Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La biologia dello sviluppo, o embriologia, è la scienza che studia i processi che portano dalla formazione dei gameti (le cellule sessuali), tramite la fecondazione (l’incontro dell’uovo e dello spermatozoo) allo sviluppo di un individuo completo e capace di adattamento all’ambiente. Come disciplina autonoma si afferma nell’ultimo ventennio del XIX secolo, grazie all’opera di un gruppo di studiosi tedeschi, in particolare Wilhelm Roux e Hans Driesch, i quali gettano le basi per la sua separazione dalla storia naturale e ne ridefiniscono l’impianto teorico. Durante il primo quarantennio del XX secolo l’embriologia si afferma come scienza sperimentale e fisicalista, distaccandosi dalla teoria dell’evoluzione e dalla genetica, due ambiti disciplinari in forte crescita in quel periodo. È solo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta che, grazie alla crescita della biologia molecolare, lo sviluppo embrionale è inquadrato come un caso particolare del processo universale di azione del gene, come si esplica nel metabolismo, nell’eredità, nei fenomeni immunitari. Questo nuovo status si riflette nel nuovo nome di biologia dello sviluppo, che ne testimonia la maggiore generalità.
Alla ricerca di uno statuto epistemologico
La biologia dello sviluppo studia i processi che attraverso la regolazione temporale dell’espressione genica portano dalla cellula fecondata alla formazione di molti tipi cellulari diversi, i quali si organizzano a formare tessuti e organi e infine un organismo definito e dotato di capacità di adattamento all’ambiente. Essa deriva dalla confluenza, negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, delle diverse tradizioni di ricerca embriologica (studio dello sviluppo embrionale) e citologica (studio della morfologia e del funzionamento cellulare). Le due discipline, prima distinte, sono poste in relazione grazie al nuovo sistema concettuale di riferimento, la biologia molecolare. Questa confluenza ha comportato una nuova definizione della disciplina e il cambiamento del nome. La tradizionale “embriologia”, infatti, era nata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento come scienza sperimentale dello sviluppo embrionale e, soprattutto nella prima metà del XX secolo, era incentrata sullo studio della formazione di tessuti e organi nel corso dello sviluppo, mentre il ruolo delle singole cellule nel processo era considerato una questione non centrale.
Nella seconda metà dell’Ottocento le ricerche sullo sviluppo embrionale avevano ricevuto un sostanziale impulso dalla diffusione della teoria darwiniana dell’evoluzione, in special modo da alcune sue interpretazioni, come la celebre teoria della ricapitolazione, sostenuta da Ernst Haeckel (1834-1919). Secondo il naturalista tedesco, le fasi dell’ontogenesi (sviluppo del singolo organismo) riproducono (ricapitolano) in piccolo la storia evolutiva della specie cui l’organismo appartiene. Questa teoria aveva contribuito a rinsaldare i legami tra la morfologia (studio comparato della struttura degli esseri viventi), embriologia e teoria dell’evoluzione, concedendo allo studio dello sviluppo embrionale un ruolo primario nella definizione della parentela tra specie diverse, ma al contempo definendolo come mero strumento di verifica della storia evolutiva.
L’embriologia dell’Ottocento, infatti, non ha uno statuto epistemologico autonomo ma consiste nella semplice osservazione e comparazione della sequela di forme assunte dagli organismi nello sviluppo, una specie di morfologia dinamica. La teoria della ricapitolazione comporta inoltre una rigida selezione dei fenomeni biologici considerati rilevanti. Così lo studio embriologico è limitato alle fasi che seguono la gastrulazione, la fase in cui nell’embrione compaiono i cosiddetti “foglietti embrionali”, tre aggregati differenziati di cellule (endoderma, ectoderma, mesoderma) che daranno poi origine a tessuti e organi. Questo processo era considerato da Haeckel la prima manifestazione della vita, mentre i precedenti stadi dello sviluppo, la gametogenesi (produzione delle cellule sessuali), la fertilizzazione (incontro dello spermatozoo con l’uovo) e le prime divisioni dell’embrione erano generalmente trascurati in quanto considerati non specifici e quindi insignificanti.
Negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento s’impone una nuova tendenza, la cosiddetta meccanica dello sviluppo (Entwicklungsmechanick), basata sull’affermazione del valore intrinseco dell’embriologia, intesa non più come semplice osservazione di una sequela di forme, ma come studio sperimentale dei nessi causali (causalnexus) che intercorrono tra i diversi stadi di sviluppo sin dalla fecondazione, così che quanto prima costituiva una spiegazione (la sequenza di forme nello sviluppo riflette l’appartenenza a una specie), rappresenta ora il problema (cosa determina la sequela delle forme nello sviluppo?). Secondo Wilhelm Roux, uno dei fondatori della nuova disciplina, “la meccanica dello sviluppo è la dottrina delle cause delle forme organiche” e “il metodo causale di ricerca è l’esperimento”, sia esso artificiale o naturale, come la variazione o la comparsa di mostri.
La svolta è resa possibile dallo sviluppo di nuove tecniche di manipolazione dell’uovo fecondato, oltre che dalla selezione di oggetti sperimentali adeguati alle necessità. Particolarmente adatti allo studio sperimentale si rivelano gli embrioni di alcuni anfibi, come il tritone o la rana, e soprattutto il riccio di mare, le cui uova presentano caratteristiche (grandi dimensioni e membrana trasparente) che consentono sia l’osservazione diretta del processo di sviluppo, sia un’ampia possibilità di interferire con esso, con tecniche chimiche e microchirurgiche. Sino a tempi recentissimi, il riccio di mare ha rappresentato il principale modello di studio dei processi di fecondazione, mentre gli anfibi si sono rivelati particolarmente adatti all’osservazione della differenziazione cellulare, grazie alle capacità rigenerative di alcuni loro tessuti.
I primi esperimenti e le prime deduzioni: metodo e teoria
La definizione teorica e metodologica della nuova disciplina si deve a due naturalisti tedeschi, il già citato Roux e Hans Driesch, i quali si dedicano, dalla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, allo studio dello sviluppo embrionale sin dai suoi primi stadi alla ricerca delle leggi generali che lo regolano. In un classico esperimento del 1888, Roux separa i primi due blastomeri di un uovo fecondato di rana, distruggendone uno con un ago arroventato e osservando che il superstite dà origine solo a un mezzo embrione. Su queste basi, Roux sostiene che lo sviluppo dell’embrione è determinato dall’interazione tra le cellule che derivano dalla prima divisione dell’uovo. Ciascuna di esse avrebbe in dote solo una parte della “sostanza germinale”, così che l’asportazione di una sola di esse altera l’intero disegno (teoria dello sviluppo “a mosaico”).
In lunghi periodi di studio presso la Stazione Zoologica di Napoli, Driesch e il suo assistente Curt A. Herbst compiono un esperimento simile a quello di Roux. Essi separano i primi due blastomeri di un embrione di riccio di mare, mantenendone l’integrità grazie a una nuova tecnica inventata da Herbst. Il risultato che ottengono è però tutt’altro: i blastomeri danno origine a due embrioni perfettamente formati, ancorché di dimensioni ridotte. In base a questi risultati, Driesch sostiene la “totipotenza” di tutte le cellule dell’embrione, fino allo stadio di gastrula, e ipotizza la presenza di un piano di sviluppo (Bauplan) all’interno di ogni singola cellula. Egli osserva anche come il cambiamento della conformazione spaziale dell’uovo influisca sul suo sviluppo, al punto da riorientare il destino delle cellule: blastomeri destinati a dare origine all’ectoderma, ad esempio, erano indotti dal cambiamento delle condizioni ambientali a svilupparsi in endoderma. Questo porterà Driesch a definire l’uovo fecondato come un “sistema armonico equipotenziale” la cui principale caratteristica è la capacità di adattamento al mutare delle condizioni ambientali e che è definito non dalla quantità di materiale cromosomico ma da un principio immateriale, la entelechia.
Oggi sappiamo che la contrapposizione tra la teoria di Roux, secondo cui la differenziazione e lo sviluppo sono legati alla prossimità e alle relazioni tra le cellule, e quella di Driesch, che invece attribuisce a ciascuna cellula embrionale la capacità di originare indipendentemente tutti i tessuti, non è così netta come si poteva pensare all’epoca. La specializzazione delle linee cellulari avviene infatti con modalità e in tempi diversi secondo le specie, ed è accettata la distinzione tra processi di sviluppo “a mosaico” e processi “a regolazione”.
La controversia tra Roux e Driesch ha svolto un ruolo importante nell’orientare la ricerca e il dibattito embriologici nei decenni successivi. Oltre al grande valore dei presupposti metodologici da loro proposti, le conclusioni raggiunte dai due si trovano al centro di un ampio e fecondo dibattito nel primo trentennio del Novecento. L’interesse per le questioni affrontate dai due naturalisti esorbita dal campo strettamente embriologico, poiché lo sviluppo embrionale era oggetto di studio secondo prospettive diverse: per i citologi e i biochimici. L’uovo fecondato è, in questi anni, un modello sperimentale particolarmente valido, grazie alla sua intensa attività metabolica, mentre per i genetisti “fisiologici” (quanti cioè sono interessati al modo di azione dei geni) le prime fasi dello sviluppo e la differenziazione delle cellule rappresentano un valido strumento per indagare l’effettivo ruolo dei geni nel funzionamento del macchinario cellulare. La convergenza di tanti interessi diversi intorno a un unico modello, insieme con lo sviluppo di tecniche di osservazione e interferenza sempre più sofisticate, fa dell’embriologia la disciplina-simbolo della biologia in questo periodo, anche grazie all’attività di alcuni centri di ricerca interdisciplinare, come la Stazione Zoologica di Napoli e il Marine Biological Laboratory di Woods Hole (Massachusetts), dove ricercatori di orientamento diverso trovano l’ambiente adatto per condurre le proprie ricerche e la possibilità di un confronto ampio su problemi generali.
Nuovi orientamenti di ricerca
Le differenti interpretazioni del meccanismo di sviluppo si concretizzano, dai primi del Novecento, in alcune linee di ricerca che si definiranno con sempre maggiore chiarezza nei decenni successivi: lo studio della fertilizzazione (cioè dei fenomeni che accompagnano e seguono l’incontro fra i gameti); lo studio dell’interazione cellulare (cioè del modo in cui le cellule derivate dalla divisione dell’uovo si specializzano in maniera “armonica”); la definizione dei rapporti nucleo-citoplasma nell’eredità e nello sviluppo e, infine, i rapporti fra fattori ereditari e fattori ambientali nella costruzione della struttura embrionale. Il fenomeno dello sviluppo, però, si presenta talmente ampio e complesso che le differenti tendenze rimarranno generalmente separate per lungo tempo, fino all’avvento delle teorie biomolecolari.
Una tale concentrazione d’interessi porta, tra gli anni Novanta dell’Ottocento e gli anni Quaranta del Novecento, un’enorme quantità di risultati che mettono in dubbio la relativa semplicità delle spiegazioni fornite dai pionieri della Entwicklingsmechanick. Dal 1885 un allievo di Driesch, Theodor Boveri, comincia a utilizzare l’uovo fecondato come modello generale di cellula, sperando di poter chiarire tramite lo studio della fecondazione il comportamento delle cellule tumorali. Gli esperimenti da lui condotti nel ventennio successivo portano al riconoscimento del ruolo centrale del nucleo nella trasmissione ereditaria (1885), all’affermazione dell’importanza dei cromosomi nel funzionamento cellulare e del contributo individuale che ciascuno di loro fornisce al corretto sviluppo dell’embrione (1888) e alla definizione del meccanismo che innesca la divisione cellulare (l’iniezione di un fattore citoplasmatico, il centriolo, dallo spermatozoo all’uovo). Il lavoro di Boveri ben testimonia il ruolo centrale assunto dai modelli embriologici nella soluzione di problemi diversi, di citologia, di genetica e di fisiologia. In quello scorcio di secolo, gli americani Charles Otis Whitman ed Edmund Beecher Wilson elaborano un programma di ricerca sulla discendenza cellulare (cell lineage), basato sul presupposto che la totipotenza dei blastomeri ipotizzata da Driesch debba essere per forza limitata dall’eredità, che definisce le possibilità di sviluppo delle cellule. Mentre i tedeschi (Driesch, Herbst, Boveri) si interessano principalmente alla fisiologia dello sviluppo embrionale, gli americani spostano l’attenzione sul programma che sottende l’embriogenesi, quindi sul modo di azione del patrimonio ereditario. Secondo Wilson, lo studio sperimentale dello sviluppo (quindi la reazione delle cellule embrionali al mutamento indotto delle condizioni ambientali) doveva essere accompagnato da una ricostruzione precisa delle diverse linee di discendenza cellulare. Lo sviluppo risulterebbe, in conformità a quest’interpretazione, dal bilanciamento di fattori ambientali ed ereditari, tale che i secondi determinano il fato delle cellule, mentre i primi contribuiscono a determinare la sequela delle fasi di sviluppo. Nel suo celebre libro The Cell in Development and Inheritance (La cellula nello sviluppo e nell’eredità, 1896), Wilson marca la distinzione fra il proprio approccio e quello di Driesch, affermando che “la prima causa determinante dello sviluppo è il nucleo” e che le fasi iniziali dello sviluppo sono da ricercare nell’oogenesi, cioè nella formazione e organizzazione dei gameti prima della fertilizzazione. Secondo Wilson, sarebbero i “fattori ancestrali” portati dai nuclei, infatti, a dirigere lo sviluppo.
La distinzione fra la tradizione fisiologica di Driesch e Herbst (i cui rappresentanti saranno chiamati scherzosamente egg-shakers cioè “sbattiuova”) e quella americana della discendenza cellulare (da cui il nomignolo cell-counters, contacellule, affibbiato ai suoi esponenti) si consoliderà nei decenni successivi, dando origine a linee di ricerca a lungo separate, l’embriologia chimica da un lato e la relazione fra eredità e sviluppo (poi genetica dello sviluppo) dall’altro. Ma sarà la rivoluzione metodologica innescata dai primi embriologi sperimentali, più che le loro conclusioni teoriche, a segnare il cammino della embriologia nel XX secolo.
La rivoluzione metodologica
Nel 1899, Jacques Loeb compie una serie di esperienze che contribuiscono a cambiare radicalmente l’impostazione teorica della disciplina, rigettando completamente ogni riferimento finalistico (tanto l’entelechia di Driesch quanto l’eredità di Wilson) in favore di una spiegazione rigidamente fisica e chimica dei fenomeni embrionali. Uno dei più importanti contributi di Loeb è la scoperta della partenogenesi artificiale, cioè della possibilità di fecondare l’uovo (attivando divisione cellulare e differenziazione) con metodi chimici. Loeb concentra la propria attenzione sulla fecondazione, cercando per quanto possibile di fornirne una descrizione quantitativa e considerando il cambiamento di una serie di fattori, come il rapido mutamento della morfologia dell’uovo o l’aumento del consumo di ossigeno (respirazione cellulare) dopo la fecondazione.
I nuovi parametri di osservazione definiti da Loeb costituiscono la base per il successivo sviluppo della embriologia in senso rigidamente chimico-fisico, aprendo la via a una concezione meccanica dello sviluppo, cui si accompagna la ricerca di una descrizione quanto più possibile accurata e quantitativa dei fenomeni. Nel 1904 il celebre chimico Otto Warburg elabora un metodo per misurare la respirazione cellulare nel corso della fecondazione (il celebre manometro), mettendo al contempo in evidenza la possibilità e l’opportunità di misurare la variazione di una serie di parametri (viscosità della membrana cellulare, crescita e progressiva complicazione di una serie di strutture, rilascio di gas da parte della cellula). Negli anni Dieci e Venti, lo zoologo americano Frank Lillie descrive la penetrazione dello spermatozoo nell’uovo in termini biochimici, ipotizzando che l’incontro fra le due cellule sia “pilotato” da una sostanza emessa dalla superficie dell’uovo vergine, da lui chiamata fertilizina. Questa sostanza provocherebbe l’ammorbidimento della membrana cellulare (rendendola permeabile) agendo al contempo sullo spermatozoo, cui conferirebbe la conformazione adatta a penetrare l’uovo. Lillie osserva anche che la fusione innesca un’accelerazione del metabolismo, testimoniata da un maggiore consumo di ossigeno e dalla formazione di nuove strutture nel citoplasma. Questi studi sull’interazione cellulare proseguiranno negli anni Trenta e Quaranta, portando alla conclusione che i gameti comunicano fra loro tramite il rilascio di molecole simili a ormoni (dette gamoni) e che l’attrazione non avviene solo nella direzione uovo-spermatozoo, ma è reciproca.
Negli anni Venti la concomitanza di due eventi importanti rafforza la rilevanza in termini chimici della interpretazione dello sviluppo. In primo luogo, la rapida ascesa della genetica cromosomica di Morgan porta a una separazione metodologica netta fra studio dell’eredità e studio dello sviluppo, ponendo al centro la questione del rapporto geni-caratteri visibili e tralasciando deliberatamente il problema del modo in cui la sostanza ereditaria determini il funzionamento cellulare. Il gran successo dell’impostazione morganiana determina quindi l’abbandono, con rare eccezioni, del difficile campo della genetica fisiologica, reso peraltro ancor più oscuro dalla conoscenza approssimativa dell’organizzazione e del metabolismo cellulari. L’evento destinato a cambiare in modo radicale la ricerca embriologica è però la scoperta, compiuta da Hans Spemann e Hilde Mangold fra il 1920 e il 1924, che alcune zone della gastrula precoce non solo differenziano in maniera autonoma, organizzandosi spontaneamente, ma hanno il potere di influenzare il processo organizzativo in altre zone. Il metodo utilizzato dai due studiosi è quello classico dell’embriologia sperimentale: essi espiantano da un embrione di tritone (T. cristatus) una regione della gastrula, il labbro dorsale del blastoporo che dà origine al tubo neurale, per impiantarlo in una diversa zona di un embrione di tritone di specie diversa (T. teniatus). Il risultato è stupefacente: una zona che normalmente sarebbe diventata epidermide ventrale viene indotta dal tessuto innestato a differenziarsi in tessuto neurale. Successivamente, sia Spemann che alcuni studiosi inglesi (Joseph Needham e Conrad Hal Waddington) dimostrano che le cellule del tessuto trapiantato non partecipano alla costruzione della nuova struttura, la quale deriva completamente dal riorientamento del tessuto ricevente. Questo risultato spinge Spemann a proporre il nome di induzione per indicare il processo, e a chiamare organizzatori quelle parti dell’embrione che influenzano lo sviluppo di altre.
La teoria di Spemann apre la strada a uno studio compiutamente biochimico dello sviluppo, che avrebbe reso possibile una verifica sperimentale diretta dei processi causali della differenziazione embrionale. A essa si fa risalire la fondazione della embriologia chimica (la definizione è di Joseph Needham, 1931), che resterà la tendenza dominante nel settore fino agli anni Quaranta. L’importanza della teoria dell’organizzatore risiede principalmente nell’aver fornito un significato biologico a una serie di concetti operativi (potenzialità di sviluppo, gradiente morfogenetico) che da tempo appartenevano all’armamentario dell’embriologia sperimentale, ma erano eccessivamente ambigui. Nel corso degli anni Trenta cresce tra gli embriologi l’ambizione a spiegare lo sviluppo facendo riferimento a un semplice concetto chimico. L’ipotesi prevalente, alla base di quest’idea, è che l’organizzatore sia una sostanza chimica ben definita che, emanando da alcune zone dell’embrione, diriga la differenziazione. Si dimostra inoltre che l’organizzatore mantiene il potere inducente anche dopo essere stato “ucciso” con il calore (grazie a ricerche autonome di Hermann Bautzmann, Johann Holtfreter, Spemann e Mangold nel 1932), il che contribuirà a rafforzare la convinzione diffusa che l’induzione sia di origine chimica e non metabolica (cioè legata alla diffusione di una precisa sostanza e non all’interazione fra le cellule).
La teoria dominante negli anni Trenta individua l’organizzatore nei cosiddetti ormoni morfogenetici, sostanze chimiche che, come gli ormoni, funzionano da segnale, armonizzando lo sviluppo di gruppi di cellule vicine. Questa ipotesi rappresenta anche la base per unificare l’interpretazione di fenomeni come la fecondazione e la rigenerazione dei tessuti, prima considerati separatamente. La ricerca dell’organizzatore risulta però a questo punto più complicata di quanto si speri, e proprio la straordinaria fioritura degli studi sull’argomento contribuisce ad accelerarne la decadenza. Si dimostra infatti non solo che l’induzione è causata in modo non specifico da una grande quantità di sostanze organiche, ma che può anche aver luogo per l’azione di sostanze chimiche come il blu di metilene, che influiscono su alcuni aspetti del metabolismo (aumentano ad esempio la respirazione cellulare) ma non hanno alcun effetto specifico sul processo di differenziazione (Needham, Waddington e Brachet, 1935). Waddington ipotizza quindi (1936) che la sostanza inducente specifica sia già presente nei tessuti, e che la funzione degli organizzatori scoperti sino allora sia di attivare tale sostanza. Questo lo induce a proporre la sostituzione del termine “organizzatore” con “evocatore”, sottolineando la possibilità che il processo di induzione non corrisponda a una semplice infezione (definizione usata da Spemann per definire un processo unidirezionale in cui il solo induttore è attivo), ma sia piuttosto il risultato fra il potere evocativo di un agente chimico e la capacità di risposta (competenza) dei tessuti accettori. Lo spostamento del fuoco dalla capacità d’induzione specifica dell’organizzatore alla capacità di risposta specifica delle cellule riceventi segna la fine della caccia all’organizzatore.
La ripresa della genetica fisiologica e l’affermarsi della biologia dello sviluppo
Nel secondo dopoguerra, gli importanti sviluppi della citologia e della biochimica danno centralità al funzionamento della cellula come criterio esplicativo dei processi di sviluppo. In particolare, l’embriologo svedese Sven Hörstadius conduce, a cavallo del decennio, una serie di studi sull’organizzazione delle cellule embrionali prima della gastrulazione, evidenziando la formazione di due poli (animale e vegetale) che individuano due diversi campi morfogenetici, cioè due zone che si sviluppano secondo schemi specifici ma non indipendenti. Questa definizione non è di Hörstadius, il quale usa il termine gradiente morfogenetico per indicare la concentrazione differenziale, nei poli, di sostanze che stimolano un certo tipo di sviluppo. Il concetto di campo morfogenetico, plasmato sui campi della fisica, indica una zona dell’embrione in cui si manifestano reazioni metaboliche non necessariamente omogenee, ma armonizzate grazie allo scambio di segnali chimici fra cellule. Lo studio dei campi sarà perfezionato alla fine degli anni Quaranta da Johann Holtfreter e portato avanti nei decenni successivi dal suo allievo Aaron Moscona, il quale metterà in evidenza negli anni Settanta il ruolo delle strutture cellulari (sia quelle proprie della cellula, come le membrane, sia quelle di comunicazione fra le cellule, come i ponti citoplasmatici) e dei segnali molecolari (come gli ioni calcio e l’AMP) nell’organizzazione dello sviluppo.
Negli anni Quaranta si assiste alla ripresa della tradizione di genetica fisiologica, cioè dallo studio del modo in cui i geni si esprimono. L’interpretazione, dovuta principalmente a biologi francesi e americani (George Beadle, 1903-1989; Boris Ephrussi, 1901-1979; Edward Lawrie Tatum, 1909-1975), del metabolismo in termini di azione del gene contribuì ad avvicinare lo studio dei processi di sviluppo della cellula e di trasmissione dell’eredità. Questi due aspetti del metabolismo cellulare vengono accomunati, negli anni Quaranta e Cinquanta, dalla teoria dei plasmageni, cioè delle unità capaci di autoreplicazione presenti nel citoplasma, le quali, si suppone, derivino dai geni del nucleo e fungono da tramite fra nucleo e citoplasma. Un altro ponte fra lo studio dello sviluppo e quello dell’eredità viene gettato negli anni Quaranta dal biologo belga Jean Brachet (1909-1988), il quale misura la quantità di DNA ed RNA nell’uovo prima e dopo la fecondazione, osservando la presenza di un RNA stabile nell’uovo vergine e la sua lenta ma progressiva sostituzione, dopo la fecondazione, da parte di nuovo RNA. Brachet, inoltre, interpreta i gradienti di Hörstadius in funzione della diversa distribuzione nell’embrione dell’RNA dell’uovo vergine e di quello fecondato. Negli anni Sessanta questi risultati sono interpretati alla luce di una più precisa conoscenza della struttura molecolare delle cellule e del ruolo rispettivo delle macromolecole biologiche. Il plasmagene, intermediario chimico fra eredità e sviluppo, è sostituito da modelli di regolazione, come il celebre operone di Jacob e Monod, basati sulla interazione fra DNA, RNA e proteine e sui nuovi principi della biologia molecolare (principalmente il dogma di Francis Crick).
Alla luce delle nuove teorie anche lo sviluppo embrionale è interpretato in termini d’attivazione differenziata di geni e di controllo retroattivo, perdendo la sua eccezionalità e diventando un altro esempio, sicuramente il più complesso, di regolazione dell’attività genica. A sottolineare lo spostamento della prospettiva, come abbiamo accennato in principio, si è scelto di ribattezzare la vecchia embriologia come biologia dello sviluppo, per indicare l’universalità dei meccanismi di regolazione e comunicazione cellulare che sottendono lo sviluppo, ma sono comuni a tutti i fenomeni biologici, come le neoplasie, la produzione di anticorpi, il funzionamento del sistema nervoso. Uno studio dettagliato dei meccanismi di regolazione cellulare che sono alla base dello sviluppo è stato iniziato alla fine degli anni Sessanta, in particolare da Eric Davidson e dai suoi collaboratori, portando alla conclusione, confermata con maggiore precisione dopo il sequenziamento del genoma e l’introduzione delle tecniche di ingegneria genetica, che i geni regolatori costituiscano la maggior parte dei geni attivi nei metazoi, e che i processi dello sviluppo siano dipendenti da una complicata rete di interazioni, che comprende una determinazione dall’alto (esistono geni regolatori che regolano altri geni regolatori) e una dal basso (alcuni geni sono in grado di rispondere in maniera selettiva a stimoli dell’ambiente), di cui la prima è prevalente.