di Noemi Lanna
Nel 2015, l’East Asia Summit (Eas), istituito per promuovere la realizzazione della Comunità dell’Asia orientale, celebra il suo decimo anniversario. Il 2015 è anche l’anno entro il quale l’Asean (Association of Southeast Asian Nations) si è impegnata a realizzare l’Asean Economic Community, una comunità fondata sull’integrazione economica tra i mercati degli stati membri. Questa coincidenza di ricorrenze indirettamente sintetizza il percorso del regionalismo asiatico, iniziato con l’istituzione dell’Asean (1967) e approdato, in tempi più recenti, al dibattito sulla costituenda Comunità dell’Asia Orientale.
L’Asean inaugura la prima fase del processo di integrazione asiatica, una fase in cui le pulsioni regionalistiche, ancora notevolmente inibite dalla struttura bipolare del sistema internazionale, diventano gradualmente più consistenti per effetto di due fattori: il rapprochement tra Repubblica Popolare Cinese (Prc) e Stati Uniti – che rende possibile la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Tokyo e Beijing, eliminando uno dei principali ostacoli al rafforzamento delle relazioni intra-regionali – e la ‘rapida crescita economica’ (1950-73) del Giappone, premessa dell’incontrastata egemonia nipponica nello scacchiere economico estremorientale. Negli anni in cui l’economia nipponica diventa il motore del ‘miracolo economico asiatico’, la regionalizzazione è caratterizzata dall’emergere di organizzazioni a forte vocazione transpacifica come l’Asia-Pacific Economic Cooperation (1989), fortemente voluta dal Giappone e dall’Australia e saldamente ancorata agli Usa.
Il dibattito sulla formazione della Comunità dell’Asia Orientale entra nel vivo nel 2005 con la prima riunione del summenzionato Eas, di cui fanno parte diciotto stati. In questa terza fase del regionalismo asiatico (non ancora conclusa), si assiste a una rinegoziazione della leadership regionale, indotta dall’effetto combinato del ‘decennio perduto’ e dell’ascesa della Cina. Mentre il Giappone arranca sotto il peso della recessione, la Cina riconquista la centralità nella regione con gli straordinari tassi di crescita della sua economia, ma anche attraverso una diplomazia assertiva e un uso pervasivo del soft power. L’altro tratto distintivo di questo nuovo stadio d’integrazione asiatica è l’affermazione di un modello regionalistico fondato sul primato dell’Asia Orientale e dunque alternativo rispetto al modello transpacifico, che era stato sino ad allora predominante. L’istituzione che simboleggia più di ogni altra cosa il rilevante cambiamento è l’Asean Plus Three (Apt), un’organizzazione formata nel 1997 e costituita esclusivamente da attori asiatici (i membri dell’Asean con l’aggiunta di Cina, Giappone e Corea del Sud), senza l’inclusione degli Stati Uniti.
Inquadrare il processo di integrazione regionale asiatico in prospettiva storica è utile ad evidenziare le sue connotazioni specifiche e a valutare le sfide che lo attendono. Come si evince dall’excursus sin qui effettuato, il regionalismo asiatico è caratterizzato da un basso livello di istituzionalizzazione e da una marcata matrice economicistica. Queste sue peculiarità, lungi dall’essere un limite come teorizzato da alcuni studiosi ossessionati dalla comparazione tra il regionalismo asiatico e quello europeo, potrebbero efficacemente mitigare l’eterogeneità che attualmente inficia la coesione intra-regionale. D’altro canto, l’evoluzione del processo di regionalizzazione in Asia Orientale appare condizionata da un intreccio di variabili che sono in ultima analisi riconducibili al dilemma emerso nella terza di fase di sviluppo del regionalismo asiatico: in che modo conciliare la tensione tra l’Asia transpacifica e quella centrata sull’Asia orientale?
È quasi superfluo evidenziare che questo dilemma è un riflesso del più ampio processo di transizione di potere da Washington a Pechino. Negli ultimi anni, si è assistito a un tentativo statunitense di rivitalizzare la dimensione transpacifica dei processi di integrazione regionale attraverso una serie di iniziative (per esempio l’adesione all’East Asia Summit, avvenuta nel 2011), progetti (i negoziati per la Trans Pacific Partnership) e strategie (Pacific Pivot). Pur senza cedere a visioni realisticamente pessimistiche, è possibile individuare in questa ridefinizione della strategia degli Stati Uniti l’intento di rispondere agli effetti della transizione in atto, con un bilanciamento del potere regionale cinese. Al tempo stesso, è interessante notare come all’interno del dibattito sulla costituenda Comunità dell’Asia Orientale la Cina abbia perorato un modello di regionalismo geopoliticamente e geoeconomicamente incentrato sull’Apt. Proponendo una riconcettualizzazione strategica che non includesse la componente transpacifica dell’Asia, Pechino ha cercato di garantirsi un duplice vantaggio: sul bilanciatore esterno (gli Stati Uniti) e sul suo principale contendente asiatico (il Giappone).