Dall'ascesa di Silla alla congiura di Catilina
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel periodo che va dall’88 al 63 a.C., caratterizzato in politica estera da quasi ininterrotti conflitti contro Mitridate, si afferma – dopo una serie di lotte interne, combattute per la prima volta anche dagli eserciti – Silla. Ottenuta un’inedita dittatura per il consolidamento dello stato, cerca di muoversi nella tradizione degli optimates, di restituire stabilità alle istituzioni e di conferire al senato ulteriori prerogative. Presto però nuove forze innovatrici, impersonate da Pompeo e Crasso, muteranno lo scenario; la congiura di Catilina dimostrerà ancora una volta la precarietà degli equilibri repubblicani.
Silla, messosi recentemente in luce grazie alla dura repressione dei socii, riveste il consolato nell’88 a.C. Proveniente da un ramo decaduto di una famiglia aristocratica, durante l’elezione si impone sullo stesso Mario. È forse il segno che gli optimates, favoriti dai timori innescati dai recenti e drammatici mutamenti, stanno rialzando la testa.
Ad ostacolare Silla è il tribuno mariano Publio Sulpicio Rufo. Protagonista di feroci scontri di piazza, fa votare al concilium plebis non solo la ripartizione degli italici in tutte le 35 tribù, ma anche un provvedimento che avrà, nell’immediato, gravi conseguenze: ritirare al console e affidare a Mario il comando dell’imminente spedizione contro Mitridate VI, il re del Ponto che stava insidiando i domini romani nella penisola anatolica.
In risposta, Silla, che nel frattempo aveva raggiunto le sue sei legioni acquartierate in Campania, intraprende la sua prima "marcia su Roma"; i mariani, presi alla sprovvista, non riescono a difendersi. In maniera altrettanto inedita, egli procede alla repressione, annullando la legislazione di Rufo e ponendo una taglia sulla testa di questi e su quella di Mario. Forse autore di misure per rafforzare l’autorità senatoria, costringe poi Lucio Cornelio Cinna, l’avversario eletto al consolato per l’anno successivo, a impegnarsi a non modificare la situazione.
Essa, invece, muta rapidamente. Alla partenza di Silla per l’Oriente, Mario, sottrattosi a stento alla cattura, s’impadronisce infatti dell’Urbe; fa uccidere molti optimates, per poi morire per cause naturali l’anno seguente, quando gli scontri ancora sono in atto. A sua volta Cinna, infrangendo la promessa, ratifica, sempre con la violenza, la distribuzione dei nuovi cittadini in tutte le 35 tribù: i diritti degli italici sono un tema popularis ma anche un’arma strategica per il controllo del corpo elettorale. Sbarazzatosi della fazione mariana più estremista e ormai sostenuto da ampi settori del senato, Cinna reitera il consolato sino all’84 a.C., quando, ad Ancona, perde la vita durante l’ammutinamento dell’esercito con il quale sta per imbarcarsi per muovere contro Silla.
Una svolta, infatti, sta giungendo da Oriente: il vincitore della guerra mitridatica invaderà di lì a poco l’Italia, riconquisterà Roma, opererà una tremenda repressione e ideerà mutamenti istituzionali dalle ampie e, in alcuni casi, durature conseguenze.
Quando Silla sbarca in Grecia, nell’87 a.C., trova molte città ormai schierate con Mitridate VI "il Grande", per Roma uno tra i peggiori nemici di sempre: per sbarazzarsene, saranno infatti necessarie tre guerre combattute, con solo qualche pausa, dall’88 al 64 a.C.
Forte è il carisma dell’abile, ambizioso e poliglotta sovrano, noto anche per l’immunità ai veleni (da qui "mitridatizzazione"). Mirando a rendere il Ponto la potenza egemone del Mar Nero e della penisola anatolica, nell’89 a.C. egli aveva occupato la più occidentale Bitinia, che stava entrando nell’orbita di Roma. Era poi avanzato verso sud, nella centrale Cappadocia, e aveva infine dato il via a un’espansione nel Mediterraneo orientale. Sfruttando le divisioni interne alle città greche della regione e presentandosi come loro nuovo liberatore, aveva ispirato i "vespri asiatici", il pogrom consumatosi nell’88 a.C. ai danni di decine di migliaia di commercianti italici; era giunto infine a controllare Atene, e da lì la Grecia meridionale e centrale.
Silla, con i suoi 30 mila uomini, attacca la città e il Pireo; l’anno successivo, dopo molti sforzi, riesce a penetrarne le difese, saccheggiando, senza troppi scrupoli, il sancta sanctorum della civiltà greca (innumerevoli tesori artistici prendono così la via dell’Urbe). Dà anche ad Atene una nuova "costituzione" oligarchica, forse prova generale di quanto, di lì a poco, farà con Roma. Si scontra infine con le forze di Mitridate a Cheronea e Orcomeno (in Beozia), aprendosi le porte della penisola anatolica, dove sono di stanza altri contingenti romani.
Ormai, per Mitridate, è giunto il momento della resa; essa avviene a Dardano (in Troade) nell’85 a.C., dove egli accetta di abbandonare i territori occupati, consegnare la flotta dell’Egeo e pagare un’indennità di guerra. Silla, ansioso di terminare le ostilità per affrontare la situazione creatasi nell’Urbe, gli riconosce il regno del Ponto e lo status di alleato. Le città greche d’Asia si sottomettono a loro volta, subendo un trattamento diverso a seconda del ruolo giocato nel conflitto.
Roma, che attende con più che giustificato timore il ritorno del proconsole, ha nel frattempo raccolto un esercito di 100 mila uomini.
Silla, nella primavera dell’83 a.C., può tuttavia sbarcare a Brindisi quasi indisturbato, raccogliendo con sé i cittadini messi al bando durante la sua assenza. Il giovane Pompeo, figlio di Strabone, tra le clientele paterne del Piceno arruola per lui ben tre legioni: forte così di un’armata di 50 mila uomini, il vincitore di Mitridate dà inizio alla "seconda marcia su Roma". Alla testa dei suoi veterani, si apre la strada in Apulia, Campania ed Etruria, sconfiggendo i meno esperti eserciti consolari; il 1° novembre dell’82 a.C., nei pressi dell’Urbe, a Porta Collina, ne massacra i difensori mariani, tra cui molti Sanniti, ancora memori del trattamento che aveva riservato loro durante la guerra sociale.
È così che Silla diviene padrone di Roma. Ben peggiore delle stragi mariane è la sua vendetta: egli fa affiggere, a più riprese, elenchi di "fuorilegge", ponendo una taglia sulla loro testa. Le persecuzioni, soprattutto di cavalieri, si estendono a tutta la penisola. Migliaia sono le vittime dei "cacciatori di teste"; i loro beni subiscono confisca e ai loro figli vengono interdette, per evitare non improbabili ritorsioni, le cariche pubbliche. Molti, come spesso avviene in simili circostanze, sono eliminati solo perché ricchi. Se il Sannio deve subire ulteriori persecuzioni, particolarmente colpita dalle confische terriere è l’Etruria, che aveva fieramente resistito; vi troverà spazio gran parte delle nuove colonie, volte a sistemare ben 120 mila veterani. Ciò renderà la regione, nei decenni a venire, particolarmente instabile.
Silla si rende conto che è ormai necessario dare a Roma nuove basi, e ciò per evitare le aberrazioni che, in ultima analisi, gli avevano permesso di giungere al potere assoluto. A partire dall’81 a.C., ottiene così un’inedita dittatura, senza limiti temporali, volta a risanare la res publica.
Fondamentale, nel suo disegno molto elaborato (tanto da guadagnarsi l’improprio termine di "costituzione"), è rafforzare l’antica autorità del senato, cui restituisce il diritto di veto nei confronti delle iniziative tribunizie. Al consesso, ormai dimezzato dalle stragi, aggiunge prima 150 suoi fedeli e poi 300 cavalieri. Per garantirne il nuovo numero di membri e, più in generale, per distribuire meglio il potere, vi rende automatica l’entrata dei questori (il primo gradino nel cursus honorum), da lui portati a 20; parimenti, i pretori passano da sei a otto. Le basi della piramide del potere, in tal modo, si allargano; ai tribuni della plebe è invece impedito l’accesso alle altre magistrature. Silla stabilisce anche una pausa di dieci anni tra due consolati e un’età minima per questura, pretura e consolato (rispettivamente 30, 39 e 42 anni). Pur sprovvisti di dati su età media e speranza di vita della popolazione dell’epoca, si può supporre che la manovra miri a frenare i giovani più ambiziosi e quindi, in un sistema immaginato per perpetuarsi sempre identico, assai pericolosi. Ben consapevole dei rischi connessi alla clientela militare, Silla proibisce di scendere in armi nell’Italia peninsulare, a sud della linea Magra-Rubicone. La giustizia penale, sino ad allora gestita in gran parte dall’assemblea popolare, viene organizzata in corti permanenti (su modello delle quaestiones de repetundis): composte da senatori e presiedute da pretori, a esse sono assegnate le casistiche più importanti.
Vengono poi sospese le distribuzioni di grano, decisione che, accanto alla riduzione dei poteri di concilium plebis e tribunato, colpisce in particolar modo la plebe urbana, in parte risarcita da una sorta di calmiere sulle derrate.
Nel 79 a.C. Silla abbandona spontaneamente – fatto straordinario – il potere; si ritira in Campania, dove l’anno successivo muore di morte naturale (sorte già toccata a Mario ma, per un politico di quell’epoca e di quel rango, non certo comune).
La calma che fa seguito a tante e tali riforme è provvisoria. Console nel 78 a.C., l’ex collaboratore Marco Emilio Lepido cerca di annullare alcuni atti di Silla. La soluzione è ancora una volta militare: incaricato di domare una rivolta di ex possidenti in Etruria, egli passa invece dalla loro parte, giungendo a minacciare Roma con un esercito. Il senato, vedendo in pericolo il proprio potere, emana un nuovo senatus consultum ultimum. I veterani di Silla si raccolgono attorno al proconsole Quinto Lutazio Catulo e al giovane Pompeo: i due, alla fine, hanno la meglio.
Fuori dall’Italia, e più precisamente nell’estremo Occidente e Oriente dei domini romani, restano aperti due fronti, che in più di un’occasione rischiano di congiungersi. Il primo è in Spagna, in gran parte controllata dal mariano Quinto Sertorio; il secondo è in Asia, dove Mitridate e i pirati, approfittando dei conflitti interni di Roma, hanno ripreso le ostilità: a poco era servita, per calmare quelle acque agitate, la seconda guerra mitridatica (83-81 a.C.), combattuta dal generale sillano Lucio Licinio Murena.
In Spagna, Sertorio, già ispiratore di una ribellione generalizzata, nel 77 a.C. viene raggiunto dai complici di Lepido sfuggiti alla cattura, al seguito di Marco Perperna. I due si muovono sull’esempio dei ribelli italici, creando un senato contrapposto a quello dell’Urbe; grazie alla mediazione dei pirati, stipulano poi un’alleanza con Mitridate. Roma, facendo eccezione alle regole, affida la guerra al giovane Pompeo, forte delle clientele paterne e della gloria militare raggiunta sotto Silla (da qui l’appellativo "Magno"), ma non ancora avanti nel cursus honorum. Teatro principale degli scontri è la costa orientale della penisola, dove gli eserciti romani faticano molto, sinché Pompeo, ottenuti altri rinforzi, nel 72 a.C. ha la meglio su Perperna, che nel frattempo aveva ucciso a tradimento Sertorio.
A partire dall’anno precedente, anche nell’Italia centromeridionale scoppia una sollevazione generale, questa volta di schiavi. Un gruppo di gladiatori, guidato dal trace Spartaco e man mano accresciutosi, mette in crisi le armate romane e stringe alleanza con Mitridate e i pirati. Risolutivo è l’intervento del proconsole Marco Licinio Crasso, che ha la meglio presso il fiume Sele (71 a.C.). La più nota e pericolosa rivolta servile della storia antica termina con la morte di Spartaco – assurto poi, nell’immaginario politico moderno, a eroe del proletariato oppresso –, l’eccidio di migliaia di schiavi e la crocifissione dei superstiti lungo la via Appia.
Spartaco e la sua ribellione
Il trace Spartaco (109-71 a.C.) capeggiò la più grave ribellione servile che Roma dovette mai affrontare. Entrato come ausiliario nell’esercito romano, disertò; condannato alla schiavitù, verso il 75 a.C. divenne gladiatore in una scuola di Capua, da dove due anni dopo fuggì assieme a decine di compagni, organizzando un’armata. Una prima vittoria sulle truppe romane, avvenuta presso il Vesuvio, aumentò la sua popolarità; le sue sempre maggiori forze, in Campania, batterono nuovamente i romani. Mentre la ribellione divampava anche in Calabria e Lucania, nacquero però dissapori interni e a Spartaco la situazione sfuggì di mano. Nel 72 a.C., mentre un esercito riusciva ad annientare la parte di rivoltosi scesa in Puglia, il senato affidò 6 legioni al proconsole Marco Licinio Crasso; questi, imponendo ai suoi uomini una disciplina spietata, bloccò Spartaco, tagliandogli i rifornimenti grazie a un vallo presso l’istmo di Catanzaro. Spartaco, forzatolo, si diresse verso l’Apulia; attaccato alle spalle nel gennaio del 71 a.C., ebbe ancora la meglio, ma di lì a breve dovette ritirarsi in Lucania. Tradito da un pirata cilicio con il quale aveva organizzato il passaggio in Oriente, fu sconfitto definitivamente da Crasso presso il fiume Sele: morirono così 60 mila schiavi, mentre i 6 mila prigionieri furono crocifissi lungo la via Appia, da Capua a Roma. I resti dell’armata ribelle furono intercettati e annientati da Pompeo, allora di ritorno dalla Spagna. Spartaco divenne, nell’immaginario politico moderno, un eroe carismatico, simbolo di chi lotta per la libertà del proletariato oppresso. A lui si ispirarono i socialisti tedeschi Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, che nel 1919 fondarono lo Spartakusbund, la ‘lega di Spartaco’. A lui Stanley Kubrick dedicò, a sei anni dalla fine del maccartismo, il suo primo film a colori, Spartacus (1960), tratto da un lavoro di Howard e impersonato da Kirk Douglas.
Pompeo, tornato vincitore dalla Spagna e incurante di Crasso, intende prendere parte all’ultimo atto della vicenda, ciò che fa intercettando e massacrando i superstiti del Sele. Si avvicina poi con l’esercito a Roma, chiedendo al senato di potersi candidare, pur sprovvisto di regolare cursus honorum, al consolato. Crasso preferisce non affrontare il rivale con le armi, ma pretende uguali condizioni; i comizi ratificano così la loro elezione alla suprema magistratura per il 70 a.C.
Crasso può contare sulle immense ricchezze acquistate durante le proscrizioni – che avevano forse fatto di lui il maggior finanziere di Roma – e sull’appoggio dei cavalieri. Pompeo è invece forte delle clientele militari e di una nascente simpatia popolare. Entrambi ex sillani ma ormai indipendenti, promuovono un programma riformatore: ripristinano i poteri dei tribuni e del concilium plebis, appoggiando anche – in concomitanza con il clamore sollevato dai successi di Marco Tullio Cicerone nel processo contro l’ottimate Caio Verre, rapace governatore della Sicilia – una legge che muta la composizione delle giurie; da questo momento saranno formate per un terzo da senatori, da cavalieri e dai meno abbienti tribuni aerarii; la legge, pur modificando gli equilibri politici, migliora di poco la giustizia romana.
Nel 67 a.C., le continue scorrerie dei pirati inducono Roma a una nuova spedizione militare. I predoni non solo avevano devastato Delo, il maggior porto dell’Egeo, ma avevano anche minacciato gli approvvigionamenti dell’Urbe, in gran parte dipendenti dalle pericolose – e altrettanto lucrose – importazioni via mare: i consoli del 73 a.C. avevano dovuto reintrodurre, anche se per soli 40 mila cittadini, le distribuzioni di grano a prezzo politico.
Il tribuno Aulo Gabinio Capitone, appoggiato dai cavalieri, affida a Pompeo – attraverso il concilium plebis e scavalcando il senato – un comando straordinario su tutto il Mediterraneo. La manovra, politicamente pericolosa, è strategicamente logica, considerando la natura della minaccia: a poco valgono più mirate spedizioni, susseguitesi per decenni e con alterna fortuna, contro gli sfuggenti nemici. Pompeo arma 270 navi e mobilita 100 mila uomini; in pochi mesi viene a capo del problema, distruggendo quei porti orientali dove i pirati trovano rifugio e applicando miti condizioni a chi passasse dalla sua parte.
Gabinio richiama anche l’ex sillano e ottimate Lucio Licinio Lucullo dalla guerra contro Mitridate; nel 66 a.C., infine, il tribuno Caio Manilio, sempre attraverso il concilium plebis, affida a Pompeo l’incarico di sistemare tutta l’area orientale. Il progetto, assai indigesto alla nobilitas, viene invece sostenuto dai cavalieri (e da Cicerone).
Facendo un passo indietro, va ricordato che la terza guerra mitridatica aveva avuto inizio quando il sovrano del Ponto aveva invaso, nuovamente, la penisola anatolica. Suo scopo era diminuire la pressione sugli alleati in Spagna, ma soprattutto osteggiare la nascita della nuova provincia di Bitinia (conquistata anzi superando deboli resistenze). L’abile e fortunata controffensiva di Lucullo aveva aperto la via all’occupazione romana del Ponto, spingendosi sino in Armenia, dove il re Tigran aveva dato asilo al sovrano nemico, ormai in fuga. Nel 68 a.C. però i veterani, istigati dal giovane patrizio Publio Claudio Pulcro, si erano ribellati, vanificando l’impresa. In realtà Lucullo aveva commesso un errore fatale: per venire incontro alle città d’Asia, ne aveva mitigato i debiti, procurandosi così le inimicizie dei publicani e, di conseguenza, dei cavalieri. Da qui l’iniziativa di Manilio.
Pompeo, in ogni caso, prende in mano la situazione in maniera decisa, rioccupando la penisola anatolica; Mitridate perde, uno dopo l’altro, gli alleati e infine, nell’estate del 63 a.C., si suicida. Conquistate anche la Siria e Gerusalemme, il generale vittorioso può annunciare la fine della guerra. Roma, alla notizia, decreta 12 giorni di festeggiamenti.
Nell’Urbe, la situazione politica è ancora instabile. Ne è prova evidente la parabola di Lucio Sergio Catilina, che per qualche tempo determina le vicende di Roma. Aristocratico decaduto ed ex sillano, è stato considerato di volta in volta dalla storiografia politico corrotto o rivoluzionario idealista. Essendosi vista respinta la candidatura al consolato per il 65 a.C. a causa di un’imputazione de repetundis, progetta, sostenuto forse da Crasso e dal giovane ma già influente Caio Giulio Cesare, di assassinare i consoli di quell’anno, in una "prima congiura", andata misteriosamente a vuoto. Nel 64 a.C., egli rinnova la candidatura, promettendo remissioni di debiti e distribuzioni di terre, guadagnandosi così l’appoggio dei settori più in crisi della cittadinanza, ma l’ostilità di optimates e cavalieri. Ha come avversario Cicerone, uomo "nuovo" conterraneo di Mario, non inviso agli optimates e appoggiato dai cavalieri e dai nuovi cittadini di origine italica. Questi, basando la propria campagna elettorale sulla sua straordinaria fama di oratore e su una sistematica opera di seduzione dell’opinione pubblica, vince, assieme al coetaneo Caio Antonio Ibrida.
Cicerone avrebbe forse voluto imporsi sulla scena pubblica come "conservatore illuminato", fautore della concordia civile e difensore della tradizione (sentita più tra i nuovi cittadini che nell’ormai composita e per molti versi corrotta Urbe). Gli eventi, tuttavia, glielo impediranno.
Una campagna elettorale
Il sociologo Gianpietro Mazzoleni osserva come il Commentariolum petitionis anticipi "le tecniche di marketing politico messe a punto dagli esperti di comunicazione del XX secolo" (La comunicazione politica, Bologna 1998, 16). Il riferimento è al breve scritto di Marco Tullio Cicerone (o del fratello Quinto), che contiene una serie di consigli pratici per la candidatura al consolato (carica che necessitava della ratifica dei comizi centuriati). L’opera, principale testimonianza sulle elezioni in Roma antica e quindi sul carattere – "clientelare" o "democratico" – delle stesse, ha avuto notevole fortuna, soprattutto in tempi recenti. Ciò, in primo luogo, perché sembra particolarmente vicina a quelle situazioni in cui tra candidato ed elettore non s’interpone una struttura partitica solida, ma è il primo a dover cercare, in una situazione fluttuante, il voto del secondo. L’opera descrive Roma come città "piena di tranelli, di inganni, di vizi di ogni genere" (54). Cosa poteva fare, allora, un uomo "nuovo" come Cicerone? Innanzitutto crearsi alleati: "il nome di amici, quando si è candidati, ha una valenza più ampia che nel resto della vita" (16). Tenere presente non solo l’Urbe, ma tutti i municipia italici: in un’elezione difficile (e in un sistema ’maggioritario puro’) anche pochi voti potevano essere decisivi. Farsi aiutare dai giovani, il cui zelo "nel procurar voti, nel far visita agli elettori, nel recare le notizie, nell’accompagnare il candidato, è grande e straordinariamente onorevole" (33). Accattivarsi il favore popolare tramite una campagna elettorale magnifica e ricca, banchetti e atti di generosità, ma anche cercare di conoscere di persona i singoli cittadini. Non stancarsi mai di promettere: un sì non crea un obbligo, ma "se invece si oppone un rifiuto, ci si può procurare di sicuro inimicizie" (48). Infine, non intervenire negli affari dello stato, di modo che senato, cavalieri e popolo si convincano che il candidato sarà dalla loro parte (Commentariolum petitionis, trad. di Paolo Fedeli).
Quando, già agli inizi del 63 a.C., il tribuno Publio Servilio Rullo presenta una legge per distribuire terre pubbliche in Italia e nelle provinciae, il console, appellandosi a senato e plebe urbana (da lui incoraggiata a non rinunciare agli agi di Roma), riesce a far ritirare la proposta. È però alla fine dell’anno che giunge la grande prova; già al corrente, attraverso una rete di informatori, dei progetti di Catilina – un colpo di mano nell’Urbe e una sollevazione in Etruria –, Cicerone fa presidiare la città e l’Italia. Grazie agli ambasciatori dei Celti Allobrogi (che avevano finto di appoggiare i congiurati per ottenere prove) e al sapiente uso dei documenti finiti nelle sue mani, egli riesce infine a ottenere il mandato di arresto per i ribelli presenti a Roma. Il senato, combattuto tra le miti posizioni di Cesare e le drastiche proposte di Marco Porcio Catone (il futuro "Uticense"), opta per le seconde, ordinando a Cicerone di mettere a morte i prigionieri, senza processo né appello al popolo (come avrebbero chiesto invece la prassi e la legge di Caio Gracco). Sempre il tribuno Catone, per mantenere la calma della popolazione dell’Urbe e allontanarla da Catilina – e Cesare –, decreta l’aumento senza limite del numero degli aventi diritto alle distribuzioni di grano.
Cicerone vive il suo momento di gloria; le polemiche suscitate dall’irrituale – e illegale – procedura repressiva lo accompagneranno però per molto tempo, conducendolo, cinque anni dopo, all’esilio.
I ribelli tra cui lo stesso Catilina, raccoltisi in Etruria, vengono invece di lì a poco annientati, in uno scontro armato presso Pistoia.