Dalla moda allo stile
Nel 21° sec., come nei secoli passati, la moda è dappertutto: in particolare per la nostra mente di consumatori è un’ossessione apparentemente incurabile che muove un’imponente industria mondiale. Anche per questa ragione ci sentiamo fortemente sollecitati a tentare di definire che cosa essa sia o anche, nella sua ubiquità, che cosa effettivamente non sia.
La moda è semplicemente un sinonimo di stile? È solo una definizione sintetica per tutto ciò che è in relazione con l’apparenza, il nostro aspetto e l’aspetto della nostra casa? La difficoltà a scegliere un significato preciso indica una profonda trasformazione dell’industria della moda e, cosa più rilevante, dei bisogni e dei desideri di fondo che tale industria alimenta. Nel nuovo secolo, in effetti, diventa sempre più difficile evitare di interrogarsi sulla sopravvivenza della moda come fenomeno specifico e significativo. Questa è l’ironia dei nostri tempi: la moda è dappertutto e al tempo stesso in nessun luogo.
Nella moda che ci viene presentata dai media ciò che vediamo, e di cui i giornalisti si entusiasmano, sono look particolari – gonne più corte o più lunghe, un più ampio ricorso a materiali naturali o, per es., alle stoffe africane, un ritorno degli anni Cinquanta, e così via, mentre di volta in volta viene stabilito ciò che l’anno prossimo costituirà ‘la grande novità’, ciò che sarà ‘in’ e ‘irresistibile’ e che, a tempo debito, tutti noi finiremo per indossare. Un giornalismo di questo genere opera sulla base di un modello che presuppone quanto segue: a) l’introduzione di new looks ha inizio sulle passerelle della moda di Parigi, Milano, New York o Londra dalle quali poi ‘discendono’ gradualmente fino alle persone comuni; b) i consumatori sono sempre fortemente attratti da ciò che è nuovo e si disfano educatamente di ciò che è passé; c) ogni ‘stagione’ indica una nuova ‘direzione’ che sarà compito (e talento esclusivo) dei giornalisti individuare affinché i consumatori siano aiutati a coglierla nel modo giusto.
Esperti nell’individuare il cambiamento, i giornalisti di moda della vecchia scuola presumono che i diversi look vadano e vengano (e talvolta tornino di nuovo) ma che il sistema della moda, in quanto tale, resti immune dal cambiamento. Assai diligenti nello scrutare l’orizzonte alla ricerca della ‘prossima grande novità’, questo genere di giornalisti (e molti designer, ricercatori di mercato, scopritori di tendenze e via discorrendo) sembra non rendersi mai conto che l’epoca della ‘prossima grande novità’ – quando esisteva una sola ‘direzione’, una singola e coerente tendenza che tutte le persone desiderose di essere alla moda avrebbero adottato – è ormai finita.
Per comprendere la natura della moda nel 21° sec. non è necessario concentrarsi su look particolari quanto piuttosto sul modo in cui funziona il sistema stesso della moda, ossia su che cosa vogliono i consumatori e sul fatto che tale sistema è ormai talmente frammentato ed eterogeneo da aver cambiato i suoi termini di riferimento interni ed esterni. La possibilità di comprendere questo processo è ostacolata dal fatto che molti professionisti dell’industria della moda non sono consapevoli o tendono a negare il percorso attraverso il quale, agli inizi del 21° sec., il sistema della moda risulta completamente trasformato. Trasformato, in effetti, a tal punto, che ci si chiede se non sarebbe saggio sostituire la parola moda (che indica un sistema in perpetuo cambiamento verso un’unica e coerente ‘direzione’) con la parola stile.
Per capire ciò che è unico – ed estremamente eccitante – nello stile del nuovo secolo è necessario, prima di tutto, rendersi conto di quanto esso differisca dal sistema della moda del 20° sec. e dei secoli precedenti. In realtà lo stile del 21° sec. è esattamente l’opposto di quello che era stato in passato. Negli ultimi decenni del secolo scorso, in particolare, la moda aveva iniziato a flirtare con lo street style (ossia il look da strada), un rapporto che sarebbe diventato duraturo e che l’avrebbe profondamente trasformata.
Possiamo cominciare a evidenziare le caratteristiche esclusive dello stile del 21° sec. attraverso un confronto con quello che rappresenta probabilmente l’ultima grande fioritura del sistema classico della moda, ossia il new look di Christian Dior (1905-1957), che fu lanciato a Parigi nel 1947 e che conquistò il mondo occidentale (e quello occidentalizzato). Lo stile del 21° sec. si definisce proprio in opposizione a quel sistema della moda che le creazioni di Dior avevano avviato apparentemente per sempre, ma di fatto, come ora è possibile vedere dalla nostra prospettiva, soltanto per un paio di decenni. Analizziamo ora punto per punto le contrapposizioni.
Il new look fu nella sua essenza una celebrazione del cambiamento e uno sdegnoso rifiuto di tutte le cose passé e ‘vecchio stile’. Di conseguenza, non appena il razionamento dei tessuti e le finanze personali lo permisero, le donne di ogni parte del mondo furono felici di adottarlo gettando via modelli dell’anno passato che a quel punto si sarebbero vergognate di indossare. Al giorno d’oggi invece poche donne e pochi uomini sarebbero pronti a rifiutare sempre, immancabilmente e senza esitazioni, il ‘vecchio’ (tanto spesso ambito come ‘classico intramontabile’) per adottare ciò che è nuovo e di tendenza.
La collezione di Dior del 1947, subito salutata come un successo internazionale, prescriveva un’unica ‘direzione’ (il new look appunto) che la moda dettava e che tutti seguirono. Era la scelta di un’élite ricca che guidava le persone meno fortunate dal punto di vista economico ed estetico lungo il viale dorato del progresso. Oggi, per quanti sforzi facciano, è impossibile per i giornalisti di moda identificare un’unica ‘direzione’ in ciò che vedono alle sfilate di Parigi, Milano, New York e Londra. E se anche riuscissero a individuarla (a costo magari di negare la ricca eterogeneità che ai giorni nostri rappresenta la realtà di queste sfilate) e cercassero di convincere i loro lettori a seguirla, non avrebbero in realtà molti seguaci.
Il new look di Dior si rivolgeva in particolare alle donne di mezza età per le quali lo stilista dettava un total look prescritto e ‘coordinato’. Oggi, invece, tutte le industrie dello stile (così come, in realtà, la nostra intera cultura) si preoccupano in primo luogo dei ‘giovani’. E sarebbe comunque difficile trovare adepti di un total look dettato da uno specifico stilista.
Nel 1947 il new look di Dior confermò che l’Occidente – nello specifico Parigi, il centro consacrato della moda – conservava il controllo di un impero dell’estetica e della moda che copriva l’intero globo. Il Vecchio mondo s’intendeva di cose quali il gusto, la bellezza, l’arte e l’avanguardia, e il resto del mondo, umile e modesto, seguiva quel che gli veniva indicato. Oggi anche se è vero che Parigi resta (per ora) la capitale suprema dell’alta moda, quanti degli stilisti che fanno sfilare le proprie creazioni sulle sue passerelle sono francesi? Visto il successo di stilisti provenienti da Paesi tanto diversi come il Giappone, il Brasile, la Turchia e la Cina, bisogna ormai riconoscere che lo stile del 21° sec. è un fenomeno globale, con ispirazioni che provengono da tanti luoghi diversi.
La realtà è che anche il settore più elevato dell’industria della moda è oggi profondamente e fondamentalmente diverso – e spesso anche in netta opposizione – rispetto a ciò che era un tempo. È importante perciò identificare e analizzare attentamente ciò che è unico ed eccitante nel modo in cui lo stile ha reinventato sé stesso e come questo processo di totale trasformazione sia avvenuto per rispondere ai bisogni e ai desideri dei suoi consumatori. Vedremo così come questo passaggio dalla moda del 20° sec. allo stile del 21° fornisca una straordinaria chiave di lettura del modo in cui il nostro mondo nel senso più ampio è cambiato. Perché ciò che sempre ci appassiona e ci gratifica nell’osservare come noi esseri umani (in questo unici) decoriamo, adorniamo, ci vestiamo e trasformiamo il nostro aspetto, è che tali scelte permettono una comprensione diretta e acuta di quello che accade nel mondo ‘reale’.
Perfetta e recentissima espressione del modernismo, il sistema della moda dei secoli scorsi – ‘stagione’ dopo ‘stagione’ – aveva celebrato e simbolizzato la speranza in un cambiamento costante e in un progresso lineare verso un futuro desiderabile e auspicato. Quando questa visione del mondo pervicacemente ottimistica si appannò, fu erosa e messa in discussione (il grido dei punk «no future», poi diventato di moda, risale al 1976), fu tempo per una nuova visione del mondo. Una visione che sarebbe stata conosciuta solo per ciò che non era: il postmodernismo.
Preoccupata dell’inesorabile e sempre più rapido cambiamento, pessimista sulla possibilità di un progresso, incoerente, non lineare, eterogenea, caotica, affamata di autenticità e di significato, individualistica fino al limite dell’atomizzazione, la nostra epoca postmoderna del 21° sec. non vede alcun valore, attrattiva o adeguatezza in quel sistema della moda che un tempo aveva così perfettamente espresso e simbolizzato la visione del mondo del modernismo. La nostra epoca, al contrario, vorrebbe trovare la sua appropriata realizzazione visuale e semiotica in un sistema di stile personale che rifletta e celebri la diversità, l’eterogeneità, la confusione, la creatività individuale e la ricerca dell’autenticità che caratterizzano così bene i nostri universi paralleli del nuovo secolo, così come la moda nella sua (apparentemente) interminabile sequenza di new looks aveva un tempo visualizzato l’assunto centrale del modernismo: quello di un progresso lineare verso un futuro sempre nuovo e migliore. Di conseguenza, per identificare ed esplorare le caratteristiche principali dello stile proprio del 21° sec., è necessario identificare ed esplorare la natura della nostra epoca postmoderna.
Dal trendy all’intramontabile
Oggi, nel 21° sec., come per molti secoli in passato, la raison d’être dell’industria della moda (il suo principio funzionale e strutturale di fondo) è considerata l’inarrestabile ricerca del ‘nuovo’. Ogni ‘stagione’, due volte l’anno, migliaia di acquirenti, giornalisti e celebrità arrivano a Parigi, Milano, Londra e New York con la speranza di gettare uno sguardo sul futuro. Il presupposto alla base di questa attività – il modello standard dell’industria della moda – è che l’alta moda sia un meccanismo simile a un orologio capace di scandire a ogni ‘stagione’ una nuova e originale ‘direzione’ che, una volta accolta dagli acquirenti e identificata e commentata dai giornalisti, ‘si diffonderà’, con il tempo, tra le masse. Questo fa pensare, quanto meno a chi opera all’interno dell’industria della moda, che il modello standard di funzionamento della moda, e di ciò che da essa pretendono i consumatori, nel 21° sec. sia rimasto immutato.
Se si osserva tutto ciò da una prospettiva sociale e culturale più ampia, appare invece chiaro che è avvenuta una profonda trasformazione, tale da costringerci a domandarci in quale misura questo modello standard di moda sia, in realtà, legato a un’epoca passata e abbia oggi bisogno di essere sostituito. Nel 1947 il new look di Dior fu accolto, copiato e celebrato da Parigi a Sydney perché era ‘nuovo’ e, in quanto tale, prospettava la promessa di un futuro. Ancora una volta la moda aveva dimostrato la capacità di concentrare la sua visione in un unico e coerente progetto che dal presente si irradiava nel domani. Allo stesso modo, dall’inizio alla metà degli anni Sessanta, sebbene radicalmente trasformata dai suoi legami con la ‘cultura giovanile’, l’industria della moda (per pochi anni trasferitasi nella swinging Londra) fu in grado di soddisfare la ricerca del nuovo e di individuare la sua ‘direzione’ nella scelta di accorciare (e poi, in seguito, di allungare) gli orli. E quella che i professionisti della moda decretarono dovesse essere ‘la nuova tendenza’ fu entusiasticamente (o, quanto meno, rispettosamente) osservata dalla grande maggioranza delle donne occidentali. Come ha scritto l’esperto di moda Peter York nel suo libro Modern times. Everybody wants ev-erything (1984): «In un tempo ormai passato quello che la gente ora chiama stile veniva chiamato moda e la moda doveva essere seguita. Negli anni Cinquanta e Sessanta, essa aveva il suo proprio establishment, una sorta di Vaticano, e in questo ambiente c’erano dittatori che stabilivano le linee che tutti dovevano seguire. Le linee venivano stabilite come editti secondo il modo in uso nel Vecchio mondo [...] venivano decise dai redattori delle riviste per i lettori delle riviste. «Vogue» annunciava il colore della stagione e in ogni parte della Terra i negozi presentavano vestiti beige banana o rosso corallo o quel che sia [...]. E il punto era che tutti li avrebbero indossati, vostra sorella, vostra zia, l’istruttrice della palestra, tutti. Davvero non c’era alternativa» (p. 10).
Se oggi esaminiamo i resoconti delle riviste di moda sulle sfilate di Parigi, Milano, Londra o New York, non ritroviamo un’analoga ‘direzione’ coesiva. La guida britannica Elle’s spring and summer fashion 2008, per es., identifica le seguenti grandi tendenze: eco-sexy (con temi a base di ‘fiorati cibernetici’, ‘piume’ e ‘animali’), romance (con biancheria intima di seta, arricciature su gonne e abiti e «piccoli e delicati» motivi floreali), sheer (con abiti che «stratificano parti velate su coordinati luminosi e colorati», vestiti che «si attengono a una tavolozza neutra di colori bianchi, avorio e carne» e soprabiti che «attualizzano il velo con forme grafiche») e americana (soprabiti con frange di camoscio ispirate agli indiani Navajo, giacche da motociclista Rockabilly e ‘a stelle e strisce’). Questa complessità e varietà è lontana anni luce dagli «orli sopra il ginocchio» che «Elle» o «Vogue» potevano indicare con assoluta sicurezza e chiarezza nel 1964. E, in verità, anche un rapido sguardo ai servizi fotografici delle sfilate rivela che la realtà della moda del 21° sec. è fatta di uno stupefacente eclettismo e di una diversità che sconfiggono qualsiasi tentativo di individuare temi comuni e ‘grandi tendenze’.
Ancor più importante è il fatto che, se anche in una certa stagione i professionisti dell’industria della moda mondiale fossero in grado di trovare un accordo su una ‘direzione’ chiara e sintetica, non ci sarebbe più – perfino tra coloro che divorano avidamente riviste di moda, abiti e accessori – quel grande esercito di consumatori sottomessi e passivi pronti a fare quello che viene detto loro. Ciò accade in parte perché il nostro mondo postmoderno, pluralistico e fortemente individualistico si oppone diametralmente a quel genere di conformismo perfettamente descritto da York nel brano in precedenza citato e prevalente sino a pochi decenni fa. Questo profondo allontanamento dalla ‘direzione’ rappresenta anche un profondo allontanamento dalla nostra passata, disinvolta, spesso delirante ossessione per il ‘nuovo’; nella sua essenza, di fatto, niente di meno che una radicale trasformazione del nostro atteggiamento verso il tempo, il cambiamento e il progresso.
Nel corso di gran parte della storia dell’uomo (in quella che si può definire la posizione naturale di default della nostra specie) il cambiamento ha rappresentato per lo più qualcosa di minaccioso e di problematico, e una delle funzioni dell’abbigliamento e della decorazione del corpo era stata quella di celebrare simbolicamente l’eternità e l’immutabilità (e questo nel senso più letterale nel caso delle decorazioni del corpo permanenti come il tatuaggio, la scarificazione e il piercing). Fu probabilmente in seguito a un forte aumento della mobilità sociale e a una costante e, più tardi, rapida espansione di una nuova classe media (la quale aveva sperimentato su sé stessa gli effetti positivi del cambiamento) che si sviluppò una visione del mondo modernista nella quale, in netto contrasto con il tradizionalismo che l’aveva preceduta, si celebravano il cambiamento e il progresso. In termini visivi, questa concezione del mondo era perfettamente espressa nella forma della moda che, stagione dopo stagione, non solo generava il ‘nuovo’ ma consegnava in aggiunta una chiara dimostrazione del progresso nel fatto che, come è ovvio, il ‘nuovo’ risultava anche, ipso facto, migliorato. Quel recente, profondo e ancora solo parzialmente riconosciuto cambiamento della visione del mondo dal modernismo al postmodernismo ha portato inevitabilmente con sé un nostro diverso modo di porci nei confronti del cambiamento.
Il mondo della moda rivela più di quanto si potrebbe credere su questo radicale cambiamento di visione del mondo. In particolare, a cominciare dagli anni Ottanta (e sempre di più nel nuovo secolo) il termine trendy (un tempo il più gradito dei complimenti) ha implicato un giudizio negativo. Più o meno nello stesso periodo era cominciata a circolare l’espressione dispregiativa fashion victim, vittima della moda (molto in voga anche oggi). In entrambe le espressioni, il significato era chiaro: seguire in maniera costante e pedestre le ultime tendenze alla ricerca del ‘nuovo’ era visto sempre di più come un difetto del carattere piuttosto che, come accadeva negli anni Cinquanta e Sessanta, come un segno dell’essere adeguatamente all’avanguardia e ‘alla moda’. Nello stesso tempo, l’altra faccia della medaglia, la crescente diffidenza verso il cambiamento (in particolare quello fine a sé stesso, supremo compimento della moda) aveva portato a un sempre maggiore apprezzamento dei ‘classici intramontabili’ – fossero essi un paio di jeans Levi’s 501 o un elegante tubino nero.
Quello che era cominciato in modo nuovo e sperimentale nell’ambito di una minoranza al passo con i tempi, nel 21° sec. è diventato tradizionale e normativo. Mentre gli acquirenti di moda un tempo erano visti come consumatori veloci, provvisti di ‘indicazione di scadenza’ (dopo la quale la merce veniva scartata o magari conservata come memoria storica), oggi la grande maggioranza di noi è alla ricerca di indumenti e accessori che siano sufficientemente ‘classici’ da resistere alla prova del tempo. Cosa che non accade solo per risparmiare denaro, perché in realtà in generale si spende di più per i ‘classici intramontabili’ di qualità di quanto non si faceva per la moda usa e getta. Ciò accade perché non vogliamo essere visti come persone usa e getta che oscillano come banderuole ai venti del cambiamento. L’autenticità (una delle cose più preziose nella nostra era postmoderna) richiede un certo grado di determinazione, di costanza, di conoscenza di sé stessi e di capacità di esprimere la propria identità con uno stile adeguato e – soprattutto – richiede di aderire a quello stile anno dopo anno. Vestirsi in un modo un anno e in un altro l’anno seguente pregiudica ogni possibilità di esprimere la consapevolezza di sé e quindi la propria autenticità.
E, cosa perfino peggiore, questo tipo di approccio rivelerebbe una dipendenza dal nuovo tipica di una vittima della moda. Una dipendenza che richiama atteggiamenti tipici del secolo scorso, così modernista in un’era postmoderna, con quell’ottimismo che non dubitava mai che il futuro sarebbe stato migliore del presente e che ora è stato sostituito da un preoccupante interrogativo su che cosa il futuro potrebbe portare e da una nostalgia dei tempi in cui la realtà era reale (e non, come ha osservato il filosofo francese Jean Baudrillard, un parco divertimenti a tema dal quale non abbiamo nessuna possibilità di uscire).
E così, barometro perfetto e straordinariamente preciso dello Zeitgeist, lo stile del nuovo secolo ha perso molto dell’ossessione per il nuovo del 20° sec., viaggia spesso nel passato attraverso il medium del rétro (così ben anticipato nei costumi indossati nel film Blade runner, 1982, di Ridley Scott, nel quale viene proposto un futuro più rétro che futuristico) e si fonda più sui ‘classici intramontabili’ che su tendenze del genere ‘oggi qui domani altrove’. Questa transizione, tra l’altro, non vale solo dalla prospettiva dei consumatori. Per quanto l’industria della moda si sforzi di proporre un’immagine di sé stessa tutta proiettata verso il cambiamento, la realtà è che perfino i suoi stilisti di punta si sono stabilizzati nei loro particolari stili personali che restano notevolmente costanti da un anno all’altro e, in certi casi, anche da un decennio all’altro. La differenza tra i modelli Versace di quest’anno e i modelli Versace dell’anno prossimo non è mai tanto marcata quanto la differenza tra lo stile peculiare di Gianni Versace (1946-1997) e della sua maison e quello, per es., di Giorgio Armani (n. 1934).
Al di là dell’industria della moda si possono osservare, tuttavia, prove ancor più eclatanti della nostra ricerca postmoderna dell’intramontabile e dell’immutabile. Senza dubbio la trasformazione dello stile personale più evidente e rilevante degli ultimi decenni è stata la diffusa accettazione delle arti corporali permanenti del tatuaggio e del piercing. Caratteristiche comuni della decorazione del corpo in ogni parte del mondo nel corso di gran parte della storia dell’uomo, le decorazioni e gli ornamenti permanenti non avevano incontrato il favore dell’Occidente durante i secoli del modernismo: come si poteva infatti celebrare il cambiamento attraverso ciò che è permanente?
In seguito, non appena il modernismo perse la sua presa e il suo fascino, ebbe inizio il ‘Rinascimento del tatuaggio’. E più tardi, al seguito del punk, il ‘Rinascimento del piercing’. Quale miglior segno di quella tenace costanza considerata la pietra angolare dell’autenticità individuale, di una decorazione corporale permanente che, letteralmente, è per sempre? Quale miglior mezzo per dimostrare che non si è vittime della moda di tendenza? Certo, l’unico problema (a parte il fatto che, ormai onnipresente, un tatuaggio o un piercing sta diventando una sorta di conformismo piuttosto che un segno distintivo di individualità) è che, proprio come la moda dei secoli precedenti spesso non riusciva a trovare qualcosa di veramente nuovo e fresco, lo stile del 21° sec. – poco importa quanto ostinatamente intramontabile – in realtà non è in grado di fermare né tantomeno di rallentare il ritmo sempre più rapido del cambiamento che minaccia di travolgerci.
Dal total look al sampling and mixing
Nella storia dell’uomo non era mai accaduto che la gente potesse godere di una così ampia varietà e possibilità di scelta stilistica come quella di cui disponiamo attualmente. Se si desidera un nuovo completo, un nuovo paio di scarpe, un nuovo taglio di capelli, un tatuaggio o un nuovo arredamento per il soggiorno, si ha una gamma di opzioni quasi infinita tra le quali scegliere. Noi, e soprattutto i giovani che non hanno conosciuto situazioni diverse, diamo questa diversità per scontata ma soltanto cinquant’anni fa nessuno al mondo avrebbe creduto che tanta scelta e tanta libertà di scegliere sarebbe stata possibile. Per quasi tutta la storia dell’uomo il modo di decorare il corpo o la casa era stato rigorosamente prescritto dalla tribù. Successivamente, a cominciare forse dal Rinascimento, in seguito allo sviluppo e all’acquisizione di autorità da parte del sistema della moda, quello che era ‘in’ e quello che era ‘out’ venne deciso dall’alto e, come abbiamo visto, a partire dalla metà del Novecento, per la grande maggioranza delle persone, come sottolineato da York, non vi è stata alternativa.
Le prime alternative ai dettami dei professionisti della moda si presentarono sotto la forma dello street style. In Gran Bretagna, nella prima metà degli anni Sessanta, oltre a poter essere uno zelante seguace della moda, vi era la possibilità di scegliere tra essere un mod o un rocker. Tre possibilità dunque – anche se, in realtà, la scelta tra le opzioni era in larga parte determinata dalla classe sociale e dall’ambiente di provenienza. Negli anni Settanta, sempre in Gran Bretagna, dopo la nascita del punk, e soprattutto alla fine del decennio, subito dopo il suo declino, sbocciarono un gran numero di nuove ‘sette’ o ‘tribù’ e prese forma una varietà assolutamente straordinaria di scelte sottoculturali almeno per i giovani alla ricerca di un’alternativa al conformismo e alla moda. Negli anni Novanta poi, divenne estremamente difficile individuare e stare al passo con quella che era già diventata un’ingombrante tassonomia di stili alternativi.
Allo stesso tempo, nell’ambito dell’industria della moda, diversi stilisti in vari Paesi cominciarono a prendere le distanze da una sempre maggiore difficoltà a determinare una ‘direzione’ per seguire strade personali con propri caratteristici stili ‘firmati’. Non esisteva più un centro, una norma, uno specifico ‘in’ e ‘out’ che potesse servire a tutti come modello da seguire. Le cose diventarono particolarmente difficili per chi doveva prevedere le tendenze future: come si poteva individuare quella che sarebbe stata la ‘prossima grande novità’ quando non si riusciva neanche a capire la ‘direzione’ del momento?
Se tutto questo stava provocando una crisi nell’ambito della comunità dei professionisti della moda, le cose andavano perfino peggio nel settore commerciale e pubblicitario. Mentre un tempo si era rivelato relativamente semplice identificare e visualizzare un teenager o una famiglia ‘normali’, ora sembrava che non ci fosse più nulla di ‘normale’. La soluzione che presto emerse (e che tuttora rappresenta il modello di base sul quale si fondano i settori commerciale, pubblicitario e dello sviluppo produttivo, nonché la teoria della cultura nel nuovo secolo) fu quella di rinunciare a una vana ricerca del ‘normale’ e, accettando l’eterogeneità e il pluralismo di un’epoca postmoderna, cercare e individuare invece una gamma di diverse opzioni di stili di vita.
Nel 21° sec., tuttavia, possiamo osservare che, sebbene ovviamente molto più accurato e in contatto con la realtà rispetto al modello unico di normalità standardizzata e omogenea che l’aveva preceduto, neanche il modello dei diversi stili di vita descrive propriamente il nostro mondo postmoderno. In fondo si tratta ancora di una classificazione di tipi – lo stile di vita A, B o C e così via – e le persone che operano nella distribuzione e nella pubblicità e i teorici della cultura continuano a cercare di incasellare la gente reale e la reale diversità in gruppi ai quali possa essere dato un nome e che possano essere descritti ed etichettati. Se c’è una cosa però che possiamo oggi affermare con notevole sicurezza riguardo la maggioranza delle persone è che noi tutti speriamo ardentemente di evitare di essere ridotti a un tipo. Nessuno ha intenzione di essere rinchiuso in un classificatore. Tutti noi, senza alcuna eccezione, vogliamo essere e vogliamo essere visti come individui unici.
Ed è questo bisogno di evitare le classificazioni che riducono a tipi, unito con il suo corollario inverso della persistente ricerca di un’identità personale unica, che più di ogni altro fattore definisce, struttura e conferisce forza allo stile del 21° secolo. Dalla straordinaria gamma di stili disponibili – quello che potrebbe essere definito il nostro supermercato dello stile – la maggior parte di noi non seleziona lo stile di vita A, B o C ma, al contrario, fa un sampling and mixing di articoli disparati (forse perfino apparentemente contraddittori) che messi insieme producono una dichiarazione di stile personale unico.
Tutto questo evidenzia una profonda e sconvolgente rivoluzione nel rapporto tra professionisti della moda e delle altre industrie di design e il consumatore, il quale acquista (o non acquista) i loro prodotti. Nel corso della loro lunga storia e fino a un paio di decenni fa i designer della moda professionisti consideravano loro compito e responsabilità non solo creare indumenti o accessori ma anche insegnare e dettare il modo in cui questi articoli dovevano combinarsi insieme in un total look. Allo stesso modo il giornalista di design professionale insegnava e decretava in che modo il consumatore dovesse coordinare tutti i vari componenti separati del proprio aspetto personale o del décor della propria casa. Il presupposto era che il consumatore fosse incapace e impreparato a prendere tali decisioni e che avrebbe sicuramente sbagliato e provocato una catastrofe estetica.
E questa è la cosa davvero interessante: quasi tutti i consumatori accettavano passivamente il fatto di aver bisogno che qualcuno dicesse loro come comportarsi in questioni riguardanti l’armonizzazione del design. Furono forse i punk a dare a ciascuno di noi la sicurezza per farlo a modo proprio. Di sicuro furono loro che per primi dimostrarono le possibilità creative del sampling and mixing di articoli stilisticamente diversi e perfino contraddittori in una miscela dinamica postmoderna, mettendo insieme in un’unica presentazione di sé articoli diversissimi come un’acconciatura di capelli primitiva, una ‘innocente’ divisa da scolaretta composta da giacca, cravatta e camicetta bianca, un’assolutamente poco innocente microminigonna di PVC nero da feticista, calze a rete bucate e, infine, un pesante paio di anfibi Doctor Martin’s da manovale. Non sono gli stili specifici e gli indumenti di questo look rivoluzionario che sopravvivono al giorno d’oggi e che ci influenzano nel 21° sec., ma piuttosto il loro straordinario eclettismo e la sicurezza di chi li indossa nel fare a meno delle ‘regole’ dei professionisti su quali colori, indumenti, accessori e quali stili dovrebbero o non dovrebbero essere indossati insieme.
Quali che siano le sue radici storiche, è innegabile che la caratteristica fondamentale dello stile del 21° sec. – e quella che più di ogni altra lo distingue dal mondo della moda dei secoli precedenti – è il consumo creativo. Al giorno d’oggi ciascuno è uno stilista. Deve esserlo, in realtà. Non ci si può presentare come un individuo interessante, unico e sfaccettato (che è quello che tutti noi vogliamo e dobbiamo essere al giorno d’oggi) se non si è capaci di mettere insieme il proprio look e in questo modo di produrre la propria personale dichiarazione di stile (si può notare che qui affiora l’altro significato dell’espressione vittima della moda: qualcuno che non pensa e non crea da solo e che invece si limita ad accettare un total look così come viene stabilito da un particolare stilista).
Di conseguenza, gli stilisti di oggi e quelli del futuro devono accettare il fatto che il loro lavoro è quello di creare indumenti e accessori che, come le singole parole di una frase, saranno sottoposti dal consumatore a un sampling and mixing in modi inimmaginabili per lo stilista stesso. Il design ora è un processo a due fasi: prima la creatività dello stilista nell’ideare l’oggetto, poi la creatività del consumatore nel combinare quell’oggetto con altri provenienti da fonti diverse e inaspettate per produrre matrici di significato personali, uniche e semiologicamente potenti.
Questo insieme di cose avrà enormi conseguenze per il futuro di quella che a mio avviso continuerà a essere chiamata l’industria della moda. Oggi, come in passato, gli stilisti usano le loro sfilate per mostrare i loro nuovi total looks. Allo stesso modo si comportano i loro pubblicitari e, il più delle volte, se un redattore di moda vuole fotografare i loro abiti insieme con quelli di qualche altro stilista ci saranno contestazioni e, in casi estremi, minacce di ritirare la pubblicità. Questo modo creativo di fare sampling and mixing da fonti diverse, tuttavia, è proprio quello che più interessa al consumatore attuale e ciò che si sta producendo, e che in realtà si è già creata, è una grande spaccatura tra i professionisti dell’industria della moda che si aggrappano ostinatamente a un sistema concentrato sulla presentazione di diversi total looks e i consumatori alla ricerca di interessanti combinazioni provenienti da fonti diverse. Per trovare quello che vogliono (ma che invece le riviste di moda raramente propongono), i consumatori sempre più spesso si rivolgono a un nuovo e stimolante medium dello stile: siti web come, per es., www.thesartorialist.blogspot.com, www.worldstylefile.com, o www.lookbook.nu che fanno vedere ‘gente reale’ (essenzialmente non professionisti della moda) che mette insieme il suo look unico e personale. Un medium che non presta alcuna attenzione alla petulante costernazione degli stilisti per il fatto che le loro creazioni siano sottoposte a un sampling and mixing con quelle di altri stilisti o con indumenti provenienti dai charity shops. E, cosa interessante, un sistema che, mettendo da parte l’uomo e la donna medi, non ha alcun bisogno di giornalisti di moda professionisti. Se si osservano questi sviluppi, appare sempre più chiaro che alla fine del 21° sec. le nostre industrie globali dello stile saranno strutturate e funzioneranno in modo assai diverso dall’attuale industria della moda che, per molti versi, è ancora strutturata e ancora funziona come se fossimo nel 1947 e Dior stesse orgogliosamente lanciando il suo new look dando precise indicazioni sugli accessori, il make-up e l’acconciatura da abbinare a un certo abito. I consumatori sono andati avanti ed è tempo che i professionisti del design si mettano al passo con loro.
Dalla bellezza al significato
Il panorama dello stile del 21° sec. è e continuerà a essere dominato da grandi marchi internazionali che continueranno a competere tra loro. Cattive notizie per i giovani stilisti indipendenti che lavorano su piccola scala (c’è da temere che non ci sarà più una nuova Mary Quant o una Vivienne Westwood che potranno iniziare quasi dal nulla), perché questi giganti globali sono in grado di legare il loro nome a pop star e celebrità e dispongono di fondi da impiegare nella commercializzazione e nella pubblicità che rendono la loro presenza avvertibile ovunque.
Un’altra interessante caratteristica degli attuali marchi di abbigliamento è la misura nella quale si sono espansi non solo verticalmente ma anche orizzontalmente, in quest’ultimo senso demolendo le tradizionali barriere tra ciò che indossiamo e, per es., ciò che abbiamo nelle nostre case (e il modo in cui le decoriamo). E in misura ancora maggiore rispetto al passato, il sistema economico dei marchi di alta moda è sempre di più un sistema nel quale gli abiti (spesso scandalosi, raramente indossabili) mostrati nelle grandi sfilate funzionano semplicemente come abbellimento per attrarre l’attenzione dei media sul marchio e vendere il profumo a esso legato, piuttosto che come paradigma di quello che la maggior parte delle persone indosserà domani. Sempre più lontani dalle frontiere e dalle prassi tradizionali del design di indumenti, gli attuali marchi di abbigliamento sono allo stato delle cose soltanto tangenzialmente legati all’abbigliamento o agli accessori; la loro funzione e il loro reale obiettivo appartengono al mito in quanto consistono nel codificare e disseminare visioni di stili di vita potenti e desiderabili che, si spera, il consumatore condividerà.
Come sottolineato da Maurizio Marchiori nel 1998 (quando era direttore pubblicitario e della comunicazione del marchio Diesel), «il prodotto è il messaggio e il messaggio è anche il prodotto. È tutto un sistema – un modo di vivere, un successful living – che noi e i nostri clienti creiamo insieme. Il nostro messaggio e il nostro abbigliamento sono un’unica e identica cosa» (Polhemus 1998, p. 11).
In altre parole, quando comprate un paio di jeans Diesel non state comprando solo un paio di jeans con quel marchio, ma state comprando un pezzo di messaggio, una visione di quello stile di vita che Diesel, per molti anni e con grande cura, ha visualizzato nelle sue famose campagne pubblicitarie come successful living. E questo perché i marchi sono diventati parchi a tema virtuali, ciascuno con la sua personale visione dell’utopia. E quando indossate questi jeans Diesel la loro etichetta annuncia che siete il genere di persona che aderisce a quei valori, a quelle visioni, a quei sogni e desideri che rimandano alla particolare visione del mondo di Diesel. In questo senso il consumatore sta letteralmente comprando un messaggio: un significante visuale (il logo del marchio) che, insieme con tutti gli altri significanti stilistici che egli ha sottoposto a sampling and mixing per formare un’unica presentazione di sé, esplode in un significato semiologico. Il logo di Diesel pubblicizza la società Diesel, ma soprattutto – e questa è la ragione per la quale esso viene acquistato e orgogliosamente esibito – colui che lo indossa, aiutandolo a proclamare «io sono questo tipo di persona».
Siamo abituati a pensare ai marchi di design semplicemente come significanti del lusso e del successo economico. Questo era certamente vero nei primi anni Ottanta quando, nella maggior parte dei casi, il logo di un marchio di design segnalava: «io posso permettermi il meglio». Fu un altro marchio di abbigliamento italiano, Benetton, che aprì la strada a un approccio nuovo e semiologicamente più sofisticato: il ‘marchio di idea’, il quale non segnala quanto denaro avete ma piuttosto a quali valori, credenze e sogni aspirate. Facendo scuotere la testa con scetticismo alla maggior parte del mondo della pubblicità (e, in realtà, a gran parte dell’opinione pubblica) Benetton lanciò una campagna pubblicitaria rimasta famosa che non mostrava più gli indumenti ma richiamava l’attenzione sulle preoccupazioni relative al razzismo, all’ecologia, al sessismo e alla percezione del dramma dell’AIDS. Oggi, all’inizio del 21° sec., la gamma di valori, sogni e desideri ben codificati in significanti visuali dai grandi marchi è più ampia (anche nel caso di Benetton si dà maggiore risalto ai piaceri di una vita vissuta bene e con responsabilità) ma il principio del marchio di idea resta esattamente lo stesso. Quello che Benetton e poi poche altre compagnie come Diesel avevano inaugurato è ormai l’approccio standard alla promozione di un marchio e ciò che i pubblicitari chiamano valore aggiunto.
Considerato che la semiotica (più che l’estetica) è la forza portante degli attuali marchi di idea e posto che questi sono la forza portante dell’industria della moda internazionale, dovremmo chiederci perché al giorno d’oggi ci sia questa grande fame di indumenti, accessori, design per la casa e via dicendo che ‘hanno qualcosa da dire’. Perché siamo tutti così ansiosi di costruire il nostro aspetto come una ‘dichiarazione’?
Nei secoli passati l’identità personale era fondamentalmente una questione relativa al mondo nel quale si nasceva: nazionalità, area di provenienza, religione, retroterra etnico, razza, classe sociale e così via, tracciavano i confini che delimitavano quella tribù di ‘gente come noi’ alla quale si apparteneva. Al giorno d’oggi, anche se tutte queste informazioni ci servono ancora per compilare un formulario demografico, siamo più propensi a considerare dove ciascuno sta andando piuttosto che racchiuderlo in un contenitore a seconda del luogo dal quale proviene. Nella maggior parte dei casi, fortunatamente, guardiamo al di là della razza, dell’area di provenienza o del retroterra etnico, per chiederci quale genere di persona sia quella che abbiamo di fronte. Qui, però, sorge un problema, perché le parole molto spesso ci tradiscono quando cerchiamo di indicare con precisione quelle caratteristiche, spesso sottili, talvolta ancora soltanto accennate, che attualmente, e sempre di più, identificano la ‘gente come noi’. Tutte le volte che le parole ci vengono a mancare (e questo è accaduto nel corso di tutta la storia dell’uomo) ci rivolgiamo all’altro grande medium espressivo altamente sofisticato e penetrante: i segni e i simboli visuali.
È questa la ragione per la quale lo stile è così importante nel 21° sec. e perché continuerà a esserlo durante tutto il suo svolgersi, una volta superate le vecchie divisioni tra ‘noi’ e ‘gli altri’. Di conseguenza, con grande ingegnosità, noi ‘gente comune’ selezioniamo attentamente gli accessori dello stile e del marchio che riteniamo esprimano visivamente con la maggiore precisione possibile ‘dove andiamo’ e poi facciamo un sampling and mixing di tutto questo (combinando tra loro marchi diversi e stili diversi) in una dichiarazione di stile semiologicamente potente e appropriata.
Nella storia dell’uomo, i nostri progenitori hanno usato lo stile come segnale di appartenenza sociale e culturale. La differenza interessante dei giorni nostri è che, atomizzati, separati, persi nello spazio, nel tempo e nel significato, noi – mediante l’aiuto degli stilisti e di coloro che modulano finemente il senso dei significanti del marchio – stiamo invertendo il processo: usiamo cioè il linguaggio dello stile per (auspicabilmente) costruire reti, appartenenze, rapporti e comunità di ‘gente come noi’.
Da Parigi a ovunque
Quando, nel 1962, il sociologo canadese Marshall McLuhan coniò l’espressione villaggio globale neanche lui – il supremo profeta dell’interazione umana e dell’evoluzione dei sistemi di comunicazione – poteva immaginare in quale misura Internet avrebbe intrecciato e cementato il mondo rendendo la geografia un elemento sempre più irrilevante.
McLuhan aveva previsto la globalizzazione ma, ancora oggi, la nostra comprensione di che cosa essa sia e dell’effetto che sta producendo sottintende una visione dei rapporti tra ‘Occidente’ e resto del mondo che appare legata al 20° se non addirittura al 19° secolo. Presumiamo, per es., che il ‘villaggio globale’ sia un luogo sempre più omogeneo nel quale le culture locali vengono spinte ai margini mentre tutti cercano di diventare come ‘noi’ in ‘Occidente’. L’industria internazionale della moda, in effetti, ci fornisce un’illustrazione particolarmente chiara del processo, con marchi europei e americani come Prada, Paul Smith, Dior, Ralph Lauren e molti altri che aprono con successo i loro negozi in centri commerciali costruiti secondo lo stile occidentale a Nuova Delhi, Pechino e Mosca. E le capitali occidentali della moda come Parigi, Milano, Londra e New York che restano, come nel Novecento, le vetrine del nuovo design verso le quali guarda il resto del mondo.
Un esame più approfondito – che soprattutto prenda le mosse dal presupposto per cui, come abbiamo sottolineato in tutto questo saggio, lo stile del nuovo secolo è qualcosa di molto diverso dal suo predecessore, la moda del 20° sec. – rivela, tuttavia, come il villaggio globale sia in realtà animato da diversità culturali, eterogeneità geografiche e, per la prima volta, più che da un imperialismo unidirezionale, da un’interfaccia dinamica e creativa tra ‘gli altri’ e ‘noi’ come pure tra ‘noi’ e ‘gli altri’.
Capitale indiscussa di tutto ciò che è di moda, elegante ed esteticamente corretto, per centinaia di anni Parigi ha detto al resto dell’Occidente e del mondo occidentalizzato come vestirsi. Dopo la Seconda guerra mondiale Milano, Londra e New York si sono intromesse nel monopolio di Parigi senza mai peraltro, almeno nel lungo periodo, prenderne completamente il posto nel rivendicare il ruolo di supremo centro geografico del mondo della moda. Oggi tuttavia (e questo avrebbe stupito personaggi come Dior e Coco Chanel) la maggioranza degli stilisti che presentano le loro creazioni e richiamano l’attenzione internazionale a Parigi non sono francesi. Il 21° sec. ha infatti già visto sfilare Ann Demeulemeester (belga), Alexander McQueen (inglese), Viktor and Rolf (olandesi) e Hussein Chalayan (turco-cipriota).
Il fatto veramente importante che caratterizza lo stile del 21° sec., però, è che quello che una volta era visto come un fenomeno esclusivamente occidentale – e che quindi faceva presumere, accordandogliela, una superiorità in questo campo – è stato ora ravvivato e arricchito da stilisti provenienti da altri Paesi, i quali hanno portato sensibilità, tecniche e visioni estetiche distintamente non occidentali in quello che era un tempo il più riuscito e il meno contestato bastione dell’imperialismo occidentale.
Potremmo citare Yohji Yamamoto, Rei Kawakubo o Issey Miyake dal Giappone, Rıfat Özbek dalla Turchia, Alexandre Herchcovitch dal Brasile o Xuly Bët dal Mali, ma qualsiasi lista è destinata fatalmente a essere parziale e a venire continuamente integrata da nomi provenienti da Paesi e continenti fino a poco tempo fa estranei al mondo della moda. Nel 2008 il prestigioso Woolmark Prize (che nel 1954 fu assegnato a un giovane Yves Saint Laurent spingendolo sulla strada del successo) ha visto in competizione due cinesi, Qiu Hao e Shao Jia, ed è stato poi assegnato al primo. In questo senso le grandi sfilate di Parigi stanno diventando proprio come la Fiera del libro di Francoforte, la quale domina il panorama editoriale internazionale ma riserva soltanto una piccolissima parte del suo spazio, e ancora meno del suo interesse, agli editori di lingua tedesca.
La sempre crescente presenza internazionale a Parigi, Milano, New York e Londra, tuttavia, è solo la punta di un iceberg. I primi anni del 21° sec. hanno visto una straordinaria fioritura di ‘settimane della moda’ in città molto lontane dalle quattro grandi capitali riconosciute di questa industria. Un genere di eventi che oggi ha luogo a Melbourne, Nuova Delhi, Mosca, Città del Capo, Buenos Aires, San Paolo, Dubai e Pechino, solo per nominarne alcune. Un fenomeno che non riflette solo l’abbondanza di giovani e talentuosi stilisti di queste e di altre città ma, cosa più importante, una crescita del gradimento da parte dei consumatori europei e americani per il design e gli stilisti di origine e sensibilità non occidentali.
È questo ciò che non avevamo presagito nella nostra vecchia visione del villaggio globale: lo spasmodico interesse da parte dell’Occidente per quello che non è occidentale e, di conseguenza, in risposta a questo bisogno, la continuazione e in molti casi addirittura la rinascita di tradizioni culturali diverse in ogni parte del mondo. Così, paradossalmente, proprio come le forze globalizzanti dell’Occidente minacciano di omologare tutte le culture e le nazionalità del mondo in una sola uniformità occidentalizzata, è la stessa crescente disaffezione dell’Occidente verso il proprio dominio stilistico che (spesso disorientando, per es., i giovani indiani o messicani che da parte loro desiderano solo i grandi marchi europei o americani) sta spingendo verso un villaggio globale sempre più eterogeneo, indigeno e nazionalistico.
D’altra parte, però, i principali acquirenti e giornalisti di tutto il mondo non potrebbero in alcun modo, neanche se lo volessero, andare a visitare tutte o anche solo la maggior parte di queste ‘settimane della moda’ nei diversi Paesi ansiosi di conquistare una posizione di prestigio nel panorama del design internazionale. E quanti tra le migliaia di giovani stilisti che escono da ottime scuole di Paesi come India, Brasile, Argentina o Cina saranno in grado di trovare le astronomiche cifre di denaro necessarie per organizzare una sfilata a Parigi? La soluzione è semplice ed è tale che, nonostante le rimostranze dei professionisti dell’industria della moda, è destinata ad affermarsi nel villaggio globale del 21° sec.: l’esibizione del nuovo design di tutto il mondo sulle passerelle virtuali di Internet. E niente ci impedisce di immaginare un futuro nel quale lo stile del 21° sec. eliminerà la sfilata sulla passerella in ogni sua forma. Si può facilmente immaginare uno scenario in cui un giovane stilista, diciamo di San Paolo, o Kingston, o Kiev, realizzi un video autoprodotto per promuovere i suoi modelli, caricandolo poi su uno di questi nuovi siti web che, come fanno già oggi MySpace, Facebook o YouTube, trasformano qualsiasi luogo in ogni luogo. Qualcuno che gestisce una piccola boutique, per es. ad Amsterdam o a San Francisco, potrebbe notare questi modelli e organizzarsi per la manifattura e il trasporto. Il tutto senza la mediazione di acquirenti e giornalisti professionisti che riempiono gli aerei e, grazie alla magia di Internet, creando la possibilità di un’industria dello stile davvero democratica, non più dominata da un’élite di super ricchi e veramente internazionale in termini sia di input sia di output.
Come tutta la moda del 20° sec., anche lo street style, che nacque e acquistò una forza sempre maggiore nella seconda metà di quello stesso secolo, ebbe un centro focale geografico, una specifica città o perfino una piccola zona di una città nella quale esprimeva il suo livello massimo di eccellenza, rappresentando un centro illusorio dell’universo della cultura popolare che in ogni caso fu soggetto a spostamenti. Negli anni Cinquanta fu il Greenwich Village di New York. Nei primi anni Sessanta il centro si era spostato a Carnaby street a Londra, ma solo per poco tempo perché, nel 1967, era di nuovo negli Stati Uniti sulla West coast a Haight-Asbury, San Francisco. I punk riportarono in seguito l’attenzione su Londra e, fino alla fine del Novecento, il centro della ribalta si spostò continuamente tra Londra e New York dove l’emergere dell’hip hop ripristinò il legame tra lo street style e le sue originarie radici afroamericane. Dovunque si localizzasse, negli Stati Uniti oppure in Gran Bretagna, resta il fatto che lo street style – così come l’industria della moda che lo street style stava sempre più eclissando, costringendola a imitarlo – si è rivelata un fenomeno intrinsecamente occidentale.
Il 21° sec. ci ha dimostrato che anche questa era un’ipotesi sbagliata. Quando nel 1994 a Londra fu inaugurata l’esposizione Streetstyle sembrò del tutto conseguente che la prima e più ampia mostra su questo argomento dovesse svolgersi nella città che aveva prodotto i teddy boys, i mods, gli skinheads, i punk e molti altri street styles originali. Se però una nuova mostra che celebrasse gli street styles fosse aperta oggi il luogo giusto sarebbe Tokyo dove, come accadde un tempo per Carnaby street e Kings road, i vicoli intorno a Harajuku e Shibuya hanno prodotto a ondate tutte le ‘tribù’ che hanno dominato lo street style del 21° sec.: le gonguro girls, i mamba, le gothic Lolita, i decora kids e tutta quella straordinaria varietà di sottoculture che hanno visto fotografi, giornalisti e turisti popolare i vicoli di Harajuku come era accaduto per Carnaby street, Haight-Asbury o Kings road.
Eppure nel 2008, lo spettacolo si è già trasferito altrove. Ma questo altrove nell’epoca di Internet è dappertutto e in qualsiasi luogo. Oltre ai siti che indulgono all’esibizionismo come quelli precedentemente menzionati, l’idea che la ‘gente comune’ possa sfoggiare il suo look spesso straordinario, originale, creativamente sampled and mixed ha generato analoghi siti del tipo ‘mostra il tuo stile’ con sedi in città geograficamente e culturalmente diverse, come Helsinki, Città di Messico, Kiev e perfino Teherān. E dunque dove si trova il non plus ultra dello stile del 21° secolo? Dappertutto e in qualsiasi luogo: soprattutto dove una volta non ce lo saremmo mai aspettato.
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