Dalla citta alla campagna
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La storiografia tradizionale individuava nell’abbandono delle città per le campagne uno dei segni della fine dell’antichità. La realtà delle strutture urbane tardoantiche e altomedievali è assai più complessa, e va spiegata più in termini di trasformazione che di declino: motivi propagandistici, politici, economici ed ecclesiastici si intrecciano infatti nel determinare un riposizionamento di città e campagna nei loro rapporti reciproci.
La storiografia tradizionale ottocentesca considerava uno dei tratti distintivi del passaggio al Medioevo l’abbandono delle città e il trasferimento della popolazione nelle campagne, presso i latifondi aristocratici, in connessione con la teorica genesi del nuovo modo di produzione feudale, con il cosiddetto sistema curtense, assai più fortemente basato sull’autosussistenza, e con il declino dei commerci. I centri urbani si sarebbero dunque spopolati e in parte trasformati in semplici villaggi, con ampi tratti di aree rurali inclusi anche all’interno delle mura. Inoltre il trasferimento delle attività artigianali e commerciali sui fondi rurali avrebbe comportato una perdita di specificità economica delle città. Di fronte al mondo antico, fortemente urbanizzato, in cui la città, simbolo stesso del vivere civile e associato, è il centro di consumo e di smistamento delle risorse prodotte nel territorio circostante (che si voglia parlare di “città parassita” o di “città produttiva”), il mondo altomedievale sarebbe invece soprattutto rurale. In sostanza è necessaria una definizione a monte di “città”, non puramente nel suo dato edilizio, ma in senso politico e sociale: è evidente infatti che certi edifici, tipici della città antica, come il teatro e l’anfiteatro, scompaiono, ma il dato è significativo dal punto di vista culturale, non della definizione degli insediamenti urbani.
Con profonde trasformazioni, quale è la sparizione, con il VI secolo, delle curie e delle magistrature cittadine, i centri urbani restano in età altomedievale un nucleo di potere riconoscibile, in particolare grazie alla presenza dei vescovi, autorità sempre più influenti in campo politico e amministrativo.
La scelta, compiuta ancora in epoca romana secondo la linea indicata da Origene, di insediare i vescovi nelle città amministrativamente più importanti dell’impero fa sì che esse, nonostante il crollo istituzionale e le trasformazioni sociali, nel sempre maggiore potere delle strutture ecclesiastiche, restino importanti centri organizzativi e gestionali del circondario. Allo stesso modo, da un punto di vista urbanistico ed edilizio, è proprio la cristianizzazione della città, non nel senso della costruzione di chiese, ma della creazione di nuovi spazi centrali e di un completo riorientamento urbanistico, il segno di trasformazione e di discontinuità più forte tra la città classica e la città medievale. Anche se sono le differenze locali a prendere il sopravvento, e simili transizioni avvengono nelle diverse aree con tempi propri, si possono indicare in generale come momento di svolta cruciale in questo processo i decenni a cavallo tra il VI e il VII secolo.
Si deve riconoscere l’importanza del ruolo svolto in questo campo, specie a partire dagli anni Settanta del Novecento, dall’archeologia medievale, che ha permesso, attraverso l’individuazione delle strutture edilizie, una più corretta definizione degli spazi urbani e del loro supposto ripiegamento su se stessi, non solo con l’identificazione sempre più precisa di tracce estremamente labili, come le buche di palo, ma anche attraverso un’ampia revisione delle cronologie fino a quel momento utilizzate. Il dibattito si è quindi spostato dalla categoria di “declino” a quella di “trasformazione” (e al tempo stesso, per altri aspetti, di “continuità”): tutte e tre sono in realtà legittimamente utilizzabili per singoli aspetti architettonici, abitativi o sociali, ma difficilmente riunibili in un quadro d’insieme.
Che nelle città tardoantiche si mostri un cambiamento strutturale e funzionale è un dato di fatto ineliminabile: a partire dal III secolo perdono di visibilità le magistrature locali e le curie, ne acquistano le gerarchie ecclesiastiche, cambia l’aspetto fisico dei centri urbani, con la costruzione o ricostruzione delle cinte murarie e l’inserimento delle nuove sedi del potere religioso e civile. Al tempo stesso si va perdendo la specificità amministrativa e giuridica delle singole città, omologate all’interno di una più forte autorità centrale che toglie loro alla fine del III secolo, ad esempio, il diritto di battere autonomamente moneta. Lo dimostra il fatto che Menandro, retore in età dioclezianea, in un’opera che mira a definire il corretto modo di scrivere un elogio di città, e che attesta quindi una pratica retorica ancora fiorente legata alla celebrazione delle strutture cittadine, sottolinei come tutte le città siano ormai governate da un’unica legge, e dunque tutte uguali. Già Aulo Gellio, però, nel II secolo rilevava la perdita di significato della distinzione classica tra colonia e municipio, e buona parte della differenziazione tra i diversi gradi di città era stata svuotata di significato dalla concessione della cittadinanza romana a tutti i provinciali dell’impero con la Constitutio Antoniniana di Caracalla nel 212 o 214.
Ciononostante, è lo statuto stesso di città a essere ancora considerato, nel IV secolo, sinonimo e simbolo del vivere civile, come ha rivelato in particolare l’epigrafe di Orcisto (CIL III, 352 = MAMA VII, 305), dossier di documenti che mostrano, nel 331-332, una vicenda amministrativo-giudiziaria degli anni precedenti.
Il centro di Orcisto, degradato al rango di vicus e attribuito alla vicina Nacolia, chiede a Costantino di essere reintegrato nello statuto di città, adducendo come motivo, tra le altre cose, non solo l’antichità dell’agglomerato, l’autonomia che aveva in passato, le vessazioni subite da Nacolia, ma anche la posizione geografica, un importante incrocio viario, e la presenza di tutte le infrastrutture necessarie al vivere urbano (i caratteri della ville-vitrine altoimperiali), dalla stazione di posta, al foro adornato di statue, ad acquedotti e terme, fino ai mulini ad acqua, indizio di attività economiche fiorenti. Il modello classico del centro urbano è perciò in questo momento tutt’altro che defunto, e anzi opera ancora attivamente nel dibattito politico. Se ne deduce addirittura l’esistenza di un vero e proprio “catalogo” dei centri definibili come città, forse istituito da Diocleziano per ragioni fiscali, l’appartenenza al quale aveva un importante risvolto di immagine e propaganda civica. Le stesse titolature delle città resistono a lungo, e sono usate come espressione dell’orgoglio civico: lo mostra anche il centro africano di Thubursicu Bure, municipio a detta dei suoi stessi abitanti ancora sotto Gallieno e “promosso” a colonia con Giuliano, mentre ancora una costituzione onoriana del 405 (CTh XI, 20, 3) sembra rispecchiare un ordine gerarchico discendente nell’indicare “ civitates, municipia, vicos, castella ”.
Anche in questo settore sarebbe quindi forse opportuna una più forte distinzione dei singoli ambiti regionali: in un contesto, quale quello tardoantico, in cui l’unità imperiale si spezzetta in quelli che diventano gradualmente regni indipendenti, e l’integrazione, politica ed economica, viene progressivamente meno, anche il ruolo delle città risulta diverso da area ad area. In Gallia vi è un più precoce declino delle strutture urbane, che restano centri amministrativi ma perdono numerosi abitanti, mentre i notabili locali abitano prevalentemente nelle aree rurali, e le città si configurano sempre più come la sede del potere vescovile già nel V secolo. Le città spagnole, come quelle africane, per cui si può parlare di completo declino solo con la fine del VI e gli inizi del VII secolo, invece, sembrano mantenere più a lungo i connotati dell’urbanizzazione classica. In Italia, tolto il caso di Roma, che resta evidentemente a sé stante per dimensioni e dinamiche, il regno ostrogoto, come testimonia Cassiodoro, mantiene ancora fortemente in vita l’ideale classico della città e delle sue strutture amministrative, rivitalizzando fortemente nella pubblicistica l’idea della curia, e un punto di cesura è individuabile solo con i Longobardi nelle aree in cui essi si insediano. L’Oriente bizantino, a sua volta, mantiene strutture urbane decisamente più vitali almeno fino al VII secolo e alla riforma dei temi con cui Eraclio modifica radicalmente la struttura amministrativa dell’impero di Bisanzio.
Con queste dovute differenze si può notare però in generale, tra il V e il VII secolo, un indebolimento delle strutture urbane a favore degli agglomerati minori sparsi nella campagna, i quali da un lato si fanno i centri locali delle attività economiche del circondario, di respiro più ristretto che in precedenza, mentre dall’altro l’esistenza di poteri politici di dimensioni assai più ridotte dell’antico impero rende superflua l’intermediazione della città tra realtà locale e potere centrale. Le attività artigianali si dislocano dai centri urbani agli agri, così come, spesso, le sedi dei mercati periodici. Le élite aristocratiche, infine, specie in determinate aree come la Gallia merovingia, preferiscono risiedere non più nel centro urbano ma nelle loro proprietà terriere, attirandovi numerose strutture produttive e spostando dunque, almeno in parte, il baricentro economico e amministrativo dalla città al territorio.
Quello che sembra spezzarsi è l’unitarietà dei diversi piani di rapporto e di dipendenza tra centro urbano e agro pertinente: se nel mondo romano la città valeva come centro economico, amministrativo, religioso per un territorio soggetto, delimitato da precise pertiche di confine, la città altomedievale può, ad esempio, essere centro religioso per una determinata estensione territoriale che non coincide con quella di cui è capoluogo amministrativo, mentre il fulcro della vita economica si sposta nelle campagne. La percentuale di popolazione insediata in un centro urbano, che in epoca romana sembra fosse del 10-20 percento, non raggiungerà per secoli valori analoghi. È dunque l’intero sistema del reticolo di città messo in piedi con la romanizzazione a sgretolarsi in una più complessa sovrapposizione e intersezione di piani differenti, in un fenomeno che è stato definito da Lellia Ruggini come “pseudomorfosi”, perché trasformazione qualitativa di una struttura che esternamente appare immutata.