a Raymond Dart negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, quando Robert Broom dimostrò senza ombra di dubbio che gli australopiteci del Sudafrica devono essere inseriti nella nostra linea evolutiva. E da quel momento in poi, i resti di altre tre specie australopitecine vengono rinvenuti prima in Africa orientale (A. anamensis, A. afarensis e A. garhi) e nel 1995 in Ciad (A. bahrelghazali). Gli australopiteci hanno un cervello di soli 500 centimetri cubici, sono piuttosto piccoli: 30-35 chilogrammi di peso per le femmine e 40-50 per i maschi e una statura di un metro per le femmine e di un metro e mezzo per i maschi; abitano, almeno le prime forme, in ambienti ancora piuttosto boscosi, dove si nutrono prevalentemente di vegetali teneri. Fino al 2001 si ritiene che gli australopiteci siano gli unici ominini a popolare l’Africa tra 4 e 2,5 milioni di anni fa, ma in quell’anno Meave Leakey (1942-), paleontologa e zoologa, ha descritto un nuovo genere, il Kenyanthropus platyops, che avrebbe condiviso con loro i grandi spazi africani attorno a 3,5 milioni di anni fa. La morfologia della testa del keniantropo appare arcaica nella porzione neurale, con le dimensioni del cervello più o meno simili a quelle australopitecine, ma decisamente moderna nella faccia: piatta, con il palato sottile e i molari piccoli.
Gli australopiteci sono stati degli ominini evolutivamente prolifici, che prima di estinguersi hanno dato vita a ben due linee di discendenza ognuna delle quali con più di una specie. Da una parte si colloca quella dei parantropi, un taxon – ossia una classe di microrganismi – che differisce dagli australopiteci per l’apparato masticatore più potente e idoneo, quindi, per dei cibi vegetali duri (come radici, noci e bacche), sopravvissuto solo fino a circa un milione di anni fa, dopo che aveva popolato l’Africa orientale con il Paranthropus aethiopicus e il Paranthropus boisei e quella meridionale con il solitario Paranthropus robustus. Dall’altra si colloca, e con 11 diverse specie (habilis, rudolfensis, ergaster, georgicus, antecessor, cepranensis, heidelbergensis, neanderthalensis, erectus, floresiensis e sapiens), quella del nostro stesso genere Homo, che oggi sopravvive solo con noi sapiens. I tratti più caratteristici di questa forma sono individuabili nella progressiva encefalizzazione (dai circa 600 centimetri cubici dell’Homo habilis fino ai nostri 1500), nello sviluppo delle capacità tecnologiche e artistiche e nella predisposizione a migrare, fino a popolare tutti i continenti.
Dal modello evolutivo lineare a quello a cespuglio
Nell’ultimo quarto del Novecento, l’antropologia attraversa un altro cambio di paradigma. Al modello di evoluzione lineare – che prevede la lenta trasformazione delle specie in altre specie, a partire da un antenato arcaico e poi via via attraverso gli australopiteci e tutte le varie forme di Homo fino a noi sapiens – si è andato sostituendo quello suggerito da Stephen Jay Gould di evoluzione a cespuglio. La nuova interpretazione del percorso evolutivo dell’uomo si rifà direttamente alla teoria generale dell’evoluzione organica suggerita dallo stesso Gould e da Niles Eldredge, e nota con il nome di equilibri punteggiati, secondo la quale ogni specie avrebbe una vita più o meno lunga e senza sostanziali modificazioni e poi, improvvisamente, partorirebbe altre specie o si estinguerebbe senza lasciare discendenti. L’ipotesi del cespuglio contempla la convivenza di più forme e ciò corrisponde esattamente a quanto si osserva nella serie fossile: più specie di australopiteci erano convissute tra loro e con il keniantropo, i parantropi poi erano convissuti con alcune specie di Homo e da ultimo innumerevoli specie del nostro genere erano convissute insieme. Il cespuglio è considerato ormai l’unica raffigurazione topografica in grado di descrivere la storia degli ominini, ma non c’è un consenso generale sul numero di rami (cioè di specie) che formerebbero i diversi generi. A questo proposito, un nutrito gruppo di studiosi avanza critiche sull’eccessiva frammentazione di Homo e propone una qualche “potatura” dei suoi rami. Le specie più a rischio sembrano essere quelle riconosciute solo recentemente come tali, vale a dire georgicus, antecessor e cepranensis; e qualche paleoantropologo si spinge addirittura oltre, fino a supporre che habilis e rudolfensis potrebbero essere nientemeno che degli australopiteci. Se quest’ultima ipotesi dovesse acquisire credito tra gli scienziati, ci troveremmo a dover fronteggiare un’altra caduta di paradigma, perché a tutt’oggi l’origine dell’industria litica è associata alla comparsa nel mondo del genere Homo, e specificamente alla comparsa proprio dell’“abile” e del “rudolfense”, ma se i due ominini fossero stati in realtà degli australopiteci è evidente che sarebbero stati questi ultimi ad aver inventato il modo di lavorare la pietra, cioè ad aver inventato la tecnologia, che presuppone un qualche livello di conoscenza scientifica della realtà naturale.
Le scoperte antropologiche del Novecento
L’ultimo decennio del Novecento e l’inizio del nuovo millennio sono stati segnati dalla straordinaria scoperta dei resti fossili degli ominini più antichi, cioè degli antenati degli australopiteci. In particolare, le ossa del capostipite della nostra linea evolutiva sono venute alla luce in Ciad nel 2001 e risalgono a 7-6 milioni di anni fa. Una data, questa, che precede di poco – e quindi compatibile – quella ottenuta dall’analisi molecolare per la divergenza uomo-scimpanzé, che Morris Goodman aveva fissato nel 1996 a 6 milioni di anni fa. La nuova specie, a cui è stato dato il nome Sahelanthropus tchadensis, è conosciuta attraverso il ritrovamento di un cranio quasi completo, sebbene molto distorto dalla pressione che il terreno ha esercitato su di esso nel corso della fossilizzazione; la posizione del foro occipitale sembra indicare che il sahelantropo camminasse perfettamente dritto sui due arti inferiori, a dimostrazione che il bipedismo sarebbe sorto subito dopo la separazione evolutiva che ci ha allontanato dall’antropomorfa africana. Qualche tempo prima che il sahelantropo fosse trovato, e cioè nel 2000, un sito archeologico keniano aveva restituito alcuni frammenti fossili di un’altra antichissima specie. Anche in quel caso i ricercatori l’avevano classificata come ominina perché il femore testimoniava il raggiungimento della stazione eretta e dell’andatura bipede. Il nuovo taxon, che essendo vissuto circa 6 milioni di anni fa era di poco più giovane, ha ricevuto il nome Orrorin tugenensis e insidia la posizione di “padre fondatore” al sahelantropo.
Il terzo aspirante alla parte di primo antenato dell’umanità – l’Ardipithecus, con le sue due specie ramidus e kadabba – è stato ritrovato in Etiopia dal 1992 e la sua vita si è consumata tra 5 milioni e mezzo e 4 milioni e mezzo di anni fa. Le dita delle mani erano lunghe e curve, proprio come lo sono quelle delle scimmie antropomorfe, e quindi decisamente adatte per afferrare i rami degli alberi e le ossa del bacino e degli arti inferiori erano conformate per un’andatura non perfettamente eretta, che potremmo definire barcollante. Il nuovo essere, quindi, sembrava aver sperimentato un primo tentativo di bipedismo, ma come ben sappiamo quel modo di muoversi era già comparso oltre 1 milione di anni prima ed era stato collaudato da ben due specie. La posizione tassonomica dell’ardipiteco è al momento incerta, dato che in quell’ominino la natura sembra aver voluto proporre una sorta di regressione del bipedismo. Ciò, tuttavia, non ci deve stupire affatto, perché il percorso evolutivo è assolutamente casuale, quindi privo di qualsivoglia progetto e direzione, e di tanto in tanto può capitare che la rotta si inverta. A questo proposito, la più eclatante inversione evolutiva dell’intera storia dell’uomo è stata scoperta nel 2004 nell’isola indonesiana di Flores, dove è venuto alla luce uno scheletro datato 18 mila anni fa. L’Homo floresiensis – questo il nome scientifico assegnato al reperto – è stato coevo di noi sapiens, anche se le nostre vite si sono svolte in territori diversi (lui nella sola isola di Flores e noi in tutto il resto del mondo) e a noi è capitato di sopravvivere mentre lui si è estinto. Quella creatura però, e diversamente da ogni altra specie umana recente, aveva il cervello così piccolo come quello che gli ominini avevano posseduto all’inizio della loro evoluzione: circa 420 centimetri cubici. L’uomo di Flores inoltre, con la sua statura che non superava il metro di altezza, costituisce l’unico caso noto di nanismo insulare all’interno del nostro genere, una condizione che viceversa è ben documentata in altri mammiferi.
La nascita dell’antropologia molecolare
Nella seconda metà del Novecento la biologia ha conosciuto un progresso tanto straordinario da superare l’analisi morfologica degli organismi viventi per raggiungere il livello della loro analisi molecolare e in quel clima si è andata via via strutturando una nuova disciplina: l’antropologia molecolare, appunto. Il nuovo indirizzo scientifico consegue il suo primo risultato importante nel 1967, quando i due antropologi Vincent Sarich e Allan Wilson hanno stabilito, sulla base delle differenze amminoacidiche riscontrate nell’albumina, che la separazione della linea evolutiva umana da quella delle scimmie antropomorfe africane era assolutamente recente e collocabile attorno a 5 milioni di anni fa. Oggi noi sappiamo che l’evento è stato più antico, risalendo a 7 milioni di anni fa il distacco del gorilla dal blocco uomo-scimpanzé, ma a metà degli anni Sessanta gli antropologi erano convinti che l’episodio dovesse risalire a ben oltre 25 milioni di anni fa e cioè che fosse precedente alla comparsa del ramapiteco, ritenuto allora il nostro capostipite. Le ricerche successive, e in particolare la scoperta di altri fossili, hanno dimostrato che la morfologia del ramapiteco richiamava l’orango e non già noi dimostrando che quel taxon non era affatto ominino e che gli studi molecolari avevano avuto ragione a considerare recente la separazione uomo-antropomorfe africane.
Successivamente lo sviluppo delle biotecnologie ha reso possibile analizzare direttamente il DNA, cioè la molecola nella quale sono racchiuse le informazioni per lo sviluppo degli individui ed è condensata la storia evolutiva delle specie, e l’antropologia molecolare ha risolto un altro dei problemi centrali della storia dell’uomo. La questione riguarda il tempo e il luogo dell’origine dell’umanità attuale, l’Homo sapiens: antica di almeno 2 milioni di anni e realizzatasi in ognuno dei continenti del Vecchio Mondo, come vogliono i sostenitori del modello “multiregionale”, o recente e compiutasi solo in Africa, come vogliono i sostenitori del “modello fuori dall’Africa”? La soluzione è stata trovata nel 1987 e ancora una volta da Allan Wilson, al quale si erano affiancati Rebecca Cann e Mark Stoneking. I ricercatori hanno rivolto la loro attenzione a un particolare tipo di DNA, quello mitocondriale, che si trasmette solo per via materna ed è presente nelle cellule in molte copie, a differenza del DNA nucleare di cui si possiedono solo due copie, una di origine paterna e una di origine materna. Esattamente come era successo venti anni prima, il risultato della ricerca non ha lasciato dubbi: la nostra specie è venuta al mondo grazie a un singolo evento evolutivo concretizzatosi in Africa tra 200 mila e 100 mila anni fa. Una volta stabilito che siamo una specie giovanissima e che siamo poi usciti dal continente africano per andare a occupare tutte le altre terre emerse, si può supporre che il dilemma della nostra filogenesi sia risolto, ma in realtà c’è chi sostiene che l’esperimento di Wilson non sia sufficiente a escludere che i sapiens si siano mescolati con i neandertaliani una volta giunti in Europa e quindi che noi europei e loro non fossimo altro che due sottospecie della medesima specie: Homo sapiens neanderthalensis e Homo sapiens sapiens.
Di nuovo, è stato ancora un avanzamento delle biotecnologie, divenute ormai capaci di recuperare il DNA anche da tessuti antichi, che ha consentito agli antropologi molecolari di fare chiarezza sull’argomento. Verso la fine degli anni Novanta, infatti, un allievo di Wilson, Svante Pääbo, ha studiato alcuni tratti del DNA mitocondriale dei neandertaliani – a partire dal più famoso, che fu rinvenuto in una grotta della valle di Neander in Gernania nel 1856 – e ha dimostrato che quella forma appartiene a una specie diversa dalla nostra. L’uomo attuale, insomma, né discende dai neandertaliani, né si è incrociato con essi: noi siamo la specie Homo sapiens e loro sono stati la specie Homo neanderthalensis. Negli anni che sono seguiti, la ricerca molecolare in campo antropologico si è molto sviluppata e tutti i risultati ottenuti dall’esame del DNA mitocondriale, moderno e antico, sono stati confermati a livello del DNA nucleare. Un’osservazione, questa, che ci permette di asserire che possiamo ormai contare anche sulle molecole, e non più solo sui fossili, per ricostruire il nostro passato, ma non sulle une o sugli altri: solo lavorando contemporaneamente su entrambi i fronti sarà possibile ottenere l’immagine più fedele dell’evoluzione dell’uomo e dei suoi rapporti con gli altri primati.