Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’immunologia nasce nei due decenni a cavallo del 1900 a partire dallo studio sperimentale dei meccanismi fisiologici difensivi dell’ospite nei riguardi degli agenti patogeni. Nel corso del Novecento in quest’ambito di ricerche sono scaturite conoscenze fondamentali sui meccanismi biochimici, molecolari e cellulari alla base della fisiologia normale e patologica dell’immunità. Per la natura dei processi e dei meccanismi implicati nelle risposte immunitarie, l’immunologia ha rappresentato un paradigma di riferimento per lo studio dell’organizzazione funzionale dei sistemi adattativi.
Origini e tappe principali
La fenomenologia cui danno luogo i sieri immuni reagendo con diversi tipi di antigeni rappresenta l’obiettivo principale delle ricerche sull’immunità nel periodo compreso fra il 1880 e il 1910. La sierologia, nelle sue applicazioni in sieroterapia e sierodiagnosi, sfrutta la specificità e sensibilità delle reazioni antigene-anticorpo. In ragione del fatto che i metodi di ricerca chimici e chimico-fisici si rivelano particolarmente adeguati allo studio quantitativo e qualitativo delle interazioni antigene-anticorpo, la sierologia provoca la nascita dell’immunochimica, i cui obiettivi vengono definiti nel 1907 da Svante Arrhenius. L’approccio immunochimico, che predomina durante tutta la prima metà del secolo, dimostra che la specificità immunologica è il risultato del riconoscimento stereocomplementare (del tipo chiave-serratura), fra i gruppi atomici dell’antigene e dell’anticorpo. Individua inoltre le forze intermolecolari che intervengono nell’interazione e stabilisce la natura proteica dell’anticorpo, separandolo, mediante l’applicazione dell’elettroforesi dagli altri componenti del siero. Verso la fine degli anni Cinquanta vengono applicate allo studio dell’anticorpo tecniche biochimiche che consentono al medico americano Gerald Edelman di frammentare la molecola, di descriverne la struttura e quindi di sequenziarla nella sua composizione amminoacidica.
La principale questione teorica con cui si confronta l’immunologia sin dalla scoperta dell’anticorpo è la spiegazione della capacità dei vertebrati di rispondere all’inoculazione di certe sostanze estranee con la produzione di anticorpi in grado di reagire specificamente, in vivo e in vitro, con il materiale che ne ha provocato la sintesi. Per la maggior parte dei primi immunologi l’ipotesi più plausibile sembra essere l’idea che l’organismo di fatto rielabori il materiale antigenico in modo da trasformarlo nell’anticorpo. Questa teoria, che si ripresenta ripetutamente sino agli anni Venti, viene sempre sperimentalmente confutata. Il medico tedesco Paul Ehrlich, sulla base di alcune idee riguardanti la fisiologia della cellula, suggerirà (1897) un diverso punto di vista, secondo la quale l’anticorpo altro non è che una struttura molecolare con proprietà di recettore, già presente sul protoplasma della cellula con la funzione di catturare i principi nutrizionali. Legandosi a queste strutture molecolari, che Ehrlich chiama catene laterali, l’antigene causa un impedimento della normale fisiologia cellulare e, di conseguenza, determina una sovraproduzione di catene laterali o anticorpi che vengono immessi nella circolazione sanguigna (teoria delle catene laterali). L’ipotesi di Ehrlich non spiega però le osservazioni di Friedrich Obermayer e Ernst P. Pick, che nel 1906 provocano risposte specifiche nei confronti di antigeni artificiali. A quel punto il numero degli anticorpi di cui si sarebbe dovuto ammettere la preesistenza in base all’ipotesi di Ehrlich diventa enorme e ciò rende insostenibile la teoria, almeno dal punto di vista di un principio di economia della natura che predomina nelle biologiche di fine Ottocento. Occorrerà aspettare mezzo secolo perché trovi sostanziale conferma – alla luce della nuova biologia molecolare – l’intuizione di Ehrlich che gli anticorpi preesistono e l’incontro con l’antigene amplifica la sintesi di quelli in grado di interagire specificamente con l’antigene stesso.
Mentre si registrano diversi casi, anche mortali, di reazioni allergiche conseguenti alla sieroterapia antitetanica o antidifterica, i fisiologi francesi Charles Richet (1850-1935) e Paul Portier (1866-1962) scoprono nel 1902 il fenomeno dell’anafilassi sperimentale, o ipersensibilità immediata dovuta a una successiva inoculazione dell’antigene. All’anafilassi si aggiunge l’osservazione nel 1903 da parte del fisiologo svizzero Maurice Arthus (1862-1945) nel corso di esperimenti di immunizzazione, di una reazione infiammatoria caratterizzata da edema, emorragia e necrosi dovuti alla somministrazione di antigene in un animale già in possesso di anticorpi precipitanti verso quell’antigene (fenomeno di Arthus). Fra il 1903 e il 1905 i pediatri austriaci Clemens von Pirquet (1874-1929) e Béla Schick (1877-1967) stabiliscono la natura immunitaria della malattia da siero, cioè della reazione di ipersensibilità conseguente all’iniezione di dosi elevate di antigeni estranei, particolarmente degli antisieri utilizzati per l’immunizzazione passiva. Ciò induce von Pirquet a cercare un nuovo termine, allergia intesa come cambiamento abnorme nella reattività di un individuo a un secondo contatto con un antigene, per superare la contraddizione per cui una reazione difensiva quale quella immunitaria potesse essere alla base delle manifestazioni cliniche dell’ipersensibilità. Von Parquet ritiene che la malattia da siero e il fenomeno di Arthus fossero della medesima natura dell’anafilassi, mentre il processo responsabile dell’anafilassi, come viene stabilito sperimentalmente nel 1911 da Henry Dale (1875-1968) è la produzione di istamina. Le proprietà immunologiche dei fenomeni allergici diventano ulteriormente chiare quando, nel 1921, Carl Prausnitz e Heinz Küstner riescono a trasferire passivamente, con il siero, l’anafilassi cutanea, cioè la sensibilità di Küstner alle proteine di pesce. La reazione viene subito utilizzata come test diagnostico per rilevare l’ipersensibilità agli alimenti. Nel 1922 Arthur Coca e Robert Cooke propongono la prima classificazione dell’ipersensibilità, distinguendo fra forme normali, che dipendono da variazioni quantitative all’interno delle specie (malattia da siero e dermatite da contatto), e forme anomale, che dipendono da differenze qualitative all’interno delle specie (anafilassi, atopia e allergia da infezione). Con il termine atopia essi si riferiscono a quelle forme allergiche, come l’asma e la febbre da fieno, che mostrano una familiarità e in questo modo essi introducono l’idea che una reazione immunitaria, in questo caso anomala, potesse essere geneticamente controllata. Durante gli anni Cinquanta si osserva che l’istamina è contenuta prevalentemente nei mastociti, mentre nel 1966 gli immunologi giapponesi Kimishige e Teruko Ishizaka scoprono l’anticorpo IgE. Gli sviluppi della ricerca hanno dimostrato che le IgE si legano ai mastociti e ai granulociti basofili che rilasciano fattori proinfiammatori come istamina, prostaglandine, leucotrieni e fattori chemiotattici per eosinofili e neutrofili.
Malattie autoimmuni e ricerche immunochimiche
Fino alla metà degli anni Cinquanta si ritiene valida la legge dell’ horror autotoxicus, per cui nonostante la scoperta nel 1904 di autoanticorpi responsabili dell’emoglobinuria parossistica a freddo si ritiene che l’organismo eviti naturalmente di reagire immunitariamente contro se stesso. La prima malattia autoimmune indotta involontariamente nell’uomo fu probabilmente l’encefalomielite dovuta alla profilassi con vaccino antirabbico di Pasteur, che in quanto prodotto su tessuto nervoso di coniglio dà luogo a reazioni incrociate con antigeni del tessuto nervoso umano. Benché già nel 1933 sia stata prodotta sperimentalmente l’encefalomielite autoimmune e successivamente sia stata ipotizzata un’etiologia autoimmune per le anemie emolitiche, solo dopo la scoperta della tolleranza immunitaria, – che dimostra la possibilità evitare il riconoscimento dell’antigene come estraneo – diventa comunque plausibile l’ipotesi che l’incapacità di rispondere ad autocomponenti possa in qualche modo essere aggirata. Nel 1956, Ernst Witebsky e Noel R. Rose riescono a riprodurre sperimentalmente la tiroidite di Hashimoto con l’iniezione di estratti di tiroide in animali da laboratorio, dimostrando quindi che la risposta autoimmune può essere responsabile di patologie organiche. L’autoimmunità, a partire dagli anni Sessanta, è divenuto un capitolo centrale della ricerca biomedica, e un numero sempre maggiore di patologie cronico-degenerative è stato associato a un’eziologia autoimmune. Le malattie autoimmuni, che interessano tra il 5 e il 7 percento della popolazione e causano spesso malattie croniche debilitanti, vengono suddivise in due categorie: organo-specifiche e sistemiche.
Dopo la prima guerra mondiale la ricerca immunochimica amplia i dati sperimentali sui parametri quantitativi e qualitativi delle reazioni antigene-anticorpo e dimostra, fra altre proprietà, l’eterogeneità degli anticorpi prodotti in risposta a un dato antigene. Tale eterogeneità, che si manifesta attraverso le reazioni incrociate, in cui il siero immune reagisce anche con antigeni diversi da quello utilizzato per l’immunizzazione, alla luce delle conoscenze biochimiche e fisiologiche della prima metà del nostro secolo, rende ancor meno plausibile l’ipotesi di una preesistenza dell’anticorpo. Gli immunochimici avanzano durante gli anni Trenta alcune ipotesi sul meccanismo di formazione dell’anticorpo, che prevedono un intervento formativo dell’antigene nel processo di costruzione della struttura di riconoscimento anticorpale. Fra i diversi modelli, il più famoso è senz’altro quello proposto da Linus Pauling nel 1940, che dominerà l’immunologia per circa vent’anni. Secondo il chimico americano l’antigene agisce nell’ambiente di formazione dell’anticorpo come uno stampo per determinare la configurazione stereocomplementare della molecola (teoria dello stampo antigenico). Questo modello istruttivo fatica a spiegare quei fenomeni che denunciano una natura biologica, dell’immunità piuttosto che chimica, come per esempio la memoria immunitaria e la tolleranza immunitaria.
La teoria della selezione clonale
Di fronte al fenomeno della tolleranza immunitaria, Frank M. Burnet comincia a pensare che il problema dell’immunità non vada affrontato domandandosi come l’organismo è in grado di riconoscere e neutralizzare gli antigeni estranei, ma piuttosto chiedendosi come riesca a evitare di reagire contro i propri costituenti, ovvero a discriminare fra il self e il non self. Le prime spiegazioni dell’immunità avanzate da Burnet rispecchiano le idee dominanti nell’ambito della microbiologia, per cui si ritiene che fossero le condizioni ambientali a indurre le risposte adattative nelle popolazioni microbiche. Per spiegare gli aspetti adattativi dell’immunità Burnet si ispira inizialmente ad alcune teorie biochimiche sull’adattamento enzimatico, ma nel corso degli anni Quaranta viene dimostrato che i fenomeni di adattamento enzimatico nelle popolazioni batteriche sono il risultato di una selezione darwiniana che opera su mutazioni preesistenti. Di conseguenza, anche la diversità degli anticorpi potrà essere interpretata da Niels K. Jerne, nel 1955, secondo un modello selettivo. Jerne torna a ipotizzare, come aveva fatto Ehrlich, la preesistenza di anticorpi con diffenti specificità e l’incontro con l’antigene come una selezione operata all’interno di un repertorio anticorpale attivamente prodotto dall’organismo. Nel 1957 Burnet presenta la teoria della selezione clonale, in cui il bersaglio della selezione, invece delle immunoglobuline circolanti, diventano le stesse cellule anticorpopoietiche, che, portando sulla loro superficie le strutture anticorpali, vanno incontro a una proliferazione clonale differenziale in seguito all’incontro con l’antigene. La teoria della selezione clonale non è facilmente accettata e soltanto quegli immunologi in grado di cogliere il significato della rivoluzione scientifica costituita dalla nascita della biologia molecolare si applicano a sviluppare il nuovo modello della formazione dell’anticorpo in tutte le sue implicazioni. Del resto, la teoria delle selezione clonale da un lato, e i dati biochimici sulla struttura dell’anticorpo dall’altro, sollevano il problema genetico dei meccanismi molecolari che consentono la produzione dell’enorme repertorio di diversità che la teoria di Burnet assume e che la struttura dell’anticorpo rende di fatto possibile.
Nel 1959 vengono avanzate due ipotesi antitetiche per spiegare l’origine genetica del repertorio anticorpale: Joshua Lederberg propone una teoria basata sulla mutazione somatica a livello dei segmenti polipeptidici dell’anticorpo, mentre David Talmage pensa che tutto il repertorio sia completamente contenuto nel genoma; l’applicazione delle nuove tecnologie biologiche consente a Susumu Tonegawa di dimostrare nel 1974 l’origine somatica della diversità degli anticorpi, quale risultato della ricombinazione di un numero limitato di geni e di processi di mutazione che consentono la produzione di un repertorio sterminato di anticorpi dotati di differenti specificità.
L’impostazione della teoria della selezione clonale risponde al riemergere dell’interesse, fra i ricercatori, per le basi cellulari dell’immunologia. Diverse osservazioni effettuate nell’ambito della patologia avevano indotto sin dai primi anni del secolo a sospettare che i linfociti fossero cellule anticorpopoietiche: uno studio di Astrid Fagreaus nel 1948 fornisce le prime evidenze controllate del fatto che le plasmacellule, che in seguito risulteranno essere linfociti trasformati a seguito dell’incontro con l’antigene, producono gli anticorpi. La descrizione dell’agammaglobulinemia, nel 1952, da parte di Ogden Bruton inaugura una stagione di studi clinici, patologici e biologici sull’organizzazione anatomo-funzionale e sull’ontogenesi e la filogenesi del sistema linfoide. Nel 1956 si scopre che, negli uccelli, le cellule anticorpopoietiche maturano in un organo linfoide noto come borsa di Fabrizio, mentre Jaques Miller e Robert Good dimostrano nei primi anni Sessanta che dalla presenza del timo dipende la capacità dell’animale di produrre le reazioni di ipersensibilità ritardata e il rigetto dei trapianti. Il timo, inoltre, influenza in un modo non del tutto chiaro la formazione di anticorpi. Infatti, negli animali timectomizzati subito dopo la nascita e nei bambini affetti da sindrome di De George (ossia da mancanza congenita del timo), si manifestano livelli normali di cellule anticorpopoietiche, ma la loro risposta agli antigeni appare debole, mentre il trapianto del timo ristabilisce la funzionalità immunitaria. Nella seconda metà degli anni Sessanta veniva stabilita la distinzione fra cellule di derivazione timica (cellule T) e cellule di derivazione midollare (cellule B), dotate di differenti funzioni immunitarie. Gli anni Settanta vedono ulteriori differenziazioni funzionali a livello delle cellule immunocompetenti, ma soprattutto l’emergere dei meccanismi di cooperazione fra le cellule immunocompetenti e dei sistemi di segnalazione basati su fattori solubili noti come citochine, da cui dipende l’attivazione coordinata delle risposte immunitarie. Nel 1963 Baruj Benaccerraf scopre che la risposta immunitaria nei confronti di un antigene può essere controllato da un singolo gene autosomico dominante. Dallo studio di questo problema deriva l’approccio agli aspetti regolativi del sistema immunitario che fa riferimento al ruolo delle molecole di istocompatibilità nel coordinare le interazioni cellulari. I geni della risposta immunitaria (Ir) scoperti da Benecarraf risultarono essere i geni dell’istocompatibilità e svolgere un ruolo centrale nella cooperazione fra le cellule B e T nella risposta all’antigene esterno. Nel corso degli anni Ottanta risulta che i linfociti T e le molecole di istocompatibilità, codificate dai geni, svolgono un ruolo determinante nell’economia funzionale delle risposte immunitarie. In particolare, l’antigene estraneo che viene riconosciuto dai linfociti T, i quali orchestrano le risposte immunitarie, deve essere presentato da cellule accessorie insieme agli antigeni del self. Gli antigeni estranei vengono riconosciuti e quindi attivano una risposta immunitaria in quanto modificano le molecole di istocompatibilità: l’antigene viene rielaborato dalle cellule e presentato sulla loro superficie nel contesto delle molecole di istocompatibilità e i linfociti T riconoscerebbero come estraneo una sorta di self alterato.
Negli ultimi decenni è tornata al centro dell’interesse scientifico e clinico l’immunità innata, che è alla base della reazione infiammatoria e che è ritenuta aspecifica. Di fatto l’immunità innata si sta rivelando un complesso meccanismo in grado di rispondere alla combinazione tra antigene e segnali che lo identificano come estraneo o pericoloso, attraverso una classe di recettori (Toll-like receptors) evolutivamente conservati e presenti su macrofagi e cellule dendritiche.