Dall’Unità al 1945
Anche per una storia della storiografia italiana, gli anni attorno al 1860 segnano una svolta: fu con la formazione del sistema scolastico e universitario nazionale che venne gradualmente individuato un curriculum per la formazione dello studioso di storia e definito uno standard professionale, con le sue regole e i suoi percorsi.
Le novità che allora emersero possono essere misurate considerando brevemente la precedente situazione universitaria, quella dell’Italia della Restaurazione. I suoi principali centri di cultura (Milano, Firenze, Napoli) o non erano sedi universitarie o, quando lo erano, non dovevano alla presenza dell’ateneo la loro vivacità culturale. Come nel resto d’Europa, i governi assoluti consideravano l’università in primo luogo come un problema di ordine pubblico: temevano la massa studentesca e cercavano di controllarne in vario modo l’entità numerica e il comportamento politico. Anche sul corpo docente veniva esercitato uno stretto controllo religioso e politico, tanto che la carriera accademica risultava pressoché impraticabile per la maggior parte dei ‘nuovi’ intellettuali, e solo «pochi, e non dei più memorabili e incisivi, tra gli uomini che ebbero rilievo nella cultura italiana della Restaurazione, occuparono cattedre universitarie» (Berengo 2004, p. 79). Con poche eccezioni, i docenti, specie quelli dell’area letteraria o legale, erano uomini politicamente sicuri, non di rado ancora degli ecclesiastici, forniti di cultura anche vasta, ma spesso attardata e di carattere filologico-erudito: insomma dei ‘letterati’ in cattedra piuttosto che degli studiosi. Erano quasi tutti estranei ai luoghi di produzione e di diffusione della cultura più moderna, e solo di rado riuscivano a instaurare un rapporto effettivo con gli allievi.
Gli studi storici in Italia si svolgevano allora per lo più al di fuori dell’università. Li portavano avanti, seguendo peraltro una tradizione secolare, una serie di nobili ‘colti’ (Cesare Balbo, Alessandro Manzoni, Gino Capponi, Carlo Troya, il genealogista Pompeo Litta), professionisti fortemente politicizzati (Luigi Carlo Farini, Giuseppe La Farina), ex militari (Luigi Blanch), ecclesiastici di vario orientamento (Atto Vannucci, il benedettino Luigi Tosti, il domenicano Alberto Guglielmotti), letterati con vasti interessi storici.
Tra questi ultimi vi era Cesare Cantù, il primo scrittore italiano a raggiungere una cospicua agiatezza attraverso una propria opera a stampa, quella Storia universale (35 voll., 1838- 1846) che rappresentò probabilmente la più fortunata speculazione editoriale del nostro Ottocento. Per assemblarla, egli ricorse a un continuo montaggio di brani, articoli, tavole cronologiche, excursus variamente rimaneggiati, tradotti e poi in qualche modo resi omogenei.
In un caso, quello piemontese, fu il sovrano a prendere l’iniziativa dell’organizzazione degli studi storici: nel 1833 Carlo Alberto istituì a Torino un organismo nuovo, la Deputazione per gli studi di storia patria, a cui venne affidata «la pubblicazione di una collezione di scrittori dell’istoria, e di un Codice diplomatico degli Stati di S. M.à» (cit. in Berengo 2004, p. 70). Un duplice compito, dunque: quello, ‘muratoriano’, di costruire un corpus di storici e di cronisti e quello, più legato alla storia dinastica e alla funzione stessa della monarchia, di raccogliere le carte pubbliche. Ma ben presto si avvertirono i limiti ‘politici’ dell’operazione carloalbertina: nel 1836 il governo respinse la proposta di pubblicare gli atti degli Stati generali del Piemonte sabaudo, in quanto suscettibile di «aprire il campo a discussioni e controversie meno coerenti per avventura ai principi della monarchia» (Berengo 2004, p. 70), che allora non era ancora rappresentativa.
Un’impostazione culturale e politica completamente diversa animò invece la grande impresa che nel 1842 Giovan Pietro Vieusseux riuscì a mettere in moto a Firenze, senza ricorrere al patrocinio granducale. La sua ipotesi iniziale era stata quella di pubblicare un giornale storico italiano aperto a collaboratori di tutta la penisola, ma il progetto aveva incontrato ostacoli insormontabili e aveva quindi subito un ridimensionamento. Nacque allora l’«Archivio storico italiano», inteso principalmente come collezione di fonti. Si trattava prevalentemente di cronache e, in subordine, di relazioni di ambasciatori e corrispondenze: fonti narrative dunque, non legislativo-statutarie. Il periodo da illustrare era quello, muratoriano, dal 13° al 17° sec., all’incirca dall’epoca dei Comuni al consolidarsi del dominio spagnolo. La formula, poi, spontaneamente si venne modificando e allargando con l’inserzione di una «appendice», contenente memorie originali e notizie bibliografiche e accademiche (Berengo 2004, pp. 70-71).
L’«Archivio» acquistò rapidamente un respiro nazionale. Il suo ‘stato maggiore’ fu composto da bibliotecari (Gaspero Bencini, Francesco Del Furia, Tommaso Gelli, Francesco Inghirami), da un grecista come Sebastiano Ciampi, dal celebre Giovanni Battista Niccolini, poeta e scrittore, dal geografo Emanuele Repetti e da Filippo Luigi Polidori, grammatico e lessicografo che ne fu anche il segretario. L’erudizione storica era particolarmente coltivata da Giuseppe Canestrini, Tommaso Gar e dal paleografo Carlo Milanesi. L’anima dell’impresa – lo si è detto – fu Vieusseux, affiancato dall’amico marchese Capponi. Ma – come si vede – anche nella direzione di quello che fu certamente il più significativo tentativo di organizzazione degli studi storici nell’Italia preunitaria non troviamo uno storico con quel profilo professionale e scientifico che solo quarant’anni più tardi sarà abituale nelle università italiane (Porciani 1979).
Se dovessimo tracciare un idealtipo dello studioso di storia di quei decenni, lo potremmo indicare nello storico-patriota, i cui interessi ruotano intorno alla storia della ‘nazione italiana’, peraltro tutta da definire nelle sue origini, caratteristiche, snodi principali. In quest’ambito, si vennero formando alcuni poli tematici (eredità romana/novità italiana, unità/particolarismi, rapporto Stato/Chiesa, latinità/germanesimo, autoctonismo/contaminazioni culturali) che costituirono la griglia delle narrazioni storiche di quei decenni.
Si trattava di un groviglio di problemi che riflettevano inevitabilmente i diversi orientamenti culturali, politici e religiosi che ormai si confrontavano all’interno del fronte patriottico. La politicità dei temi e delle narrazioni, l’ignoranza del ‘metodo critico-filologico’ che si veniva elaborando in Germania (Barthold Georg Niebuhr, Karl Otfried Müller, Leopold von Ranke), la mancanza di una formazione specifica, pesarono notevolmente sui risultati di quella storiografia, anche se sarebbe eccessivo concludere che il condizionamento risorgimentale abbia ridotto l’antichistica e la medievistica italiana della prima metà dell’Ottocento a mero discorso patriottico (Artifoni 1997, p. 210). Ma è anche vero che quella storiografia ebbe i suoi più significativi esponenti proprio in studiosi come il lombardo Carlo Cattaneo e il siciliano Michele Amari, in cui la passione civile, che animava anche la loro ricerca, era poi trascesa dal
bisogno che sentivano di una meditata verità, [per cui] guardavano con certa pacatezza le parti della storia che più da vicino eccitavano i sentimenti nazionali e le passioni politiche (B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, 1921, 19644, p. 206).
Nel quarantennio che va dalla formazione del Regno alla svolta del secolo, si assiste anche in Italia (come in altri contesti europei) a un generale processo di riorganizzazione e di professionalizzazione degli studi storici e alla nascita di una figura di storico in buona parte nuova, al quale il nuovo Stato, con il suo sistema scolastico, con l’apertura e la riorganizzazione degli archivi e delle biblioteche, viene a fornire le condizioni materiali di esistenza e di sviluppo: si tratta, insomma, di una cultura storica mantenuta ora dal denaro pubblico (Moretti 1993, p. 65). Nasce progressivamente una storiografia accademica, che prende piede nel nuovo sistema universitario.
Tra il 1861 e il 1866 esistevano in Italia quindici atenei regi (Torino, Pavia, Genova, Bologna, Modena, Parma, Pisa, Siena, Napoli, Palermo, Messina, Catania, Cagliari, Sassari), quattro liberi (Ferrara, Perugia, Urbino, Camerino) e due nuove istituzioni, l’Accademia scientifico-letteraria di Milano e l’Istituto di studi superiori di Firenze. Dopo il 1866 e il 1870 anche le università di Padova e di Roma, riordinate e ‘pareggiate’, vennero incluse nel sistema universitario nazionale. Il sistema era regolato dalla cosiddetta legge Casati (regio decreto nr. 3725 del 13 novembre 1859), emanata subito dopo l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna e in seguito estesa al resto della penisola, con intenti di standardizzazione e di controllo di una realtà originariamente assai differenziata da un punto di vista istituzionale e normativo; a essa si aggiunsero poi i numerosi regolamenti universitari emanati dai successivi titolari del ministero della Pubblica istruzione. Questa logica accentratrice e statalistica derivava dalla consapevolezza, comune alla nuova classe dirigente postunitaria, del carattere ‘costituzionale’ del sistema universitario, cioè del ruolo centrale che esso doveva rivestire nella creazione delle nuove élites tecniche, politiche e culturali, le quali avrebbero dovuto guidare il Paese nella vita politica ed economica e adeguare la sua cultura a quella dei maggiori Stati europei (Moretti, Porciani 1998, pp. 74-77).
La legge Casati (art. 49) prevedeva l’istituzione di cinque facoltà: Teologia, Giurisprudenza, Medicina, Scienze fisiche, matematiche e naturali, Filosofia e lettere. Rispetto alla situazione precedente, era quest’ultima facoltà a costituire la vera novità: destinata alla preparazione dei futuri insegnanti, al suo interno dovevano essere attivate, fra le altre, le cattedre di filosofia della storia, archeologia, storia antica e moderna (art. 51). La nuova facoltà, destinata a essere il luogo di formazione degli storici italiani, risultò prevalentemente filologico-letteraria e poco disposta (come si cominciò presto a lamentare) al confronto con altre discipline, specie quelle economico-giuridiche.
Ma questo programmatico controllo del centro sulla periferia apparve poi irto di difficoltà e pieno di limiti, soprattutto per la resistenza opposta a ogni politica di razionalizzazione da parte delle situazioni locali e dei molteplici interessi settoriali e accademici. Così, solo progressivamente si affermò il principio della specializzazione disciplinare e si giunse nelle varie università a una strutturazione didattica più razionale. Questo processo può dirsi a grandi linee compiuto alla fine degli anni Ottanta.
Nei primissimi anni dopo l’Unità, il reclutamento dei docenti fu operato in gran parte attraverso la nomina governativa per meriti in prevalenza politici e patriottici; un criterio dettato dall’urgenza di riempire l’organico delle università con volti nuovi, provenienti dalle lotte risorgimentali o comunque estranei agli antichi regimi. Queste nomine dall’alto furono frequenti più nelle facoltà giuridiche e letterarie che in quelle scientifiche e mediche, ed ebbero talora un carattere felicemente innovativo (basti pensare a quelle di Giosue Carducci a Bologna o di Alessandro D’Ancona e Domenico Comparetti a Pisa, tutti e tre venticinquenni, o alla rifondazione dell’Università napoletana per opera di Francesco De Sanctis, ministro della Pubblica istruzione nel 1861-62); in altri casi apparvero già allora decisamente inadeguate. Così, non poche cattedre di storia furono affidate a letterati: Giuseppe Regaldi (storia antica e moderna a Bologna dopo il 1866-67), Luigi Mercantini (storia all’Accademia di belle arti di Bologna dal 1860 al 1865), Ferdinando Ranalli (storia antica e moderna e filosofia della storia a Pisa dalla metà degli anni Sessanta al 1885), Paolo Ferrari (storia moderna a Milano fino al 1870-71), Salvatore Chindemi (storia moderna a Palermo dal 1861 al 1870). Per non parlare degli insegnamenti delle più varie discipline storiche che furono via via attribuiti a un poligrafo di indubbio ingegno (e politico a tempo pieno) come Ruggiero Bonghi (Moretti 1993).
Accanto a una serie di specialisti (numismatici, paleografi, linguisti), i primi veri ‘maestri’ di storia nella nuova università italiana furono alcuni storici ‘generali’, di cui qualcuno già insegnava nelle università preunitarie. Tra di essi Ercole Ricotti (1816-1883), che tenne la cattedra torinese di storia moderna fino al 1882. Attivo in politica fino al 1853 (sostanzialmente fino alla morte di Balbo, che era stato il suo punto di riferimento e di cui fu biografo partecipe e informato), tornò poi agli studi e pubblicò una vasta Storia della monarchia piemontese (6 voll., 1861-1869), che andava dagli inizi del Cinquecento al 1675 (cioè alla morte del duca di Savoia Carlo Emanule II). Il suo nucleo tematico era la trasformazione operata tra il 1559 e il 1580 dal duca Emanuele Filiberto: la fine del vecchio assetto feudale, la formazione di uno Stato assoluto, la sua definitiva italianizzazione.
Ricotti aveva basato la sua storia su una vasta base documentaria: a una ancor più sistematica ricerca archivistica ricorse il dalmata Giuseppe De Leva (1821-1895), dal 1855 professore di storia moderna all’Università di Padova, da poco riformata dal governo austriaco. Egli aveva avuto una preparazione prevalentemente filosofica, ma poi, nei primi anni Cinquanta, si era accostato progressivamente alla ricerca storica ed era venuto in contatto a Vienna con il metodo storico-critico elaborato nei decenni precedenti dalla cultura germanica, e che egli definì «metodo a freddo consistente nel rovistare e ragionare i documenti» (cit. in Cella 1988, p. 512). Avvertì presto l’esigenza di dare una prospettiva europea ai suoi studi e iniziò ricerche sistematiche negli archivi di Vienna (1854-55) e di Parigi. Fra l’altro, fu il primo che segnalò (in Relazione dell’Archivio di Simancas in Ispagna, 1858) l’importanza centrale dell’archivio spagnolo di Simancas per la storia italiana cinque-seicentesca.
La sua opera principale fu la grande Storia documentata di Carlo V in correlazione a l’Italia (5 voll., 1863-1894). De Leva collocava la crisi italiana del primo Cinquecento sullo sfondo della più vasta vicenda europea: la crisi dell’idea imperiale, la decadenza della Chiesa, la definitiva affermazione del potere temporale dei papi, le idee di riforma religiosa, i contatti fra l’Europa cristiana e il mondo islamico, la colonizzazione delle Americhe. Soprattutto la Riforma protestante in Germania, l’eterno problema del «perché […] non potesse attecchire in Italia» (3° vol., 1867, p. 311) e degli effetti che ne erano derivati. De Leva era un cattolico critico: nella sua storia (si veda tutto il 5° capitolo del 3° vol.), guardava con evidente empatia a quegli ecclesiastici (come Gaspare Contarini, Jacopo Sadoleto e Reginald Pole) che avevano ricercato un’intesa con i luterani basata su un programma di profonda riforma della Chiesa.
Come si è visto, la sua padronanza del metodo filologico-critico produsse un’opera di grande sintesi, e tale egli ritenne essere il compito principale dello storico: infatti criticò a più riprese la ‘micrologia’ che – in nome di quel metodo – cominciava a imperversare.
Se al momento dell’unificazione De Leva e Ricotti erano già docenti affermati, Giuseppe De Blasiis e Pasquale Villari furono forse i più eminenti fra i ‘nuovi’ professori di storia, quelli nominati dai primi governi postunitari.
L’abruzzese De Blasiis aveva ricevuto a Napoli una formazione giuridica, ma si era avviato agli studi storici in stretto contatto con l’abate Vito Fornari, inserendosi in una tradizione tematica e metodologica che aveva in Troya il suo capostipite: insomma un ambiente neoguelfo, in cui erano vivi il culto di Dante, il problema dell’unità della storia d’Italia e il ruolo che vi avevano giocato papato e impero.
La sua ricerca di ampio respiro Della vita e delle opere di Pietro della Vigna (presentata nel 1857 allo specifico concorso indetto dall’Accademia pontaniana, che la premiò, e pubblicata in volume nel 1860) era dedicata appunto a Fornari, anche per rispondere alle accuse di tiepido unitarismo che a De Blasiis aveva rivolto un concorrente battuto, l’economista Carlo De Cesare, nel suo Il primo unitario italiano (anch’esso pubblicato in volume nel 1860). Mentre l’impostazione di De Cesare era schiettamente ghibellina (l’imperatore Federico II e Pier delle Vigne sarebbero stati i precorritori duecenteschi dell’idea unitaria, come sempre combattuta e vanificata dalla protervia papale), De Blasiis tendeva a relativizzare la distinzione fra guelfi e ghibellini, specie dopo la morte di Federico II: secondo lui si trattava ormai di conflitti di classe e di fazione, in cui il richiamo ai due poteri universali e a due temi, quello dell’Unità italiana (considerato tipicamente ghibellino) e quello della libertà municipale (guelfo), erano – si potrebbe dire – solo risorse ideologiche. Ma quei due temi – egli concludeva – si sarebbero attuati e congiunti molto più tardi
nella Monarchia rappresentativa. La quale se, colpa i degeneri successori degli Svevi, non fu prima compiuta dai Sovrani delle Sicilie, gloriosamente, e come Pietro della Vigna e Dante l’intravidero unica speranza d’Italia, doveva ai nostri giorni attuarsi dalla casa di Savoia (Della vita e delle opere…, cit., p. 226).
Come si vede, il ralliement al nuovo ordine non poteva essere più completo: si comprende come il ministro De Sanctis attribuisse nel 1861 a De Blasiis la cattedra napoletana di storia nazionale, appena fondata (e che poi sarebbe divenuta di storia moderna). E si comprende anche la prolusione inaugurale del nuovo docente, Del centro d’unità nella storia d’Italia (16 novembre 1861), in cui questo centro era individuato in Roma, per cui «la nuova età per impulso dello stesso principio prende nome dal rinnovamento di Roma a centro storico e politico italiano» (cit. in Russo 1928, rist. 1983, p. 139).
Il problema del Mezzogiorno e del suo ruolo nella storia d’Italia era al centro anche dell’altra grande opera di De Blasiis, La insurrezione pugliese e la conquista normanna del secolo XI (3 voll., 1864-1873): per lui, non la crescente presenza normanna, ma l’elemento popolare indigeno era stato alla base della liberazione della Puglia dall’oppressiva dominazione bizantina. Egli scorgeva un parallelismo fra la rivoluzione pugliese e quella milanese che portò al primo sorgere del Comune di Milano, ma anche delle differenze, da cui derivarono i diversi destini di queste due parti d’Italia:
Solamente la gloria che rimase intera ai Lombardi, venne tolta in gran parte ai Pugliesi dai Normanni; e questi raccolsero il premio di quella insurrezione e la mutarono nel fine, fondando una Monarchia, quando altrove s’ordinavano i municipali reggimenti (La insurrezione pugliese…, cit., 1° vol., 1864, p. 29).
I lavori di De Blasiis appaiono sempre ampiamente documentati, ma furono subito rilevate (e criticate) la sua annotazione disordinata e la sua indifferenza rispetto alla recente erudizione tedesca, e in particolare verso l’euristica e la critica applicate dal 1819 nelle edizioni dei Monumenta Germaniae historica, sebbene egli vivesse in un ambiente come quello napoletano in cui, soprattutto per merito di Bartolomeo (o Bartolommeo) Capasso, dal 1882 sovrintendente dell’Archivio di Stato di Napoli, si era sviluppato fin dalla metà del secolo un originale dialogo fra la tradizione erudita partenopea e la nuova filologia tedesca (Palmieri, in Bartolommeo Capasso, 2005).
Di origine napoletana era anche Villari, dal 1859 professore a Pisa prima di storia e poi di filosofia della storia, e dal 1865 di storia moderna all’Istituto di studi superiori di Firenze, di cui fu per un quarantennio uno dei docenti più illustri. A Napoli, dopo il 1846, era stato allievo della prima scuola di De Sanctis, e con i suoi condiscepoli aveva partecipato ai drammatici eventi del 1848. Dopo la sconfitta dell’esperimento costituzionale era emigrato a Firenze, continuando la riflessione già avviata nel 1849 sulle caratteristiche fondamentali della storia d’Italia. La storiografia villariana ha, infatti, una matrice schiettamente risorgimentale: egli si chiedeva se esistono delle «leggi generali che guidarono il corso della civiltà italiana», che rendano conto di come «in tanta varietà di fortuna» si sia mantenuta «inalterabile una stessa indole nazionale» (L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica: osservazioni storiche, 1861, 18622, p. 19), e rispondeva che tale legge generale è rappresentata dalla dialettica fra latinità e germanesimo, fra l’elemento etnico di origine romana e le infiltrazioni germaniche che si erano prodotte con le invasioni barbariche. Così, anche la frastagliata storia dei Comuni medievali, che a prima vista sembra il trionfo del particolarismo, diventa riconducibile ad alcuni elementi di fondo: il Comune era l’erede del municipio romano ed era sorto nella lotta contro i feudatari discendenti degli antichi invasori germanici; la lotta fra l’elemento latino e quello germanico si era poi trasferita all’interno delle mura delle città.
Della secolare storia d’Italia, Villari privilegiò il momento comunale, esplorando specialmente la storia del Comune di Firenze, con una serie di saggi poi raccolti in I primi due secoli della storia di Firenze (2 voll., 1893-1894), e il Rinascimento, da lui considerato l’inizio della decadenza italiana. Al di là dello splendore culturale e artistico, la vita italiana della Rinascenza era come tarlata da elementi di crisi, di carattere prevalentemente politico-culturale, che la condussero alla catastrofe. Un’alternativa morale a quella dissoluzione fu rappresentata dalla predicazione di Girolamo Savonarola, che Villari non considerava un ‘profeta disarmato’ ma il personaggio positivo di quegli anni, purtroppo inascoltato e sconfitto: cattolico ortodosso (non un anticipatore di Martino Lutero, come lo consideravano gli storici tedeschi), secondo Villari egli
voleva mettere in armonia la ragione e la fede, la religione e la libertà. La sua opera si connette al concilio di Costanza, a Dante Alighieri ed Arnaldo da Brescia, iniziando quella riforma cattolica che fu l’eterno desiderio dei grandi Italiani (La storia di Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi, 2° vol., 1861, p. 224).
«Riforma cattolica», dunque, non protestantesimo, che era invece un prodotto della civiltà germanica. Mentre assai più perplesso Villari si mostrava verso la figura e il pensiero di Niccolò Machiavelli, esaltato invece da tutta la tradizione neoghibellina risorgimentale come primo campione dell’unitarismo italiano, e dopo di allora rivendicato dalla tradizione desanctisiana quale prototipo di quell’uomo nuovo che avrebbe dovuto essere il prodotto della rinata civiltà italiana.
Come si vede, la ‘mente’ di Villari si era formata assimilando culture diverse: vi si fondevano i temi desanctisiani e vichiani della sua giovinezza napoletana, una serie di motivi ricorrenti nella storiografia risorgimentale, le esigenze di riforma cattolica che circolavano nella cultura toscana di metà Ottocento e, a partire dagli anni Sessanta, anche gli echi del positivismo europeo, specie di quello inglese. Nella prolusione inaugurale del 1865 al corso fiorentino di storia moderna (pubblicata nel 1866 con il titolo La filosofia positiva e il metodo storico), egli era stato forse il primo in Italia a richiamare l’attenzione (da una cattedra universitaria) sul nuovo pensiero positivistico europeo, ma nel contempo ne proponeva un immediato vaglio critico, respingendone ogni lettura assolutizzante e materialistica. Come Galileo Galilei si era messo alle spalle i dibattiti medievali sulle essenze e aveva fondato sul metodo sperimentale la fisica e le altre scienze naturali, così il positivismo superava l’approccio speculativo alle scienze sociali e le fondava sul metodo storico: esso era perciò
un nuovo metodo, non già un nuovo sistema. […] Il positivismo è un metodo che vuol condurci a studiare i fatti, a trovare le relazioni che passano fra il nostro spirito e la società umana; esso ci fa vedere come le nostre idee sieno la vita e la realtà dei fatti storici; si può egli, in buona fede, sostenere che sia una cosa sola col materialismo? (La filosofia positiva…, cit., poi in Arte, storia e filosofia, 1884, pp. 477 e 484).
Da qui l’ostilità di Villari verso gli esiti neometafisici del positivismo come sistema, verso la riduzione dell’opera d’arte a mero prodotto del milieu storico (come in Hippolyte-Adolphe Taine), verso la ricerca di leggi assolute e generali all’evoluzione storica, come nell’opera di Henry Thomas Buckle.
Il positivismo di Villari si basava, dunque, sulla rinunzia a un approfondimento filosofico delle categorie dell’agire storico (a «una conoscenza assoluta dell’uomo», egli diceva; La filosofia positiva…, cit., poi in Arte, storia e filosofia, 1884, p. 482) e sulla loro completa storicizzazione («la filosofia positiva studia solo fatti e leggi sociali e morali», aggiungeva, p. 482). Ma l’analisi di questi «fatti» per essere fededegna doveva fondarsi su un sistema di regole che la filologia, la linguistica e le discipline – come si diceva allora – ‘ausiliarie’ della storia (paleografia, diplomatica, cronologia, sfragistica, numismatica, epigrafia ecc.) avevano elaborate nell’ultimo secolo. Era il ‘metodo storico’, basato sulla piena informazione della ‘letteratura sull’argomento’, la diffidenza sistematica verso la tradizione, la critica delle fonti, la capacità tecnica nell’edizione e riproduzione dei documenti: un metodo elaborato sistematicamente in una serie di manuali pubblicati in area tedesca e poi anche francese (come quelli di Johann Gustav Droysen, Ernst Bernheim, Charles-Victor Langlois e Charles Seignobos), che avevano l’ambizione di fornire una base solida per la conoscenza storica (Torstendahl 2003) e che conobbero larga diffusione anche in Italia.
La trasmissione del metodo divenne il Fach fondamentale del docente di storia, che venne rinnovando profondamente i canoni del suo insegnamento: scomparse le lezioni istituzionalizzate dell’università preunitaria, spesso di carattere prevalentemente oratorio, e sempre più rari i corsi di carattere generale, prevalsero i corsi monografici mirati su problemi specifici e – sul modello tedesco – i ‘seminari’, basati sull’analisi critica delle fonti, nei quali il confronto con gli studenti era più immediato e proficuo. Il modello tedesco, appunto: l’affermazione del metodo storico fu un aspetto del più generale ‘germanesimo culturale’ che si diffuse in Europa dopo il 1870. L’organizzazione delle biblioteche e degli archivi, l’assetto universitario, la socialità accademica, lo standard delle pubblicazioni scientifiche tedesche divennero il modello delle società colte dell’Europa continentale, tanto che fu istituzionalizzato anche in Italia il soggiorno di studio nel Reich di neolaureati con borse ministeriali.
Come vedremo, non tutta la produzione storica usciva dalle università, ma certamente nei primi decenni dopo l’Unità aumentarono di numero e di incidenza le indagini nate in ambito accademico. Vennero progressivamente fissati dei criteri di adeguatezza in base ai quali giudicare le opere storiche: un momento rilevante per la loro affermazione fu il concorso per l’accesso all’università, che si affermò gradualmente e fu sancito nel regolamento universitario del 1890, allorché fu stabilito il carattere elettivo delle commissioni. Può dirsi che, a quella data, la comunità scientifica italiana, e quindi anche quella degli storici, avesse raggiunto un carattere nazionale (era ormai consueta la circolazione dei docenti al di là degli ambiti regionali di appartenenza, anche se non mancarono resistenze e contrasti), si fosse data un assetto relativamente stabile e, attraverso il principio della concorrenza scientifica, avesse elaborato anche «un abbozzo […] di etica della professione» (Porciani, Moretti 2000, p. 65).
Dopo il 1884, la nuova corporazione si riconobbe in un periodico, la «Rivista storica italiana», fondata a Torino da Costanzo Rinaudo (un medievista che era stato allievo di Ricotti), con il patrocinio di Villari, De Leva e Ariodante Fabretti (titolare della cattedra torinese di archeologia e direttore del locale Museo di antichità). Negli stessi anni era stata avviata, presso la casa editrice Vallardi di Milano, una serie di importanti iniziative editoriali, che tentavano di comporre in un quadro d’insieme i primi risultati dell’imponente lavoro di scavo che si stava compiendo. Come regista, ancora Villari, che coordinò una Storia letteraria d’Italia scritta da una società d’amici pubblicata a partire dal 1874, di cui restano notevoli il secondo volume (1880), sul Duecento e sul Trecento, opera del lunigianese Adolfo Bartoli, che dal 1874 era collega di Villari a Firenze, e il quarto (1880), sul Cinquecento, affidato al giovane filologo veneto Ugo Angelo Canello, il primo libero docente di filologia romanza in Italia (Lucchini 1990, pp. 103-46). La direzione di Villari testimonia la stretta interazione che in questi anni si instaurò fra i ‘nuovi’ storici e i principali esponenti della ‘scuola storica’, l’indirizzo che andava ormai prevalendo negli studi di letteratura italiana (Alessandro D’Ancona, Pio Rajna, Ernesto Monaci, Arturo Graf, Isidoro del Lungo).
Ancora presso Vallardi e nello stesso lasso di tempo, Villari diresse anche una Storia politica d’Italia scritta da una società d’amici, che si aprì con il volume Storia antica. Dalle origini alla morte di Teodosio I, 395 d.C. (1874), scritto da Francesco Bertolini, da qualche anno incaricato di storia moderna a Bologna (dal 1883 avrebbe insegnato storia antica), che si occupò anche del secondo volume (Storia delle dominazioni germaniche in Italia dal 395 al 1024, 1878) e dell’ottavo (Storia d’Italia dal 1814 al 1878, 1881), una delle prime trattazioni organiche del Risorgimento italiano. Francesco Lanzani, che di Villari era stato scolaro, pubblicò il terzo volume (Storia dei comuni italiani: dalle origini al 1313, 1882), mentre un insigne allievo di De Leva, Carlo Cipolla, scrisse il quarto (Storia delle signorie italiane dal 1313 al 1530, 1881), certamente la più duratura di queste opere. Antonio Cosci, precocemente scomparso nel 1883, pubblicò il quinto volume (L’Italia durante le preponderanze straniere: narrazione storica dal 1530 al 1789, 1875), cui seguirono il sesto (Storia d’Italia dal 1789 al 1799, 1878) di Augusto Franchetti, e il settimo (Storia d’Italia dal 1789 al 1814, 1881) di Giovanni De Castro, giornalista e scrittore, già collaboratore del «Politecnico» negli anni Sessanta.
La prima generazione di storici accademici, quella dei ‘maestri’, era intrisa di motivi risorgimentali e risentiva di suggestioni culturali che ancora appartenevano all’Europa romantica: il loro incontro con il ‘metodo storico’ (se e quando era avvenuto) non le aveva del tutto spente. Personalità più definite (ma, in qualche modo, anche più circoscritte) furono quelle degli allievi diretti, che cominciarono a occupare cattedre universitarie a partire dagli anni Ottanta: nella loro attività scientifica il ‘metodo’ fu veramente l’elemento caratterizzante.
Allievo di De Leva, come detto, fu il veronese Cipolla (1854-1916), che nel 1882, a ventotto anni, succedette a Ricotti sulla cattedra torinese di storia moderna, raccomandato dalla sua Storia delle signorie italiane uscita l’anno precedente. Esempio tipico di quella circolazione dei docenti al di là dell’ambito regionale di origine a cui si è già accennato, il cattolico Cipolla era alquanto estraneo allo spirito risorgimentale-sabaudo che aveva caratterizzato l’insegnamento e la produzione di Ricotti. A Torino, semmai, raggiunse un’intesa piena con il conterraneo Rodolfo Renier, che nel 1883 aveva fondato (con Graf e Francesco Novati) il «Giornale storico della letteratura italiana», un altro periodico destinato a divenire presto ‘istituzionale’, in cui fu intenso lo scambio fra storici, filologi, eruditi e studiosi di letteratura.
Nel 1882, Cipolla aprì il suo insegnamento torinese con la prolusione I metodi e i fini nella esposizione della storia italiana (pubblicata l’anno successivo), in cui precisava la propria concezione del lavoro storico. Egli infatti, che pur dichiarava di rifarsi alla tradizione della storiografia romantica cattolica e soprattutto a Balbo, ammetteva tuttavia che il nuovo clima esigeva, sempre più e meglio, i ‘fatti’. Distingueva perciò nell’attività storiografica tre momenti: il primo è la cronaca, che raccoglie i dati a disposizione e li dispone ordinatamente; poi si passa alla storia vera e propria, che inserisce fra i fenomeni storici un nesso causale e così compone le vaste sintesi storiche. Il terzo momento è, viceversa, la filosofia della storia, che «risale dalle ragioni seconde alle prime e dai contingenti penetra nell’assoluto» (I metodi e i fini…, cit., poi in Per la storia d’Italia e de’ suoi conquistatori nel Medio Evo più antico, 1895, p. 50). Cipolla riservava agli storici i due primi momenti, rinunciando a quello teologico-filosofico, che tuttavia ogni tanto affiorava nei suoi scritti: anche in quella prolusione era significativo il cenno alla filosofia della storia di Antonio Rosmini, che «propose problemi gravissimi, che saranno fecondi di chi sa quali splendidi risultati ai filosofi dell’avvenire» (p. 50). D’altronde anche Villari – a suo giudizio – con il suo richiamo ai ‘fatti’, non aveva negato radicalmente le «ragioni trascendentali», ma affermato semplicemente «che per ora sono troppo lontane da noi» (p. 51).
Allievo della scuola torinese fu Ferdinando Gabotto (1866-1918), che tuttavia, forse anche per alcuni suoi limiti di preparazione filologica e linguistica, ne subì la costante ostilità: dal 1900 alla morte insegnò storia moderna a Genova, pur diventando presto il massimo specialista di storia sabauda del tardo Medioevo e attivissimo nell’organizzazione della cultura storica piemontese. Di Cipolla fu fedele scolaro e collaboratore Carlo Merkel, che dal 1894 alla morte precoce (1899) fu docente a Pavia.
Al magistero di De Leva si rifaceva anche il veneto Giovanni Monticolo, che pure era stato allievo della Normale dal 1870 al 1874: infaticabile cultore di storia (meglio sarebbe dire di erudizione) veneziana, paleografo valente ed editore di fonti, dal 1902 alla morte (1909) insegnò storia moderna all’Università di Roma. La facoltà romana di Lettere (come quella torinese) rimase a lungo in Italia una delle cittadelle del ‘metodo storico’, anche per la presenza di Ernesto Monaci, un altro studioso di lingue e letterature romanze che influenzò in senso erudito gli studi più propriamente storici. Allievo di Ricotti, ma più propriamente di Villari, fu il medievista Pio Carlo Falletti, dal 1893 al 1921 professore a Bologna, dove successe a Bertolini, e che scrisse il volume Il tumulto dei Ciompi. Studio storico-sociale (1882), in cui timidamente si affacciava il concetto di lotta di classe.
Condiscepolo di Monticolo alla Normale fu il marchigiano Amedeo Crivellucci (1850-1914), che nel 1885 subentrò a Ferdinando Ranalli sulla cattedra pisana di storia moderna. Insieme a Cipolla è l’esponente più rigoroso e attivo della seconda generazione della storiografica positivistica: in alcuni foglietti manoscritti, poi rinvenuti e pubblicati da Arsenio Frugoni (Appunti di Amedeo Crivellucci (1850-1914) per una lezione, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1958, pp. 115-17), si coglie il tono delle lezioni di metodo che aprivano i suoi corsi. L’oggetto del suo insegnamento era posto «nell’indicare i mezzi e i procedimenti da tenere per rintracciare i fatti accaduti nel modo che veramente sono accaduti» (p. 115), nel vedere quali studi e quali ricerche lo storico deve fare (l’esempio addotto era quello di Ludovico Antonio Muratori con i suoi Annali d’Italia, 1743-1749), quale procedimento tenere, dove e in che modo ritrovare le testimonianze dei fatti, quali cautele osservare per distinguere i fatti veri dai falsi: in una parola il metodo storico, di cui, quindi, egli sviluppava soprattutto il momento euristico e quello critico.
Crivellucci fu autore di una vasta Storia delle relazioni fra lo Stato e la Chiesa (3 voll., 1885-1907), che giunge fino al pontificato di Adriano I (772-795) e alla formazione del primo Stato pontificio. La storia della Chiesa era per lui essenzialmente una storia di relazioni – nemmeno politiche, ma giuridiche – fra l’autorità civile e l’ecclesiastica: non era condotta con occhio volto alla totalità del processo storico, e non vi trovava posto, come avrebbe scritto Gioacchino Volpe nel suo stile inimitabile, «ciò che si libra in alto, come vapore che trasudi dalla terra; ciò che fermenta nel sottosuolo, poco visibilmente» (Storici e maestri, 1925, 1967, p. 40). Si trattava di una storiografia tipicamente ‘pragmatica’, in cui prevaleva la considerazione delle forze puramente individuali. Infine, su tutto dominava un intento fortemente anticlericale e antiecclesiastico, che dava alla trattazione quasi il tono di un’istruttoria.
Assai rilevante risultò il ruolo di Crivellucci nel suo lungo insegnamento pisano (nel 1909 sarebbe passato a Roma, succedendo a Monticolo) quale maestro e organizzatore di cultura: egli fu l’animatore di quella ‘scuola pisana’ che – insieme con quella villariana – fu alle origini del rinnovamento della medievistica italiana fra Otto e Novecento. A Pisa fondò nel 1892 e diresse poi fino alla morte (con vari condirettori) quella singolare e importante rivista che fu «Studi storici», vero e proprio organo del seminario degli studenti che si raccoglievano attorno a lui, dove mossero i loro primi passi studiosi come Volpe, Giovanni Gentile, Fortunato Pintor, Giuseppe Lombardo Radice, Pietro Silva e Giuseppe Kirner (Artifoni 1990).
Il confronto con l’Altertumswissenschaft tedesca fu il tema dominante dell’antichistica italiana dopo l’Unità: esso apparve la condizione ineludibile perché anche la scienza italiana potesse raggiungere standard accettabili a livello internazionale. Non che lo studio dell’antichità classica fosse in Italia all’anno zero: era ancora viva una tradizione antiquaria che aveva avuto in Bartolomeo Borghesi forse il suo esponente più significativo; la papirologia aveva trovato nel piemontese Amedeo Peyron un cultore di livello europeo; Giacomo Leopardi – pur dal fondo della provincia marchigiana, poi nella Roma antiquaria, infine fra Milano, Firenze e Napoli – si era confrontato con la grande filologia tedesca; uno storico come Giuseppe Micali aveva compiuto studi in qualche modo pionieristici sui popoli italici prima della dominazione romana; lo studioso di archeologia cristiana Giovan Battista De Rossi godeva di fama internazionale. Ma si trattava di grandi personalità isolate. Anche per le scienze filologico-storiche, le università preunitarie non costituivano un’organizzazione di insegnamento o di lavoro collettivo: non esistevano, infatti, riviste specializzate o possibilità di contatti e scambi tra studiosi.
D’altra parte, su un piano politico e culturale il rapporto con l’antichità classica era un problema vivacemente avvertito. Durante i decenni centrali dell’Ottocento, tutta la migliore cultura nostrana si era più o meno esplicitamente interrogata sul rapporto fra l’Italia nuova che si voleva costruire e il grande passato romano che incombeva su di lei. A questo problema, e più in generale a quello del rapporto con l’eredità classica, vennero date diverse soluzioni, che vanno dal classicismo più spinto (presente in tutti i settori del fronte patriottico, ma anche in molti cattolici intransigenti a esso estranei) a un anticlassicismo variamente modulato. Forse la soluzione culturalmente e politicamente più feconda fu quella diffusa in molti ambienti cattolico-liberali, che manifestarono il bisogno di liberarsi dalla soggezione verso l’antichità classica e sottolinearono il senso di novità dell’Italia ‘italiana’, da edificare in antitesi al passato romano-imperiale. Ne derivavano un marcato distacco dalle virtù, in precedenza paradigmatiche, della romanità, la condanna dell’espansionismo bellicoso, dell’imperialismo, di una gloria puramente militare. Questi elementi di rottura della tradizione si intrecciavano ad altri di continuità, costituiti da una base culturale ancora ampiamente classica, spesso di origine ecclesiastica, come quella che era presente nel gruppo toscano che si raccolse attorno a Giuseppe Silvestri (Enrico Bindi, Atto Vannucci, Giuseppe Arcangeli): costoro, insomma, si nutrivano della tradizione letteraria romana, ma ne avversavano quella politico-imperiale.
Si è sostenuto che questo atteggiamento potesse essere il pendant italiano della ‘decoturnizzazione’ dell’antico operata in Germania da Barthold Georg Niebuhr e da Theodor Mommsen, e che quindi negli studi classici della nuova Italia la tradizione del classicismo ‘guelfo’ non dovesse andare perduta, come anche la sua capacità di ragionare storicamente e di scrivere libri non meramente tecnico-specialistici. Certo vistosi erano i limiti tecnici di tale tradizione, specie se si opera un confronto con i livelli a cui era giunta l’Altertumswissenschaft germanica: era spesso digiuna di greco (anche se esistevano alcune rilevanti eccezioni) e incurante delle fonti epigrafico-monumentali. Ma in essa operava un più grande progresso: il mondo classico da paradigma diveniva alterità, quindi problema suscettibile di analisi storica. La cultura classica dell’Italia unita – si è concluso – avrebbe dovuto fondere l’eredità di questa tradizione italiana con i migliori risultati della storiografia e della filologia germanica, romantica e postromantica (P. Treves, Introduzione a Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, 1962, p. XXXIV).
Ipotesi di questo tipo sono utili unicamente come una sorta di paragone ellittico con quanto realmente accadde, cioè con il completo accantonamento della precedente tradizione che invece venne compiuto. Anche per lo studio dell’antichità classica il primo decennio postunitario fu un periodo di transizione: la legge Casati prevedeva che in ogni capoluogo di provincia sorgesse un ginnasio-liceo (più tardi chiamato liceo classico), a cui si accedeva dopo la scuola elementare e che dava accesso a qualsiasi facoltà universitaria. In esso, al tradizionale insegnamento del latino si aggiunse sistematicamente anche quello del greco (negli ultimi tre anni del ginnasio e poi nel liceo). Questa scelta era stata influenzata dal modello tedesco e dalla riforma degli studi che Wilhelm von Humboldt aveva compiuta all’inizio del secolo: il milanese Gabrio Casati aveva alle spalle un Lombardo-Veneto in cui il greco era materia stabile nei ginnasi e in cui le università di Pavia e di Padova formavano docenti capaci di insegnarlo (Scotto di Luzio 1999, pp. 55-56). Quello del superamento del panlatinismo tipico del precedente classicismo italiano fu una svolta importante, e non avvenne senza contrasti.
Nel Proemio alla traduzione (Istoria della letteratura greca, 2 voll., 1858) della Geschichte der griechischen Literatur (1841) di Müller, l’ex normalista Eugenio Ferrai (1832-1897), che nel 1866 sarebbe salito alla cattedra padovana di letteratura greca, combatteva il primato del latino ancora difeso da non pochi ambienti dell’establishment accademico. Ma – con un discorso che riprendeva l’idea spaventiana della circolazione europea del pensiero italiano – cercava anche di dimostrare che la coeva filologia e antichistica germanica andava accolta negli studi italiani senza alcuna chiusura provinciale, proprio perché era l’ultima propaggine dell’erudizione classica nata in Italia nell’età della Rinascenza: la prima età della filologia era stata infatti «tutta italiana […]. A la metà del secolo XVI, l’erudizione classica, come tutte le culture, […] passa d’Italia a le altre nazioni cristiane, principalmente Francia, Inghilterra e Germania» (Proemio, in Lo studio…, cit., pp. 968 e 970). Finalmente l’Ottocento poteva dirsi il secolo «storico e filosofico o germanico» (p. 992). Come si vede, Ferrai stabiliva una linea di continuità tra l’antica tradizione italiana e quella ottocentesca germanica, ma era convinto che la scienza tedesca della prima metà del secolo fosse il modello a cui adeguarsi: una scienza, tuttavia, che non doveva essere meramente tecnico-filologica, ma in cui la filologia conviveva con la storia e la filosofia.
La stessa fusione, ma a un livello decisamente superiore, ritroviamo nella personalità di Domenico Comparetti (1835-1927), uno degli studiosi più geniali dell’Italia del secondo Ottocento. Autodidatta nelle discipline classiche (si era laureato in scienze naturali nel 1855), formatosi nella Roma degli anni Cinquanta, mentre lavorava nella farmacia dello zio, a contatto con i dotti di ogni Paese che ancora confluivano nella capitale pontificia, da subito padrone delle principali lingue antiche e moderne, autore a poco più di vent’anni di saggi di argomento greco, tardo-latino e medievale che lo fecero conoscere alla cultura europea, venne nominato – come abbiamo accennato – professore di letteratura greca all’Università di Pisa all’indomani della pacifica rivoluzione fiorentina del 27 aprile 1859; da qui sarebbe passato a Firenze nel 1872.
Comparetti non mostrava nei confronti dei filologi tedeschi la stessa soggezione dei colleghi italiani: discuteva con loro da pari a pari, talvolta con qualche punta di risentito patriottismo. La sua non era una ‘filologia formale’ tutta concentrata su problemi di restauro testuale (in cui pure fu capace di intuizioni acutissime), ma una filologia storica, che mirava alla
ricostruzione della situazione entro la quale un testo da poco scoperto va inquadrato: la determinazione, cioè, del contesto più generale e dei presupposti storico-culturali, o giuridici, o antiquari che lo rendono intelligibile (Timpanaro 1980, p. 355).
Questa sua sensibilità storica e la sua rara capacità di dominare insieme l’antichità e il Medioevo (a cui si deve aggiungere la passione ancora romantica per le letterature e le tradizioni popolari) gli consentirono di scrivere il suo capolavoro, Virgilio nel Medioevo (2 voll., 1872), frutto di uno studio di almeno sei anni: uno dei pochissimi libri italiani di filologia classica ad avere una fama e una diffusione europea.
Dopo il trasferimento a Firenze si venne però approfondendo il suo isolamento fra i grecisti e i latinisti del tempo. Dopo il 1870, infatti, all’indirizzo informativo e bibliografico che aveva caratterizzato la prima generazione di filologi dopo l’Unità (quella di Ferrai, per intendersi) ne subentrò gradualmente un altro, che trovò in Girolamo Vitelli il suo esponente più prestigioso: esso dava all’insegnamento universitario della filologia classica un’impronta critico-testuale, grammaticale-stilistica e metrica. Fu accolto e insegnato il metodo della coeva filologia tedesca: il che, se comportò un progresso fondamentale e l’inserimento della nascente comunità scientifica italiana in quella europea, indusse anche a un’eccessiva specializzazione, a un tecnicismo talora esasperato e soprattutto a un crescente distacco della filologia dalla sua dimensione storica: dallo studio delle istituzioni, delle tradizioni, dei movimenti culturali (Timpanaro 1980, pp. 363-64). Fu questa la filologia che divenne dominante nelle università italiane e che trovò il suo organo istituzionale nella «Rivista di filologia classica» fondata a Torino nel 1873 dall’esule moravo naturalizzato italiano Giuseppe Müller, che aveva collaborato con Ferrai alla traduzione della citata Geschichte di K.O. Müller.
Il confronto con il mondo tedesco (cioè, sostanzialmente, con il metodo storico di Mommsen e quello filologico di Gottfried Hermann e, allora, di Georg Kaibel) fu il tema centrale anche della storiografia del mondo antico dei decenni successivi all’unificazione nazionale, comportando un adeguamento non solo nel metodo e nella critica delle fonti, ma anche nei temi. Proprio per dare una svolta e innestare direttamente nella cultura italiana la scienza germanica, i governi italiani affidarono alcune cattedre ‘strategiche’ a dotti austro-tedeschi: Adolf Holm, che fu professore di storia universale nell’Università di Palermo e poi di storia antica in quella di Napoli fino al suo ritorno in patria nel 1897; l’archeologo Emanuel Löwy, che dal 1891 al 1915 tenne la cattedra di archeologia e storia dell’arte antica all’Università di Roma; ma soprattutto lo storico Karl Julius Beloch, che vinse per concorso la cattedra romana di storia antica nel 1879 (aveva ventiquattro anni), la tenne fino all’ingresso in guerra dell’Italia (durante il conflitto fu internato a Siena), per poi riprendere nel 1923 quella di storia greca e tenerla fino alla morte nel 1929. A essi si può aggiungere l’archeologo Wolfgang Helbig, a Roma dal 1862, per oltre vent’anni (1865-1887) segretario dell’Instituto germanico di corrispondenza archeologica, che visse poi sempre nella capitale italiana, al centro di una società cosmopolita di archeologi e collezionisti: l’Instituto, divenuto nel 1871 un’istituzione statale prussiana e nel 1874 rinominatosi come Istituto archeologico dell’Impero tedesco, fu un altro centro nevralgico della presenza dell’Altertumswissenschaft tedesca in Italia.
Il primo antichista di rilievo emerso dalla ‘nuova’ università italiana fu probabilmente Ettore Pais, nato in provincia di Cuneo da famiglia sarda, studente all’Istituto di studi superiori di Firenze dal 1874 al 1878, e quindi allievo di Villari, Vitelli e Comparetti. La svolta della sua vita scientifica fu il biennio (1881-83) trascorso a Berlino alla scuola di Mommsen, da cui ebbe l’incarico di redigere i Supplementa italica al quinto volume (Galliae Cisalpinae, 1888) del Corpus inscriptionum latinarum (Nenci 1982). Seguirono le cattedre universitarie a Palermo (dal 1886), a Pisa (dal 1888), a Napoli (dal 1900). Gli anni pisani furono forse i più fecondi della sua biografia intellettuale: fondò con Crivellucci la già ricordata rivista «Studi storici» e pubblicò i primi due tomi (1898-1899) del primo volume della sua Storia di Roma, che gli diedero fama internazionale.
Pais è forse l’esempio più clamoroso dell’esito ‘ipercritico’ a cui poteva condurre quel ‘metodo storico’ che pure ambiva a fornire un fondamento solido alla conoscenza del passato. La diffidenza sistematica verso la tradizione, il dubbio metodico fanno sì che le conoscenze storiche che tutti giudicano ‘sicure’ siano quelle che nessuno ha trovato ancora utile contestare: lo storico si trova di fronte a una grande quantità di questioni, spesso le più essenziali, che in mancanza di documenti ‘sicuri’ (e quali lo sono veramente?), restano inaccessibili alla storia ‘scientifica’. I due citati tomi della Storia recavano sottotitoli significativi: il primo, Critica della tradizione fino alla caduta del decemvirato, e il secondo, Critica della tradizione dalla caduta del decemvirato all’intervento di Pirro. La trattazione si risolveva in un’implacabile critica delle fonti, che finiva per affermare tarda, artefatta e inquinata dalla confusione fra mito e storia l’intera tradizione annalistica, non autentica la storia regia, quasi non autentiche le XII tavole e così via. Spesso Pais cercava anche di spiegare come quella ‘falsa’ tradizione si fosse formata, ricorrendo talora a ipotesi stravaganti. La più famosa: «I sette re di Roma, in origine, non furono che la personificazione dei sette colli» (Cassola 2002, p. 337), e giù una minuziosa dimostrazione. Soprattutto mancava in lui (almeno allora, perché dopo il primo decennio del nuovo secolo avrebbe temperato – per alcuni anche troppo – la sua foga ipercritica) ogni volontà di proporre una ricostruzione alternativa, in quanto – su quei fondamenti – gli sarebbe riuscito impossibile.
L’istituzionalizzazione e la professionalizzazione degli studi storici operate con la costituzione del sistema universitario nazionale e le sue cattedre di storia costituirono una svolta di grande portata nelle vicende della storiografia italiana del secondo Ottocento. Ma, della ricerca storica, l’università non era la sede esclusiva. Restava viva un’erudizione a base locale o regionale che aveva una lunga tradizione: nel Sei e nel Settecento era stata in gran parte opera di ecclesiastici, poi si era venuta lentamente laicizzando e ‘nazionalizzando’, nel senso che – già prima dell’Unità – aveva assunto una certa uniformità nelle impostazioni di ricerca, nei metodi e negli strumenti di lavoro. Il localismo ne era il tratto caratteristico: la pubblicazione di fonti e documenti di storia cittadina, l’illustrazione delle glorie municipali e del ruolo sostenuto da questa o quella famiglia, le memorie di istituzioni di culto, di beneficenza e di cultura (ecclesiastiche e laiche); la descrizione e la storia di palazzi e monumenti. Le storie municipali, di cui era stata ricca l’erudizione settecentesca, continuarono a trovare cultori anche nell’Ottocento: Luigi Cibrario per Chieri e Torino, Vincenzo de Conti per Casale e il Monferrato, Girolamo Serra per Genova, Carlo Rosmini per Milano, Giovanni Cittadella per la Padova della signoria dei Carraresi, Agostino Peruzzi per Ancona, Samuele Romanin per Venezia, Federico Odorici per Brescia.
Il nuovo Regno agì più o meno direttamente anche su questa realtà, innanzitutto formando o cercando di razionalizzare il sistema bibliotecario e quello archivistico. In una statistica del 1849 elaborata per una commissione d’inchiesta inglese, Guglielmo Libri contava in Italia 45 biblioteche pubbliche (oggi si direbbero, più o meno, statali), mentre un’indagine del 1863 ne censiva 100 di carattere locale, cioè appartenenti a comuni e a province. Si trattava di un patrimonio librario certamente cospicuo (4 milioni e centoquarantanovemila volumi nel 1863: in Europa, l’Italia era seconda solo alla Francia): quelle biblioteche erano aperte al pubblico, ma pochissimo frequentate, prive di una politica di acquisti e quindi scarse di opere nuove, carenti di letterature straniere. Il regio decreto nr. 5638 del 25 novembre 1869 creò un sistema a due livelli, distinguendo fra biblioteche governative di prima classe (in cui erano comprese le tre nazionali di Firenze, Napoli e Palermo e le cinque universitarie di Torino, Pavia, Padova, Bologna e Napoli) e quelle di seconda classe: accanto a esse la miriade delle biblioteche comunali e provinciali (Traniello 2002). Al momento dell’unificazione si contavano in Italia anche 19 archivi pubblici a livello statale ereditati dai passati regimi, che furono posti fra il 1874 e il 1875 alle dipendenze del ministero dell’Interno e regolati in modo uniforme: si dava vita anche a un Consiglio per gli archivi, che doveva dare parere sulla legislazione che li concerneva e sulle questioni attinenti all’ordinamento e al servizio archivistico.
Le biblioteche e gli archivi furono la sede precipua dell’erudizione storica che venne sviluppandosi dopo l’Unità; il loro personale, oltre al lavoro istituzionale di catalogazione e inventariazione, si impegnò in prima persona nella ricerca sul campo e nella sua organizzazione. A contatto di studiosi di prim’ordine come Salvatore Bongi (Lucca), Giovanni Sforza (Lucca, Massa, Torino), Domenico Carutti e Antonio Manno (Torino), mons. Achille Ratti e Luigi Fumi (Milano), Alessandro Luzio (Mantova), Arnaldo Segarizzi (Venezia), Carlo Frati (Parma), Domenico Fava (Modena), Albano Sorbelli (Bologna), Alessandro Gherardi e Domenico Marzi (Firenze), Eugenio Casanova, Ignazio Giorgi e Francesco Tomassetti (Roma), Bartolomeo Capasso, Giuseppe Del Giudice e poi Nicola Barone (Napoli), si venivano a trovare i laureandi nelle discipline storiche o storico-giuridiche, un gran numero di insegnanti, che si familiarizzavano con le biblioteche e gli archivi delle città dove via via si trovavano a lavorare, sacerdoti e cultori di storia cittadina, che per decenni ne popolarono le sale di studio alla ricerca di documenti, testimonianze, manoscritti. Se avevano frequentato certe facoltà di Lettere, potevano avervi appreso i rudimenti della paleografia e della diplomatica presso le cattedre che vi cominciavano a essere aperte: a Padova fece scuola Andrea Gloria, chiamato alla cattedra di paleografia già nel 1855 per iniziativa di De Leva, a Firenze Cesare Paoli e poi (1903) Luigi Schiaparelli, a Roma Vincenzo Federici.
Ma lo strumento principale con cui il nuovo governo cercò di coordinare gli studi storici, dei quali era evidente l’importanza ‘politica’ nell’azione di nation building che la classe dirigente postunitaria si accingeva a compiere, fu quello delle Deputazioni di storia patria. Il prototipo fu quella torinese istituita da Carlo Alberto nel 1833, che all’indomani dell’annessione della Lombardia divenne la Deputazione per le antiche province e la Lombardia (21 febbraio 1860). Nel corso del 1860, per iniziativa del governo provvisorio dell’Emilia e della Romagna guidato da Luigi Carlo Farini, nacquero tre distinte Deputazioni: per l’ex ducato di Parma e Piacenza, per quello di Modena e Reggio e infine per Bologna e le ex legazioni pontificie della Romagna. Con il regio decreto nr. 1003 del 27 novembre 1862 nacque la Deputazione toscana, che allargò la sua giurisdizione anche all’Umbria e alle Marche (le quali avrebbero conquistato la loro ‘indipendenza’ organizzativa solo negli anni Novanta): essa ruotava intorno all’«Archivio storico italiano», ceduto dagli eredi di Vieusseux dopo la sua morte. Come intorno all’«Archivio veneto» fondato dall’abate Rinaldo Fulin e da Adolfo Bartoli, che allora insegnava a Venezia, gravitò la Società veneta di storia patria, denominata Deputazione nel 1878.
Le Deputazioni, istituite per regio decreto, erano organi governativi e dal governo ricevevano (esigue) sovvenzioni, allo scopo di pubblicare collezioni di fonti di storia locale, collane di studi, riviste. Ma accanto a esse sorsero un gran numero di Società storiche, per un impulso ‘dal basso’: per iniziativa, cioè, non di organi statali e nemmeno di storici cattedratici, «ma più spesso [di] geniali dilettanti di storia, quasi degli autodidatti, archivisti, bibliotecari» (Sestan 1991, p. 131). Così, nel 1873 nacque la Società storica siciliana (con il suo periodico, l’«Archivio storico siciliano»), a cui nell’anno successivo seguirono quella lombarda (con l’«Archivio storico lombardo»), la Società romana di storia patria (con l’«Archivio della Società romana di storia patria») e quella napoletana (con l’«Archivio storico per le provincie napoletane»).
Come si è detto, i cattedratici di storia furono coinvolti in un secondo tempo nella vita di questi enti: solo dopo il 1870 cominciarono a mettervi piede, spesso ad assumervi un ruolo di rilievo, magari introducendovi i loro allievi addestrati ormai ai nuovi metodi. Ma l’incontro fra queste istituzioni extrauniversitarie e la nuova cultura accademica non fu privo di tensioni. In alcuni casi, la polemica della giovane scuola esplose con virulenza, come nello scritto del ventenne Vitelli (Delle carte di Arborea e delle poesie volgari in esse contenute, 1870) contro il barone Antonio Manno e il conte Carlo Baudi di Vesme (ossia i vertici della Deputazione torinese) a proposito dell’autenticità delle carte di Arborea, da loro sostenuta a spada tratta (Treves 1992, pp. 243-50); ma tutta la querelle può essere letta come un confronto (per certi versi risolutivo) fra l’erudizione tradizionale e la nuova cultura universitaria, e le conclusioni negative di quest’ultima furono confortate dal parere dell’Accademia delle scienze di Berlino e di Mommsen (Marrocu 2009).
Per coordinare le ormai numerose istituzioni e dare regole omogenee alle loro pubblicazioni si tenne una serie di congressi storici (sei dal 1879 al 1895). Soprattutto, con il regio decreto nr. 1775 del 25 novembre 1883, fu fondato l’Istituto storico italiano, nel cui consiglio direttivo erano i rappresentanti delle Deputazioni e delle Società: il suo scopo era quello di «dare maggiore svolgimento, unità e sistema alla pubblicazioni de’ fonti di storia nazionale, e di promuovere segnatamente quei lavori preparatori, che, per interesse generale, eccedono i limiti, gli intenti, non che i mezzi delle Deputazioni e delle Società storiche nazionali» (art. 1). Nel 1889 fu decisa la pubblicazione della collezione Fonti della storia d’Italia, per la quale l’Istituto stabilì le norme editoriali (Angelini 2010, p. 22).
Tuttavia – anche in questo caso – il rapporto fra centro e periferia fu tutt’altro che lineare: lo sforzo di coordinamento e di regolamentazione che era nel programma dell’Istituto riuscì solo parzialmente. Benché alcuni dei suoi principali esponenti, come Bonghi e Villari, ribadissero la volontà di non cancellare le peculiarità delle Società locali e la loro autonomia, le principali tra di esse resistettero anche a ogni tentativo di vero controllo scientifico: paradigmatico il ritiro della Società napoletana dagli organi direttivi dell’Istituto, deciso nel 1891 da Capasso e approvato calorosamente dall’assemblea dei soci con toni di un caldo patriottismo napoletano che trent’anni di vita unitaria avevano solo minimamente scalfito (Del Treppo, in Bartolommeo Capasso, 2005, pp. 35-37).
Anche la storia del processo di unificazione nazionale (cioè quella che allora era la storia contemporanea, almeno italiana) nacque e si sviluppò al di fuori del mondo accademico: per i severi guardiani della storiografia filologico-erudita fu a lungo dogma indubitato che il banco di prova dei giovani orientati verso gli studi storici fosse la storia medievale o al più quella cinquecentesca, mentre quella contemporanea veniva considerata come non passibile di trattazione ‘scientifica’, sia per l’indisponibilità della documentazione sia per le passioni politiche da cui era largamente percorsa. Era insomma giudicata come un’attività tipica di dilettanti, giornalisti e letterati.
Ma nei primi anni Novanta la storia del Risorgimento aveva ormai superato la pura memorialistica e la controversia polemica retrospettiva. Di grande rilievo fu il ruolo che nel fermento di studi e di iniziative di quel decennio ebbero Giosue Carducci e alcuni fra i suoi allievi, amici e diretti collaboratori, come Tommaso Casini, Mario Menghini, Alberto Bacchi della Lega, Giuseppe Lisio, Vittorio Fiorini, Ernesto Masi e Ugo Pesci. La scuola carducciana comprendeva non tanto docenti universitari quanto professori di liceo, provveditori agli studi, impiegati dello Stato, tutti dediti allo scavo archivistico, all’indagine erudita, all’edizione di testi per la scuola. Essi cominciarono ad applicare il gusto e i metodi eruditi appresi dal loro maestro alla storia più recente: aprì la strada Fiorini, filologo ed erudito, che con Carducci aveva patrocinato la nuova edizione (pubblicata a partire dal 1904) dei Rerum italicarum scriptores, e che curò un Catalogo illustrativo dei libri, documenti ed oggetti esposti dalle provincie dell’Emilia e delle Romagne nel Tempio del Risorgimento italiano (3 voll., 1890-1901).
Nel 1897 Fiorini e Casini (anch’egli filologo e letterato) inauguravano una collana di fonti e studi di storia risorgimentale, la Biblioteca storica del Risorgimento italiano, mentre – alcuni anni più tardi – Menghini, impiegato al ministero della Pubblica istruzione, dopo essersi dedicato alla letteratura secentesca e all’edizione (1898-1900, in 7 voll., con il titolo Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura) dell’ancora inedito Zibaldone di pensieri di Leopardi (steso tra il 1817 e il 1832), veniva nominato segretario della commissione per la Edizione nazionale degli scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, istituita nel 1904. Ben presto quella vastissima impresa editoriale ricadde completamente sulle sue spalle: 106 volumi pubblicati dal 1906 al 1943, a ciascuno dei quali egli premise lunghe introduzioni rigorosamente anonime. Non si limitò a un lavoro di editing, ma promosse una vastissima raccolta di materiale, soprattutto di lettere, che arricchirono enormemente la sezione più innovativa dell’Edizione, appunto l’Epistolario (Pertici 2009b).
Lo stesso Carducci curò Letture del Risorgimento italiano (2 voll., 1896-1897), una raccolta tutt’altro che scontata: vi sottolineava l’origine settecentesca del moto risorgimentale, esaminava i nessi fra le vicende italiane e la Rivoluzione francese, soprattutto cercava di integrare le funzioni svolte dai vari protagonisti-antagonisti di quel moto, delineandole come fasi di un unico meccanismo. Emergeva così una visione ‘conciliatorista’ delle vicende italiane dell’Ottocento, nella quale si cercava di superare la storia di partito e di individuare quale contributo avessero dato alla soluzione unitaria uomini e fazioni che pure si erano aspramente combattuti; la stessa visione che è alla base della Storia critica del Risorgimento italiano (9 voll., 1888-1897), grande opera di Carlo Tivaroni, già deputato della Sinistra e provveditore agli studi a Padova, poi prefetto a Teramo e a Verona.
Anche le Deputazioni di storia patria e le Società storiche cominciarono a rivolgere la loro attenzione (sia pure, all’inizio, con qualche prudenza) alla formazione dello Stato unitario, approfittando anche dell’apertura delle sezioni più recenti degli archivi di Stato: già il 20 settembre 1895 (venticinquesimo anniversario della breccia di Porta Pia) uscì – per iniziativa di Beniamino Manzone, insegnante di storia al liceo Umberto I di Roma – una prima rivista, che tuttavia avrebbe avuto vita effimera, la «Rivista storica del Risorgimento italiano».
I tempi stavano lentamente mutando: ne è indizio significativo il percorso universitario del garfagnino Francesco Lemmi (1876-1947), che sarà uno dei più operosi ‘risorgimentisti’ della prima metà del Novecento. Ammesso nel 1895 all’Istituto di studi superiori di Firenze, ottenne da Villari il ‘permesso’ di andare al di là delle ‘colonne d’Ercole’ rappresentate dalla Rivoluzione francese: la sua tesi di licenza (quella che veniva presentata dopo i primi due anni di corso), Nelson e Caracciolo e la Repubblica napoletana (1799), fu addirittura accolta nel 1898 nella serissima collana Pubblicazioni dell’Istituto. Per la tesi di laurea (1899) iniziò gli studi sulla restaurazione austriaca a Milano, che dovevano poi formare il nucleo del volume del 1902 La restaurazione austriaca a Milano nel 1814 (Pertici 2005).
Lemmi fu certamente uno dei primi a formarsi come risorgimentista tout court. Ma gli studiosi che di poco lo precedono, e a cui veramente spetta il merito di aver gettato le basi scientifiche della storia risorgimentale, avevano percorsi più complessi alle spalle: erano per lo più studiosi di storia letteraria (o anche – come vedremo – di storia medievale) e severi cultori del metodo storico, che adattarono le regole apprese dai loro maestri alla storia ottocentesca. Rispetto ai carducciani, la cui storiografia del documento era pur sempre percorsa da scopi di edificazione civile e patriottica, aggiunsero una foga critica che oggi si direbbe revisionistica: nel senso che tendeva a mettere in crisi un quadro storiografico consolidato, ponendone in luce la debolezza documentaria e critica, come pure i presupposti ideologici.
Esemplare, a questo proposito, la parabola del marchigiano Luzio (1857-1946), formatosi (senza arrivare alla laurea) nella facoltà di Lettere dell’Università di Roma tra il 1876 e il 1880. Ancora più importante per lui fu l’incontro con alcuni coetanei, come Renier e Novati, che – come si è visto – nel 1883 avrebbero fondato a Torino il «Giornale storico della letteratura italiana». Luzio entrò a far parte dello stato maggiore di questa rivista, che fu la sua vera scuola, l’orizzonte culturale all’interno del quale sempre si mosse nei suoi studi. Non era tuttavia destinato a restare – come i suoi amici – uno studioso di storia letteraria: la passione politica lo spinse al giornalismo militante, con le consuete code di duelli e condanne penali. A causa di un processo, nel 1893 dovette trasferirsi a Vienna; nei cinque anni che vi trascorse abbandonò gradualmente il giornalismo politico. Soprattutto mutarono i suoi interessi di studioso: si tuffò nelle biblioteche e nei fondi dello Haus-, Hof- und Staatsarchiv che riguardavano la politica italiana dell’impero asburgico, rimanendo subito colpito dalla ben diversa valutazione che le fonti austriache davano di fatti e uomini del Risorgimento italiano. Nei suoi lavori affermò quindi il canone metodologico dell’audiatur et altera pars, che molto contribuì a superare il carattere memorialistico o agiografico della storiografia tradizionale.
L’esplorazione degli archivi europei per lo studio del Risorgimento italiano, e quindi il collegamento delle sue vicende alla più generale storia europea, sono l’acquisizione metodologica più importante derivante dalle sue ricerche, che continuarono quando – tornato in Italia – divenne direttore dell’Archivio di Stato di Mantova (1899). Nei quasi diciannove anni in cui tenne questo incarico, venne gradualmente assumendo una posizione di grande rilievo negli studi di storia del Risorgimento: nel 1905 pubblicò quello che forse resta il suo libro più noto, I martiri di Belfiore e il loro processo. Narrazione storica documentata, che conobbe poi altre quattro edizioni rivedute e corrette, fino a quella postuma del 1951. Ma il giornalismo gli era rimasto nel sangue, e dopo il 1900 egli si riciclò come giornalista di cultura. Entrato a far parte nel 1901 di quella imponente macchina editoriale che era il «Corriere della sera» di Luigi Albertini, fino al 1915 fu collaboratore della sua terza pagina: si può dire che con lui la storia fa il suo ingresso nel mondo dei quotidiani (Pertici 2007).
Anche il versiliese Michele Rosi (1864-1934) non era nato ‘risorgimentista’: aveva appreso alla Normale, di cui era stato allievo dal 1884 al 1888, il metodo storico alla scuola di Crivellucci e di D’Ancona: con il primo aveva studiato i rapporti fra Stato e Chiesa nella tarda età longobarda, con il secondo i trattati d’amore del Cinquecento. Intrapresa poi la faticosa carriera di insegnante medio, passò da una sede all’altra, ma continuò i suoi studi di cinquecentista, che gli valsero la libera docenza in storia moderna nel 1895 a Genova. Fu dopo il suo passaggio a Roma che cominciò ad accostarsi al Risorgimento, e lo fece anche lui per motivi in qualche modo ‘politici’: seppure non nel modo risentito di Luzio, anche a lui l’Italia ufficiale piaceva poco, e voleva capire le radici del deficit morale che avvertiva. Il suo primo lavoro di ampio respiro fu Il Risorgimento italiano e l’azione di un patriota cospiratore e soldato (1906), biografia di Antonio Mordini, che era stato prodittatore in Sicilia al tempo della spedizione garibaldina; ma degno frutto (fuori stagione) della scuola storica sarebbe stato il Dizionario del Risorgimento nazionale da lui coordinato e pubblicato in quattro volumi – dopo una lunga gestazione – fra il 1930 e il 1937 (Pertici 2006).
Significati più generali ha anche la sua vicenda accademica: nel 1905, pur continuando a insegnare nel liceo Visconti, ebbe l’incarico di storia del Risorgimento all’Università di Roma. Succedeva a Raffaello Giovagnoli, patriota romano, che era stato con Giuseppe Garibaldi a Mentana, poi più volte deputato. Autore di romanzi storici, spesso di intonazione fortemente anticlericale, e di opere storiche sulla rivoluzione romana del 1848-49, Giovagnoli mancava dei fondamenti della ricerca storica, per cui con l’insegnamento di Rosi si passò dalla retorica patriottica all’erudizione e al sano metodo storico (se non alla storia). Nel 1909, anche Lemmi, docente al liceo Cavour di Torino, iniziava il suo insegnamento universitario come libero docente nell’ateneo torinese: l’anno prima era morto Ernesto Masi, che per diversi anni era stato incaricato di storia del Risorgimento presso l’Istituto di scienze sociali ‘Cesare Alfieri’ di Firenze.
Nel dopoguerra gli incarichi si vennero moltiplicando, anche se la strutturazione scientifica e accademica della disciplina avrebbe avuto un cammino ancora lungo e difficile, a conferma della diffidenza che ancora la circondava negli ambienti universitari. Solo nel 1925, infatti, sarebbe stato bandito dall’Università di Milano, quello che fu – a livello nazionale – il primo concorso per cattedre di storia del Risorgimento: vincitore, nel 1926, ne sarebbe uscito Lemmi, che fu chiamato nella facoltà torinese dove insegnava da anni. Nella terna erano anche Silva e Giuseppe Gallavresi, che ebbe la cattedra milanese (il pioniere Rosi avrebbe invece concluso la carriera come incaricato; Angelini 2010, pp. 51-52). Ma nel frattempo la disciplina si era strutturata: nel 1906 era stata promossa, in un congresso tenuto a Milano, una Società nazionale per la storia del Risorgimento italiano, che si venne articolando in comitati regionali, attivi nella pubblicazione di atti, bollettini, di raccolte di memorie e documenti. Dal 1914, la Società si era dotata di una rivista, che questa volta avrebbe avuto lunga vita, la «Rassegna storica del Risorgimento».
Il metodo filologico-erudito e l’esame sistematico delle fonti archivistiche, non solo italiane (ossia la tendenza inaugurata da Luzio), non fu la sola via che allora si percorse per dare una base ‘scientifica’ agli studi di storia ottocentesca. Ne emerse anche un’altra, che non si accontentò dello scavo erudito, ma puntò ad approfondire gli aspetti economico-sociali delle vicende risorgimentali e dei conflitti che le avevano percorse: mentre la prima ricorreva all’indagine archivistica e alla critica delle fonti, la seconda si serviva dell’analisi materialistica dei rapporti fra le classi.
Ne è il prototipo l’esplosivo pamphlet I partiti politici milanesi nel secolo XIX, che un ignoto Rerum scriptor pubblicò nel 1899, nel pieno dei ‘conati reazionari’ di fine secolo. Si trattava – è appena il caso di aggiungerlo – del ventiseienne Gaetano Salvemini, che aveva alle spalle una formazione di eccellenza all’Istituto di studi superiori di Firenze, alla scuola di Villari, sotto la cui egida aveva pubblicato (e firmato) ponderosi lavori di storia medievale, basati sulle tecniche di ricerca più raffinate, ma che era socialista, con venature cattaneane e federaliste, e ora cercava di rintracciare nelle vicende risorgimentali (la politica dei moderati lombardi dal 1815 al 1861) le origini della ‘reazione’ attuale. Come Luzio, anche Salvemini non era uno storico ‘puro’, e quel suo libretto era percorso da una fortissima carica polemica. Ma assai più di quella di Luzio, la sua figura è significativa del trapasso socioculturale che visse la giovane storiografia italiana fra Otto e Novecento.
Nel 1915, Benedetto Croce ne avrebbe abbozzata una prima analisi nel capitolo conclusivo della sua Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, dedicato alla storiografia ‘economico-giuridica’. Già intorno al 1890 – scrive – erano avvertibili sia l’impasse della storiografia del ‘metodo storico’, dominante nelle università italiane, sia il malcontento diffuso che essa stava suscitando: a un metodo d’indagine molto sofisticato non corrispondeva una pari capacità sintetica e ricostruttiva, basata su un giudizio adeguato intorno ai diversi aspetti del contesto storico e capace di proporzionarli in un’architettura complessiva. Ne scaturiva una storiografia limitata a un circuito prevalentemente accademico, che non era riuscita a dare un libro leggibile e interessante a un pubblico di non specialisti. Solo un nuovo pensiero filosofico – questa l’opinione di Croce – avrebbe potuto produrre una svolta.
Le acque si erano cominciate a smuovere con la diffusione in Italia – attorno al 1895 – del materialismo storico, che nell’insegnamento di Antonio Labriola evitava le secche della vecchia ‘filosofia della storia’ e sviluppava una critica serrata del sociologismo positivistico, del formalismo giuridico, delle autorappresentazioni ideologiche, riconducendole alla loro base materiale e alle loro radici di classe. Questo insegnamento fruttificò in una serie di giovani studiosi, che si erano avviati agli studi storici fra il 1890 e il 1900, tutti, più o meno, simpatizzanti per il socialismo o comunque assai attenti ai moti sociali che percorrevano la penisola: costoro avevano ereditato dai propri docenti una rigorosa disciplina di studi, ma a essa univano una più esplicita passione politica e il realismo storico.
Le citate pagine crociane, nel continuo intreccio che presentano di elementi descrittivi e prescrittivi, sono state da allora fatte oggetto di una continua discussione e revisione. Oggi si tende a escludere una drastica soluzione di continuità fra i principali esponenti della scuola economico-giuridica e i rispettivi maestri, sotto la cui egida si svolse, fra l’altro, la loro prima attività scientifica e la loro carriera accademica: specialmente nell’insegnamento di Villari si sono riconosciuti molti elementi (la sensibilità sociale e politica, l’attenzione per i conflitti sociali ecc.) che poi sono confluiti negli allievi. Si è invece ridimensionato, nella loro formazione, il ruolo del marxismo, tanto più se filtrato dall’insegnamento di Labriola, mentre nella cultura di alcuni (specie Salvemini) è stata sottolineata la presenza di un marxista largamente permeato di positivismo evoluzionistico come Achille Loria (Artifoni 1990).
Ma va detto che la coupure sottolineata da Croce coglie un aspetto non secondario: il superamento della separatezza accademica operato da questa nuova generazione di storici, la loro partecipazione alla mobilitazione degli ‘intellettuali’ (come allora si cominciava a dire) in una posizione critica verso l’establishment politico e universitario la distaccano dalla severa generazione dei maestri. Poiché erano storici abituati a ricavare dalla realtà presente continue suggestioni per l’analisi del passato, e viceversa, la loro scrittura fu spesso nuova e originale: colpì (talora scandalizzò) i contemporanei il ricorso a frequenti anacronismi linguistici, che si sforzavano appunto di dare il senso di quel collegamento. In loro si percepisce un decisivo mutamento nella figura pubblica del docente di storia: l’attenzione a ciò che si muoveva al di fuori delle istituzioni accademiche, la disponibilità a farsi leader di movimenti d’opinione, la percezione che la formazione delle élites potesse avvenire anche al di fuori del circuito scolastico-universitario, a cui pure continuavano a rivolgere un’attenzione assidua.
Da questa «rinascita» – Antonio Anzilotti mostrava di averlo ben compreso nel saggio La storiografia realista («La voce», 25 marzo 1909, poi in Movimenti e contrasti per l’Unità italiana, 1930, rist. 1964, pp. 335-39) – era nata una nuova figura di storico, non più meramente accademico, ma mescolato alle lotte del presente, ‘militante’, si potrebbe dire.
E i giovani storici (con i loro giovani maestri) furono ampiamente presenti dal 1908 sulle pagine de «La voce» di Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini (Salvemini, Volpe, Anzilotti, Ettore Ciccotti, Aldo Ferrari, Adolfo Omodeo, Luigi Salvatorelli, Pietro Silva, Cesare Spellanzon, Augusto Torre), dal 1911 su quelle de «L’Unità» di Salvemini (Gino Luzzatto, Silva, Raffaele Ciasca, Torre, Spellanzon, Corrado Barbagallo, Ciccotti, Romolo Caggese, Piero Pieri) e dal 1922 su quelle de «La Rivoluzione liberale» di Piero Gobetti, che alla formula delle riviste fiorentine s’ispirava (Silva, Spellanzon, Salvatorelli, Nello Rosselli), mentre dal 1910 Niccolò Rodolico era collaboratore abituale de «Il Marzocco» dei fratelli Angiolo e Adolfo Orvieto.
Alla ricerca di un pubblico più vasto, aumentò la loro presenza anche sui quotidiani, specie nella terza pagina, che nacque dopo il 1901. Abbiamo accennato all’impegno di Luzio sul «Corriere della sera»: ma al quotidiano di Albertini collaborò dal 1913 anche Francesco Ruffini, cattedratico a Torino di diritto ecclesiastico, biografo di Camillo Benso conte di Cavour e studioso della cultura risorgimentale. Dopo l’abbandono di Luzio nel 1915 per dissensi dalla linea interventista di Albertini, il suo posto venne preso dall’assai più giovane Silva, allievo di Salvemini a Pisa, studioso del Trecento pisano, acceso interventista, che si stava avviando allo studio dell’Ottocento italiano ed europeo. Dal 1917, Volpe – che prima della guerra aveva collaborato sporadicamente anche al «Corriere» – scrisse sul quotidiano milanese «La sera», e nel dopoguerra Anzilotti collaborò a vari quotidiani e riviste politiche. Sulla terza pagina de «Il mondo» di Giovanni Amendola, dopo il 1922 ricorrono le firme di Giorgio Levi Della Vida e di Ernesto Buonaiuti, ma forse la figura più compiuta di storico-giornalista è quella di Luigi Salvatorelli, che lasciò nel 1920 la cattedra napoletana di storia del cristianesimo per assumere la condirezione de «La stampa» di Torino, osservatorio dal quale seguirà con raro acume la crisi italiana degli anni successivi.
Gli storici della scuola economico-giuridica per lo più avevano debuttato come medievisti o modernisti, ma questo tratto ‘militante’ li spinse prima o poi verso la storia contemporanea. Tale dérapage si osserva già prima della Grande guerra, e anche qui paradigmatica è la vicenda di Salvemini, che affrontò La rivoluzione francese in un volume del 1905, per poi inoltrarsi nel Risorgimento italiano con una serie di ricerche su Mazzini, la sinistra mazziniana e il socialismo risorgimentale. Le profonde trasformazioni che il Paese aveva subito fra la fine del secolo e l’età giolittiana, le aspre polemiche cui aveva dato origine il ‘giolittismo’, e infine la partecipazione italiana alla Prima guerra mondiale, sentita come una grande occasione di rinnovamento nazionale, spinsero molti altri studiosi, anche più giovani, a interrogarsi sulle ‘origini dell’Italia contemporanea’ (l’espressione parafrasava il titolo della celebre opera di Taine Les origines de la France contemporaine, 1876-1894) e più in generale sul loro contesto europeo. Non solo Volpe e Salvemini, ma Caggese e Barbagallo, Rodolico ed Ettore Rota, e i più giovani Anzilotti, Silva e Pieri compirono, con modi e tempi diversi, questo passaggio.
I principali esponenti di questa nuova sensibilità storiografica furono appunto Salvemini e Volpe. Il primo, studente a Firenze dal 1890, aveva condensato in Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295 (1899) una serie di ricerche condotte negli anni precedenti sul Duecento fiorentino. Vi ricostruiva le lotte politiche del Comune, destrutturando i riferimenti ideologici delle varie fazioni e riconducendole a uno schema rigidamente classista:
Nell’opinione universalmente accettata il ghibellinismo è il partito della Nobiltà, il guelfismo quello del Popolo; i Ghibellini sono sostenitori dell’unità d’Italia sotto lo scettro imperiale, i Guelfi lottano per la indipendenza nazionale dall’Impero e per la libertà del papato. Questa teoria è sbagliata da cima a fondo. Guelfi e Ghibellini sono partiti locali, che combattono per ragioni indipendenti dalla lotta fra Papato e Impero (ed. a cura di E. Sestan, 1966, p. 6).
La lotta in realtà è tra i magnati, «un ceto di persone molto simili a quello che ai nostri giorni è composto della vecchia aristocrazia e della nuova plutocrazia» (p. 26), e il ‘popolo’, cioè gli appartenenti alle Arti, ma non coinvolge il proletariato urbano e la popolazione contadina, che sono esclusi dalla cittadinanza e della lotta politica. E i contrasti fra magnati e ‘popolani’ sono eminentemente di politica economico-finanziaria: vertono sulla questione annonaria, su quella tributaria, sulla questione delle pigioni. Da qui l’esigenza delle due parti di giungere a dominare completamente la politica del Comune.
L’abruzzese Volpe, normalista dal 1895 al 1899 e discepolo a Pisa di Crivellucci, si confrontò nel primo quindicennio del nuovo secolo con tre questioni intimamente connesse: l’origine e lo svolgimento dei Comuni italiani, i rapporti fra Chiesa e «Stato di città» nell’Italia medievale (da qui anche il problema delle eresie due-trecentesche e del loro substrato politico-sociale) e la nascita e l’evoluzione della nazione italiana. Volpe aveva concluso che all’inizio dell’11° sec. era ormai superata quella contrapposizione etnica fra «Romani» e «Longobardi» (latinità e germanesimo) su cui aveva posto l’accento la nostra storiografia risorgimentale (ma anche parte di quella postrisorgimentale) e su cui continuava a insistere la nazionalistica storiografia tedesca, e che le lotte e i contrasti di quel periodo avevano ben altra origine: economica e sociale specialmente. Che quindi si era formato un popolo nuovo, che non era più latino ma non era neanche germanico, e che ora trovava la sua espressione più compiuta nell’istituto comunale: «se vogliamo giudicare dal punto di vista etnico il Comune, esso non è romano più che non sia longobardo. Ma né l’una né l’altra cosa: esso è italiano, se si guarda al popolo che gli dà forma e colore» (Questioni fondamentali sull’origine e svolgimento dei Comuni italiani, 1905, poi in Medio Evo italiano, 1923, 19282, p. 28). Perciò le vicende dei Comuni italiani costituivano l’inizio della «storia di una nazione italiana in via di nascimento, distinta per peculiari qualità e condizioni sue dalle altre» (p. 28).
Coetaneo di Salvemini e Volpe era il siciliano Rodolico, venuto nel 1892 a studiare a Bologna alla scuola di Carducci, ma poi fattosi storico e discepolo di Falletti. Cattolico come il maestro, ne condivise un interesse profondo per gli esclusi, le masse anonime e ignare della grande politica, che tuttavia emergono prepotentemente in alcuni momenti sul proscenio della storia. Per indicarle, Rodolico ricorse allora e poi al concetto di popolo, che era qualcosa di simile al Lumpenproletariat di marxiana memoria, senza tuttavia l’annesso giudizio sprezzante. Perché Rodolico non era socialista né marxista, anche se certo risentì delle tendenze ‘materializzanti’ e classiste da cui fu permeata la giovane cultura storica di fine secolo. Negli stessi anni di Salvemini, anche Rodolico iniziò un distacco dalla storia medievale, ma non divenne – come l’amico – ‘risorgimentista’, fermandosi per il momento al Settecento, a quello toscano in specie. Fu anzi uno dei battistrada (l’altro fu Rota, dal 1923 docente a Pavia) di quel vario movimento di studi sul giansenismo italiano che si sarebbe sviluppato nei decenni successivi.
Uno dei principali collaboratori de «L’Unità» di Salvemini (e uno degli amici più cari di quest’ultimo) fu il padovano Gino Luzzatto, di poco più giovane, laureato in materie letterarie nella città nativa (più tardi a Urbino si laureerà anche in giurisprudenza), ma da subito affascinato dall’insegnamento del grande storico del diritto Nino Tamassia, che gli ispirò l’interesse per la storia economico-sociale. Iniziò ad approfondirla nelle peregrinazioni per l’Italia come insegnante (Potenza, Grosseto, Urbino, Pisa), frequentando gli archivi delle città che via via lo ospitarono: da qui una serie di saggi sulle origini dei Comuni (specialmente marchigiani), il rapporto città-campagna, la funzione economica e sociale delle città nel basso Medioevo, la loro organizzazione tributaria. Per molti aspetti, ci troviamo di fronte a una personalità affine a quella salveminiana: il gusto della concretezza, l’istintivo bisogno di scendere sul piano dei fatti, la reticenza a incasellare entro schemi generali la realtà delle situazioni particolari, il ‘cattaneismo’ programmatico, il circuito fra storia e politica (Luzzatto si iscrisse nel 1906 al Partito socialista, ma la sua militanza durerà, come quella dell’amico, solo fino al 1911). Nel 1910 venne chiamato alla cattedra di geografia economica e di storia del commercio presso l’Istituto superiore di Bari; dopo una parentesi triestina, nel 1924 passò a Venezia, nel cui Archivio di Stato iniziò a confrontarsi con l’inesplorata miniera dei documenti medievali sull’economia veneziana, della quale divenne nei decenni successivi storico infaticabile (Berengo 1964).
A questo nuovo clima culturale non si sottrasse nemmeno la storiografia del Risorgimento, e a introdurvi un approccio ‘materializzante’ fu Raffaele Ciasca, conterraneo di Giustino Fortunato, da questi mandato a Pisa a studiare con Salvemini (subentrato a Crivellucci dal 1910, dopo gli anni trascorsi a Messina). Nel 1916 Ciasca pubblicò la rielaborazione della sua tesi di laurea, L’origine del ‘Programma per l’opinione nazionale Italiana’ del 1847-1848, che ripercorreva il pedigree del programma di Massimo D’Azeglio a partire dalla seconda metà del Settecento. Ma il libro cercava di dare una risposta a una domanda decisiva: come nasce il sentimento di appartenenza nazionale? Secondo Ciasca, quello italiano (sviluppatosi in opposizione alla presenza austriaca) era derivato dall’opposizione dell’Austria alle aspirazioni economiche e politiche della borghesia italiana, che puntava alla libertà di commercio, all’abolizione delle barriere doganali, all’unificazione di pesi e misure, per facilitare gli scambi fra gli Stati della penisola e quindi intensificare i propri affari: nasceva insomma da un interesse di classe. La tesi, che sul momento fu accolta quasi con scandalo (si era nel pieno della guerra), ha poi avuto varia fortuna nella storiografia successiva, che non di rado ha parlato del Risorgimento sostanzialmente come di una rivoluzione borghese.
Ma anche nell’antichistica il sociologismo di origine variamente tardo-positivista o marxista produsse una svolta, che qui assunse aspetti clamorosi e suscitò virulente reazioni. La nuova storiografia andava infatti all’attacco del tecnicismo e del filologismo della scienza accademica (tutta germanizzante) e del suo esito ipercritico: era di letture anglo-francesi, piuttosto che tedesche; si interessava al comparativismo sociologico e alla psicologia collettiva, oltre che alle materie tecniche curriculari. Cercava di superare l’insufficienza delle fonti con il ricorso ad analisi socioeconomiche di lunga durata, che subito i cultori della storiografia ‘ufficiale’ trattarono da generalizzazioni infondate. Nelle sue pagine è ancora più netta l’interazione fra passato e presente: l’approccio al mondo antico vi appare privo di ogni residuo classicistico, condotto con un realismo talora irriverente e con arditi accostamenti alla contemporaneità: nel suo primo lavoro, La costituzione così detta di Licurgo (1886), Ciccotti (1863-1939) paragonava gli iloti agli schiavi d’America e la kryptèia spartana al Ku Klux Klan; nel Processo di Verre (1895) parlava di politicians, in Donne e politica negli ultimi anni della repubblica romana (1895) ricordava che nella lotta elettorale tardorepubblicana
anche le donne potevano trovare il loro posto per fare anche assai più di quello, che oggi fanno le donne inglesi col loro canvass in favore de’ loro mariti, de’ loro fratelli, degli uomini del loro partito (p. 21).
I principali esponenti di questa nuova antichistica furono tutti – più o meno a lungo – militanti socialisti: alcuni di questa militanza pagarono il prezzo, come Ciccotti, al quale nel 1897, quando era professore straordinario di storia antica a Milano, l’Accademia scientifico-letteraria negò l’ordinariato per le sue idee. Egli, che aveva studiato a Napoli nella facoltà di Legge, pubblicò nel 1899 il suo lavoro più noto, Il tramonto della schiavitù nel mondo antico, allora salutato come un’opera fortemente innovativa, e non solo in Italia (conobbe infatti anche traduzioni in Francia e in Germania).
Il non accademico Guglielmo Ferrero pubblicò nei primi anni del secolo Grandezza e decadenza di Roma (5 voll., 1902-1906), una ‘storia sociale’ dei cent’anni tra la morte di Silla e quella di Augusto, che fu assai criticata dall’antichistica ufficiale (nella demolizione si trovarono d’accordo i rivali Gaetano De Sanctis e Pais) e dagli esponenti del nuovo idealismo (Croce), ma che ebbe un enorme successo all’estero, soprattutto nel mondo anglosassone, dove Ferrero divenne presto celebre come storico e come pensatore politico.
Il più giovane Barbagallo (1877-1952) analizzò nel 1905 La fine della Grecia antica, le cui cause erano da lui individuate prevalentemente nell’ambito economico-sociale e demografico: più tardi si sarebbe fatto difensore della storiografia di Ferrero (L’opera storica di Guglielmo Ferrero, 1911) e della filologia di Giuseppe Fraccaroli (1919) e, durante la Grande guerra, approfittando della ventata antigermanica suscitata dal conflitto, avrebbe tentato (con lo stesso Fraccaroli ed Ettore Romagnoli) la liquidazione del ‘germanesimo’ storiografico e filologico: da qui le memorabili repliche di Vitelli (Per gli studi classici e per l’Italia, 1916) e di Giorgio Pasquali (Filologia e storia, 1920).
Eppure, a metà degli anni Venti era ormai comune constatazione che la storiografia economico-giuridica aveva compiuto la sua parabola e che, eccetto in alcune isole di resistenza, era ormai disertata dagli storici formatisi nel decennio successivo alla Grande guerra. La sua crisi era stata in realtà più precoce e, in primo luogo, era stata determinata dalla mancanza di interna coesione. Già Croce aveva sottolineato le differenze di sensibilità e di cultura che intercorrevano fra Salvemini e Volpe: più coinvolto in una concezione sociologizzante della storia il primo, più propenso a uscire dai limiti della scuola il secondo. Fu proprio Volpe che promosse un deciso chiarimento metodologico in una serie di importanti recensioni comparse fra il 1904 e il 1908: in particolare in due interventi assai critici nei confronti di Romolo Caggese e Gino Arias, studiosi che di solito venivano annessi al medesimo indirizzo storiografico. Non è infondato il sospetto che, anche se non vi si faceva cenno esplicitamente, il vero bersaglio fosse proprio la storiografia salveminiana (Artifoni 1990, pp. 163-75).
Pur con le aperture interdisciplinari (in particolare verso il diritto e l’economia) che caratterizzavano la sua concezione del lavoro storico, Volpe respingeva la dissoluzione della storiografia in altri modelli scientifici e una sua subordinazione alla sociologia e ai procedimenti generalizzanti delle scienze sociali. Rifiutando ogni ‘riduzionismo’ meccanico, fissava la sua visione del processo storico come ‘flusso perenne’, in cui le varie forme dell’attività umana sono connesse in modi cangianti e fluidi, senza rigide gerarchie di ‘fattori’. Nello stesso periodo, tuttavia, anche Salvemini veniva attenuando il tratto positivistico-sociologizzante del suo pensiero storiografico, rigidamente teorizzato in alcuni scritti dei primissimi anni del secolo, e attuava quel passaggio alla storia politica contemporanea, che – lo abbiamo accennato – avrebbe anticipato quello di altri esponenti della scuola.
La divaricazione teorica interna della storiografia economico-giuridica impedì ogni articolazione organizzativa, in pratica la fondazione di una rivista che potesse esserne l’organo consapevole: quando nel 1917 Barbagallo (con Anzilotti, Guido Porzio e Rota) diede vita alla «Nuova rivista storica», la nuova pubblicazione non poté più avere quelle ambizioni egemoniche che sarebbero state legittime dieci anni prima per un’analoga iniziativa. Se non si trattò proprio di una «onorevole ritirata» (Artifoni 1990, p. 47), certo il suo disegno ebbe un carattere eminentemente difensivo.
Un altro elemento di dissoluzione fu – tra guerra e dopoguerra – il già ricordato passaggio di molti di codesti storici a una storiografia più propriamente politica e contemporaneistica. Fra lo spostamento cronologico e il mutamento di approccio storiografico esisteva un nesso: non si trattava più di osservare dall’alto – sulla base di infinite serie di contratti medievali o di cartulari di conventi e cattedrali – una vita anonima che brulicava nel sottosuolo della storia. Rinasceva, come avrebbe scritto Volpe nel 1925,
il gusto per la storia cosiddetta politica, cioè delle guerre, delle trattative diplomatiche, dell’azione dei Governi ecc., e quindi degli individui singoli e gruppi dirigenti che sono, in ultima istanza, gli artefici della politica, essendo questa sintesi, intuito, creazione (Momenti di storia italiana, 1925, p. 244).
Certo, la storia politica sarebbe stata guardata con occhi diversi da quelli degli storici ottocenteschi, e quindi
con occhi che hanno per vent’anni fatto l’abitudine a guardare attentamente i fatti sociali, i rapporti della vita economica, il blocco anonimo delle forze grossolane che stanno al fondo dell’edificio politico (p. 244).
Si è molto discusso se questo passaggio abbia comportato anche un completo revirement di pensiero e di stile storiografico: se cioè quegli storici abbiano superato del tutto il loro orizzonte tardo-positivistico. In genere no, ma alcune eccezioni si incontrano.
Si pensi alla parabola di Anzilotti, che si era laureato nel 1908 a Firenze con Cipolla, ma era idealmente un discepolo entusiasta di Salvemini e Volpe: nel periodo precedente la guerra, egli aveva condotto ricerche importanti sulla storia costituzionale fiorentina del Cinquecento e poi sulla società toscana del Settecento. Sostenitore entusiasta della «storiografia realistica» (cioè dell’indirizzo economico-giuridico), già nel 1911 confessava tuttavia di avvertire una diffidenza crescente verso un approccio basato su «verità, che han preso sistema, immobilizzate ed isolate» e che quindi rischiano di nascondere la «complessità misteriosa» della realtà (Le nuove esigenze dell’analisi storica, «La cultura contemporanea», luglio-agosto 1911, poi in Movimenti e contrasti per l’Unità italiana, 1930, 19642, pp. 343-45); e nella critica coinvolgeva anche il materialismo storico. Anzilotti venne gradualmente superando ogni ‘oggettivismo storico’: l’obiettività della ricerca non era più garantita dall’adesione alle regole del metodo o dal ricondurre i fenomeni storici al loro substrato economico, ma da un’operazione epistemologica in cui la soggettività del ricercatore acquistava un ruolo preminente. Fu in questo trapasso che maturò il suo rapporto con Croce e più tardi con Gentile, la cui influenza è avvertibile soprattutto nella vasta ricerca Gioberti, pubblicata nel 1922 (Pertici 2012).
Fu l’affacciarsi dello storicismo idealistico anche nel campo della storia sociale e politica che sanzionò la crisi definitiva dell’indirizzo ‘economico-giuridico’. Nella prima serie de «La critica» (1903-1914), la nuova filosofia aveva affrontato principalmente la storia della letteratura (Croce) e quella della filosofia (Gentile). Negli stessi anni era nato in Italia un interesse nuovo per la storia religiosa, in particolare quella delle origini cristiane, che per tutto il secolo precedente aveva avuto un grandioso sviluppo in Germania, Gran Bretagna e Francia, senza mai veramente attecchire nel contesto italiano: a essa diede un notevole impulso la breve comparsa del modernismo, con l’indirizzo storico-esegetico che ne era una delle componenti. Il prete modernista Buonaiuti ne fu sulle prime il principale esponente, ma la reazione antimodernistica e il soffocamento degli studi storici in ambito ecclesiastico ne provocarono una ‘laicizzazione’, soprattutto per opera di due giovani studiosi: Salvatorelli, formatosi all’Università di Roma, dunque in un ambiente dov’era ancora forte la tradizione del ‘metodo storico’, e Omodeo, allievo a Palermo di Gentile e profondamente segnato dal nascente attualismo.
Normalista per un anno (1908-1909), Omodeo aveva lasciato polemicamente quella scuola, insofferente del rigido metodo storico-erudito che ancora vi regnava: mosso dall’interesse per la Riforma cinquecentesca e per la Controriforma cattolica (il «gesuitesimo», come lo chiamava), avvertì l’esigenza di approfondire la concezione paolina della grazia. Per farlo adeguatamente, procedette a ritroso fino alle origini del cristianesimo: nessun maestro del metodo storico gli avrebbe consentito di affrontare, a poco più di vent’anni, quell’immenso problema. Glielo permise invece Gentile, che poi patrocinò anche la stampa della sua tesi, Gesù e le origini del Cristianesimo (1913), accompagnata da accese discussioni. Questo formarsi di una tradizione di studi religiosi risentì del clima culturale determinato dalla reazione antipositivistica e dall’attenzione viva al fatto religioso che ne derivò.
Per tutto il periodo precedente la guerra, Croce aveva considerato la migliore storiografia ‘economico-giuridica’ come un’alleata naturale nella polemica contro l’establishment della ‘scuola storica’, rispetto alla quale costituiva, a suo modo di vedere, un grande progresso. Aprì «La critica» a Volpe, che vi pubblicò molte delle importanti recensioni appena ricordate, e nel 1908 avrebbe voluto coinvolgere anche Salvemini, ospitandone una storia politica d’Italia nel 19° secolo. Non si nascondeva la distanza ‘filosofica’ che separava questi due autori da lui, ma sperava che essi finissero per risentire positivamente del clima nuovo creato dallo storicismo idealistico e che portassero così a compimento una revisione dei loro presupposti metodologici, che del resto avevano già avviato.
Fin dall’inizio della sua ricerca filosofica, Croce aveva riflettuto sul problema della storia e della storiografia e del loro rapporto (per lui inevitabile) con la filosofia, negando quanto sostenuto ripetutamente da Villari: che cioè, nell’impossibilità di dare una risposta ai problemi fondamentali dell’uomo, ci si dovesse limitare a farne la storia. Per Croce non era possibile fare storia di alcunché, se già non si fossero definite e chiarite le categorie del pensare e dell’agire umano: una storia senza questo sfondo categoriale, una storia puramente erudita, gli sembrava un esercizio sterile e poco interessante.
Dai suoi studi hegeliani compiuti attorno al 1905, aveva poi ricavato il concetto di «svolgimento», che superava ogni concezione dualistica del corso storico. Il progresso storico, affermava, non deve essere inteso «come passaggio dal male al bene […], ma come passaggio dal bene al meglio, in cui il male è il bene stesso, visto alla luce del meglio» (Teoria e storia della storiografia, 1917, 197611, p. 75). La storiografia dovrà dunque evitare di pronunziare sentenze negative in chiave moralistica su fatti e personaggi, e dovrà elaborare solo giudizi positivi, tesi cioè a ricercare e definire «a quale ufficio abbia adempiuto nello svolgimento» quel personaggio, quel fatto: sarà «giustificatrice», non «giustiziera» (p. 79). Per Croce insomma, il corso storico esprime sempre tutte le sue potenzialità: non può esserne concepito un altro, magari migliore di quello che si è avuto. Anche di quello che appare più negativo bisogna esser capaci di individuare la funzione che ha svolto, e gli individui devono esser valutati unicamente per il contributo che vi hanno arrecato.
Intorno al 1912 Croce aveva cominciato a pensare più da vicino ai problemi connessi con l’attività storiografica, e nel febbraio di quell’anno annunziò a Prezzolini la sua intenzione di dedicarsi in un prossimo futuro «a battagliare nel campo della nostra storiografia paesana, per produrvi un movimento simile a quello che si è avuto nella critica letteraria» (B. Croce, G. Prezzolini, Carteggio, a cura di E. Giammattei, 1990, p. 358). Nelle memorie poi confluite in Teoria e storia della storiografia (1917), e soprattutto nella prima, Storia, cronaca e false storie (presentata all’Accademia pontaniana nel novembre del 1912), si propose il problema del fondamento della conoscenza storica allo scopo di riaffermarne la certezza e l’utilità. L’ipercritica, a cui la storiografia del metodo storico è talora pervenuta (si pensi all’esperienza di Pais), è invincibile, se si rimane all’interno di una ‘storia filologica’, perché le cosiddette prove documentarie, cui essa si appella, hanno inevitabilmente carattere malsicuro e difficilmente reggono a una critica acuminata. Per vincerla, bisogna compiere una ‘rivoluzione copernicana’: il centro della ricerca storica va riportato dalle cose (documenti, testimonianze) al soggetto che indaga. Allora avremo una nuova certezza: che non sarà la somma degli accertamenti compiuti su documenti e testimonianze, ma una certezza (per così dire) sintetica, propria di uno studioso che sa di non poter sapere tutto della storia, ma che si impegna a risolvere un problema specifico, interagendo con le testimonianze che in quel momento ha a disposizione.
Dunque critica della storiografia filologica, del moralismo e del pirronismo storico. Negli anni di guerra, Croce pubblicò i saggi poi raccolti nella grande Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono (1921), in cui elaborava i grandi quadri interpretativi della storia culturale e civile dell’Ottocento italiano. Sottolineava la crisi della storiografia filologica, la funzione svolta dalla scuola economico-giuridica, ma lasciava anche filtrare insoddisfazione per il suo sfondo teorico e l’esigenza di operarne prima o poi un superamento. Furono la pratica storiografica (la stesura della Storia del Regno di Napoli, poi pubblicata nel 1925) e la rinnovata riflessione filosofico-politica a cui fu indotto anche dagli eventi del dopoguerra, a determinare il chiarimento definitivo con ciò che restava di quell’indirizzo e quindi la rottura di quel fronte storiografico che, pur con la sua eterogeneità e le sue polemiche interne, si era formato circa vent’anni prima.
In un saggio comparso nel 1924 su «La critica», ma scritto l’anno precedente (Storia economico-politica e storia etico-politica, poi in Etica e politica, 1931, 19432, pp. 273-83), Croce cercò di definire la sua proposta, la «storia etico-politica», contrapposta a quella «economico-politica»: la sua polemica non era rivolta contro la storia economica o giuridica o sociale come tali, ma solo in quanto si atteggiassero a «storie integrali» (p. 279). A tale titolo poteva ambire solo una storiografia che facesse propria la polemica che la histoire de la civilisation settecentesca aveva condotto, in nome di «una storia civile dei popoli», contro una «storia meramente militare e diplomatica, tutta racconti di guerre e negoziati» (p. 277); ma anche che riprendesse il momento ‘politico’ che era stato al centro della Staatsgeschichte tedesca dell’Ottocento, superandone tuttavia l’ottica statocentrica. Tale momento, infatti, si mostra non solo nello Stato, nel governo dello Stato e nell’espansione dello Stato, ma anche nell’anti-Stato, negli istituti religiosi e nelle sette rivoluzionarie che lottano per modificarlo, nei sentimenti e nei costumi, nelle fantasie e nei miti di tendenze e contenuto pratico. Non sono quindi i re o i capi di Stato al centro di questa storia, e nemmeno le vaste forze impersonali (le classi, le masse, le razze ecc.), ma le classi dirigenti e i loro disegni e strumenti di egemonia.
Presupposto di tale concezione era infatti la teoria della classe politica elaborata da Gaetano Mosca ed esplicitamente accettata da Croce nel 1923; ma alla «formula politica» di Mosca, che conservava qualcosa di machiavellico o di pragmatistico (un mito creato consapevolmente per dare una giustificazione ideologica al proprio potere o alla propria aspirazione al potere), egli sostituiva il concetto di «cultura» o «vita religiosa» o «ideale», cioè «ogni sistema mentale, ogni concezione della realtà» che abbia la forza di «tramutarsi in fede, diventare base di azione e lume di vita morale» (p. 283), di incidere nella realtà. Le storie specialistiche (quelle dell’economia, degli istituti giuridici, degli eventi militari e così via) continuavano ad avere una loro legittimità e una specifica ragion d’essere: tuttavia i ‘fatti’ e i processi di cui esse si occupavano venivano presi in considerazione non nella loro separatezza, ma solo e in quanto erano oggetto di attenzione o di elaborazione da parte delle élites politiche (nel senso appena visto), insomma costituivano un problema per la loro coscienza e una base della loro azione. Questo ideale di storiografia Croce cercò di realizzarlo nella già ricordata Storia del Regno di Napoli e in quelle dell’Italia dal 1871 al 1915 (1928), dell’età barocca (1929) e dell’Europa ottocentesca (1932).
In questa parte propositiva era implicito anche un risvolto polemico contro i residui della storia economico-giuridica, che Croce esplicitò negli anni successivi contro lo stesso Volpe, da cui lo divideva ormai anche una diversa collocazione politica, essendosi questi, fin dal novembre del 1920, avvicinato progressivamente al fascismo e poi attivamente inserito nel nascente regime.
La resa dei conti ebbe luogo nella lunga rassegna del 1929 Intorno alle condizioni presenti della storiografia in Italia («La critica», poi in Storia della storiografia italiana…, cit., 19644, 2° vol., pp. 165-260), in cui Croce negò che si fosse realizzata l’intenzione enunciata da Volpe fin dal 1923, quella di dar vita a
una storia che non sia ‘economica’ o ‘giuridica’ […] o altro del genere, ma ‘storia’ senza epiteti, tutta sonante degli echi della vita e capace di risolvere in sé le particolari storie del diritto, dell’economia, del pensiero, della politica ecc. (G. Volpe, Prefazione a Medio Evo italiano, 1923, 19282, pp. XI-XII).
Croce negò anche che Volpe si fosse innalzato dal naturalismo che permeava la prima fase della sua attività: la ‘politica’ a cui era arrivato restava pressoché esclusivamente il momento della forza e del confronto delle forze. Esempio perspicuo, quello che allora era il più recente libro di Volpe, L’Italia in cammino (1927), il primo risultato complessivo del suo passaggio alla storia politica contemporanea, in cui egli aveva ricostruito il molecolare progresso compiuto dalla nazione italiana fra la fine del Risorgimento e la guerra mondiale: cammino percorso per meriti propri, per energie latenti e poi sempre più nettamente operanti, ma senza la guida di una classe politica, rimasta invece per decenni singolarmente sorda alle esigenze espansive del Paese. Ebbene, a giudizio di Croce, che intanto aveva disegnato una storia dello stesso periodo in cui i meriti della classe dirigente dell’Italia liberale erano invece stati puntigliosamente rivendicati, l’Italia di Volpe «non pensa, non sogna, non medita, non si critica, non soffre né gioisce: cammina» (Intorno alle condizioni…, cit., p. 239).
Era un giudizio che, se coglieva tratti indubbi dello stile storiografico volpiano, finiva per ignorare i meriti e le novità del libro. Volpe, per parte sua, percepì le osservazioni di Croce come un problema reale, e ne discusse sin quasi alla vigilia della morte: lo stesso rifacimento e ampliamento del libro del 1927, che sfociò in Italia moderna (3 voll., 1943-1952), ne fu, almeno in parte, sollecitato. Tuttavia, la ‘politica’ che egli aveva riscoperto trovava la sua espressione pressoché unica nello Stato e nei rapporti fra gli Stati, e la storiografia che cercò di promuovere per tutti gli anni Trenta fu principalmente, se non esclusivamente, storia delle relazioni internazionali. In questo senso, restando a capo fino al 1943 di importanti istituzioni culturali, Volpe cercò di sviluppare un ampio programma di studi, in cui fu coinvolta buona parte della nuova generazione di storici. Nella rassegna del 1929, in cui con compiacimento aveva descritto la decadenza o la dissoluzione degli altri indirizzi storiografici e l’affermarsi di quello etico-politico, Croce aveva individuato nei componenti di quest’ultimo i più promettenti esponenti di una ‘nuova storiografia’.
Può sembrare singolare che, anche dopo la loro insanabile rottura, Croce e Volpe guardassero con attenzione a questa nuova generazione di storici, e che molti dei suoi esponenti, certamente in modi e gradi diversi, abbiano mostrato quasi una ‘doppia fedeltà’ verso entrambi. L’aforisma secondo il quale Croce dava loro il pane spirituale e Gentile e Volpe quello materiale, ricorrente già allora nelle conversazioni e poi più volte ripetuto, può spiegare solo in parte questa situazione: è piuttosto da dire come essi non avvertissero, nel pratico lavoro storiografico, un insanabile contrasto fra gli insegnamenti di quei maestri. Partecipavano tutti, chi più e chi meno, al generale clima idealistico che permeava allora la cultura italiana, ma forse nessuno di loro ebbe una vena genuinamente speculativa e s’impegnò ad approfondire in maniera personale e originale i problemi dello storicismo: il loro fu un crocianesimo, per così dire, ‘empirico’, che isolò e sviluppò alcuni temi a preferenza di altri.
Essi ritennero, così, un’acquisizione fondamentale la critica dell’interpretazione deterministica e materialistica della storia e di ogni ‘riduzionismo’, e furono perciò guardinghi anche verso un approccio esclusivamente ‘geopolitico’. Il passaggio dalla ‘classe sociale’ alla ‘classe politica’ sembrò loro un progresso ermeneutico di grande portata, e Mosca fu uno dei loro autori. La sua «formula politica» (o il mito soreliano) subì però nel loro lavoro – e qui accolsero la lezione di Croce e di Gentile – una profonda trasformazione: perdendo ogni tratto artificioso, fu interpretata come l’insieme di idee, di passioni, di miti che unisce élites dirigenti e classi dirette. Anzi, la funzione dirigente delle prime si manifesta proprio nella capacità di elaborare tali idee e farle diventare patrimonio comune e ‘motore di storia’.
Diffidenti dei tratti provvidenzialistici dello storicismo crociano, ebbero tuttavia una visione della storia come svolgimento e, se si vuole, come ‘progresso’, e un gusto per i grandi quadri di storia epocale. S’impegnarono in un’opera di delucidazione dei corrispondenti concetti storiografici (ellenismo, cristianesimo primitivo, Medioevo, Rinascimento, Riforma, Controriforma, Illuminismo, Risorgimento ecc.), ne percorsero la storia e cercarono di misurarne la funzione attuale, ma non vi rinunziarono, quasi fornissero la cornice essenziale per la contestualizzazione e quindi la comprensione dei fatti storici. Da questo senso dello svolgimento storico nacque anche un interesse eminente per le ‘origini’: si pensi – per fare un esempio – al problema, con cui tanti si confrontarono, del Rinascimento come momento sorgivo dello ‘spirito moderno’, dove ‘moderno’ aveva non solo un significato cronologico, ma assiologico.
Dopo la Seconda guerra mondiale, riconsiderando quella cultura storica, si è parlato talora di un suo ‘provincialismo’: se si vuol intendere che non ebbe il polso della storiografia europea, si fa un’osservazione priva di fondamento, perché essa invece intrecciò con questa un confronto aperto, nella convinzione tuttavia di aver qualcosa di proprio da dire e di rappresentare una nota peculiare nel contesto europeo. Certo, questo dialogo fu più vivo con certi ambienti (per es., con quello tedesco, variamente storicistico) piuttosto che con altri (per es., quello francese della nascente ‘storia sociale’), e spesso sono proprio coloro che hanno poi individuato nella storia sociale l’esperienza fondamentale della storiografia europea del secolo scorso ad avvertire una ‘chiusura’ negli storici italiani di quegli anni: ma si tratta, evidentemente, di una posizione polemica espressa all’interno di una battaglia culturale, più che di una valutazione critica. Se poi per provincialismo si vuole indicare un’attenzione precipua, anche se non esclusiva, alla storia italiana, l’osservazione ha basi più solide, ma dev’essere formulata altrimenti: questa generazione di storici sentì ancora, in continuità con quelle precedenti e a differenza di quella successiva, il problema storico della ‘nazione italiana’, delle sue origini e delle fasi della sua storia; percepì come essenziali in questa storia la formazione dello Stato nazionale (e quindi le vicende che lo determinarono) e il tema dei rapporti fra la realtà italiana, il contesto europeo e le altre entità nazionali più antiche.
Walter Maturi scrisse che l’ideale dello storico secondo lo storicismo idealistico era stato quello dello «storico-filosofo-filologo-educatore-combattente politico» (Omodeo storico del secolo XIX, «Rassegna d’Italia», agosto 1946, poi in Storia e storiografia, a cura di M.L. Salvadori, N. Tranfaglia, 2004, p. 233): se così è, forse nessuno degli storici della ‘nuova storiografia’ vi si adeguò. Se sul piano filologico essa non segnò un arretramento rispetto al ‘metodo’ affermatosi nelle università italiane nel secolo precedente, ebbe invece – rispetto al momento filosofico – un forte senso dell’autonomia e della specificità della ricerca storica: temette gli eccessi di concettualizzazione a spese dell’indagine specifica, la discussione limitata ai presupposti metodologici piuttosto che incentrata sui risultati della ricerca o l’astrazione generalizzante e, magari a scopi elevati, edificante.
Con queste caratteristiche, s’intende meglio il loro riferirsi a maestri sostanzialmente diversi, a Croce come a Volpe, ma anche a Salvemini come a Gentile, a Mosca come a Vilfredo Pareto, per accennare solo agli italiani: senza pretese di un impossibile sincretismo di principi, essi cercarono di trarre dai loro insegnamenti tutta una serie di suggestioni sostanzialmente omogenee, tendendo programmaticamente a una sorta di storia ‘totale’, fondamentalmente politica, ma attenta alla vicende economico-sociali come a quelle della cultura, alla storia delle istituzioni e a quella delle relazioni internazionali. Che, al di là degli enunciati, questa sintesi non sempre sia riuscita e che questi storici abbiano spesso sviluppato la loro ricerca in certe direzioni invece che in altre, è stato più volte e giustamente sottolineato: in particolare, per i temi e i problemi della storia economico-sociale, rispetto ai quali essi mostrarono un interesse limitato e che quasi delegarono agli specialisti. Più consoni alla loro forma mentis e all’insegnamento di alcuni dei loro maestri (Croce, Gentile, Friedrich Meinecke) furono altri studi, nei quali invece raggiunsero risultati innovativi e importanti: in particolare quelli di storia del pensiero politico e quelli di storia della storiografia, non più ridotta a mera Quellenkunde o a biografia ‘esterna’ degli storici, ma tendente all’individuazione del loro pensiero storico come aspetto costitutivo della loro visione del mondo e documento della cultura del loro tempo.
Questa generazione espresse un nuova figura di storico: non più – come nel primo quarto del secolo – l’intellettuale che partecipa alla mobilitazione e al dibattito storico-politico, ma lo studioso inserito in una complessa organizzazione della cultura: quella costruita con innegabile efficacia dallo Stato fascista. Non se ne può ancora parlare per gli anni Venti, ma già allora la nascita delle prime facoltà di Scienze politiche (Roma, 1925; Pavia, 1926; Perugia, 1927) non solo aprì nuove possibilità accademiche per gli storici italiani, ma li spinse a una storiografia più attenta alla nascita e allo sviluppo dello Stato moderno, alla politica estera, alla natura e al ruolo dei partiti, all’analisi delle dottrine politiche. Fra il 1934 e il 1936, l’antico Istituto storico italiano venne smembrato in quattro distinti Istituti: per il Medioevo (presidente Pietro Fedele), per l’età moderna e contemporanea (presidente Francesco Ercole), per la storia del Risorgimento (presidente il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi) e infine per la storia antica (presidente Pietro De Francisci). Il loro funzionamento venne coordinato e diretto da una Giunta centrale per gli studi storici creata nel 1934, alla cui presidenza venne posto De Vecchi.
A questi istituti statali può essere accostato anche l’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI), un’istituzione privata fondata nel 1934 per volontà di un gruppo di studiosi delle università di Milano e di Pavia e diretta dal 1935 dall’industriale Alberto Pirelli, il quale garantì all’Istituto notevoli risorse economiche. Anche nel caso di Pirelli, come in quello di Ercole, De Francisci e Fedele, ma anche in quelli di Volpe e Gentile, siamo di fronte a personaggi eminenti della cultura o dell’economia prefasciste ralliés al fascismo. Se il loro impegno inserì in quelle nuove istituzioni buona parte dei loro circuiti accademici, al tempo stesso impedì che esse fossero esposte tout court all’occupazione fascista, consentendo la sopravvivenza, ambigua ed equivoca quanto si vuole (ma l’ambiguità era in re ipsa), di un certo eclettismo di fondo (Baioni 2006, p. 42).
Nel 1923 era stata istituita presso l’Istituto storico italiano la Scuola storica nazionale, con il compito di curare la pubblicazione di fonti medievali. Nel 1925 le si affiancò una Scuola di storia moderna e contemporanea diretta da Volpe, che nel 1936 assunse la direzione anche della «Rivista storica italiana», trasferita da Torino a Roma e diventata una pubblicazione della Giunta. Nella Scuola si entrava con un ‘comando’ triennale (gli alunni erano spesso scelti fra i docenti di ruolo nei licei). La prima terna fu composta da Nello Rosselli, Carlo Capasso, Ersilio Michel (1927-1930): seguirono Federico Chabod, Walter Maturi, Carlo Morandi (1930-1933), Franco Borlandi, Aldo Romano e Ruggero Moscati (1934-1937), Giorgio Candeloro (1935-1937), Francesco Cataluccio, Federico Curato, Carlo Zaghi (1937-1940), Ettore Passerin d’Entrèves, Tullio Vecchietti, Luigi Bulferetti (1940-1943). La maggior parte degli alunni fu avviata allo studio dei rapporti diplomatici degli antichi Stati italiani (fra loro e con i principali governi europei), per il quale svolsero vastissime ricerche in archivi italiani ed esteri.
Fra il 1935 e il 1936, grazie a un’iniziativa dell’ISPI prontamente fatta propria da Volpe, prese avvio un grande progetto editoriale: una storia della politica estera italiana dall’Unità alla Grande guerra, basata sulla documentazione (allora ancora inedita) dell’archivio del ministero degli Esteri; gli autori dovevano essere Maturi (per il periodo 1861-1870), Chabod (1870-1896), Morandi (1896-1908) e Torre (1908-1914). Ma di quel vasto progetto, l’unico a veder la luce fu, nel 1951, il volume chabodiano delle Premesse.
L’altro circuito politico-accademico-editoriale in cui molti storici furono coinvolti fu quello di cui era dominus Gentile, e che era composto dall’Istituto della Enciclopedia Italiana (la cui imponente macchina cominciò a muoversi nel 1925), dall’Istituto nazionale fascista di cultura (fondato nello stesso anno, e di cui Gentile fu presidente fino al 1936), dalla Normale (di cui Gentile divenne commissario nel 1928 e direttore nel 1932) e dalla casa editrice Sansoni. Si è molto discusso se il coinvolgimento in questa complessa organizzazione culturale abbia significato anche un’adesione ideologica alla politica del regime, e quanto quest’ultimo abbia condizionato il lavoro ‘scientifico’ degli storici. Non è facile dare una risposta univoca, perché l’analisi dei vari percorsi individuali mostra situazioni molto diverse. Il contatto con quelle istituzioni fu in qualche modo inevitabile per tutti quei giovani studiosi (furono la stragrande maggioranza) che – nell’Italia degli anni Trenta – non si fecero né fuoriusciti né ‘esuli in patria’. Questo ovviamente implicava l’accettazione di una serie di condizionamenti nella scelta dei temi di ricerca e nella loro trattazione. Alcuni espressero anche un’adesione ideologica attiva al fascismo, che si manifestò in una pubblicistica più nettamente politica, altri optarono per un maggior riserbo ‘scientifico’, senza tuttavia opporre un rifiuto a collaborazioni di cui non poteva non essere evidente il significato (si pensi al coinvolgimento di Cantimori, Chabod, Maturi, Morandi, Jemolo e Morghen nel Dizionario di politica pubblicato dal Partito nazionale fascista nel 1940).
Il fatto è che a tutta questa generazione erano comuni alcuni presupposti taciti, il primo dei quali era il primato della politica estera: era per loro naturale che l’Italia aspirasse a un ruolo di grande potenza, che a questo dovesse adeguare la propria politica internazionale e che il valore di un governo si misurasse soprattutto su questo piano. La politica estera fascista non era da loro giudicata come la politica di uno Stato totalitario, ma quale la logica, necessaria prosecuzione della politica estera dell’Italia unita (Zunino 2002, p. 123). Anche i più sobri non nascosero, nel 1935-36, il loro consenso alla svolta ‘imperiale’ del regime. Solo dopo di allora qualcosa cominciò a cambiare: non si trattava più di prestare un consenso incondizionato ma, dopo tutto, generico. Ora, in un contesto di intesa crescente fra fascismo e nazismo,
si doveva sottoscrivere un disegno politico il quale, anche ideologicamente, cominciava ad acquistare contorni definiti, arricchendosi di contenuti nuovi. Questi contenuti furono nell’ordine: l’imperialismo, l’autarchia, la razza (Vivarelli 2008, p. 135).
Di fronte a questa svolta, i margini cominciarono a ridursi, e si vennero imponendo delle scelte più risolute. Ma anche allora i percorsi ebbero ritmi diversificati: ci fu chi alla fine degli anni Trenta già si orientò verso il comunismo, chi aderì al liberalsocialismo, ma anche chi accettò la ‘guerra parallela’ allo scopo di liberare il Mediterraneo dall’egemonia franco-britannica, e chi rimase affascinato dalla tematica del ‘nuovo ordine europeo’. La sconfitta militare e la fine del regime imposero un ripensamento insieme politico e storiografico, che in molti casi ebbe risvolti drammatici e che perciò non può essere giudicato (come talora si è fatto) come un mero adeguamento conformistico alla nuova situazione postbellica.
Fu essenzialmente nei settori della storia moderna o del Risorgimento che s’impegnò maggiormente la ‘nuova storiografia’, e, almeno fino al tornante della Seconda guerra mondiale, fu ‘modernista’ il suo principale esponente, il valdostano Chabod, allievo a Torino di Pietro Egidi, perfezionatosi a Firenze con Salvemini e a Berlino con Meinecke. Già i suoi primi lavori mostrano un felice intreccio di interessi per la storia politico-istituzionale e per quella delle idee, che gli consentì una connessione assai stretta fra gli studi sul pensiero politico di Machiavelli, pubblicati fra il 1924 e il 1927, e l’indagine iniziale sull’età delle Signorie. Tale convergenza si arricchì e si ampliò in quello che costituisce il risultato più maturo del primo ventennio della sua attività, il libro Lo Stato di Milano nell’impero di Carlo V (1934), in cui la ricerca si svolge su più piani: la posizione occupata dal Milanese nell’impero di Carlo V, le concezioni universalistiche dell’imperatore, il loro contrasto con le nascenti realtà nazionali o comunque con i divergenti interessi delle varie parti del grande corpo imperiale, di cui quindi si sottolinea l’intima fragilità. Ritorna nell’analisi di Chabod il classico tema della ‘decadenza italiana’, ma la sua attenzione si rivolge anche al nuovo che emerge: ai processi di formazione – anche nel ducato milanese – di strutture statali ‘moderne’, alla sempre più solida costituzione di un corpo burocratico di funzionari specializzati e stipendiati, e soprattutto alla consapevolezza di questa nuova situazione presente in alcuni suoi protagonisti (Moretti 1983).
Parallelamente a queste indagini, Chabod proseguì gli studi dedicati a pensatori politici, a partire dalla monografia Giovanni Botero (1934) e dalla riflessione sul concetto di Rinascimento e la sua storia, su cui intervenne ripetutamente fra il 1933 e il 1950. Si cimentò anche con la storia della vita religiosa in Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V (1938), in cui il suo gusto per i fatti concreti, dettagliati, individuali, non gli impedì ampi scorci sulla situazione italiana ed europea e sulle grandi questioni della Riforma e della Controriforma. In questa varia operosità, Chabod mostrò sempre una cultura storica di dimensione europea, in cui la presenza di Meinecke, Johan Huizinga, Max Weber, Ernst Troeltsch si fondeva con quella dei maestri italiani, Croce, Mosca, Volpe.
Analogo orizzonte europeo ebbe Morandi, allievo a Pavia di Anzilotti e Rota, e lo dimostrò giovanissimo nel saggio Problemi storici della Riforma («Civiltà moderna», 1929, pp. 668-80), che rese nota al pubblico italiano la celebre rassegna ‘programmatica’ di Lucien Febvre sulle origini e le cause della Riforma in Francia, tracciando nello stesso tempo il programma per un’analoga ricerca nel contesto italiano. Morandi fu studioso acuto e attento del Cinque e del Seicento, in particolare del pensiero politico e del problema della ‘ragion di Stato’, ma legò il suo nome essenzialmente allo studio del Sette e Ottocento, specialmente lombardo, come età formatrice dell’Italia contemporanea (aveva esordito nel 1925 con la tesi di laurea Idee e formazioni politiche in Lombardia dal 1748 al 1814, poi pubblicata nel 1927). A stretto contatto con Volpe, condusse vaste ricerche sulla storia delle relazioni internazionali, indagata acutamente anche in motivi nuovi, come il principio di equilibrio in Europa e la stessa idea dell’unità europea. Svolse anche una vivace attività di pubblicista e commentatore politico (di grande interesse è la sua assidua collaborazione a «Primato» di Giuseppe Bottai, dal 1940 al 1943) e, insieme a Chabod, diresse, nel poco più di un anno della sua esistenza, la rivista «Popoli» (1941-1942), l’iniziativa di divulgazione storica più notevole di quei decenni.
Risorgimentista tout court fu invece il napoletano Maturi (1902-1961), discepolo a Napoli di Michelangelo Schipa e a Roma di Gentile, ma che risentì anche della pietas verso l’antico mondo borbonico diffusa nell’ambiente del vecchio Giustino Fortunato e soprattutto del magistero di Croce, al quale fu certamente più vicino per ispirazione ideale, ma anche per sentimenti politici, dei suoi amici Chabod e Morandi. La sua tesi di laurea del 1925, Il concordato del 1818 tra la Santa Sede e le Due Sicilie (poi rielaborata e pubblicata nel 1929), intendeva mostrare come a Napoli la Restaurazione, almeno fino al 1820, non avesse rinunziato a quella costruzione di uno Stato moderno che era stata intrapresa dal dispotismo napoleonico. Il nuovo regno borbonico aveva finito così per suscitare l’opposizione delle due minoranze attive presenti nel Paese, quella dei reazionari, che puntavano a ottenere di nuovo gli antichi privilegi, e quella dei liberali, che aspiravano alle moderne libertà politiche. Maturi presentava, dunque, una Restaurazione italiana antiliberale, ma anche antireazionaria, estranea alle opposte élites che si muovevano nella società: da qui anche la sua intima debolezza etico-politica e la sua precarietà.
In piena guerra uscì quello che resta il suo capolavoro, il libro Il principe di Canosa (1944), che non solo è un’accuratissima indagine su cultura, mentalità e costumi del mondo degli ultras italiani fra Rivoluzione e Restaurazione, ma anche uno dei primi testi in cui si affronta il problema dell’emergere in Italia di un movimento cattolico, inteso come insieme di organizzazioni laicali, stampa periodica, iniziative politiche e così via.
Dal 1930 al 1932, Maturi fu anche redattore per la storia moderna e contemporanea dell’Enciclopedia Italiana, per la quale scrisse (fino al 1938 e poi nel 1948-49) più di cento voci. La più significativa è Risorgimento (29° vol., 1936, pp. 434-39), molto criticata dagli ambienti della storiografia sabaudistico-nazionalistica sostenuta da De Vecchi, dal 1935 ministro dell’Educazione nazionale: per intervento del ministro, nel 1936 Maturi fu allontanato dalla segreteria dell’Istituto storico per l’età moderna e contemporanea e dalla direzione della Biblioteca di storia moderna e contemporanea, assunte alla scadenza del suo alunnato, nelle quali fu reintegrato solo nel 1937, dopo l’allontanamento di De Vecchi. Per molti aspetti, quella ‘voce’ aveva un’intonazione nettamente gentiliana, e l’infortunio di Maturi dev’essere sostanzialmente letto come un episodio della politica di De Vecchi tesa a ridimensionare il ruolo di Volpe e di Gentile nella cultura del regime (Pertici 2009a).
Negli anni Trenta, infatti, sulla storia del Risorgimento si fronteggiarono diverse concezioni storiografiche, che rinviavano a contrapposte posizioni politiche e a divergenti interpretazioni della storia d’Italia nel suo complesso: il Risorgimento era stato un fatto essenzialmente di libertà o principalmente di nazionalità e di potenza? Qual era il suo rapporto con la successiva storia d’Italia, in particolare con il movimento e il regime fascista? Era lecito richiamarsi ancora alla tradizione risorgimentale nell’Italia postconcordataria? Di fronte a questi problemi le risposte furono articolate, talora assai diverse anche all’interno dei due fonti contrapposti, quello fascista e quello variamente antifascista.
Così la storiografia cattolico-gesuitica e neoborbonica, che esaltava il mondo dei vinti del 1859-61 e negava in blocco l’esperienza del successivo Regno d’Italia, venne contrastata dopo il 1929 non solo dagli storici ‘liberali’, ma anche dai seguaci di Volpe e di Gentile. Nell’interpretazione di questi ultimi, la formazione dello Stato unitario aveva costituito un grande processo politico-diplomatico-militare che aveva posto l’Europa di fronte al problema (ancora vivo nel Novecento) della nazione italiana e del suo processo espansivo; nel contempo aveva segnato anche l’affermarsi di un nuovo costume civile, che aveva posto fine alla ‘vecchia Italia’, scettica e frivola. Questo spirito nuovo, attraverso la mediazione della Destra storica, aveva trovato nel fascismo la sua realizzazione.
Ben diversa da queste era invece la lettura nazionalistico-sabaudistica, tutta incentrata sulla vocazione italiana di casa Savoia, dalla battaglia di Torino del 1706 a quella di Vittorio Veneto del 1918. Essa dichiaratamente svalutava la portata dell’età dei lumi in Italia, l’incidenza della Rivoluzione francese, il ruolo dell’azione settaria durante i primi decenni dell’Ottocento, e poneva la figura e l’opera di Carlo Alberto al centro del processo risorgimentale.
Analogamente frastagliata la storiografia antifascista: già prima dell’affermarsi del regime, nei saggi del giovane pubblicista Gobetti era emersa un’interpretazione ‘radicale’ del rapporto fra Risorgimento e fascismo, destinata poi, dopo il 1945, a grande e varia fortuna. Secondo questa interpretazione, il Risorgimento sarebbe stato l’opera di una minoranza che non era riuscita a imporre un cambiamento radicale nella società italiana e che quindi aveva finito per adattarsi a un compromesso con le vecchie forze politiche e con il dominante spirito guelfo. Essa aveva quindi dato vita a uno Stato solo esteriormente liberale: i governi del ‘cinquantennio liberale’ si erano infatti basati sullo statalismo economico, sull’ingigantimento della burocrazia, sull’uso clientelare delle risorse. Era in realtà l’antico spirito italiano, che continuava a smussare i conflitti e puntava perpetuamente al compromesso. Il fascismo era quindi stato lo sbocco inevitabile del cinquantennio liberale: anzi mostrava la vera essenza della nazione italiana, ne costituiva l’autobiografia.
Uno di coloro che combatterono con decisione sia il ‘revisionismo’ risorgimentale gobettiano sia ogni liquidazione di parte fascista della storia postunitaria, fu Omodeo, il quale dopo il 1925 era passato gradualmente dagli studi di storia delle origini cristiane a quelli di storia risorgimentale: contro entrambe le tendenze citate egli riaffermò la validità e la fecondità dell’opera compiuta dalla minoranza liberale che aveva guidato la rivoluzione nazionale, e indicò con grande chiarezza i danni sul piano civile insiti nel rifiuto di questo o quel momento della storia nazionale. A suo parere, se c’era stata una tradizione politica comune a tutta la collettività nazionale (non quindi la tradizione di una parte da imporre alle altre), era quella costituitasi e cresciuta all’interno dello Stato risorgimentale, il cui rifiuto rischiava di vanificare un’opera costruttiva di novant’anni.
Nella sua attività di quegli anni, il momento fieramente polemico fu strettamente intrecciato a quello ricostruttivo: contro il suo antico maestro Gentile, egli ridimensionò il ruolo svolto da Vincenzo Gioberti nel Risorgimento; in opposizione alla storiografia sabaudistica, smontò il mito di Carlo Alberto; per mostrare il nesso fra la cultura risorgimentale e l’Europa, e quindi contro ogni pretesa di ‘autoctonismo’, investigò la cultura francese dell’età della Restaurazione; esaminò, infine L’opera politica del conte di Cavour (1940), di cui sottolineò più il momento liberale che quello politico-nazionale. Che questa ‘diuturna polemica’, accanto al suo innegabile valore civile, mostri anche alcuni limiti storiografici, oggi appare evidente: ne è stata una conseguenza non positiva, nella storiografia del secondo dopoguerra, l’accantonamento del problema Gioberti e della questione carloalbertina (cioè di due problemi reali, non puramente ideologici).
Alla guida – come abbiamo visto – della «Stampa» di Torino sino alla fine del 1925, Salvatorelli si ritrovò disoccupato dopo la definitiva affermazione del fascismo. Anche per sopravvivere, si dedicò allora a un’intensissima attività di libero studioso, di pubblicista e di giornalista di cultura. Era distante dallo storicismo crociano e dall’attualismo gentiliano: legato alla tradizione culturale francese più che a quella germanica, illuministicamente ‘razionalista’ più che storicista, diffidava del giustificazionismo storico di matrice hegeliana. La sua narrazione era costruita con grande sobrietà e asciuttezza, ma talora risultava priva di drammaticità, troppo nitida (si potrebbe dire). Grande divulgatore di cultura storico-politica, non ebbe difficoltà a scrivere instant books come quelli (memorabili) sul cattolicesimo fra le due guerre (La politica della Santa Sede dopo la guerra, 1937; Pio XI e la sua eredità pontificale, 1939), o biografie (Vita di San Francesco d’Assisi, 1926; San Benedetto e l’Italia del suo tempo, 1929), che – pur nella loro ‘scientificità’ – risentono forse della historische Belletristik assai popolare fra le due guerre.
Nella cultura antifascista egli costituì quindi una nota non assimilabile al magistero crociano e alla cultura de «La critica»: ebbe sempre in pregio la storiografia di Ferrero e di Oriani e non condivise la tesi crociana che fosse possibile tracciare una storia unitaria d’Italia solo a partire dall’Unità, scrivendo appunto un vasto Sommario della storia d’Italia. Dai tempi preistorici ai nostri giorni (1938). Fedele giolittiano, già in un articolo comparso sul suo giornale il 27 luglio 1924 aveva definito il fascismo come «l’Antirisorgimento», negazione integrale dei valori e delle istituzioni affermatesi in Italia nel corso del processo unitario, e in questo trovò poi il consenso di Croce. Ma ne Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870 (1935) volle rivendicare l’importanza del vario pensiero illuministico e in generale della corrente sensistico-empiristica che sfociava in Cattaneo, piuttosto che rifarsi al romanticismo della Restaurazione. E fu più mazziniano-cattaneano che cavouriano, come si vede in Pensiero e azione del Risorgimento (1943), dove Mazzini era presentato come il vero artefice della nuova Italia.
I fermenti e le trasformazioni che percorrono la storiografia moderna e contemporanea fra le due guerre agirono, ma con minore ampiezza e profondità, anche nell’antichistica, dove si continuò un notevole lavoro di studio e di ricerca secondo il metodo critico mutuato dall’Altertumswissenschaft germanica della seconda metà dell’Ottocento. Come si è visto, i tentativi di Ciccotti, Ferrero e Barbagallo di dare vita a una storia intesa come ricostruzione organica, erano stati criticati come antifilologici ed emarginati dalla storiografia accademica, ma certe loro esigenze di sintesi rimasero vive e operarono sovente anche nei critici.
Fra questi emerge la figura di Gaetano De Sanctis, allievo a Roma di Beloch: a differenza del suo maestro, legato a un determinismo materialista con venature razzistiche, De Sanctis andò sviluppando gradualmente un personale approccio alla storia, diffidente verso ogni forma di materialismo (anche se tematiche razziali in qualche modo circolavano ancora nel suo pensiero), sempre legato alla ‘critica temperata’ delle fonti, ma aperto anche a suggestioni filosofico-religiose permeate dalla sua profonda fede cristiana e dalla coeva filosofia intuizionistica francese.
I primi due volumi (1907) della sua vasta Storia dei Romani furono elogiati da Croce, ma rimanevano all’interno della tradizione filologico-critica. Negli anni immediatamente precedenti la Grande guerra De Sanctis, soprattutto in lettere private, andò manifestando la sua crescente insoddisfazione per quella tradizione e un interesse vivo per le prime teorizzazioni crociane su storia e storiografia: se ne ebbe conferma nei due tomi del terzo volume (1916-1917), riguardanti l’età delle guerre puniche, e nel primo tomo del quarto volume (1923), dedicato alla nascita dell’imperialismo romano dopo la vittoria su Cartagine. In essi non solo la trattazione assumeva un andamento più compiutamente narrativo, ma si avvertiva una dialettica più viva fra le esperienze storiche coeve dell’Europa fra guerra e dopoguerra e la riflessione dell’autore su quelle vicende lontane: la vita si faceva insomma – come De Sanctis scrisse più volte – magistra historiae.
Si è discusso più volte se De Sanctis sia veramente uscito fuori da un’impostazione strettamente filologica del lavoro storico o se, quando cercò di farlo, i suoi parametri di giudizio ispirati a un alto moralismo cristiano risultino veramente adeguati: l’equilibrio fra questi elementi non facilmente componibili è probabilmente raggiunto nella Storia dei Greci (2 voll., 1939), attenta ai valori duraturi espressi dalla civiltà ellenica, impersonati nella figura di Socrate con cui il libro si conclude. Tutta la trattazione aveva anche un implicito valore politico: De Sanctis aveva perduto la cattedra nel 1931 per non aver voluto prestare il giuramento richiesto dal regime ai docenti universitari.
Furono semmai alcuni suoi giovani discepoli torinesi (De Sanctis fu professore a Torino dal 1900 al 1929) a partecipare alla cultura della ‘nuova storiografia’, con cui ebbero in comune esperienze e atteggiamenti culturali (lo storicismo crociano, il dialogo con la storiografia europea, l’interesse multidisciplinare) e di vita (gli ambienti dell’Enciclopedia Italiana e di altre istituzioni culturali).
Fra loro emerge la figura di Arnaldo Momigliano (nel 1939 costretto dalle leggi razziali a trasferirsi in Inghilterra), il quale partecipò all’intenso dibattito che divise la scuola desanctisiana nei primi anni Trenta intorno alla libertà greca e ai suoi rapporti con quella cristiana e quella dei moderni; e alla ‘positività’ (o meno) dell’unificazione macedone della Grecia e delle conquiste di Alessandro Magno con la conseguente ellenizzazione dell’Oriente. In questa discussione dalle evidenti implicazioni politiche, Momigliano tenne una posizione intermedia fra coloro che davano un giudizio sprezzante della libertà delle città greche, vedendovi un elemento di debolezza e di frammentazione (A. Ferrabino, La dissoluzione della libertà nella Grecia antica, 1929) e quanti istituivano un legame diretto fra la libertà greca e quella liberale moderna, tendendo quindi a vedere nell’opera di Filippo II di Macedonia prevalentemente l’elemento tirannico e prevaricatore (P. Treves, Demostene e la libertà greca, 1933). Sulla base di Benjamin Constant e di Croce, Momigliano sottolineò la differenza fra la libertà degli antichi e quella dei moderni e, rifacendosi a Droysen, l’elemento ‘provvidenziale’ insito nella conquista macedone dell’Oriente, destinata a superare il particolarismo greco in senso cosmopolitico, nello Stato sovranazionale di Alessandro, e a preparare così il campo alla predicazione cristiana (Filippo il Macedone. Saggio sulla storia greca del IV secolo a.C., 1934). Iniziarono allora quegli studi di storia della storiografia del mondo classico (memorabili quelli su Droysen del 1933 e sul concetto di ellenismo del 1935), che avrebbe portato avanti, con crescente autorità e risultati di grande rilievo, nel dopoguerra.
Pur essendo colpita da una ‘crisi di vocazioni’, la medievistica continuò fino al termine della Seconda guerra mondiale il suo intenso lavoro, sostanzialmente ancora fedele nei docenti e anche nella maggior parte delle nuove generazioni alla tradizione della storiografia filologico-erudita, intrecciata spesso a un’ispirazione cattolica.
Due grandi libri, pur nella loro innegabile complessità, riuscirono a superare l’ambito degli specialisti e ad avere echi più vasti, segnando quasi l’inizio e la conclusione di questo periodo. Uno è Il Medioevo (1927) di Volpe, tentativo di storia totale del mondo europeo dalla crisi del mondo romano a quella dell’Italia quattrocentesca, che segue il formarsi delle grandi istituzioni medievali partendo dai bisogni elementari che emergono dalla società e via via si organizzano e si differenziano.
L’altro è La santa romana repubblica (scritto nel 1937 ma pubblicato nel 1942) di Giorgio Falco (alias Giuseppe Fornaseri, come fu costretto a firmarsi per le leggi razziali), studioso formatosi in due cittadelle del metodo storico, Torino e Roma, ma poi gradualmente apertosi allo storicismo idealistico. Falco, che era stato autore nel 1933 di un importante libro, La polemica sul Medioevo, ricostruzione della nascita e dello sviluppo fino a tutto il Settecento di quel controverso concetto storiografico, in La santa romana repubblica si interrogava sulla funzione svolta da quel millennio nella storia umana, e la individuava nell’avere serbato e trasmesso l’eredità romana e cristiana al mondo moderno. La sua non era, quindi, una volontà di storia globale, come quella di Volpe, ma una narrazione fortemente selettiva, tutta costruita attorno a un problema a cui lo storico cercava di rispondere: un problema che, in quegli anni, non era unicamente di critica storica, ma rinviava alla minaccia che sovrastava i valori difesi e diffusi dalla cristianità medievale.
La ‘nuova storiografia’ non esaurisce il panorama storiografico fra le due guerre, al cui interno troviamo anche altre voci: ambiti, se si vuole, minoritari, in cui, tuttavia, fermentarono posizioni e temi importanti per lo svolgimento successivo della cultura storica italiana. Nel 1917 Barbagallo aveva fondato la «Nuova rivista storica», tra il 1930 e il 1938 diretta da Luzzatto: la rivista non fu mai un organo di scuola, e quindi fu aperta anche a studiosi di diversi orientamenti, ma per tutto questo periodo si caratterizzò soprattutto come luogo di incontro di un gruppo di storici, di diverse generazioni, per i quali la storia economico-sociale, interpretata secondo un materialismo storico a maglie assai larghe, serbava un interesse centrale, e che quindi guardavano con interesse alle contemporanee esperienze europee di quel tipo (Luzzatto ebbe contatti con Marc Bloch, collaborò alle «Annales» e vi introdusse anche Roberto S. Lopez, allievo di Caggese e suo). Spesso provenivano dal mondo del socialismo ‘riformista’ prefascista e ne conservavano le memorie e gli orizzonti culturali: ebbero nei confronti del regime un atteggiamento, se non di esplicita opposizione, sovente di riserbo. Inserito in questa cultura e legato anche da legami familiari e d’amicizia con gli ambienti della rivista fu Nello Rosselli, discepolo di Salvemini a Firenze, ma legatosi successivamente anche a Volpe, che nel libro Mazzini e Bakounine (1927) svolse un’opera pionieristica nella storia delle origini del movimento operaio italiano, e nel successivo Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932) rilesse una pagina importante del protosocialismo risorgimentale.
Un caso a parte è costituito infine da Cantimori, normalista dal 1924 al 1928 e allievo del gentiliano Giuseppe Saitta, formatosi dunque come studioso di filosofia, ma che operò un graduale passaggio dalla storia della filosofia a quella della ‘cultura’ e infine alla storia tout court (in cui, tuttavia, la dimensione culturale mantenne un ruolo centrale). Non fu mai, perciò, uno ‘storico puro’, come i coetanei Chabod, Morandi e Maturi, a differenza dei quali fu mosso sempre da un assillo speculativo a loro estraneo e da una passione politica che gli derivava da una domestica formazione mazziniana e si risolse poi nell’adesione al fascismo. Non ebbe nemmeno uno spiccato senso del proprio Fach accademico, ma vagò a lungo fra eterogenei interessi di filosofia politica e di storia della cultura, indagini sulla politica contemporanea e sulla vita religiosa del Cinquecento. Fu questo poi il campo in cui si concentrarono i suoi studi, in particolare su quegli italiani, partecipi della cultura dell’Umanesimo e dei suoi fermenti di riforma religiosa, che si staccarono nell’età della Riforma dalla Chiesa di Roma, senza tuttavia inserirsi in nessuna delle confessioni riformate, alle quali, anzi, furono spesso invisi quanto ai cattolici: il libro del 1939 Eretici italiani del Cinquecento fu per allora il frutto più importante di queste ricerche.
Fra il 1935 e il 1938 Cantimori, dopo una lunga e tortuosa crisi ideologico-politica, aderì al comunismo, dedicandosi con impegno a un approfondimento teorico del marxismo. Nel 1943 pubblicò Utopisti e riformatori italiani 1794-1847, una serie di ricerche su pensatori politici minori fra tardo Illuminismo, giacobinismo e mondo della Restaurazione, nei quali utopie religiose e radicalismo sociale si fondevano, costituendo quasi un prologo del successivo socialismo risorgimentale.
Volpe non aderì alla Repubblica sociale; ma nel 1944, dopo la liberazione di Roma, fu sospeso dall’insegnamento e nel 1945 collocato a riposo. Si può discutere del double standard che allora fu usato, per cui molti altri docenti, la cui militanza fascista era stata ben più ideologicamente caratterizzata, riuscirono invece a ‘farla franca’ e rientrarono nei ranghi. Ma l’epurazione di Volpe è sintomo del tramonto di un’epoca.
Si giocò allora, all’interno del mondo della cultura, italiana e non (ma qui conviene restare sul terreno italiano), una partita di straordinaria importanza, che ruotava intorno a un problema fondamentale: com’erano stati possibili la crisi dello Stato liberale e l’avvento del fascismo? A quali forze politiche, a quali culture attribuire le responsabilità più dirette? Chi ne era stato e ne era ora il nemico più conseguente e radicale? Quale la cultura, se così si può dire, più ‘antitetica’? Perché a essa – si affermava – sarebbe spettato il diritto di gestire il futuro. Una cultura come quella di Volpe, con la sua concezione della storia della nazione italiana, non aveva alcuna chance di acclimatarsi nel nuovo contesto, di trovare in esso reali interlocutori.
Lo slittamento di temi e il mutamento di approccio che la nuova situazione imponeva a quanti avessero occhi per percepirla è ben visibile nell’opera di Chabod, che di Volpe era stato stretto collaboratore durante il ventennio e che dopo il 1945 non si unì al ‘codardo oltraggio’ di molti. Le sue Premesse (1951) alla mai realizzata storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 erano nate all’interno di un progetto in cui si avvertiva fortemente l’impronta volpiana; ma in seguito, attraverso una lunga e drammatica gestazione, assunsero una inconfondibile individualità. In un primo momento Chabod si era posto (intorno al 1942) a ‘narrare’ per esteso le vicende sulla base del ricchissimo materiale raccolto, ma poi avvertì come indispensabile alla loro comprensione un’esplorazione appunto delle «premesse» di quell’agire diplomatico. E ciò perché rifiutava una malintesa ‘autonomia’ della politica estera, quale era concepita da chi riteneva che un Paese, per la sua posizione geografica o per le sue vicende storiche, avesse degli ‘interessi permanenti’, che obbligavano uomini e correnti politiche a scelte in qualche modo inevitabili.
La trattazione delle Premesse mostra una distanza incolmabile da Volpe, perché in esse Chabod fece proprio quei conti con la concezione della politica estera ‘realistica’, con il richiamo alla politica di potenza e di egemonia (a cui non era stato insensibile nemmeno lui nei decenni fra le due guerre), che invece Volpe negli stessi anni non si mostrò capace di fare. Per cui quel testo può essere letto anche come un grande prologo a una storia del ‘vario nazionalismo italiano’, di cui si indicano le premesse risorgimentali e gli sviluppi dopo il 1870, e non c’è dubbio che si tratti di una storia ‘critica’. Se poi quest’opera di Chabod (di sicuro uno dei capolavori della storiografia italiana del Novecento) sia stata quasi un frutto fuori stagione, o – come dicono alcuni – un’occasione perduta della nostra cultura storica, è questione che qui non può essere discussa. Certamente ebbe un successo prevalentemente di stima: all’interno della cultura storica italiana urgevano ormai nuove correnti, che si ponevano l’obiettivo di andare oltre la «tradizione propriamente nazionale degli studi storici» (l’espressione è di Cantimori, in Storici e storia, 1971, p. 269) di cui Chabod restava l’esponente più insigne.
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