Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’ingegneria genetica rappresenta lo sviluppo applicativo di tecniche che sfruttano le proprietà chimiche e biologiche delle macromolecole funzionali e dei microrganismi, per modificare a scopi di produzione farmaceutica, agricola e industriale organismi viventi di interesse economico, ovvero a scopi di ricerca, per analizzare la costituzione molecolare e biochimica, nonché la fisiologia dei sistemi viventi.
Produrre “nuovi geni per mutazione diretta”
L’espressione “ingegneria genetica” è stata usata per la prima volta da Edward Tatum nel 1966 per definire le pratiche dell’ingegneria biologica volte a produrre “nuovi geni per mutazione diretta”. L’invenzione delle tecniche di ricombinazione del DNA ha progressivamente identificato l’ingegneria genetica con i metodi volti a identificare e clonare i geni, per sequenziarli e determinarne la funzione, ovvero per inserire e trasferire i geni da un organismo all’altro per scopi sia conoscitivi sia pratici.
Gli strumenti per manipolare il DNA vengono alla luce nella seconda metà degli anni Sessanta, quando Stewart Linn e Werner Arber isolano negli estratti di un ceppo del batterio Escherichia coli un enzima specifico che aggiunge gruppi metile al DNA, e una nucleasi di restrizione, cioè un enzima che taglia il DNA non metilato. I batteri, infatti, sono in grado di distruggere il DNA estraneo, che li ha invasi, mediante degradazione o “restrizione” del DNA estraneo da parte di particolari enzimi (endonucleasi di restrizione). Per evitare che questi stessi enzimi degradino, anche il DNA della cellula, questo viene modificato in modo specie-specifico attaccando gruppi metile a coppie di residui nucleotidici: un’operazione realizzata da enzimi specifici.
La prima nucleasi di restrizione specifica per un sito viene scoperta nel 1970 da Hamilton Smith alla Johns Hopkins University. Da allora sono stati scoperti centinaia di enzimi di restrizione, in grado di riconoscere diverse sequenze specifiche di DNA. I vari frammenti generati con gli enzimi di restrizione, detti frammenti di restrizione, vengono analizzati per realizzare le mappe di restrizione. Inoltre, si scopre anche un enzima di restrizione che genera estremità coesive, chiamato Eco RI, che utilizzato insieme a un enzima detto ligasi, è in grado di legare insieme due molecole di DNA, creando delle molecole “ricombinanti”.
La prima ricombinazione è ottenuta nel 1972, a Stanford, da Paul Berg, David Jackson e Robert Symons. Essi riescono a costruire in vitro una molecola ibrida, contenente sia il DNA del virus oncogeno SV40, sia il DNA di una forma modificata di batteriofago lambda, che a sua volta già include l’operone galattosio di Escherichia coli (ossia un insieme di geni batterici che generano enzimi per la demolizione del galattosio). Il passaggio successivo è la messa a punto di un procedimento per clonare il DNA ricombinante. Nel 1973 Stanley Cohen (1922-), Herbert Boyer (1936-), Robert Helling e Annie Chang costruiscono in vitro un plasmide ricombinante che, una volta reinserito nel batterio, si dimostra biologicamente funzionale. I plasmidi sono molecole di DNA circolare scoperte nel 1965 nei batteri che contengono i geni resistenti agli antibiotici e sono in grado di replicarsi autonomamente nella cellula batterica, dove sono presenti in decine o centinaia di esemplari. Cohen e Boyer dimostrano che è possibile inserire in questi plasmidi uno o più geni non solo della stessa specie batterica o di specie batteriche diverse, ma anche di altri organismi vegetali e animali, che vengono espressi. Si profila a quel punto la possibilità di intraprendere l’analisi molecolare del DNA degli organismi superiori. Nel 1974 Cohen, Boyer e i loro collaboratori all’università di San Francisco dimostrano che il DNA di rospo (Xenopus laevis) può essere introdotto e clonato in un batterio, poi trascritto in RNA. L’esperimento prefigura la possibilità di sintetizzare nei batteri delle proteine di organismi superiori per scopi sia scientifici sia applicativi.
Nel 1978 si riesce a far esprimere geni eucariotici nei batteri, e due anni dopo Paul Berg e i suoi collaboratori fanno esprimere un gene batterico in una cellula animale servendosi di un virus SV40 modificato per fungere da vettore.
Le procedure di sintesi chimica degli oligonucleotidi, piccoli frammenti di DNA a filamento singolo, diventano più semplici ed efficaci, al punto da consentire la costruzione per sintesi chimica di nuovi siti di restrizione nei vettori, o l’aggiunta di segnali di regolazione per l’espressione dei geni. Diventa a quel punto fattibile l’estrazione di un gene dalla cellula di un animale superiore, la sua modificazione e quindi il reinserimento nella cellula da cui era stato tolto. Nel 1981 Richard Palmiter, della University of Washington, Seattle, e Ralph Brinster, della University of Pennsylvania a Filadelfia, iniettano in embrioni di topo, qualche ora dopo la fecondazione, del DNA estraneo che si integrava nei cromosomi. Dopo alcune replicazioni in vitro gli embrioni vengono impiantati in utero e dopo una ventina di giorni nascono i primi topi “transgenici”. Si tratta di “supertopi”, animali di peso e dimensioni doppi rispetto alla norma, in quanto il DNA estraneo produce l’ormone per la crescita del ratto.
Nel 1983 viene dimostrata la possibilità di utilizzare il plasmide Ti (tumor inducing) di Agrobacterium tumefaciens per trasferire DNA clonato, e quindi geni in cellule vegetali. L’ingegnerizzazione dei plasmidi Ti consente di sviluppare vari approcci per fabbricare piante transgeniche, ma funziona solo con piante dicotiledoni. Per le monocotiledoni sono inventati metodi fisici, come l’elettroporazione, che consiste nell’applicare un impulso elettrico ad alto voltaggio a una miscela di protoplasti (cellule vegetali prive di pareti cellulari) e di plasmidi di DNA contenenti il gene clonato; o come la biolistica che utilizza microsfere di tungsteno od oro su cui viene precipitato il DNA che si vuole trasferire nella pianta e che vengono quindi sparate nel citoplasma delle cellule bersaglio da una pistola alla velocità di 430 m/s.
Il sequenziamento del DNA
Mentre progrediscono i metodi per localizzare e amplificare i geni o i frammenti di DNA, i biochimici cercano di inventare dei sistemi per determinare l’ordine delle basi nucleotidiche, cioè la “sequenza” che contiene l’informazione genetica. La capacità di determinare la sequenza delle basi nel DNA ha rappresentato un’acquisizione cruciale della moderna biologia molecolare, e si deve in grande parte al lavoro di Frederick Sanger (1918-1983), due volte premio Nobel, che aveva già sequenziato per primo una proteina. Nel 1977 vengono pubblicate ben due tecniche di sequenziamento, una messa a punto dagli statunitensi Allan Maxam e Walter Gilbert e basata su un metodo di degradazione chimica, e l’altra basata su un metodo enzimatico, inventato da Sanger, che consente di fermare una catena nucleotidica in crescita a un dato punto. Questi metodi, diversi per il principio, producono popolazioni di oligonucleotidi radiomarcati che cominciano da un punto stabilito della catena del DNA e terminano casualmente con un residuo fissato o con una combinazione di residui. Poiché ogni singola base nel DNA ha un’eguale probabilità di essere il terminale variabile, ogni popolazione consiste di una miscela di oligonucleotidi le cui lunghezze sono determinate dalla localizzazione di una particolare base lungo l’estensione del DNA originale. Queste popolazioni di oligonucleotidi vengono poi analizzate mediante la tecnica dell’elettroforesi su poliacrilamide che consente di discriminare frammenti di DNA individuali in base alla loro lunghezza, anche se questi differiscono di un solo nucleotide. Tra i due metodi quello che ha avuto maggior successo è stato quello di Sanger e Alan Coulson.
Fra gli sviluppi più importanti dell’ingegneria genetica vi è l’invenzione, a metà degli anni Ottanta, della reazione a catena della polimerasi (ormai nota con l’acronimo PCR, Polymerase Chain Reaction), che rende lo studio del DNA una strategia di ricerca utilizzabile da tutte le scienze biomediche. La tecnica, inventata da Kary Mullis (1944-), è basata su degli inneschi, gli stessi oligonucleotidi già utilizzati per il sequenziamento del DNA, che devono essere complementari a una breve sequenza di un singolo filamento di DNA. Scaldando la provetta contenente il DNA-campione in presenza della polimerasi Taq – un enzima stabile ad alte temperature e presente in un batterio, Termophilus aquaticus – la doppia elica si divide in due filamenti, a ognuno dei quali, in fase di raffreddamento, si attaccano gli inneschi. A quel punto, in presenza della DNA polimerasi e dei quattro nucleotidi che formano la catena del DNA, si ha l’allungamento degli inneschi con la duplicazione della molecola originale. A ogni ciclo di riscaldamento e raffreddamento il numero di coppie di DNA raddoppia. La reazione consente di produrre in poche ore 100 miliardi di molecole di DNA a partire da una sola.
Le applicazioni dell’ingegneria genetica
L’ingegneria genetica ha trovato larga applicazione in campo agricolo e zootecnico, nella produzione di farmaci attraverso la costruzione di bioreattori e a livello della diagnostica molecolare. Nel 1984 Alec Jeffreys scopre il fingerprint genetico, l’impronta digitale unica per ogni individuo, che si ottiene moltiplicando determinate sezioni del suo DNA (tramite PCR) e ordinando poi per grandezza i pezzi di DNA ottenuti (elettroforesi su gel). Nel 1985 negli Stati Uniti viene autorizzato il primo vaccino prodotto con batteri geneticamente modificati, contro i virus dell’epatite B. I primi esperimenti negli Stati Uniti in campo aperto con piante geneticamente modificate risalgono al 1986 e nel 1994 negli USA e in Gran Bretagna viene autorizzata la commercializzazione del primo alimento geneticamente modificato, il pomodoro FlavrSavr che si conserva più a lungo di quelli tradizionali.
Nel 1991 nasce in Scozia la prima pecora transgenica che nel latte produce una medicina. Questo tipo di produzione di farmaci è chiamato genepharming. Allo scopo di rendere più efficiente il sistema, vengono sviluppate le procedure per cercare di clonare i mammiferi. Nel 1996 nasce Dolly, il primo clone di mamifero, ottenuto trasferendo il nucleo di una cellula somatica in un oocita privato del suo nucleo. Dopo l’annuncio, avvenuto nel 1997, sono state clonate diverse specie di mammiferi. E la tecnologia del trasferimento nucleare è stata perfezionata anche allo scopo di consentire la cosiddetta clonazione terapeutica da applicare per la cura delle malattie degenerative; ovvero per la creazione di linee cellulari e tessuti con la stessa identità genetica dei pazienti che necessitano di trattamento, in modo da evitare il rigetto. I primi successi sono stati ottenuti nel 2004 e 2005 da un gruppo di ricercatori sudcoreani.
Negli anni Ottanta vi è stata grande eccitazione per le prospettive della terapia genica, ma dopo i primi protocolli sperimentali iniziati nel 1989-1990, si è registrato un raffreddamento delle aspettative.
I più recenti ambiti di ricerca: l’mRNA e il progetto genoma umano
Nel corso degli anni Ottanta e Novanta l’attenzione per le applicazione terapeutiche dell’ingegneria genetica si è rivolta in modo crescente verso l’RNA. Nel 1978 Paul Zamecnik dimostra la possibilità di bloccare l’espressione di un gene responsabile di una patologia sintetizzando oligonucletidi di DNA, cioè costituiti da sequenze nucletidiche complementari al filamento di RNA messaggero (mRNA) che porta ai ribosomi – i corpuscoli nei quali avviene la sintesi proteica – il “senso” dell’informazione genetica, legandosi proprio all’mRNA. Qualche anno dopo si scopre che anche l’mRNA può produrre sequenze antisenso che dovrebbero consentire, ad esempio, di bloccare l’attività di un gene nocivo. Ciò amplia ulteriormente le possibilità di sfruttare il principio per scopi terapeutici. Di fatto, sia le malattie con una base ereditaria sia quelle virali usano come intermediario l’mRNA per manifestarsi fenotipicamente, per cui il principio alla base della terapia antisenso ha immediatamente creato grandi aspettative. Ma anche più di una delusione. Di fatto, il principio a cui si ispira è assolutamente logico e semplice, ma trovare il modo di far entrare nell’ambiente cellulare questi oligonucletidici facendo in modo che arrivino nel nucleo e lì riconoscano la minisequenza specifica dell’mRNA, non è facile. I successi, soprattutto per quanto riguarda la terapia antisenso applicata alla lotta ai tumori, sono derivati più da eventi fortuiti (per tentativo ed errore), che dalla scoperta di un sistema efficace.
L’impresa più eclatante, sul piano della visibilità pubblica, realizzata grazie alle tecnologie dell’ingegneria genetica è stato indubbiamente il sequenziamento del genoma umano. Proposto e studiato nella sua fattibilità a partire dalla metà degli anni Ottanta, è stato varato ufficialmente nel 1990. In quello stesso anno venivano sequenziati completamente i primi virus, a cui seguivano i primi batteri, Haemophilus influenzae nel 1995 (il più famoso Escherichia coli nel 1997) e alla fine del 1996 il primo genoma di un eucariote, quello del lievito Saccharomyces cerevisiae. Nel frattempo vengono sviluppati sistemi automatizzati per il sequenziamento dei genomi, nonché tecniche per visualizzare l’attività e l’espressione dei geni nei tessuti.
Nel dicembre del 1998 viene salutata la sequenza completa di un genoma animale, quello di Caenorhabditis elegans, a cui segue, nel 2000 il sequenziamento completo del genoma di Drosophila melanogaster, e la prima bozza della sequenza del genoma di Homo sapiens. Il sequenziamento del genoma umano è stato completato e reso pubblico nell’aprile del 2003, a cinquant’anni esatti dalla scoperta della struttura a doppia elica del DNA.