Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A partire dai primi intermezzi comici inseriti tra gli atti dei drammi seri l’opera buffa settecentesca evolve come forma di spettacolo indipendente. Rispetto all’opera seria presenta caratteri ben definiti e segue linee di sviluppo autonome. Alla fortuna europea dell’opera buffa italiana si accompagna la fioritura di forme nazionali di teatro comico.
Le origini dell’intermezzo e dell’opera buffa settecentesca
L’opera secentesca ignora lo spettacolo comico come genere autonomo e distinto: nei drammi musicali del XVII secolo si danno ampi episodi buffoneschi, nei quali i personaggi – solitamente plebei – si esprimono volentieri in dialetto e cantano arie di taglio più semplice, ma non si producono veri e propri spettacoli comici indipendenti. Il genere dell’opera comica (“buffa” è il nome che assume più tardi, per derivazione da bouffons, il nome col quale i Francesi chiamano gli attori-cantanti italiani che si esibiscono negli intermezzi) ha origine nel momento in cui dal dramma per musica, sotto la pressione di istanze riformistiche, vengono estromessi gli elementi comici.
Tradizioni operistiche continuative hanno origine, ai primi del Settecento, a Venezia e a Napoli. Il genere comico, che ha una rapida fortuna dispiegandosi in diversi adattamenti e diverse varianti locali, segue linee di sviluppo autonome, indipendenti dall’opera seria, e a partire dal 1730 circa si diffonde in tutta Europa. Due sono i tipi principali di spettacolo: l’intermezzo, ovvero una rappresentazione comica breve, divisa in pochi episodi e interpretata da due o tre soli personaggi, che viene inserita fra gli atti di un’opera seria, e l’opera comica di dimensioni più ampie, destinata a reggere da sola il peso dello spettacolo, nel quale intervengono da sei a nove personaggi.
Nei primi anni del secolo si afferma a Venezia la consuetudine di allestire brevi rappresentazioni comiche tra un atto e l’altro dell’opera seria (rappresentazioni che per questo motivo vengono chiamate “intermezzi”); il loro scopo principale è di offrire un diversivo, di allentare la tensione e il pathos accumulati dall’opera seria. In scena agiscono pochi cantanti, in genere due soli, e l’apparato strumentale è assai ridotto. L’intermezzo è interamente posto in musica e si articola in una successione di recitativi e arie, queste ultime d’impianto generalmente semplice, e mostra inoltre un caratteristico stile “parlante” che diverrà una delle peculiarità di tutto il genere comico.
Anche a Napoli, ai primi del Settecento, s’impone il genere degli intermezzi comici in dialetto napoletano, che vengono rappresentati fra gli atti di opere serie oppure come spettacoli autonomi in case nobiliari private. Solo tra il 1720 e il 1730, tuttavia, si sedimenta a Napoli una tradizione comica ben definita, ad opera di compositori quali Leonardo Leo, Nicola Porpora, Leonardo Vinci, Johann Adolph Hasse, Giovan Battista Pergolesi; il successo di queste rappresentazioni è tale che nuovi teatri specializzati vengono aperti nella città partenopea. Un intermezzo di Pergolesi del 1733, La serva padrona, acquista una rapida fama nel 1752: dopo essere stato rappresentato a Parigi, scatena la querelle des bouffons in Francia. Per l’individuazione precisa e quanto mai efficace dei personaggi, che va al di là di ogni schematismo formale, La serva padrona si innalza al di sopra del genere dell’intermezzo, di per sé privo di grandi pretese.
Una struttura più complessa mostra la commedeja pe mmuseca napoletana, che muove anch’essa i primi passi all’inizio del secolo. Articolata in due o tre atti e interpretata da sette-nove personaggi, rappresenta, in chiave realistica, fatti della vita quotidiana; i personaggi seri sono caratterizzati da una vena di sentimentalismo malinconico. Il genere mostra la propensione alla pluralità di linguaggi e di stili: i personaggi comici si esprimono in dialetto e intonano canzoni facili e orecchiabili, quelli seri adottano una versione alquanto semplificata del linguaggio dell’opera seria. Esemplare del genere è Lo frate ’nnammorato (1732) di Pergolesi.
Soggetti, libretti, caratteri stilistici dell’opera buffa settecentesca
I libretti degli intermezzi e delle opere comiche settecentesche sono basati su intrecci elementari, su un’azione rapida mossa frequentemente da un gioco di equivoci, dovuti magari a scambi di identità, e da bisticci fra i protagonisti; l’azione si risolve, invariabilmente, nel lieto fine. La vicenda è ambientata fra il popolo o la borghesia e non esula dalla vita quotidiana e familiare; soggetti e personaggi sono gli stessi della commedia dell’arte: il servo scaltro che raggira il padrone sciocco, un marito o una moglie gelosi, la ragazza giovane che la fa in barba all’amante, la servetta astuta che seduce il padrone ricco. A volte, l’opera mette alla berlina manie e pregiudizi di classe. Mentre nell’opera seria è palese il legame col mondo della monarchia assoluta e dell’aristocrazia, nell’opera buffa protagonisti sono i ceti emergenti sui quali poggia il mondo moderno, con tutte le rapide trasformazioni sociali che nel XVIII secolo lo scuotono dalle fondamenta.
Un filone fortunato prende di mira il mondo teatrale che ruota intorno all’opera seria, e ne fa la parodia: in questo gioco di “teatro nel teatro”, allora, entrano in scena tutte le fissazioni di cantanti, impresari, poeti, musicisti.
Altro fortunato genere d’intreccio è quello esotico, che nasce dall’interesse per l’Oriente lontano e favoloso, identificato con la terra della bizzarria, dell’eccentricità e della raffinatezza; le vicende si svolgono in Persia, in Turchia, in Cina; le “turcherie” e le storie ambientate in un serraglio divengono di moda e danno origine, in musica, a un repertorio linguistico ben definito e riconoscibile. Nella seconda metà del secolo si risveglia anche un certo interesse per il genere favoloso-fiabesco, che ha una fortuna particolare in Austria e in Germania.
È grazie ai libretti di Carlo Goldoni che l’opera comica esce dagli angusti orizzonti delle tradizioni locali, acquista un respiro europeo e assume le forme che conserverà poi per tutto il secolo. Nella sua produzione di intermezzi e opera buffa per i teatri venezianiGoldoni va oltre le tipologie stereotipe dell’intermezzo: umanizza i personaggi e amplia l’esile vicenda drammatica, fino a farne autentica commedia. I libretti goldoniani sono uno specchio della vita reale del tempo: vi si riflettono le idee, le mode e le manie della borghesia e della nobiltà veneziane, il mondo delle arti e dei mestieri, il culto per l’esotico o per la natura-madre. Caratteristica è anche la capacità di individuare i tipi sociali tramite una lingua duttile e precisa. Un buon numero di libretti goldoniani è messo in musica da Baldassarre Galuppi, a partire dall’Arcadia in Brenta (1749) fino a Il filosofo di campagna (1754), che si impone rapidamente sulle scene di tutta Europa; anche i compositori di scuola napoletana attingono copiosamente alla produzione drammatica del veneziano.
Nel 1756, grazie a un libretto di Goldoni, La Cecchina ossia La buona figliola tratto dalla Pamela di Richardson, i temi sentimentali fanno il loro ingresso nell’opera buffa. Musicato per Parma da Egidio Romoaldo Duni, il libretto è messo in musica nel 1760 da Niccolò Piccinni: l’opera ottiene un successo strepitoso e ancora inedito per il genere comico. Adeguandosi alla vena patetica che già aveva prodotto i generi della comédie larmoyante francese e del romanzo sentimentale inglese (la commistione dei generi, d’altra parte, è teorizzata anche dal teatro borghese di Lessing, Diderot e Voltaire), libretto e musica della Cecchina vanno incontro a quella sensibilità che proprio allora si va affermando in tutta Europa.
Le melodie cullanti e carezzevoli, gli accenti teneri, i toni languidi, l’autocommiserazione dei personaggi femminili: tutto ciò fa scuola e trova imitatori per una trentina d’anni almeno; dal filone scaturirà, verso la fine del secolo, il genere dell’opera semiseria.
L’apparato produttivo dell’opera buffa si differenzia da quello dell’opera seria per più aspetti: il genere è rappresentato in teatri meno importanti ed è interpretato da cantanti di minor prestigio; l’orchestra è ridotta e gli apparati scenici semplificati; comporta minori costi di allestimento (le retribuzioni dei cantanti sono nettamente inferiori) che favoriscono una più rapida e capillare circolazione del prodotto (ciò spiega anche perché alcune opere comiche settecentesche rimangano in circolazione per un periodo assai lungo, impensabile per l’opera seria).
A queste differenze corrispondono differenze altrettanto marcate sul piano drammaturgico e musicale. I libretti sono caratterizzati da dialoghi rapidi e vivaci, da una lingua colloquiale che è tutto fuorché aulica, con particolari realistici e tipiche catene di iterazioni; la musica presenta frasi brevi, ritmi martellanti, una vocalità sillabica, ed è attenta agli scatti dell’azione. Possono intervenire effetti imprevisti, come quelli creati da pause improvvise; mancano, in ogni caso, i virtuosismi vocali dell’opera seria, a meno che non vengano impiegati in senso ironico-parodistico.
L’aria costituisce un numero in sé concluso, ma non produce uno stacco nell’azione del dramma: non è solo un momento di stasi lirica o di riflessione, poiché non interrompe, in genere, il flusso dell’azione. L’abbandono dello schema azione-riflessione, tipico della successione recitativo-aria dell’opera seria, è una conseguenza del realismo che informa vicenda e personaggi, portati ad agire in modo continuativo. Il punto di massima aderenza della musica all’azione drammatica è toccato nei “concertati d’azione”, collocati di preferenza (ma non di necessità) in fine d’atto, che coincidono con uno snodo importante della vicenda drammatica: diversi personaggi si ritrovano e cantano contemporaneamente in scena, si susseguono sezioni musicali diverse senza soluzione di continuità, l’azione è veloce e animata.
Rispetto all’opera seria, l’opera comica si caratterizza per un ritmo più rapido e una maggiore vivacità dell’azione scenica; per un impaccio minore nel recitativo, più sciolto ed efficace, e per una maggiore fluidità del discorso musicale; per uno stile vocale meno efflorescente e virtuosistico; per l’assenza del tono aulico, delle tensioni ritmiche o armoniche che nell’opera seria producono un’espressività enfatica. Agli interpreti dell’opera comica bastano mezzi vocali più modesti, ma si richiede loro un’abilità maggiore nella recitazione e nella mimica; le melodie che intonano sono più semplici e regolari, spesso inclini a moduli di danza. Le differenze linguistiche emergono, lampanti, quando l’opera buffa fa la parodia della seria: i virtuosismi vocali, gli sbalzi di registro servono allora, solitamente, a caratterizzare un personaggio tronfio, un nobile, un parvenu. Nella sperimentazione attiva riguardo alla rappresentazione dell’azione e nell’architettura di forme più elaborate e complesse l’opera comica finisce, alla lunga, per influire in misura notevole anche sull’opera seria.
Fortuna europea dell’opera buffa italiana e forme autoctone di teatro comico
Il genere buffo acquista un prestigio crescente nella seconda metà del secolo. Anche se l’opera seria continua a godere di autorità e a essere investita da un ruolo “ufficiale”, dal 1760 circa l’opera comica allarga la base del proprio pubblico e riscuote grande favore in tutta Europa.
La rete di diffusione dell’opera comica italiana è capillare: con compositori quali Niccolò Piccinni, Pietro Guglielmi, Pasquale Anfossi, Giuseppe Gazzaniga, l’internazionalizzazione del prodotto è completa. Nell’ultimo trentennio del secolo, Giovanni Paisiello e Domenico Cimarosa – sortiti entrambi dalla scuola napoletana –acquistano ampia fama europea; con loro, l’opera buffa tende sempre più a travalicare la commedia d’ambiente per rappresentare la società nella sua interezza. Entra in scena quella dinamica delle classi sociali che già da tempo aveva iniziato a circolare per i libretti d’opera buffa, e che troverà nel teatro comico di Mozart una delle espressioni più perfette.
L’opera buffa italiana esercita il suo influsso sulle forme di teatro musicale comico che si sviluppano in alcuni Paesi europei: è il caso dell’opéra-comique in Francia, del Singspiel nei Paesi tedeschi, della ballad opera inglese, della tonadilla spagnola.
In tutte queste forme di teatro, a differenza dell’opera italiana, il libretto non è messo in musica per intero: pezzi cantati si alternano a dialoghi recitati.
In Francia è praticato il genere della commedia inframmezzata da canzoni, intonate su melodie popolari in voga; ma dopo il successo della Serva padrona e Le devin du village di Rousseau, si consolida la consuetudine di comporre appositamente arie originali invece di prendere quelle già pronte. Negli anni Cinquanta la produzione di un napoletano trasferitosi a Parigi, Egidio Romoaldo Duni, irrobustisce il genere dell’opéra-comique con una più consistente scrittura vocale e strumentale; il suo esempio è seguito dai compositori autoctoni, fra i quali spicca André-Ernest-Modeste Grétry, che nei suoi lavori anticipa motivi che troveranno ampia circolazione, più tardi, negli anni della Rivoluzione francese e del romanticismo.
In Inghilterra è frequentato un genere misto di canto e recitazione, su soggetti di carattere comico-satirico, che va sotto il nome di ballad opera; la parte musicale consta di canzoni strofiche, d’intonazione popolare. Il maggior successo tocca a The Beggar’s Opera, rappresentata a Londra nel 1728, con testo di John Gay e musiche di varia provenienza (fra gli autori sono Händel e Purcell) assemblate da Johann Christoph Pepusch.
Prima di spegnersi, a metà secolo, il genere rappresenta in Inghilterra una reale alternativa al dominio dell’opera italiana.
Anche la Spagna conosce una forma di teatro comico autoctono con la tonadilla, in origine intermezzo comico in opere serie o commedie, poi – intorno alla metà del secolo – genere autonomo; la presenza di danze tipiche e di elementi folkloristici le danno un carattere tipicamente nazionale.
Nei Paesi di lingua tedesca si afferma il genere del Singspiel, che trova a Vienna uno dei suoi terreni d’elezione e in Karl Ditters von Dittersdorf uno dei suoi rappresentanti più tipici. Elementi dell’opera comica italiana, come i concertati d’azione, vi si fondono con quella semplice vena melodica che costituisce la cifra del gusto viennese. Proprio sul Singspiel nella capitale asburgica, si concentra a un certo punto l’attenzione della corte e degli intellettuali, che identificano in questo genere il mezzo più atto a favorire la nascita di un’opera nazionale tedesca.