Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Seicento la circolazione di modelli musicali tra cultura di tradizione orale e civiltà della scrittura è determinante per lo sviluppo delle nuove tendenze formali e stilistiche della musica. La canzone strumentale, la sonata, la toccata organistica, il concerto assorbono modalità di esecuzione e di elaborazione che appartengono al mondo popolare, ma anche la cultura orale a sua volta nel Seicento è particolarmente recettiva all’assunzione di modelli musicali elaborati dai compositori di alta scuola.
Tradizione orale e circolazione scritta
“C’era una volta un re di Vallepelosa, che aveva una figliuola chiamata Zoza, la quale (...) mai non si vedeva ridere. Il misero padre (...) non tralasciava alcuna cosa per toglierle la malinconia, e faceva venire, per stuzzicarla a ridere, ora quelli che camminano sulle mazze, ora quegli altri che s’infilano nei cerchi, ora i mattaccini, ora Mastro Ruggiero”. Questo Mastro Ruggiero, ricordato nel Pentamerone di Giovanbattista Basile, è un cantore, suonatore e forse anche saltimbanco il cui nome ricorre nelle cronache napoletane tra gli anni Ottanta del Cinquecento e gli anni Venti del Seicento.
A questo personaggio si presume sia legata l’origine del nome di una danza assai diffusa nel Seicento in molte parti d’Italia: il Ruggiero appunto, nella cui vicenda si riflette la storia dei rapporti tra livelli culturali diversi, tra diverse regioni, tra circolazione scritta e tradizione orale della musica nell’Italia del Seicento.
Mastro Ruggiero è una di quelle figure a metà strada tra il mondo popolare e gli ambienti professionali della musica colta di tradizione scritta che all’inizio del Seicento hanno avuto funzione di tramite tra livelli culturali e linguaggi musicali diversi, rinvigorendo l’universo estenuato delle artificiose polifonie di cinquecentesca memoria con l’apporto di materiali provenienti dalle piazze, dai carnevali, dalle feste popolari urbane e contadine.
Il mondo semialfabetizzato degli artigiani, di ciabattini, barbieri, bottai e carradori è, agli inizi del Seicento, il mondo da cui provengono la maggior parte dei musicisti professionisti che suonano nell’orchestra del Senato della loro città, nella cappella musicale del duomo, a palazzo come per i matrimoni di gente del loro ceto, o in piazza per il carnevale, e per accompagnare gli spettacoli di saltimbanchi, burattinai, imbonitori. Costoro, ancora memori del patrimonio musicale contadino e artefici della sua urbanizzazione, sono pure in grado di leggere ed eseguire brani musicali di tradizione scritta, o di fissare sulla pagina i più diffusi tra i brani musicali circolanti nel loro ambiente.
Nei conservatori vengono accolti bambini ciechi, orfani e trovatelli, con l’intento di fornir loro un’educazione di base e insegnar loro il mestiere di musicisti: lì apprendono a cantare, suonare degli strumenti musicali, leggere e scrivere la musica. In queste scuole di carità, dunque, gente appartenente al mondo popolare urbano e contadino entra in contatto con le pratiche della musica colta, della scrittura, delle regole della composizione, sia pur apprese in maniera rudimentale.
Questa gente, che senza perdere il contatto con l’ambiente di provenienza frequenta pure, per l’esercizio della propria professione, chiesa e palazzo, si colloca socialmente nella fascia intermedia tra popolo e alta società e funge da filtro permeabile per la circolazione di cultura tra livelli sociali diversi e distanti tra loro. Il Seicento è forse il secolo in cui più marcatamente si definisce la scollatura, anche sul piano musicale, tra cultura della scrittura e civiltà orale.
Il nuovo interesse per le arti e per il loro esercizio pratico da parte dell’aristocrazia da un lato, e la definizione di un ceto popolare urbano distante dal mondo contadino e culturalmente autonomo, dall’altro, contribuiscono a formare in questo secolo le basi di quell’articolazione di livelli culturali diversi che è caratteristica della città moderna.
I musicisti di fascia artigiana, i suonatori di piffero, di tromba e di tamburo delle orchestre cittadine e militari, i flautisti, i violinisti delle cappelle sacre e di palazzo, per lo più sconosciuti o individualmente poco noti per non aver lasciato pagine di composizioni o trattati di teoria e pratica musicale, pure hanno contribuito in maniera assai rilevante a formare il paesaggio musicale del Seicento, a orientare lo sviluppo della cultura musicale nella direzione che porta, per passaggi articolati, alla formazione di nuovi linguaggi, nuove forme, nuovi generi.
La composizione strumentale
Ai musicisti di fascia artigiana, ai repertori popolari e popolareschi da loro tramandati e introdotti in chiesa e a palazzo, si deve l’adozione da parte di compositori colti di modelli musicali che, ampliati e variati con le regole della musica di tradizione scritta, orientano quest’ultima verso l’acquisizione di nuovi linguaggi.
La grande diffusione secentesca di repertori da danza, che, ordinati nella forma della suite, diventano anche musica d’ascolto, trascendendo la funzione legata al ballo, si deve in gran parte all’avvicinamento, compiuto in questo secolo, di pratiche musicali di diverso livello: la figura del musico esecutore di musica d’intrattenimento e da ballo e la figura del compositore sono meno distanti di quanto non fosse in passato, e in certa misura si sovrappongono e si fondono.
Nel Seicento si afferma la composizione strumentale, che nasce soprattutto come elaborazione scritta di melodie di vasta diffusione: variazione, ricercare, fantasia, capriccio sull’aria di Ruggiero, di Romanesca, sull’aria della Monica, sulla Girometta, sulla follia sono i nomi più di frequente assegnati a queste costruzioni musicali su temi popolari.
Le composizioni strumentali approdate alla pagina scritta nei primi decenni del Seicento rappresentano, in fin dei conti, l’elaborazione di quei quaderni e fogli d’appunti sui quali gli strumentisti, per integrare e non del tutto per sostituire la memoria, annotavano le linee fondamentali dei brani del loro repertorio.
Il quaderno d’appunti, quando a utilizzarlo non è più un musico girovago, un cantastorie o un violinista di second’ordine, ma è un compositore di alta scuola e consueto alla pratica grafica e compositiva della scrittura, diventa il libro di toccate, la raccolta di ricercari, di capricci, fantasie di compositori come Frescobaldi, Trabaci, Pasquini, Storace.
Sonate e canzoni
Il critico Lorenzo Bianconi ha brillantemente descritto “come, nei primi decenni del Seicento, la distinzione tra canzone e sonata (...) sia soprattutto una distinzione sociologica: gli autori di canzoni sono perlopiù organisti (e come tali dotati di una formazione teorica completa, oltre che di esperienza manuale), gli autori di sonate perlopiù suonatori (nella maggioranza di violino, lo strumento monofonico emergente). Più spiccata in questi ultimi è la ricerca dell’effetto sonoro idiomatico, lo sfruttamento delle risorse tecniche specifiche dello strumento, l’invenzione timbricamente più definita. L’organista compositore eccelle invece nella complessità e nitidezza dell’ordito contrappuntistico, che nell’orizzonte del violinista autore di sonate occupa una posizione arretrata”.
È vero che nel corso del secolo la produzione di sonate diventa preponderante sulla produzione di canzoni, che la ricerca timbrica e il gioco di contrapposizioni tra organici, la virtuosistica abilità dell’esecutore e il risalto dato al suo strumento nell’ordito della composizione sono storicamente determinanti nel delineare la vicenda del concerto grosso e del concerto solistico, e con essi le vicende di quella che sarà la grande produzione di musica strumentale del Settecento.
È dunque in qualche misura il violinista di strada, il musico virtuoso approdato a corte e assurto di fresco a nuova dignità di compositore, a trionfare, sul piano storico, sul compositore di tradizione, cresciuto alla scuola di contrappunto frequentata sui banchi degli organi e negli ambienti colti di chiesa e di palazzo.
È vero però, e altrettanto importante sul piano storico, il fatto che le musiche di strada vengono asservite al processo di trasformazione della musica colta soprattutto da parte degli organisti, dei compositori di canzoni, cioè da parte di coloro che, spogliandole delle loro caratteristiche timbriche, appiattite sul suono più neutro dell’organo, le trasformano in puro materiale sonoro, pronto a essere variato ed elaborato in quel fecondo e multiforme laboratorio che è il mondo della musica per strumenti a tastiera del Seicento.
L’arte della variazione si fonda essenzialmente sulla ripetizione di un’unica struttura musicale, la quale, costantemente modificata, pure deve essere sempre riconoscibile e riconducibile alla forma originale. Si sviluppa così, nella produzione dei maestri organisti della prima metà del Seicento, la tendenza a costruire brani musicali fondati sulla ripetizione continua di un’unica formula, magari affidata ai tasti toccati dalla mano sinistra, mentre la destra esegue su di essa intrecci di note.
Le poche note della melodia di base diventano importanti in ragione della possibilità di costruirvi sopra elaborate strutture di consonanze. Esse, insomma, si qualificano sempre più come successioni armoniche, come gradi di un percorsotonale, che come linea melodica.
L’uso di bassi ostinatiostinati come formule di base su cui eseguire variazioni virtuosistiche introduce a una nuova attenzione per la scansione di blocchi accordali: in altre parole, a una nuova sensibilità armonica. Questa contribuisce, al pari della esplorazione timbrica dei virtuosi violinisti, allo sviluppo delle nuove forme concertanti. Concomitante alla grande fortuna del melodramma, che dà alla voce del cantante predominanza sugli strumenti d’accompagnamento, con essa concorre nel formare il panorama musicale che, nei suoi esiti settecenteschi, sancirà l’affermazione del sistema tonale e ne produrrà le regole e le strutture di base.
Dal compositore alla piazza
Ai musicisti di fascia artigiana, cui si deve l’introduzione nell’universo della musica colta di nuove forme e di nuove sensibilità, si deve, di converso, anche l’introduzione nei repertori popolari di quei modelli di derivazione colta che nella tradizione orale italiana sono vivi ancor oggi, e che portano i segni inequivocabili dei modelli musicali secenteschi.
Al mondo popolare urbano tornano anche i modelli musicali da esso originati e rielaborati in sede colta: le Girometta, i Ruggiero, le pastorali natalizie, le monferrine, ancor oggi suonate e cantate da contadini, dapastori e da professionisti dello spettacolo popolare quali i cantastorie e i musici ambulanti, ritornano dai palazzi, in cui Mastro Ruggiero li ha condotti e Frescobaldi modificati, alle piazze in cui il nipote di Mastro Ruggiero li riesegue; dai mercati, dalle fiere, dai carnevali nel corso dei quali queste piazze si popolano tornano ai bottegai, ai falegnami, e anche ai contadini, ai pastori che, venuti in città a vendere le uova o a portare il latte, restituiscono queste musiche alla cultura delle campagne.
La devozione popolare, praticata anche attraverso l’esecuzione collettiva delle laudi, il canto processionale delle confraternite, la diffusione di testi sacri a stampa da cantarsi su melodie popolari, concorrono al processo di ibridazione tra livelli culturali e forme musicali diverse, alla formazione di un universo dellamusica di tradizione scritta e un universo, a questo economicamente e culturalmente subalterno, che si fonda invece sulla tradizione orale. Questi due modi di tramandare ed elaborare la musica e la cultura musicale nel Seicento appaiono estremamente vicini, e si influenzano l’un l’altro con un’intensità mai più raggiunta dalla civiltà europea: per dar inizio, dalla fine del secolo, a un processo di divaricazione mai più interamente colmata.