Dalla riscoperta della pace all'inestinguibile sogno di dominio
"Crisi generale del Seicento". Un secolo intriso di violenza, che praticamente non ha conosciuto pace, tutto un susseguirsi di guerre - secolo "horrido per l'ingordigia di havere e per il traffico degli honori, per la vendita della giustitia, per il soverchio degli odii e de' rancori", lo qualificava uno scrittore seicentesco, o "secolo di ferro", secondo la definizione di uno storico a noi contemporaneo. Secolo colpito per di più da una crisi che avrebbe coinvolto buona parte d'Europa, e che avrebbe avuto le sue manifestazioni più forti nelle rivoluzioni e nei sommovimenti scoppiati quasi in sincronia verso la metà del secolo: la rivoluzione puritana in Inghilterra, con il suo contorno di rivolte in Scozia e in Irlanda, le guerre della Fronda in Francia, le insurrezioni nella penisola iberica, Portogallo e Catalogna, quelle contro lo statolderato nelle Province Unite d'Olanda, e poi la rivolta, infuocata di passione popolare da Tommaso Aniello, o Masaniello, nel viceregno di Napoli, accompagnata nel viceregno di Sicilia dai moti di Messina e di Palermo. Senza dimenticare la rivolta dell'Ucraina dal 1648 al 1654, o gli avvenimenti di Svezia del 1650. Discutendo di questa crisi si è messa in evidenza la gravità del contrasto apertosi tra le corti rinascimentali e le società che mal reggevano il loro peso, poi si è andati più in là, cogliendo lo scricchiolare di tante vecchie strutture statali, e il rifiuto dei sistemi fiscali, l'incrinarsi della feudalità, le difficoltà di economie come quelle mediterranee di contro allo sviluppo di paesi come l'Olanda, qualche affiorare del capitalismo. Altri ha additato la forza trascinante che ha in questo periodo la passionalità religiosa, e insieme il delinearsi di una svolta culturale, che si esprime nell'arte come nella storiografia, per non parlare delle scienze, fisiche e matematiche, che conosceranno qui il loro rinnovamento. È la "cultura del barocco", il diffondersi di una nuova sensibilità, di un nuovo modo di proporsi di fronte alla società e all'esistenza, ha sottolineato con grande vivacità uno storico particolarmente attento alla realtà spagnola, José Antonio Maravall. Qualcosa che aveva già intuito uno storico francese capace di penetrare nel profondo l'evolversi del sentire collettivo, Lucien Febvre: "Gomme ces hommes d'après Galilée, comme ces hommes d'après Descartes, sont devenus plus riches, plus nuancés, plus compliqués que leurs pères", egli scriveva, contrapponendo la generazione che si affacciava nella prima metà del Seicento a quella che era stata oggetto del suo precedente lavoro sull'incredulità nel Cinquecento (1).
Tra gli anni '60 e gli anni '70 il dibattito sulla "crisi generale del Seicento" ha appassionato come poche volte storici di vari paesi, a cominciare dall'Inghilterra, che ne è stata l'epicentro, con un famoso saggio di Hugh Trevor-Roper, per finire con la Russia, che ha dato con Alexandra D. Lublinskaya una polemista delle più agguerrite.
Non c'è stato dibattito più vivace, e nel contempo "più lontano da una conclusione definitiva", ha osservato, a modo di bilancio, il più autorevole degli studiosi intervenuti, John H. Elliott: su di un punto si è bensì trovato il consenso, nel sottolineare "le caratteristiche più turbolente dell'epoca", anche se nel complesso sono prevalse le divergenze tra le varie tesi. A John H. Elliott si è poi affiancato uno storico italiano, Rosario Villari. Evitare le "generalizzazioni", è stata a suo vedere la lezione più chiara del dibattito, anche "se si tratta di regioni che hanno sempre avuto stretti legami geografici, politici, economici, culturali"; e si badi bene alle ambiguità insite nella definizione di crisi. Un risultato senz'altro positivo questo gran discutere e contrapporsi di indagini e di analisi a suo vedere l'ha comunque avuto, ed è il richiamo alla riflessione degli storici su elementi che paiono sicuri, come il "mutamento di clima storico", la "complessità delle spinte sociali e politiche", i tentativi di strumentalizzare "un diffuso stato di esasperazione" che hanno caratterizzato il Seicento, particolarmente nella sua prima metà; il Villari ha additato a modello l'opera di Christopher Hill, volta a individuare le "origini intellettuali" della rivoluzione inglese, cogliendone i nessi con il movimento puritano e con l'evolversi della società (2).
La Repubblica di Venezia è rimasta fuori da questo intrecciarsi di discussioni. Anzitutto, perché si è considerato il Seicento, a partire dalla conclusione della contesa dell'interdetto tra la Repubblica veneta e la Curia romana, un lungo momento di transito tra la Venezia ancor vigorosa e splendente del Cinquecento e quella ormai investita dalla luce dorata del definitivo tramonto del Settecento. Certo, c'erano le glorie sfortunate della guerra di Candia, e quelle un po' più offuscate della guerra di Morea, ultimo guizzo di un antico sogno di dominio. Ma si riteneva che si fosse avviata sin dai primordi del secolo la decadenza destinata a durare, senza rimedi o interruzioni - quasi un irresistibile piano inclinato -, sino alla fine del Settecento, una decadenza che coinvolgeva l'economia e la finanza, le strutture di governo e l'aristocrazia che le reggeva.
In questi ultimi tempi la storiografia, addentrandosi più attentamente e più profondamente nelle vicende politiche seicentesche, e ancor più nel vivo della realtà economica e sociale, ha riveduto questa visione, o quanto meno l'ha colta nella sua complessità, ne ha rivelato le contraddizioni, ha individuato quanto di nuovo era emerso ed emergeva e insieme quanto del vecchio si prolungava, per inerzia o per precisa volontà, nonché la vivacità di taluni aspetti della vita veneta, e il desolante abbandono di altri. Questo nostro volume costituisce un apporto ulteriore, per molti settori fondamentale, alla revisione in atto. Ci basti qui menzionare il contributo di Gino Benzoni, che fa scorrere davanti al lettore tutta la vita culturale della città, cultura dei dotti e cultura degli umili, letteratura e storiografia, scienza e devozione, tutto un gioco di luci e di ombre che connota nella sua esteriorità e nella sua intimità la società barocca e che costituisce un ottimo sfondo alle pagine illuminanti di Carmelo Alberti, Giovanni Morelli, Lionello Puppi, Ruggero Rugolo e Marino Zorzi, sul ruolo che teatro, musica, arti figurative, produzione e diffusione del libro, hanno, oltre che nella stessa vita culturale, in quella politica e sociale di Venezia; le pagine di Luciano Pezzolo e di Ugo Tucci sull'economia e la finanza venete, nonché quelle strettamente connesse di Ivo Mattozzi sugli investimenti di nobiluomini veneti nella Terraferma, chiariscono bene se, ed entro quali limiti e come, si possa parlare di una crisi: altri contributi, che illuminano questioni più specifiche, saranno ricordati allorquando si farà cenno al tema da loro affrontato (3).
Ma c'è stata una crisi veneta del Seicento? A mio vedere sì, seppur entro i limiti che si cercherà di delineare. Per un certo verso una crisi di crescita, maturata nell'ultimo ventennio del Cinquecento. Una crisi cioè vissuta sul piano culturale, così che la città delle lagune è stata uno dei centri d'Europa che più hanno contribuito con Galileo Galilei, con Paolo Sarpi, con i loro discepoli e ammiratori alla rivoluzione scientifica di quel tempo, e con lo stesso Sarpi, con Nicolò Contarini a quella rivoluzione storiografica che è un po' corrispettivo della scientifica; crisi segnata da inquietanti risvolti religiosi, che hanno fatto di Venezia uno dei centri del cattolicesimo più intensamente toccati da esigenze di rinnovamento e da fermenti di rivolta, riassorbiti poi nel corso del secolo, come apparirà più avanti dal mio contributo e da quello a più ampia visuale, e per tanti aspetti innovatore, di Antonio Menniti Ippolito (4). Per un altro verso, una crisi che si è manifestata pesantemente sul piano politico-istituzionale, investendone il nucleo centrale, ossia il rapporto tra l'aristocrazia detentrice della sovranità e gli ordinamenti che essa si era dati per reggere la Repubblica, così da logorare la compattezza o addirittura l'unità della stessa aristocrazia.
Il patriziato, o la nobiltà veneta, come si preferiva definire l'aristocrazia dominante, con tutti i problemi che ne hanno contrassegnato la sua situazione tra Cinquecento e Seicento, ha uno spazio importante in questo volume. Laura Megna, la quale ha già svolto su questo argomento un'indagine stimolante, nel suo contributo a questo volume segue il divaricarsi sempre più ampio e sempre più incolmabile tra ricchi e poveri, ne individua le cause, ne spiega le conseguenze. Per volgersi poi a parlare della straordinaria decisione presa dal maggior consiglio nel corso della guerra di Candia di aggregare al patriziato varie famiglie che fossero in grado di versare all'erario una grossissima somma di danaro: e illustra la differenza delle reazioni di patrizi ricchi e di patrizi poveri - favorevoli gli uni, contrari gli altri - di fronte a un provvedimento che, seppur motivato dalle necessità finanziarie della guerra, ribaltava eversivamente i canoni ideali su cui l'aristocrazia veneta si fondava. Esamina poi quali conseguenze abbia avuto tale provvedimento sul sistema di governo e sulle stesse famiglie che avevano ritenuto di approfittarne (5). Quanto a Sergio Zamperetti, egli fa rilevare un aspetto dell'ordinamento veneto finora poco conosciuto o trascurato: come a dispetto di norme e princìpi miranti a tutelare l'uguaglianza formale dell'aristocrazia, non poche famiglie, pur impegnate nelle massime responsabilità di governo della Repubblica, disponessero nello stesso Dominio di Terraferma di feudi o signorie che ledevano la pienezza della sua sovranità; e come l'aspirazione di famiglie aggregate nel corso della guerra di Candia fosse di ottenere delle particolari giurisdizioni che distinguessero anche loro nell'ambito di quella aristocrazia che non sopportava l'appiattimento che l'uguaglianza implicava (6).
Sono le dimensioni assunte durante il Seicento dalla criminalità patrizia a fornire una documentazione sconcertante. Ci si riferisce non tanto ai frequentissimi casi di concussione e di corruzione, molto diffusi tra coloro che andavano a reggere cariche nella Terraferma, biasimati in termini accesissimi nei proclami e nelle sentenze, ma trattati poi dalla giustizia con occhio clemente in quanto si considerava che quei reati, soprattutto nel caso di poveri nobiluomini, erano uno strumento necessario per sollevare da rovinose condizioni economiche; e neppure ai casi di "intacco", o di peculato, frequenti anche tra nobiluomini di indiscusso prestigio - un'occasione grossa sarà offerta dalle guerre di Candia e di Morea -, che erano considerati crimini ben più gravi, e che spesso, non sempre, erano perseguiti con pene severe (7). Ciò che turbava profondamente erano i casi di nobiluomini che o nel Dominio di Terraferma o addirittura nella stessa capitale sfidavano apertamente la giustizia della Serenissima Signoria, circondandosi di gruppetti di "bravi" e compiendo con essi prevaricazioni e violenze di ogni sorta: tanto più che tali nobiluomini finivano per beneficiare praticamente dell'impunità, approfittando dello stato di guerra che con le sue esigenze politiche e finanziarie costringeva a transigere sulle pene, a largheggiare in grazie, a render insomma incerto e arbitrario il diritto. Basti ricordare alcuni casi tra i tanti. Quello di Vettor Grimani Calergi, per cominciare: il quale, incriminato una prima volta nel 1646, se l'era cavata con una grande offerta per la guerra di Candia; imputato poi, nel 1654, dal consiglio dei dieci per crimini gravissimi, aveva ottenuto la libertà un anno dopo. O la vicenda di Francesco Querini Stampalia, già colpito da bando, indi condannato dallo stesso consiglio a dieci anni di carcere, ma libero per il versamento alle casse dello Stato di più di 2.000 ducati, quanto serviva per mantenere cinquecento soldati al campo per sei mesi. Per concludere con Girolamo Canal, il quale dopo una vita di efferatezze e di incriminazioni da parte del consiglio dei dieci, riuscirà nel 1702, dunque durante la conquista della Morea, a farsi eleggere procuratore di San Marco pagando ben 25.000 ducati. Benefici di alleggerimenti o esenzioni di pena di cui approfittavano largamente anche i nobili della Terraferma, dove l'ordine pubblico andava ancor peggio. Famiglie che non avevano mai accettato la soggezione al Dominio veneto non potevano trovare di meglio che approfittare delle difficoltà in cui si dibatteva la Serenissima per mortificarne la sovranità. Ma gli atteggiamenti ribelli dei membri dell'aristocrazia che reggeva la Repubblica assumevano ben altra gravità, erano loro i depositari di quella sovranità che violavano: la legge della Repubblica era stata emanata da loro, si identificava con loro, era espressione della loro autorità. La quale rischiava così di ridursi a mera protervia di usurpatori, indegni del rispetto che doveva portarsi a un principe (8).
In fondo, la rivolta dei nobiluomini poveri insorta nel terzo decennio del Seicento aveva finito per concentrarsi proprio sulla questione della giustizia penale, così com'era venuta a configurarsi istituzionalmente negli ultimi cinquant'anni, o, più esplicitamente, dacché nell'ambito del governo veneto si era presa coscienza drammatica dei problemi politici, non solo sociali, causati dalle gravi condizioni economiche di un ampio settore dell'aristocrazia. Il punto di partenza era stata una legge del 1571, la quale stabiliva che tutti i nobiluomini, fossero imputati o parti lese, dovessero esser giudicati esclusivamente dal consiglio dei dieci. La norma non mirava (come apparentemente poteva sembrare, e magari effettivamente era, almeno in qualche misura) ad assoggettare tutta la veneta nobiltà a una giustizia speciale, sorta di prioilegium fori, ma a sottoporre i nobili poveri, ora che l'ordine patrizio si era diviso sostanzialmente in due ceti, alla giustizia esercitata dal ceto più alto, dalla quale cioè loro erano esclusi - il consiglio dei dieci, di cui facevano parte pure il doge e i sei consiglieri ducali, era in pratica accessibile solo a coloro che avessero potuto fare, in virtù delle loro fortune oltre che dei loro meriti, delle grandi carriere. C'era dell'altro: che il consiglio dei dieci disponeva di una procedura sua particolare, segreta, dove gli imputati non dovevano conoscere né chi li accusava né chi testimoniava contro di loro, ed erano per di più tenuti a difendersi da soli, con la loro viva voce, senza l'aiuto di avvocati (9). Un tribunale severo, il consiglio dei dieci, paventato da tutti: e i nobiluomini poveri temevano che quella severità si sarebbe esplicata soprattutto nei loro confronti, e molto meno sui ricchi e potenti, giusta il vecchio detto che "lovo non magna lovo", il lupo non mangia il lupo.
Renier Zeno, il nobiluomo che, pur avendo titoli per appartenere al ceto più alto, si era assunto l'onere di guidare il movimento dei nobiluomini poveri, aveva preteso e ottenuto che il consiglio fosse sottoposto a una "correzione", ossia a una riforma straordinaria delle sue competenze. "Questo signore è capo d'una factione grandissima, che tira a sé tutta la nobiltà povera [...]. Onde haverà sempre a sua devotione poco meno che i due terzi delle balle [dei voti] del Gran Consiglio", scriverà di lui il rappresentante a Venezia del duca di Modena il 30 ottobre 1627, convinto che la popolarità dello Zeno gli avrebbe consentito di ottenere grandi risultati (10).
Tutto si era concluso invece in un modesto rattoppo istituzionale, che lasciava aperti i problemi più grossi ed importanti, e non placava certo gli animi dei rivoltosi. Lo notava preoccupato un altro osservatore straniero, esperto da tempo di cose veneziane, già buon conoscente del Sarpi e del suo gruppo, quale l'ambasciatore d'Inghilterra Isaac Wake, in una lettera al segretario di Stato George Conway del 15 settembre 1629. Egli non esitava a definire pesante la situazione: il corpo e il governo di questo Stato sono talmente lontani dalla solida costituzione di cui hanno a lungo goduto, che se non fosse per la paura di nemici esterni, specialmente degli Austriaci, la lussuria e le fazioni private lo farebbero cadere in pezzi. Amarezza, oltre che preoccupazione, esprimeva uno dei protagonisti più consapevoli del movimento dei nobili poveri, Zuan Antonio Venier, giovane pupillo di Paolo Sarpi. Egli, che aveva condiviso il montare di passioni e di odio e di disperazione, aveva voluto fissare la memoria delle grandi speranze e delle grandi delusioni in un'operetta alla quale aveva voluto dare un titolo forte, quasi obsoleto, Storia delle rivoluzioni seguite nel Consiglio dei dieci. Ad indicare chiaramente, con l'uso di rivoluzione in una accezione politica quasi dimenticata, che questa vicenda avrebbe voluto essere qualcosa di più di un semplice contrasto di equilibri istituzionali: essa aveva espresso l'esigenza di un mutamento, come era nella logica delle lotte "de' ricchi et de' poveri, de' più potenti ed de' più inferiori" - quali, sottolineava il Venier, "non sogliono trovarsi nelle repubbliche le più perniciose" (11).
L'esperienza del fallimento sostanziale della "correzione" l'aveva fatta subito, e amaramente, uno dei nobiluomini che nel corso di essa aveva preso pubblicamente la parola in sostegno del movimento guidato da Renier Zeno, ossia Marco Trevisan, il quale aveva goduto della stima di fra Paolo Sarpi e Nicolò Contarini, ed era noto per l'amicizia che lo univa, con legame che essi definivano eterno, indissolubile, a un altro nobiluomo, Nicolò Barbarigo - l'amicizia "heroica", per dirla con parola cara al Trevisan, di cui si era fatto un gran parlare. In coerenza con questo "heroismo", che a vedere del Trevisan doveva costituire un esempio per l'intera società, nel 1631 egli aveva osato denunziare Domenico Molino, uno degli uomini più prestigiosi della Repubblica, e sicuramente uno dei meno inclini ad apprezzare i sentimenti di fratellanza sociale di cui egli si sentiva portavoce, agli inquisitori di Stato, magistratura che costituiva il braccio politico, ultrapotente del consiglio dei dieci: lo accusava di avere "con soverchia sagacità et eccesso di pericolosa auttorità di molto trapassato i termini della egualità et modestia civile". Il Trevisan aveva presunto troppo di sé, e delle sue ragioni, e valutato troppo poco la potenza del Molino. Il quale aveva reagito denunziandolo ai capi del consiglio dei dieci di aver tramato di ucciderlo. Dopo un breve processo, Marco Trevisan era stato bandito per dieci anni da tutto il Dominio veneto. Non era che la prima delle traversie giudiziarie in cui lo coinvolgerà l'ira del Molino, traversie che, con il loro viluppo di condanne severissime e di pene non espiate in virtù di grazie o più spesso per l'incapacità di farle eseguire, forniscono un quadro esemplare dell'involuzione della giustizia veneta nel periodo della guerra di Candia. La vicenda Trevisan-Molino significa qualcosa di più, introduce un altro elemento tipico della società veneta in età barocca, il prorompere sulla scena, con l'ambizione di primi attori, di personalità molto marcate, esuberanti, come appunto un Marco Trevisan, donchisciottesco nel suo esibizionismo, o un Domenico Molino, "oracolo del Senato", e "idolatra dell'oligarchia", di "animo eccedente la privata condizione" (12).
Tra i fallimenti degli obbiettivi propostisi dai fautori della "correzione" primeggiava il ripristino di un glorioso organismo creato ancora in età comunale come la quarantìa criminal al vertice della giustizia penale dal quale l'aveva fatto decadere una magistratura rampante come il consiglio dei dieci. La quarantìa aveva bensì mantenuto il ruolo di corte suprema di tutto il Dominio da terra e da mar per la giustizia civile: che era però considerata di prestigio inferiore di quella penale, più facile, questa, da utilizzare come strumento politico. Fallimento che comportava una conseguenza fondamentale: la quarantìa finiva con l'essere ambita solo dai nobiluomini di fortune medie o povere, e costituiva solitamente l'apice di carriere che non portavano al consiglio dei dieci e alle altre massime cariche dello Stato (13).
Sul finire della primavera del 1633, in una Venezia uscita da poco dalla pestilenza del 1629-1630, che l'aveva stremata e che faceva sentire più duramente le difficoltà economiche affiorate nel decennio passato, si era diffusa la voce che alcuni giudici della quarantìa si facessero corrompere. La notizia era giunta al consiglio dei dieci, il quale si era messo ad inquisire e aveva potuto accertare che la voce era fondata e che anzi il personaggio su cui cadevano i maggiori sospetti era proprio un capo della quarantìa civil vecchia, una delle due corti supreme della giustizia civile - l'altra era la quarantìa civil nova. Si trattava del nobiluomo Lunardo Battagia, che avrebbe beneficiato della complicità di un cugino. Malgrado le conferme che le indagini inquisitorie fornivano, nel luglio del 1634 il consiglio aveva deciso di non procedere ulteriormente. Meglio il silenzio, che avviare un'azione giudiziaria che malgrado tutte le cautele del consiglio dei dieci sarebbe finita in pasto al pubblico e avrebbe gettato l'onta su un organismo così prezioso come la quarantìa civil vecchia. "Lovo non magna lovo", recitava, si è scritto, il vecchio detto: questa volta esprimeva la solidarietà di tutta l'aristocrazia veneta, non solo tra i membri di una sua parte. Passava poco più di un anno, e il consiglio dei dieci era costretto a riaprire il caso dei giudici della quarantìa. Erano giunte lettere anonime - ma, a quanto pare, di un anonimato piuttosto trasparente... - dalle quali emergeva che in una delle quarantìe civili, e precisamente nella vecchia, che pur era parte di un consesso che costituiva "l'honore e la gloria di questa santa e sacra republica", si "contaminava" la giustizia, e che a "contaminarla" erano degli Ebrei del Ghetto veneziano.
A Venezia non mancavano certo gli antisemiti, pronti ad alzare la testa appena un'occasione gliene offrisse il destro. Non mancavano neppure, ed erano tra i nobiluomini più in vista nel governo veneto, spesso epigoni di quel gruppo sarpiano che aveva inciso così profondamente sulla vita della Repubblica dei primi decenni del secolo, coloro che apprezzavano gli Ebrei, ed erano convinti che la loro presenza a Venezia e nel resto del Dominio fosse ormai un elemento indispensabile per l'economia e la finanza. In un periodo in cui l'economia veneta mostrava segni di recessione come il primo trentennio del secolo, gli Ebrei infatti erano affluiti numerosi a Venezia, dal Levante e dalla penisola iberica, contribuendo a vitalizzare settori tradizionalmente importanti come quello commerciale. Erano uomini che avevano rapporti d'affari un po' dappertutto, che svolgevano attività a largo raggio, dalla Spagna al Portogallo, dalla Francia alle Fiandre, dall'Inghilterra all'Olanda, fino alle Indie occidentali ed orientali: nel suo contributo a questo volume Donatella Calabi spiega come il Ghetto aveva dovuto esser ampliato per accogliere i nuovi venuti, e come vi si intravvedevano fervore di opere, e una diffusa intenzione di fissarsi stabilmente sulle lagune. Mai la condizione degli Ebrei di Venezia era stata migliore, rimpiangerà nella sua autobiografia il rabbi Leon Modena, uno dei membri più illustri della comunità ebraica veneziana: l'attuale vicenda la pregiudicava gravemente, in modo irreparabile, temeva il rabbi. D'altro canto questo processo per la "contaminazione" della giustizia, col suo intrico di legami criminosi tra Ebrei e nobili della quarantìa, tra gente che disponeva di danaro e gente che ne aveva fame, e che per danaro era disposta a transigere sul più alto dei doveri, quello di rendere equamente giustizia, un intrico che minacciava di allargarsi sempre di più e di coinvolgere le istituzioni, aveva preoccupato le massime autorità della Repubblica. Tanto che dopo un po' esso era stato parzialmente sottratto al consiglio dei dieci, per far intervenire anche gli inquisitori di Stato, i quali avrebbero saputo dargli quella gestione politica che sembrava ormai indispensabile per affrettare la conclusione ed evitare il peggio. Era finita con la condanna di qualche nobiluomo, ma con pene di bando, assai severe solo per pochi: la motivazione della sentenza cercava di attenuare le loro responsabilità, la colpa, vi si diceva, era di chi, conoscendo le loro difficoltà, ne aveva approfittato per "contaminarli". Si era stati così più duri con i veri "contaminatori", gli imputati ebrei: ma, eccezion fatta per due su cui gravavano imputazioni particolarmente pesanti, si ha l'impressione che anche con loro si fosse ritenuto più saggio usare la mano leggera (14).
Era stata un'umiliazione per la quarantìa e per i nobili "mezani" o poveri che vi erano eletti, un motivo di discredito che approfondiva il solco tra i due ordini in cui di fatto si articolava ormai l'aristocrazia veneta. Quale fosse la profondità del solco, e come da parte dell'ordine più alto si badasse a non colmarlo, lo provava una legge presentata in maggior consiglio nel marzo del 1636, con la quale veniva ribadito che i nobili dovevano portare vesti con maniche "strette", o aderenti sino al gomito, mentre le vesti con maniche larghe, o "a comeo", ossia al gomito, erano prerogativa esclusiva di chi fosse investito di altissime magistrature. Era una vivissima preoccupazione di tutti, nel Seicento, di mettere in evidenza il proprio rango, di cercare e di ostentare e di pretendere quanto rivelasse una distinzione sociale, le vesti che la rivelavano, i titoli con cui si doveva essere interpellati, le forme di ossequio cui si aveva diritto, a cominciare dalle precedenze. Le maniche larghe di cui si occupava il legislatore erano state un capo di raffinatissima eleganza femminile, proibito all'inizio del Cinquecento da una legge suntuaria perché comportava spreco di stoffe, e di stoffe preziose, era cioè una sfacciata ostentazione di lusso. Tale vistosa foggia di maniche, ovviamente senza quelle rifiniture femminili, era invece diventata un connotato di dignità e di autorità maschile: le indossavano anche i membri della quarantìa, conforme all'importanza delle loro funzioni. Invece titolo per fregiarsene lo avevano solo i procuratori di San Marco e il cancellier grande, perché essi erano stati eletti a vita; con loro, per tutta la durata della carica, i consiglieri del doge, i savi del consiglio e di Terraferma, i capi del consiglio dei dieci, i censori, gli avogadori di comun. Tutti gli altri dovevano rinunciare, e accontentarsi delle maniche strette fino ai polsi. Compresi i tre capi della quarantìa, consiglio che veniva così livellato alle cariche di secondo rango: che era un oltraggio non solo all'antico consesso, ma ai nobiluomini di medie e basse fortune che trovavano lì l'apice delle loro carriere.
Rabbiosa la reazione di questi nobiluomini. Circolavano scritte in cui si diceva che era giunto il momento "di scacciar questi bechi fottui dal governo", e si incitava a portar qualche arma "in scarsella o in braghesse", perché se quei "bechi fottui" non avessero messo giù "le maneghe larghe", gliele avrebbero fatte metter giù per forza. Gli inquisitori di Stato erano entrati in apprensione, e avevano chiesto al consiglio dei dieci di prender tutti i provvedimenti repressivi che ritenesse necessari. Il giorno in cui il maggior consiglio si doveva riunire per votare la legge venivano infatti adottate misure di sicurezza straordinarie, come per far fronte a una congiura, con il possibile affluire di congiurati dalla stessa Terraferma. La legge era così passata senza difficoltà, anche perché molti nobiluomini erano rimasti assenti, ed altri non avevano osato correre il rischio di fare un'opposizione aperta. Pagava per tutti il nobiluomo Marco da Riva, che nel giugno del 1636 veniva condannato al bando perpetuo da Venezia e dal Dominio veneto, con perdita della nobiltà, e decapitazione qualora si fosse fatto catturare: perché, motivava la sentenza, "in congresso con altri [...] habbi proferito concetti scandalosi, che mirano ad introdur dissensione nella nobiltà".
A Madrid, dove era giunta notizia delle contese veneziane, il conte-duca Olivares non aveva perso l'occasione per impartire una lezione sulla fragilità delle repubbliche: "le novità delle republiche ben spesso sogliono partorire effetti diseguali del servitio dei Stati", egli ammoniva, mentre l'ambasciatore tentava di sdrammatizzare (15).
Fragilità delle repubbliche: il conte-duca aveva messo il dito nella piaga, molti a Venezia ne erano convinti come lui e ancor più di lui, e per questo avevano tentato di trasformare l'aristocrazia in una oligarchia, almeno di fatto, trasferendo dapprima i grossi poteri decisionali dal senato al consiglio dei dieci e ad una zonta ristretta; poi, quando l'organo basilare dell'aristocrazia, il maggior consiglio, aveva restituito quei poteri al senato, era avvenuta la concentrazione della massima autorità penale nel consiglio dei dieci e negli inquisitori di Stato di cui si è detto poc'anzi: che era appunto un modo per bilanciare organismi come il senato, responsabile dell'azione di governo, e il maggior consiglio, depositario della sovranità e di poteri legislativi e distributivi, nei quali i nobili "mezzani" e perfino i poveri erano rappresentati, e anzi, come nel caso del maggior consiglio, potevano esser maggioritari. E sarà infatti questa grande assemblea ad affrontare in quattro "correzioni" svoltesi tra 1640 e 1677 (non se ne terranno altre per lungo tempo) la questione dell'autorità del consiglio dei dieci in materia penale, dei limiti da apportare all'oligarchia in cui esso continuava a rinchiudersi: nonché, per altro verso, dell'autorità del maggior consiglio e di magistrature come la quarantìa e l'avogaria di comun (16).
Si sono estese troppo le competenze del consiglio dei dieci, lamentava la legge nodale della "correzione". Beninteso, non che si volesse sminuire l'importanza del suo ruolo nella politica veneta: si intendeva piuttosto evitare che l'allargarsi delle sue funzioni, andate al di là della sua stessa possibilità di gestirle, mettesse a repentaglio una cosa tanto importante quanto la sua reputazione. Meglio dunque trasferire ciò che esorbitava dalle sue competenze all'avogaria di comun, magistratura antica, di altissimo prestigio - era istituzionalmente il garante della legalità -, affidata spesso a giovani contrari all'oligarchia, e che costituiva, ancor più della quarantìa, l'antagonista del consiglio dei dieci. Che la legge avesse un intento polemico nei confronti del consiglio dei dieci lo si comprende meglio da un suo capoverso, in cui si decretava che il consiglio non poteva privare della nobiltà i nobiluomini veneti a meno che i crimini loro imputati non fossero "turpissimi e molto enormi" o che non avessero commesso un "mancamento di fede" verso la patria: che era un volergli togliere, almeno apparentemente, uno degli strumenti intimidatori di maggior efficacia. Sembra lecito ipotizzare che ci si riferisse ai due nobiluomini cui era stata tolta la nobiltà a seguito del processo per la "contaminazione" della giustizia; o, più probabilmente, al caso di Marco da Riva, privato della nobiltà per aver gridato la sua protesta di nobiluomo di quarantìa contro la proibizione delle maniche "larghe" (17).
Nella "correzione" del 1640 ci si proponeva anche un altro obbiettivo, che potremmo dire simmetrico al precedente: rialzare la quarantìa dal discredito che l'aveva colpita. Se ne tesseva l'elogio, ricordando che "li consigli di quarantìa" non erano solo importanti quali organi giudiziari, chiamati a decidere sulla vita e sulla "facoltà" di Veneziani e sudditi, ma perché i loro capi erano "membri principali di governo" (facevano infatti parte della Serenissima signoria, e potevano proporre leggi al voto del senato (18)). Il discredito toccava anche la magistratura degli auditori. Il problema era dunque complesso, concerneva soprattutto la giustizia civile, di cui entrambe le magistrature si occupavano. Il legislatore si domandava se la crisi delle due magistrature non dipendesse dal fatto che a svolgere le funzioni di auditore o di membro della quarantìa si eleggessero nobiluomini privi dei requisiti e dell'esperienza necessari per svolgere adeguatamente i compiti cui erano chiamati: si restava infatti in quarantìa per un tempo insufficiente a impadronirsi della prassi di quella corte e a conoscere, e portare a compimento, gli incartamenti processuali che ci si trovava davanti. La "correzione" pertanto allungava i tempi di permanenza in carica, almeno sei mesi. Per ripristinare l'antica reputazione della quarantìa si esigeva comunque qualcosa di più, bisognava far sì che fosse ambita anche dai nobiluomini dell'ordine più alto, o in altre parole che essa non fosse più considerata la meta esclusiva dell'ordine più basso. Che era cosa più semplice a dire che a risolvere: per attuarla era necessario rielaborare una cultura formatasi attraverso le esperienze e le esigenze di una lunga attività di governo, la quale privilegiava, come si è già detto, l'esercizio rapido, risoluto, della giustizia penale, quale strumento nelle mani del principe (19).
La "correzione" successiva, del 1655, aveva come protagonista ancora il consiglio dei dieci. Questa volta ci si domandava quali erano le ragioni delle carenze riscontrate nella sua azione, e cosa si poteva fare per ottenere una maggiore efficienza. Era il problema già emerso per le quarantìe. Coloro che entravano a farne parte, osservava il legislatore, vi rimanevano troppo poco perché fossero in grado di adempiere nel modo più efficace ai suoi compiti istituzionali, e perché il consiglio fosse realmente il consesso "de' più pratici et esperimentati cittadini per un'ottima giustizia". Anche qui, il rimedio era che gli eletti restassero in carica più a lungo, otto mesi, senza esser trasferiti nel frattempo ad altre magistrature. Un paio di mesi di differenza, tra i minimi di carica nelle due corti: quanto bastava a ribadire che era nel consiglio dei dieci, tempio della giustizia penale, che era necessario disporre di gente particolarmente sperimentata e compatta. La legge toccava su un punto delicato il consiglio dei dieci: l'elezione dei suoi membri, al pari di quelli della quarantìa, veniva affidata al maggior consiglio. Ciò che comportava la possibilità che il maggior consiglio si valesse di quel potere per rifiutare l'elezione a un nobiluomo che non gli fosse gradito, o magari a tutti. Come era avvenuto altre volte, ad esempio nel 1582 e nel 1628 (20).
Due differenti congiunture politiche dietro le due "correzioni". La prima rientra in un periodo di pace, quando si poteva sperare che la Repubblica non fosse più distratta da grandi imprese. La seconda cade nel pieno della guerra di Candia, quando, dopo vari anni di difficoltà e di sacrifici, di grandi successi sul mare, e di insuccessi, anzitutto la fallita riconquista dell'isola, la Serenissima Signoria si domandava se valesse la pena di continuare in quell'impegno bellico così sanguinoso e oneroso, che turbava profondamente la vita sociale come l'ordine pubblico, e rimescolava il maggior consiglio, dove accanto ai nobili dei due ordini, ricco e povero, erano rifluiti i nobili veneti costretti ad abbandonare in condizioni miserande Creta in cui vivevano da secoli, e dove cercavano di inserirsi i nobili di recentissima aggregazione. Congiuntura, questa seconda, in cui molti tra la nobiltà più alta rimpiangevano la scomparsa della zonta che, affiancata al consiglio dei dieci, aveva permesso di risolvere rapidamente i due passati conflitti col Turco, in virtù di accordi segreti. Ripristinare il passato non si poteva, bisognava mettere a punto qualcosa di nuovo, e intanto ridare al consiglio dei dieci tutto il vigore necessario per tener quanto meno sotto controllo l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato, così come per reprimere coloro che, magari tra i nobili, minacciassero di sovvertire l'ordine e di pregiudicare la sicurezza. Lo riconoscevano anche attenti osservatori stranieri che il consiglio dei dieci era una struttura essenziale per la salvaguardia della Repubblica. "Costoro [scriveva giusto nel 1656 il cavaliere de la Haye, riferendosi ai membri del consiglio dei dieci], a parlare correttamente, sono l'anima di questa libertà che i Veneziani hanno osservato da duecento anni. Sono i poli su cui gira questa macchina potente". Né diverso era il giudizio espresso qualche tempo dopo da Abraham-Nicolas Amelot de la Houssaie, un ex employé dell'ambasciata di Francia, e critico severo della Repubblica: "È da questo Consiglio che dipende tutta l'economia del governo [...] è la pietra angolare dello Stato, non la si potrebbe alterare [remuer], senza buttare all'aria il governo" (21).
Amelot de la Houssaie scriveva in anni (l'inizio degli anni '70, il suo libro usciva nel 1676) in cui la questione del consiglio dei dieci era tornata sul tappeto, questa volta sotto la spinta di un movimento di opinione che guardava preoccupato al potere, o allo strapotere, di cui esso disponeva. Un movimento che aveva trovato una voce autorevole in Zuanne Sagredo, nobiluomo di modeste fortune che era però riuscito a salire alle altissime cariche dello Stato, sostenuto dalla nobiltà minore e dai nobili aggregati, e osteggiato aspramente da quella più ricca, che temeva il favore di cui egli godeva, tale da poterlo portare al dogado. Qualche macchia il Sagredo l'aveva: una, non provata comunque, di aver amministrato con una certa allegria, da giovane, una carica finanziaria, e un'altra, fondata, che il figlio fosse stato sottoposto a procedimento penale da parte del consiglio dei dieci e condannato. Poca cosa, a ben vedere, in un mondo nel quale l'illibatezza giudiziaria non era certo la norma: quanto bastava però per fornire argomenti polemici agli avversari (22).
La prima "correzione" di cui era protagonista il Sagredo avveniva nel 1667. Anno propizio per le riforme. Nel settembre si era messa mano a un'iniziativa ambiziosa, tentata e fallita in passato: riordinare il coacervo della legislazione veneta, riunendola tutta per poi sopprimere quello che vi era di perento o di ripetitivo o di contraddittorio, ritoccando le leggi cui bastava qualche lieve modifica e conservando integralmente tutte le altre. L'esecuzione del progetto era affidata ad un giurista di valore, il rodigino conte Marino Angeli, il quale riuscirà a pubblicare nel 1678 solo un semplice prospetto di quello che avrebbe dovuto essere l'auspicato "iuris veneti corpus" in un volume intitolato Legum Venetarum compilatarum methodus. Più in là non si riuscirà ad andare. Anche questa volta si era dimostrato quali difficoltà comportasse una revisione pur minima di un diritto così semplice, apparentemente, ma così delicato per gli intricati equilibri politici che lo sottendevano, come quello veneto: difficoltà che valevano anche per le "correzioni" del consiglio dei dieci. In quella del 1667 l'obbiettivo di Zuanne Sagredo era particolarmente ambizioso, al di là del consiglio dei dieci mirava a toccare quel ganglio vitale dell'ordinamento veneto che era - lo si è già sottolineato - l'importanza preminente attribuita alla giustizia penale come strumento di governo. Giustizia a struttura piramidale, costituita da vari organi al cui apice era il consiglio dei dieci: struttura gerarchica, in sostanza, cui bisognava contrapporre, secondo l'antica tradizione veneta, organi che fossero tra di loro in consonanza, ossia in rapporti di armonico equilibrio. Si richiedeva a tal fine non solo di metter di nuovo mano al consiglio dei dieci, ma di rivedere anche l'avogaria di comun, cui si muoveva l'addebito di diventare - con la sua opera volta a far rispettare la legge, a garantire i diritti dei sudditi, ad evitare che magistrature, consigli, pubblici rappresentanti esorbitassero dalle loro funzioni - complice dei sudditi che volevano violare giustizia e leggi. "L'autorità dei Avogadori è un'arma da due taggi. Manegiada con circospezione la diffende, in altro modo la ferise. L'è una medicina che tolta con la so' dosa la giova, in altro modo la ferise", scriveva Zuanne Sagredo nelle sue note preparatorie alla "correzion".
A conclusione veniva proposta al voto una legge che stabiliva sia i limiti entro i quali gli avogadori potevano intromettere le deliberazioni del senato, sia come dovessero essere eletti i membri della stessa avogaria perché si riuscisse ad aver uomini in grado di svolgere adeguatamente i loro compiti. Come di consueto, c'era una certa sproporzione tra quanto enunciava il preambolo della legge e quanto essa sanciva nel dispositivo. Altrettanto avveniva nella legge che riguardava il consiglio dei dieci. Si iniziava con riferimento all'auspicio formulato dalla legge del 1655, che entrassero a far parte del consiglio uomini che "per esperienze e maturità fossero conosciuti più abili a sostenere il pubblico, importantissimo servizio". Le cose, lamentava il legislatore, non erano andate come si sperava. Davanti alla prospettiva di esser bocciati da un'assemblea come il maggior consiglio che essi ritenevano umorale e disprezzavano (il legislatore non poteva dirlo, ma era così, lo si poteva leggere in trasparenza), molti nobili che pur avrebbero avuto titolo per riuscire preferivano non candidarsi. D'altro canto non si poteva per questo sottrarre al maggior consiglio un'elezione così importante, sarebbe stato infliggergli una mortificazione. La legge pertanto proponeva un sistema elettorale molto dosato e complicato, in base al quale si sarebbero potuti conseguire gli obbiettivi che essa si prometteva, ottenere la scelta dei consiglieri pur senza togliere all'elettore un suo margine di libertà. La "correzione" si occupava anche della giustizia civile, Zuanne Sagredo non la dimenticava. A parer suo il problema più grosso per le grandi corti come le quarantìe era costituito dalla scarsità numerica dei giudici, tale che spesso le cause non potevano esser discusse, con conseguenze dannose non solo per i sudditi provenienti da ogni parte del Dominio per seguire le loro cause, e costretti ad attese estenuanti, con "gravissimi dispendi", ma per la credibilità stessa della giustizia veneta. Ancora un problema di uomini: il più arduo, perché gli uomini erano quelli che erano, frutto di quella tormentata evoluzione storica della nobiltà che nel Seicento aveva toccato il suo punto di crisi. Problema di uomini, dominanti e dominati, alle prese con un antico ordinamento che presupponeva una realtà politica e sociale così diversa da quella attuale.
In fondo, quella del 1667 rimarrà una "correzione" interlocutoria. Richiederà ben altro impegno, e avrà significato e valenza ben maggiori, la successiva "correzione", del 1677, l'ultima della serie in cui la società seicentesca cercherà di dare un assetto alla sconvolgente questione della giustizia, civile e soprattutto penale. All'ordine del giorno della "correzione" del 1677 non c'era solo il consiglio dei dieci. Si dovevano affrontare altre consuete, annose questioni di giustizia civile e penale, e altre, pur rilevanti, ma che concernevano diversi campi del governo. Il punto focale, dove ci si doveva dare battaglia, era costituito ancora una volta dalle riforme apportabili al consiglio dei dieci, perché da questo consiglio, forse ora lo si può comprendere meglio, dipendevano problemi di fondo della politica veneta, l'esercizio della sovranità, chi e come e in che misura era tenuto ad esercitarla - e implicitamente il rapporto tra i due ordini della nobiltà, il maggiore e il minore -, e come doveva essere gestita la giustizia penale, come, di conseguenza, la civile. A testimoniare l'importanza del dibattito che si sarebbe svolto in maggior consiglio bastano i nomi di tre dei cinque "correttori". C'era Andrea Valier, che, dopo esser stato protagonista dei più attivi della guerra di Candia e dei conflitti politici che l'avevano accompagnata, ne sarà lo storico più incisivo (23). Storico della guerra di Candia, per di più in qualità di "pubblico storiografo", ossia di nobiluomo eletto a scrivere la storia ufficiale della Repubblica, era stato pure Battista Nani, diplomatico passato al vaglio dell'esperienza nelle maggiori sedi, senatore autorevolissimo, il più ascoltato, il più seguito. Né mancava Zuanne Sagredo, anzi, più agguerrito che mai. Erano accadute cose, negli ultimi anni, che l'avevano portato ancora di più alla ribalta. Nel 1670, all'indomani della conclusione della guerra di Candia, egli aveva preso in maggior consiglio le difese del capitano generale da mar della fase finale della guerra, il famoso Francesco Morosini, dagli attacchi che gli portava l'avogadore di comun Antonio Correr, per il modo con cui era stata firmata la pace e gestito il denaro pubblico. Il Correr chiedeva che il Morosini fosse privato della stola di procuratore di San Marco che gli era stata conferita per merito l'anno prima. Secondo il Sagredo le accuse sollevate dal Correr non erano affatto provate, né potevano pertanto essere addotte a motivazione di un provvedimento così grave. Si trattava, diceva il Sagredo, delle più elementari garanzie di giustizia, oltre che del rispetto dovuto all'onore di una persona. "Non è colpa quella che non è provata" egli affermava nella sua appassionata perorazione "anzi si chiama calunnia manifesta non solo a chi nasce di patria libera, ma agli cristiani istessi, se bastasse per condannare un cittadino di republica il testimonio di un altro". Clamore ancor maggiore aveva provocato la fallita vicenda dogale di Zuanne Sagredo. Nel 1676 alla vacanza della carica per la morte del doge Nicolò Sagredo, quando pareva che la scelta ormai cadesse su di lui, il maggior consiglio, premuto dal popolo che tumultuava in piazza contro la sua elezione forse per aizzamento di qualche concorrente al dogado, e manovrato, più efficacemente, dalla nobiltà più alta, risentita perché aveva visto convergere sul Sagredo i favori della nobiltà di recente aggregazione, con una decisione senza precedenti aveva sostituito i quarantuno elettori in carica - che avevano poi scelto un altro, Alvise Contarini. L'amarezza del Sagredo per questo incredibile affronto veniva ripagata, prima con l'elezione a savio del consiglio, poi con quella a "correttore". "Un esempio memorabile di moderazione e di costanza", lo definirà Michele Foscarini, il "pubblico storiografo" che succederà al Nani.
Andrea Valier non sarà mai presente alla "correzione". Sulla scena a fronteggiarsi come due campioni restavano Nani e Sagredo, portavoce ciascuno dei due orientamenti ormai tradizionali, il Nani a favore di una oligarchia che garantisse un fermo esercizio della suprema autorità, il Sagredo di un repubblicanesimo più aperto e duttile nell'esercizio dell'autorità. Esemplare a tal fine era il dibattito sul consiglio dei dieci. La nuova "correzione" voleva che si modificassero in senso restrittivo le norme sui titoli necessari a poterne diventare membro. In teoria si proponeva un allargamento, così da tener conto delle esigenze espresse ormai da un decennio da Zuanne Sagredo e dai suoi sostenitori. In pratica, l'allargamento doveva avvenire solo nell'ambito della stessa cerchia di persone, quelle che erano ormai arrivate alle massime cariche dello Stato, e che ruotavano dall'una all'altra, non si estendeva al di fuori di esse; per di più senza interruzione, la nuova legge non prevedeva alcuna contumacia. Il maggior consiglio non ci era cascato, la legge era stata respinta. Battista Nani, insieme ai "correttori" Francesco Gritti e Nicolò Michiel, l'aveva riproposta con qualche emendamento, di cui uno veramente importante, l'introduzione della contumacia di due anni per tornare a far parte del consiglio.
Il dibattito accesosi allora rappresenta un altissimo confronto tra due concezioni della Repubblica veneta. Questa legge, iniziava Zuanne Sagredo, è perniciosa, perché "include pochi et esclude molti": essa "sarebbe un principio di ridur la Republica in poche teste", giusto l'opposto di quanto a suo vedere bisognava fare. Che erano fondamentalmente due cose: l'una, il conservare nella sua pienezza la sovranità del maggior consiglio, senza limitarne il potere di distribuire gli onori a chi reputasse più meritevole, come faceva la nuova legge; l'altra, il salvaguardare l'uguaglianza di tutta l'aristocrazia, che voleva dire il diritto di tutti a partecipare al governo della Repubblica entrando in tutte le magistrature. Qual era poi la ragione per la quale era considerato così prezioso il diventar membro del consiglio dei dieci? Il Sagredo conosceva la risposta, era perché in quel consiglio si esercitava al più alto livello la giustizia penale. A veder suo, quando si voleva restringere il consiglio a una élite qualificatissima di nobiluomini, si dimostrava di vedere in quella giustizia il momento afflittivo, la sofferenza che si voleva infliggere. Il Sagredo l'aveva già anticipato durante la precedente "correzione", quando aveva raccontato di aver replicato al cardinale Mazzarino, irritato per una domanda di grazia in favore di un condannato da lui rivoltagli nella sua veste di ambasciatore, che lui, Sagredo, era un "cittadino di repubblica" e "che un cittadino di repubblica senza umanità era un albero di fiori senza frutti". Adesso Zuanne Sagredo estendeva quella sua concezione. Chi ambiva a far parte del consiglio dei dieci vedeva nella somministrazione della pena, nell'imporre una sofferenza, un modo di disporre del potere nel modo più pieno. Perché, argomentava il Sagredo in un misto di capziosità e di retorica, l'aspirazione così forte a esser di quel supremo consesso non poteva avere che una ragione, per fare o non fare giustizia. "Se per non farla, non dovrebbero entrarvi, perché la giustizia è uno de' cardini che sostentano il mondo; se vi entrano più volentieri perché prendono diletto nel castigo, perché godono del male del prossimo e del spargimento del sangue umano, non è bene che vi entrino, perché la giustizia per questa via degenererebbe in crudeltà". Manca, almeno da quanto è rimasto del discorso del Sagredo, una terza ipotesi: quella che si volesse entrare nel consiglio semplicemente per render giustizia, costasse sofferenza morale al giudice di giudicare un uomo, costasse sofferenza fisica oltre che morale al giudicato di dover subire il peso di un processo e di una sentenza: solo perché il render giustizia applicando le leggi del proprio Stato era un dovere, verso di esso e verso la società.
Argomento che si ritrova invece nei discorsi di un "correttore" rimasto anonimo e di Battista Nani. Gli scrupoli un po' dolciastri del Sagredo - la crudeltà, il sangue - non sfioravano il Nani. La giustizia per lui era semplicemente un elemento indispensabile dell'attività di governo, non se ne poteva prescindere. Ed essendo un'attività di governo bisognava guardarla con occhio politico; né esisteva nell'ordinamento veneto organo che più del consiglio dei dieci potesse farsi portatore ed esecutore di questa esigenza politica. L'anonimo aveva aggiunto alle considerazioni del Nani altre in una chiave polemica più serrata e più aspra nei confronti di quanto aveva detto il Sagredo. Se anche dei nobili fossero lieti di esser eletti a far parte del consiglio dei dieci, e la loro letizia "fosse per far giustizia, è troppo fuori della ragione che si dia titolo di passione a questo desiderio del giusto. [...]. Se uno de' nostri senatori farà una giustizia esemplare quantunque capitale, non deve appresso i cittadini aver demerito, né dalla sua coscienza rimorso".
Più spazio Battista Nani dedicava alle questioni della eleggibilità a membro del consiglio dei dieci e della sovranità del maggior consiglio. Le leggi, tutte le leggi, non solo quelle che ora venivano risottoposte al voto della massima assemblea, stabilivano dei vincoli o dei limiti all'agire, e proprio per questo erano da preferire a una situazione in cui tutto fosse rimesso all'arbitrio dei singoli, anche se membri del maggior consiglio. Per Zuanne Sagredo, si è già detto, la preminenza spettava alla sovranità del maggior consiglio e all'uguaglianza di tutto il corpo aristocratico. Battista Nani non obiettava nulla, di principio, alla sovranità del maggior consiglio. Egli sosteneva che la sovranità non mutava anche se si cercava di far sì che si esprimesse nel modo migliore. Perché le istituzioni non erano solo scritte sulla carta, e regolate da leggi: erano fatte di uomini, vivevano nella realtà politica e sociale, si modulavano nella prassi, nell'esercizio dei poteri che spettavano loro, secondo le mutevoli esigenze della società. L'importante, dunque, era che funzionassero, e il meglio possibile. Se per ottenere questo era necessaria qualche restrizione alle prerogative di chi ne era membro, cosa che era normale, e di sempre, insisteva il Nani, la si apportasse, come intendeva fare la legge attualmente in discussione. Era il caso dell'uguaglianza tanto evocata dal Sagredo. Era inutile illudersi sull'uguaglianza effettiva degli uomini, replicava il Nani, o, nel caso particolare in questione, dei membri del maggior consiglio. "Nell'armonia della Repubblica" spiegava il Nani, "i cittadini sono stati sempre considerati come eguali, ma non mai li gradi [...]. Tra noi siamo tutti trattati con forma pari, e con titolo eguale, sier tale e sier tale; ma dell'uno si dice conseglier, dell'altro fu del Conseglio de dieci", e così via: in modo che, pur salva l'uguaglianza derivante dal fatto di essere tutti membri del corpo sovrano, si metteva in evidenza quello che ciascuno era stato, affinché fosse subito chiara quale fosse la sua esperienza e quale la sua presumibile attitudine a ricoprire i vari incarichi.
Iter travagliato, quello della legge, emblematico delle profonde divergenze che esistevano in seno alla nobiltà. Il testo sostenuto dal Nani veniva bocciato in due successive votazioni. Passava invece, un mese dopo, un nuovo testo che, pur rappresentando un successo del Sagredo, recava anche i nomi dei "correttori" suoi avversari. Veniva stabilito che per esser eleggibili al consiglio dei dieci fosse sufficiente aver fatto parte del senato ordinario, un consesso che riuniva una sessantina di persone, accessibile dunque a molti, se non proprio a tutti. Si voleva, come requisito indispensabile, l'aver almeno trent'anni. Anche riguardo alla contumacia si teneva conto delle idee del Sagredo: bisognava stare tre anni fuori dal consiglio prima di esservi riammessi.
A stare a quanto ci è giunto dei loro discorsi, solo Battista Nani aveva fatto un breve cenno agli inquisitori di Stato; non risulta nulla da parte del Sagredo. Eppure era la magistratura degli inquisitori, strettamente collegata al consiglio dei dieci, a beneficiare, seppur indirettamente, dell'indebolimento che esso subiva. Si trattava, si può dire, di un fatto fisiologico. Gli inquisitori di Stato erano comparsi sulla scena politica e costituzionale e si erano dati il loro nome, avevano forgiato il loro potere come conseguenza della ben nota "correzione" del 1582. Sopprimendo la zonta, togliendo al consiglio dei dieci la possibilità di intervenire nella politica estera, e riducendolo alle funzioni originarie di organo della giustizia penale, anche se molto integrato nell'azione di governo, si era provocata automaticamente l'attribuzione a quella che era originariamente una commissione di tre persone, due elette nel consiglio dei dieci, l'altra tra i consiglieri dogali, commissione cui dapprima toccava di tutelare i pubblici segreti, di svolgere le funzioni politico-giudiziarie più delicate in materia penale, coperta da un'oscurità impenetrabile, secondo la procedura più sbrigativa, che nulla concedeva all'imputato. A volte, se si trattava di nobiluomini veneti e di famiglie importanti della nobiltà del Dominio, gli inquisitori intervenivano anche in civile. Era ormai di tutta evidenza, frutto di un'esperienza secolare, che non si poteva reggere la Repubblica senza l'ausilio di un organo ristretto, rapido ed efficacissimo nelle sue decisioni. Così la maggior "correzione" del secolo XVIII, quella del 1761-1762, iniziata pur essa a seguito del rifiuto del maggior consiglio di eleggere le cariche del consiglio dei dieci rimaste vacanti, avrà come oggetto la revisione dei poteri degli inquisitori di Stato, non del consiglio (24).
Troverà una soluzione anche la questione divampata nella prima metà del secolo dei rapporti tra consiglio dei dieci e quarantìa. Si era riconosciuta impraticabile, o controproducente, l'opinione espressa a suo tempo da Renier Zeno di ridar prestigio alla quarantìa facendo in modo che entrassero a farne parte anche nobili che fossero stati membri del consiglio dei dieci, che appartenessero, in altre parole, all'ordine più alto. I membri della quarantìa avevano finito per convincersi che sarebbe stato un grosso errore far venire tra loro dei grandi: questi avrebbero preso in mano le cose, trattando loro come dei sottoposti. Meglio restare così, in una posizione di distacco dal consiglio dei dieci e magari dallo stesso senato, a costituire una sorta di "ceto", ben affiatato e compatto. Scriverà infatti alla fine della Repubblica un nobile che era stato vicino alla quarantìa, quasi a trarre un bilancio:
Non sfuggirà a nessuno il ben natural riflesso dell'estesa influenza, che in un governo repubblicano a questo numeroso corpo investito d'interessantissime mansioni, allorché riuniti operano in concerto (25).
Un secolo, il Seicento, che riserba per la Repubblica di Venezia aspetti complessi, contraddittori, risvolti in cui non è semplice entrare e muoversi, popolato da un'umanità che tende a sottrarsi alla nostra comprensione, così eccessiva, così paradossale, nel suo gesto, nella sua drammaticità, nel suo stesso ordine di valori. Limitiamoci comunque a rievocarc quanto abbiamo visto finora. Un'aristocrazia che rompe o quanto meno incrina gravemente la sua unità; i detentori delle maggiori fortune e del potere che tendono a fare di se stessi una "repubblica di prìncipi"; talune grandi famiglie che contrappongono in certi territori la loro sovranità a quella della Serenissima Signoria; smagliamenti nel tessuto sociale e nelle istituzioni.
D'altro canto è da tener presente, come ci invitano a fare i contributi già ricordati di Tucci e Pezzolo, di Mattozzi e Caniato, che lo Stato veneto è capace malgrado questo di affrontare, logoro come pur doveva essere per l'esperienza breve ma traumatica della guerra dei Trent'anni, conflitti come quelli di Candia e di Morea, e spese poderose come quelle richieste dai lavori fatti sulla laguna e sui fiumi.
Lo Stato veneto porterà ancora avanti la sua ambizione di allargare sempre di più nel suo Dominio l'applicazione e l'influenza del diritto veneto, simbolo della sua sovranità: basti ricordare l'opera di fusione esercitata dalla giustizia penale mediante il consiglio dei dieci, gli inquisitori di Stato, gli avogadori di comun, o, nel diritto civile, dalle quarantìe civili (si pensi in particolare alla fortuna che avrà la procedura civile); o l'opera dell'ufficio dei consultori in iure nel diritto ecclesiastico; o quella dei conservatori ed esecutori delle leggi, riguardo all'avvocatura o al notariato... Sarà emblematico il fatto che gente così fiera della propria autonomia e delle proprie tradizioni come i Friulani, riformando a fine Seicento le antiche costituzioni della Patria, inserissero il diritto veneto nella gerarchia delle fonti di diritto, dopo gli Statuti e le loro consuetudini, ma prima del diritto romano. Infine, la vita politica e amministrativa si accentrerà sempre più in Venezia, ove i sudditi dovranno confluire sempre di più per sbrigare le loro pratiche o appoggiare le loro suppliche, scavalcando (si può far eccezione per i centri maggiori) i rettori e le loro giurisdizioni, nonché i privilegi riconosciuti in passato a città e cittadine e i poteri delle nobiltà locali: che era in sostanza un'ulteriore manifestazione della sfiducia della grande nobiltà, arroccata a Venezia, nei confronti dei nobiluomini destinati a rappresentare la Serenissima Signoria nei vari angoli del Dominio (26).
Ci sono contributi a questo volume che scoprono ulteriori aspetti della realtà veneta del Seicento, e ne consentono una ben più scavata comprensione. Alberto Tenenti, esaminando con la consueta lucidità quale sia stato il comportamento della flotta veneta nei decenni della guerra di Candia, quale la sua organizzazione, quale la qualità dei suoi uomini, ha concluso con un giudizio nettamente positivo: malgrado i limiti della condotta politica e strategica della guerra, la flotta della Repubblica veneta si è sempre dimostrata superiore a quella turca, in virtù dell'efficienza della sua organizzazione e delle qualità degli uomini che vi avevano incarichi di comando, e che si erano rivelati in buona parte comandanti capaci, intraprendenti, valorosi (anche se, aggiungo perché emerga la contraddittorietà di questo mondo barocco, erano uomini su cui gravavano accuse di cattiva gestione del pubblico danaro) (27).
La guerra di Candia, e prima di essa la guerra contro l'arciduca d'Austria del secondo decennio del secolo, suscitavano un mutamento nell'ordine dei valori dei nobiluomini veneti, inserivano nella scala dei valori, al massimo livello, il valor militare (quello dimostrato in terra, non solo in mare): quando a metà secolo, nel corso della guerra, si discuterà se concedere la veneta nobiltà a chi versasse un'ingente somma di danaro, un nobiluomo aveva ammonito che la nobiltà, espressione di purezza di sangue, poteva concedersi solo per il compimento di atti di valore. Nel suo contributo a questo stesso volume Piero Del Negro ha fatto osservazioni assai interessanti su quella guerra. Malgrado gli oneri gravosissimi che aveva comportato, egli ha scritto, umani e sociali, economici e finanziari, essa aveva avuto un risultato positivo, era servita cioè ad offrire un po' a tutti, compresi i nobili di recente aggregazione, possibilità di impegno a servizio dello Stato, e di affermazione e di successo, che la normale routine nelle consuete cariche loro disponibili non avrebbe certamente riserbato. Una conseguenza positiva, egli ha aggiunto, l'avrà pure la successiva guerra di Morea, inducendo il governo veneto a considerare la necessità di avere a disposizione un esercito permanente, al pari dei maggiori Stati europei. D'altro canto in un lavoro precedente Del Negro aveva scritto, ed è a mio vedere osservazione che consente di cogliere lo sconcerto arrecato dalla "crisi" della nobiltà sul piano istituzionale, che la più negativa delle conseguenze era lo spostamento del baricentro della Repubblica dalle istituzioni agli individui. In altre parole, il buon andamento della Repubblica finiva per dipendere non tanto dall'usuale funzionamento delle sue istituzioni, secondo la logica antica dei loro rapporti e del loro compensarsi e bilanciarsi, quanto dalla presenza di personalità che una classe dirigente temprata dall'esperienza di secoli poteva continuare a selezionare, in grado di imporre il vigore della propria personalità e la saggezza di un'esperienza antica sullo stesso ordinamento (sarà in virtù di questo se le istituzioni riusciranno ad avere un loro assestamento, incardinato sulla preminenza del collegio quale massimo organo di governo e degli inquisitori di Stato) (28).
C'era poi la cancelleria ducale, la struttura cui toccava gestire la burocrazia, e fornire pertanto il sostegno indispensabile all'attività di governo. Andrea Zannini, in un'opera fondamentale su burocrazia e burocrati in età moderna, si è domandato quali conseguenze abbia avuto su di essa quel rivolgimento provocato in seno all'aristocrazia dalle aggregazioni per danaro di tante nuove famiglie: in particolare dal fatto che trenta delle centoventotto famiglie aggregate appartenevano al ceto dei "cittadini originari", il ceto che forniva i quadri all'alta burocrazia. Cosa avesse significato cioè questa improvvisa scrematura del proprio ceto per chi vi era rimasto: quel trovarsi di punto in bianco al di sotto di gente che aveva condiviso la stessa condizione subordinata rispetto all'aristocrazia, le stesse possibilità, le stesse limitazioni, e che adesso era ascesa al ceto più alto, quello depositario della sovranità e delle responsabilità di governo, in virtù della ricchezza che era riuscito ad accumulare. Coloro che erano rimasti al livello inferiore, ha osservato Zannini, avevano reagito con un'affermazione risentita, orgogliosa della dignità del proprio rango, chiudendosi in se stessi, fino a giungere alla fine del secolo a una sorta di "serrata cancelleresca": così che, egli scrive, "per circa mezzo secolo [...] le famiglie inserite in questo importante ufficio si tramandarono di padre in figlio gli incarichi limitando la mobilità interna all'ordine cancelleresco". Ma indubbiamente c'era stata la conseguenza negativa, e certo non piccola, di abbassare il ruolo sociale dell'ordine dei "cittadini originari", nella vita economica come in quella politica. Nel suo contributo a questo volume Zannini guarda infatti alla questione della cittadinanza e della cancelleria in una prospettiva nuova, più ampia, quella del ceto medio, ossia nell'ambito della "presenza borghese" nella Venezia del Seicento. Una "presenza" rilevantissima: si pensi all'importanza, ben sottolineata da Zannini, delle professioni liberali, medici, avvocati, notai; né si deve dimenticare il ruolo che avrà la borghesia ebraica, con le sue solidissime basi finanziarie. Sarà borghese il modello di virtù civile delineato nelle commedie di Carlo Goldoni (29).
La Venezia del Seicento non trascurava un elemento che era stato sempre primario nell'affermazione della sovranità della Serenissima Signoria, e per salvaguardarne il "mito": il mantenerla in tutta la sua visibilità, più splendida e suggestiva ed evocativa, esibendosi nelle feste pubbliche conforme a quanto richiedeva il cerimoniale. Ricordando lo splendore delle feste e la ritualità del cerimoniale tra Seicento e Settecento, il contributo di Matteo Casini ci aiuta a capire l'efficacia che questa rappresentazione del suo "mito" ha avuto nell'aiutare la veneta Repubblica a superare le tante difficoltà che si frapponevano sulla sua strada di vecchio Stato sopravvivente in un mondo così mutato rispetto a quello in cui lo si era forgiato (30).
Bisogna ricordare, prima di concludere questo paragrafo dedicato ai problemi dell'ordinamento veneto nel Seicento, come nella letteratura politica soprattutto di fine secolo si contrappongano su di esso due ordini di valutazioni del tutto divergenti. Valutazioni positive, in qualche caso addirittura apologetiche, da parte di autori d'Oltralpe, inglesi ed olandesi. Valutazioni negative, oltre che da qualcuno pure d'Oltralpe, da parte di autori veneti, con molta probabilità nobili o vicini alla nobiltà.
Non era certo la prima volta che Oltralpe si scriveva sulla Repubblica veneta e la sua costituzione. Il caso più famoso, e che aveva suscitato a Venezia irritazione e risentimento che dureranno a lungo (si pensi a quanto scriverà a metà Settecento Marco Foscarini) era quello del francese Jean Bodin, celebre giurista e politologo cinquecentesco. Nel suo Methodus ad facilem historiarum cognitionem, egli aveva osato contestare l'immagine idealizzata di Venezia, della sua politica, della sua natura di "stato misto", quale era stata tracciata qualche decennio prima da Gasparo Contarini nella sua celeberrima operetta, modello rinascimentale delle apologie del governo veneto, De magistratibus et republica Venetorurn; nella successiva opera Les six livres de la republique ripeteva il suo giudizio, facendo però apprezzamenti favorevoli sulla evoluzione in senso oligarchico in atto nello Stato veneto - apprezzamenti che non potevano comunque tornare graditi alla nobiltà, massime a coloro che, pure operando per quella evoluzione, non lo volevano ammettere, e magari negavano che essa esistesse (31).
Jean Bodin, che viveva in un paese retto a monarchia, a suo vedere l'organizzazione migliore del potere statuale, si interessava della Serenissima Signoria con l'occhio di un osservatore distaccato, intento a studiarne la struttura costituzionale repubblicana, e a cercare di carpirne il meccanismo segreto. Ben altra cosa era per gli scrittori che a cavallo della metà del Seicento guardavano a Venezia dall'Inghilterra e dall'Olanda, due Stati alle prese con problemi istituzionali che esigevano soluzioni innovative: radicalmente innovative per l'Inghilterra - era caduta la monarchia, si doveva scegliere quale tipo di repubblica instaurare al suo posto -, miranti a modificare i rapporti di potere esistenti tra il potere centrale, o lo statolder, e gli Stati generali delle sette Province Unite, che erano troppo sbilanciati in favore degli Stati, particolarmente nella Provincia olandese, che tra esse aveva un ruolo praticamente egemone (32).
Le Province Unite d'Olanda, legate da rapporti strettamente amichevoli con la Serenissima fin dalle loro origini di repubblica ribelle alla Spagna, avevano espresso ampiamente il loro apprezzamento per la veneta Repubblica; e da quelle terre, note anche per il sapere dei loro studiosi, era venuto uno scritto importante, in confutazione di un libello, lo Squitinio della libertà veneta. Nel quale si adducono le ragioni dell'Impero romano sopra la città et signori veneti, apparso anonimo nel 1612, col quale veniva distrutto il principio basilare su cui Venezia si reggeva, di essere nata e di essere sempre rimasta libera (33). Quanto all'Inghilterra, membri del suo parlamento avevano dimostrato il loro interesse per la sua costituzione repubblicana, chiedendo nel 1644 all'ambasciatore veneto di fornirne un'illustrazione: argomento, questo della costituzione repubblicana veneta, che sarà di piena attualità anche qualche anno più tardi, tanto che a Londra nel 1648-1649 se ne discuterà animatamente. C'era bensì chi non condivideva per nulla l'ammirazione per Venezia e i suoi ordinamenti: proprio nel 1648 venivano pubblicate le Observations upon Mr. Hunton's Treatise of Monarchy: or the Anarchy of a Limited or Mixed Monarchy, di Robert Filmer, nel quale, come lasciava intendere trasparentemente il titolo, si respingeva l'adozione del modello dogale, quale terza via tra una repubblica che avesse il potere in una base troppo larga e una monarchia che avesse un potere troppo concentrato; libro che probabilmente non aveva ottenuto il consenso sperato, se Filmer faceva poi uscire le sue Observations upon Aristotle's Politiques, nelle quali si ribadiva il diniego che quello veneto fosse uno Stato misto conforme alla dottrina aristotelica, e si confutava il mito della libertà originaria richiamandosi a Bodin e all'ormai famoso Squitinio. Nel 1651 John Howell levava la sua voce in favore della Serenissima Signoria, con il suo A Survey of Venice and Her Admired Policy and Method of Government, opera, ha scritto Franco Gaeta, "che risultò, sulle orme del Contarini, il più acceso panegirico della costituzione veneziana di tutto il Seicento inglese": da preferire a quella romana, sosteneva Howell, e pertanto da proporre a modello di quella che l'Inghilterra doveva ora darsi, in virtù della presenza alla sua testa di un doge che, eletto a vita, assumeva rilevanza istituzionale vicina a quella di un re, pur senza esser gravato da quelle prerogative dinastiche che rendevano pericolosa, incontrollabile, la figura regia. Si unirà poi John Milton, grande poeta, nonché politico attentamente sollecito delle sorti del suo paese, col suo The Ready and the Easy Way to Establish a Free Commonwealth, e più tardi un'altra personalità autorevolissima della cultura inglese di fine Seicento come quella di James Harrington, il quale in Oceana, comparsa nel 1656, intesse l'elogio dell'organizzazione del potere veneto, della preminenza che aveva su di esso la legge, dell'omogeneità della classe dirigente (34).
Non erano trascorsi vent'anni dalla Oceana di Harrington che andavano per le mani dei Veneziani, e non solo dei Veneziani, delle operette, qualificate in tempi recenti come la pubblicistica dell'"antimito", di autori anonimi o apocrifi, probabilmente appartenenti al mondo politico veneto, nelle quali si metteva in discussione la bontà dei propri ordinamenti, sottolineandone storture e magagne, fino a prospettare senza infingimenti la decadenza della Repubblica. Principali tra esse erano il Della Repubblica veneta, o Relazione dell'anonimo, del 1664, la Relazione sulla organizzazione politica della Repubblica di Venezia al cadere del secolo decimosettimo, dei primi mesi del 1677, e infine l'Opinione del Padre Paulo Servita, Consultore di Stato, come debba governarsi internamente ed esternamente la Repubblica veneziana, per havere il perpetuo dominio, "redatta", scrive il più accurato studioso di questa letteratura, "all'indomani della fine della guerra di Candia e stampata a Venezia nel 1680" (35).
La maggior fortuna toccherà tra esse all'Opinione, che continuerà a circolare ampiamente manoscritta anche dopo la sua stampa: e non solo in virtù dell'autorità che le aveva dato inizialmente il nome di un personaggio ormai consacrato come il Sarpi, e che rimarrà anche quando si riterrà di specificare nel titolo Opinione falsamente ascritta [...]; ma per l'impressione di brutale realismo che suscitavano la descrizione di come veniva, e doveva, essere esercitato il potere, il disprezzo che si riserbava ai nobili poveri, il cinismo con cui si invitavano i nobili ricchi ad emarginarli in magistrature di poca o nulla autorità, la scarsa, o meglio, nessuna considerazione in cui bisognava tenere i sudditi del Dominio (36).
E pertanto l'Opinione a fornire la testimonianza più eloquente, e a volte drammatica, "dello sconcerto istituzionale" prodottosi nella Repubblica, manifestazione della "crisi" veneta nel Seicento, la crisi della sua pluricentenaria aristocrazia. Testimonianza che l'opera di un nobiluomo, Zan Antonio Muazzo, scritta a metà Seicento ma di netta impronta rinascimentale - opera costituita da due lavori, Del governo antico della Repubblica veneta [...] e Discorso historico politico e l'Historia del Governo antico e presente della Repubblica di Venezia - non riesce a far dimenticare (37).
Alla fine di giugno del 1645 la flotta turca approdava all'isola di Candia, o Creta, come si suole chiamarla oggi. Ne sbarcavano truppe che assediavano subito Canea, una delle città fortificate, e alla metà di luglio la costringevano alla resa. La porta per la conquista dell'isola era aperta.
Il casus belli scelto dall'Impero ottomano era la protezione accordata dalla Repubblica ai grandi nemici della religione musulmana, i Cavalieri di Malta: in particolare si imputava alle autorità veneziane di aver consentito a una flottiglia di navi maltesi di trovar riparo nell'isola dopo aver aggredito e depredato un galeone turco che trasportava fedeli diretti alla Mecca. In realtà si trattava di un attacco paventato da tempo, che rientrava cioè in quel progressivo smantellamento del Dominio da mar veneto che l'Impero ottomano aveva iniziato due secoli prima.
Questa volta i Turchi non si erano limitati ad attaccare Candia: nell'inverno tra 1645 e 1646 il pascià della Bosnia aveva mosso le sue truppe contro Zara, la capitale della Dalmazia veneta, nel cuore dell'Adriatico. Per la Serenissima Signoria la minaccia era ancora lì più grave che a Candia: perché se i Turchi fossero riusciti a penetrare quella striscia di terra sino al mare, dividendo in due la Dalmazia e facilitandone l'intera conquista, sarebbe caduto il baluardo che ancora le permetteva di affermare nella sua pienezza il suo dominio sull'Adriatico, considerato da sempre elemento essenziale dell'indipendenza e della grandezza veneta; dominio che essa celebrava ogni anno con lo "sponsalizio" del mare. Priva di quel dominio, con il colfo, come veniva chiamato l'Adriatico, percorso liberamente dai suoi nemici attuali e potenziali, Venezia si sarebbe sentita chiusa nella sua laguna, ostacolata nei suoi traffici, impedita nelle sue comunicazioni con le isole Ionie e quelle isole che costituivano il suo avamposto nell'Egeo: Cerigo, Creta, Tine, quanto le restava di impero marittimo. Era comunque il pericolo incombente su Candia a suscitare maggiormente la passione dei Veneziani. Perché Candia era una conquista antica, fatta dal Comune Veneciarum all'inizio del Duecento, nel corso della quarta Crociata, quando il contributo del Comune era stato determinante per porre fine all'Impero romano d'Oriente e sostituirlo con l'Impero latino: il doge del Comune aveva assunto allora il titolo di dominator quartae et dimidiae partis totius Romaniae imperii. Il Comune aveva imposto a Candia istituzioni che anche nel nome ricordavano quelle della madrepatria, e come nella madrepatria applicava il proprio diritto; vi aveva istituito la Chiesa latina, guidata da un arcivescovo, riserbando alla Chiesa locale, greco-ortodossa, una semplice tolleranza, e non poche limitazioni; vi aveva mandato come coloni dei Veneziani, dai quali si trarrà l'aristocrazia feudale dell'isola, elemento di connessione - così almeno si auspicava - tra la popolazione candiota e il Comune; da Venezia saranno inviati dei patrizi a reggere le magistrature dell'isola, cariche di non lunga durata, ma numerose ed ambite, per il loro prestigio e soprattutto per i proventi che potevano offrire. Candia era per di più un "regno", l'unico ancora superstite del Dominio veneto - il "regno" di Cipro la Serenissima Signoria lo aveva perduto, malgrado la vittoria di Lepanto, con la pace che era seguita il 7 marzo 1573; il "regno" di Negroponte, o Eubea, se ne era andato nel 1479; quello ambitissimo di Morea, o Peloponneso, i Veneziani avevano tentato invano di conquistarlo poco dopo la metà del Quattrocento (38). I "regni" avevano una grande prerogativa, conferivano al principe che li teneva sotto la propria sovranità, fosse pure una repubblica come Venezia, il diritto di essere annoverato tra le "teste coronate". Che voleva dire, ribadivano in una loro relazione due ambasciatori della qualità di Angelo Contarini e di Giovanni Pesaro, "nella prima sfera de' principi" (39).
Una forza imponente, quella ottomana, sia per terra che per mare, e che poteva essere alimentata continuamente da basi non lontane: la Repubblica, con basi lontane, raggiungibili solo per mare, le sue forze disperse su lunghissime distanze, non poteva far fronte da sola, e aveva cercato aiuti, in Italia e Oltralpe. Nessun risultato, né a Madrid, né a Parigi, né a Vienna, né all'Aia: e vani riusciranno i tentativi che farà a Münster - dove i grandi prìncipi si erano da poco riuniti per cercare di concludere con una pace la guerra che da quasi un trentennio li stava dilaniando - il rappresentante della Serenissima Signoria, Alvise di Tommaso Contarini, massimo esponente della sua famosa diplomazia, il più illustre. Toccava al Contarini di tentare la mediazione tra le potenze belligeranti: quel compito era stato affidato alla Serenissima a preferenza della Sede Apostolica in virtù del fatto che dopo la pace di Cherasco del 1631 si era tenuta fuori dal conflitto europeo. Alvise Contarini sentiva d'altro canto che proprio la marginalità scelta dalla Repubblica le toglieva forza negoziale, la privava di quel peso politico che sarebbe stato necessario per incidere sulla scena internazionale. Non solo: egli ammoniva il suo governo che se si rifiutavano tutte le richieste di alleanza, e si voleva star sempre "su le generali", e se non si capiva neppure l'importanza di quanto si stava dibattendo attualmente in Vestfalia - che era cosa invero stupefacente e bruciante per un epigono dell'ambiziosa politica estera della generazione di un fra Paolo Sarpi, di un Nicolò Contarini, e come loro grande ammiratore delle Province Unite d'Olanda -, se ci si voleva isolare dagli altri non si poteva pretendere poi che gli altri intervenissero in proprio soccorso (40).
In quel periodo c'era stato bensì un caso in cui la Serenissima Signoria aveva rotto il suo impegno di neutralità, proprio in Italia, nei confronti del principe che solitamente si levava al suo fianco quando il Turco l'aggrediva: ossia la Sede Apostolica. I rapporti tra Venezia e Roma erano peggiorati ulteriormente dacché al soglio di Pietro era salito un acerrimo nemico della Signoria quale Urbano VIII. Il successo ottenuto da Urbano quale mediatore-patrocinatore delle paci di Ratisbona e Cherasco aveva grandemente rialzato il prestigio del papato, laddove quello della Serenissima Signoria era stato in quelle occasioni calpestato, non senza compiacimento da parte romana - l'aver ricevuto il ruolo di mediatore a Münster, in luogo della Sede Apostolica che vi avrebbe tanto ambito, se era per la Serenissima Signoria un'occasione di rivincita, costituiva per Roma uno smacco che non appianava certo i suoi rapporti con Venezia.
C'era stato comunque ben altro ad attizzare i risentimenti reciproci. A cominciare dalla decisione presa da Urbano VIII nel 1635 di far cancellare, dalla base di un affresco che nella sala Regia del Palazzo vaticano ricordava la pace stipulata nel 1177 a Venezia, una scritta celebrante la parte allora avuta dal Comune Veneciarum: che era un ledere profondamente la tradizione e l'orgoglio veneti (41). Così che quando, nell'ottobre del 1641, il papa Urbano VIII muoveva guerra al duca di Parma Odoardo Farnese per togliergli il feudo di Castro, nel Viterbese, ma con mire che si temevano ben più ampie e ben più sconvolgenti, capaci di proiettarsi su altre terre della penisola, la Serenissima Signoria accantonava l'impegno di attenersi a una politica di pace: aveva accettato di unirsi al granduca di Toscana e al duca di Modena, e le sue truppe si erano battute sul Po con quelle di Urbano VIII. La pace era stata stipulata solo nel 1644, addirittura sotto l'egida della Francia. Urbano VIII era morto di li a poco (42). La situazione sembrava migliorare con il suo successore, Innocenzo X, che permetteva il ripristino della scritta celebrativa sotto l'affresco della sala Regia.
Innocenzo X aveva accolto l'appello di aiuto della Serenissima Signoria dopo l'aggressione ottomana. Si era stabilito di fare una lega santa tra la Sede Apostolica, i Cavalieri di Malta, il regno di Napoli, l'Ordine di Santo Stefano, la repubblica di Genova, ciascuno mettendo il proprio contributo di forze militari, quasi tutte marittime. La lega si sfalderà presto, già all'inizio del 1646 rimarranno con Venezia solo galee pontificie e maltesi (43). Era la stessa Repubblica a sollevare nel 1647 una nuova grossa questione, pretendendo che le fosse riconosciuta, al pari dei grandi prìncipi, la prerogativa che i vescovi delle diocesi venete fossero preconizzati dai cardinali veneti (44). La guerra di Candia faceva incombere la possibilità non remota di perdere l'isola e con essa quel titolo "regio" che, come si sa, le era collegato: ottenere la preconizzazione dei propri vescovi sarebbe valso a conferire quel rango supremo, anche in mancanza di un proprio regno. Il sollevare una simile questione non era evidentemente la via migliore per propiziarsi degli aiuti. A conclusione del lungo pontificato di Innocenzo X, "spettator otioso delle calamità universali", lo definirà Battista Nani, l'appoggio da lui prestato alla Repubblica nella sua lotta contro il nemico della cristianità risulterà dei più magri (45).
Per portare avanti la guerra la Serenissima Signoria si troverà costretta a prendere subito, tra 1646 e 1647, provvedimenti eccezionali destinati ad avere conseguenze pesantissime, durature sulla politica e sull'ordinamento della Repubblica: quella cooptazione di molte nuove famiglie nel patriziato veneto di cui si è già detto; lo scorporo e la vendita di beni comunali, operazioni che dureranno varie decine d'anni e finiranno col turbare gli equilibri dell'agricoltura del Dominio di Terraferma; l'alienazione di feudi devoluti, necessaria premessa, ha scritto Giuseppe Gullino, della "vendita all'asta di feudi di nuova istituzione" (46).
Le attività terrestri dell'esercito veneto avranno esito molto migliore in Dalmazia che a Candia. Anche in Dalmazia si erano riscontrate bensì all'inizio delle incertezze e degli eccessi di prudenza da parte dei comandi. Ma dal 1646 le truppe della Serenissima registravano dei successi, riuscendo nel 1648 a prendere la fortezza di Clissa, che dominava l'accesso a Spalato, il centro commerciale più importante della costa, e insieme varie altre piazzeforti. Merito in particolare del provveditore generale in Dalmazia Lunardo Foscolo, uomo deciso, capace di sfruttare il fattore sorpresa e soprattutto di realizzare quell'integrazione tra operazioni di terra e di mare che doveva invece mancare nella condotta della guerra di Candia. Fattore importante era stato l'appoggio prestato dai sudditi. Gli abitanti di Nona avevano dato fuoco alla loro città per evitare che i Turchi vi si rifugiassero. Il senato veneto aveva avuto d'altro canto la saggezza di autorizzare il provveditore generale ad accordare protezione ai Morlacchi, un popolo vivente all'interno della zona costiera dalmata che lamentava di venir sfruttato dai Turchi, e di investirli dei territori occupati (47).
Più che le fortezze, aveva ricordato a suo tempo Paolo Paruta, era l'affezione dei popoli "soggetti" a conservare gl'imperi. Ma era proprio quell'"affezione" a mancare nell'isola di Candia. Quanto a fortezze l'isola non ne era certo priva, e danari per sistemarle ne erano stati spesi, forse in numero insufficiente, o magari malamente, così come per mantenere in efficienza le guarnigioni. Il più attivo, il più valente dei rappresentanti veneziani a Candia, dalla visione politica vicina a quella del Paruta, Jacopo Foscarini, il quale era a Candia sul finire del Cinquecento come provveditore generale, sindaco e inquisitore, si era preoccupato di affrontare, oltre ai problemi militari, quelli giudiziari, economici, amministrativi, di regolare la condizione della comunità ebraica e di rivitalizzare il commercio facendo costruire nella capitale un fondaco che ripeteva i caratteri architettonici delle "fabbriche realtine" (48) - non si dimentichi che è un periodo, questo tra Cinquecento e Seicento, per cui si parla di "rinascimento cretese", ad indicare la vivacità culturale che allora si riscontra nell'isola (49). Ma i Candioti non potevano restare indifferenti davanti alla mortificazione in cui le autorità veneziane tenevano la Chiesa greca, insensibili al fatto che, a differenza della latina, i cui fedeli si riducevano sempre di più, quella greca riuscisse a trovare adepti anche tra la popolazione veneta. Né poteva suscitare sentimenti di affetto per il governo veneto il comportamento di molti dei suoi rappresentanti: peculati, concussioni, corruzioni, scandali giudiziari, non solo da parte di rettori delle città, ma di consiglieri del regno, e addirittura di un duca di Candia (50). Le truppe turche che si attestavano sull'isola godevano pertanto del favore popolare, che spianava loro la strada. Tanto che verso la fine del 1646 in mano a Venezia resteranno solo le città di Candia, la capitale, che verrà cinta d'assedio, e Sitia, nonché le roccaforti di Grabusa e Spinalonga. Il comandante turco Husseyn pascià non perdeva tempo, andava incontro alle esigenze della popolazione accingendosi subito a riorganizzare secondo nuovi criteri il territorio conquistato (51).
Migliori, di gran lunga, saranno le vicende marittime. La flotta veneta riuscirà ad imporre la propria superiorità, e ci saranno uomini capaci di dimostrare che in quell'ambiente più connaturale con la loro città, con la sua storia, l'antico valore veneto era ancora ben desto. Nel maggio del 1646, ad esempio, Tommaso Morosini, capitano generale delle navi, aveva vinto il primo grande scontro navale della guerra. Nel 1649 un successore del Morosini, Jacopo da Riva, affronterà con grande coraggio Kapudan pascià, cercando di impedirgli di uscire dai Dardanelli con circa cento navi da guerra (52). Erano state folgoranti imprese individuali, tali da far vedere la potenziale superiorità della flotta veneta: esse avevano però rivelato nel contempo sia la carenza di un comando supremo capace di coordinare le operazioni e di sfruttare il successo, sia la tendenza dei singoli a prevaricare sullo sforzo unitario. Andrea Valier, il futuro storico della guerra di Candia, che pur nel 1647 aveva fatto parte della flotta di Tommaso Morosini, non condivideva l'entusiasmo per queste imprese, e parlava spietatamente di come era stata gestita allora la guerra marittima. Si era persa addirittura la possibilità di infliggere subito alla flotta turca il colpo mortale, e di concludere subito, vittoriosamente, la guerra: "Così [scriveva] la poca risoluzione dei comandanti veneti si può dire che donò un regno a' turchi, mentre rispetto alla poderosissima armata che avevano [...] potevano esser sicuri d'una gloriosa vittoria" (53).
All'attacco dell'Impero ottomano la Serenissima Signoria non aveva risposto solo accettando la sfida della guerra. Appena possibile essa aveva voluto che fossero avviate trattative di pace. Non era stato semplice. Subito dopo lo scoppio delle ostilità si era trovata priva del suo ambasciatore alla Porta Giovanni Soranzo, che le autorità turche avevano fatto arrestare. Priva del bailo - così era chiamato il rappresentante della Repubblica sulle sponde del Bosforo - la Serenissima Signoria aveva inviato a Costantinopoli uno dei più valenti membri della sua cancelleria, nella speranza che, così com'era avvenuto in simile circostanza tra la seconda metà del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento, una negoziazione ufficiosa approdasse a risultati migliori di una portata avanti ufficialmente. Tentativo fallito, comunque. Tanto che nel 1652 la Signoria aveva deciso di mandare alla Porta un nobiluomo, Giovanni Cappello: ma non si era concluso niente neppure questa volta.
Seguendo l'andamento della guerra di Candia dal suo osservatorio di Münster, dove era ormai vicina la pace tra i grandi prìncipi europei - il trattato di Vestfalia sarà firmato il 24 ottobre 1648 -, l'ambasciatore veneziano Alvise Contarini non poteva celare al governo della Repubblica il suo dissenso per il modo con cui conduceva le cose, incerto tra pace e guerra. Mai, nelle trattative di pace, procedere per dilazioni, né tanto meno cedere un po' per volta, perché questo rafforza l'avversario, lo invita a chiedere sempre di più (54).
Un punto di vista condiviso da Andrea Valier, il quale, dopo l'esperienza sul campo, dapprima nell'Egeo, come si è visto, poi in Dalmazia, era rientrato a Venezia e osservava da presso in qual modo si muoveva il governo. La guerra, se si decideva di farla, bisognava condurla sino in fondo, in modo di vincerla. Non si poteva restare a metà. Quella di Venezia era invece una politica ambigua, troppo remissiva: che dava al Turco l'impressione che non si escludesse la possibilità di cedere il regno, e lo induceva senz'altro a pretenderlo (55).
Andrea Valier era un senatore che ricordava per qualche aspetto Nicolò Contarini, il protagonista più generoso ed impetuoso della politica veneta dall'inizio del secolo al 1631. Uomo di cultura, come il Contarini, come lui scrittore e storico, ma anche poeta, a differenza di lui. Appartenente, come il Contarini, a famiglia di "angusto parentado e di più anguste facoltà". E come il Contarini "zelante" del pubblico interesse, portato all'intransigenza. Al pari del Contarini, non riuscirà a diventare procuratore di San Marco, a causa delle ostilità che il suo atteggiamento finiva per procurargli, e magari di una sua certa bizzarria (56).
Il Valier non era stato un fautore della guerra contro l'Impero ottomano. Pur avendo preso parte nei primordi di essa a operazioni belliche di una certa rilevanza, egli ne parlava con distacco, e anzi con un certo infastidito scetticismo nei confronti delle gesta individuali che erano oggetto di grandi celebrazioni patriottiche. Il suo atteggiamento muterà dopo il 1651.
Le imprese compiute in Egeo da un Lorenzo Marcello, da un Francesco Morosini, da un Barbaro Badoer, soprattutto da un Lazzaro Mocenigo ai Dardanelli lo coinvolgevano emotivamente, gli ispiravano passi vibranti di epica patriottica. Raccontava di Lazzaro Mocenigo, che pur avendo perduto un occhio in combattimento era riuscito a realizzare il suo intento "di veder per sua causa distrutta tutta l'armata ottomana", con una vittoria che poteva essere annoverata tra le "più cospicue de' secoli passati". Il Mocenigo purtroppo era morto nel 1657: perdita gravissima, perché sarebbe stato senz'altro l'uomo in grado di prendere in mano vittoriosamente la guerra, e di incidere con l'empito delle sue vittorie sul mare anche sull'andamento delle operazioni di terra, rianimando i "popoli soggetti" del regno e incitandoli a lottare per riconquistare il perduto (57).
Il bilancio che si presentava così alla Serenissima Signoria dopo dodici anni di guerra era quanto mai amaro. Oneri finanziari enormi, senza fine. Speranze, o illusioni, di una soluzione con una vittoria sul mare che si bruciavano una dopo l'altra. Isolamento sul piano internazionale: la repubblica delle Province Unite d'Olanda, la recentissima repubblica inglese, malgrado la comunanza istituzionale e l'ammirazione che molti nutrivano per la veneta Repubblica non potevano non anteporre i propri interessi commerciali di Levante, competitivi con quelli di Venezia; altrettanto valeva per la Francia, che aveva buone relazioni d'affari con il Turco, e non voleva rinunciarvi, pretendendo inoltre che un appoggio alla Serenissima Signoria a Candia fosse ricambiato sostenendo contro la Spagna la politica francese in Italia. Diverso era l'atteggiamento della Sede Apostolica. Essa aveva nell'attuale pontefice, Alessandro VII, un papa disposto a fare per Venezia ben più dei suoi predecessori. D'altro canto, lo si dirà meglio altrove, a Venezia gli spiriti erano in parte mutati. Quanto meno si era compreso che un sostegno effettivo lo si poteva avere solo da Roma e che, pur senza fare palinodie o dimostrare alcun segno di pentimento, bisognava metter da parte gli irrigidimenti ideologici, assumendo una linea politica più duttile, più flessibile. Alessandro VII otteneva all'inizio del 1657 che fosse riaccolta nel Dominio veneto la Compagnia di Gesù che ne era stata espulsa con una legge draconiana giusto all'inizio della questione dell'interdetto. A sua volta egli metteva a disposizione della Repubblica i beni di due ordini claustrali che avevan sede a Venezia e che erano stati soppressi; a Candia inviava delle navi, dei soldati invece in Dalmazia (58).
Nel 1657 il senato aveva ritenuto necessario discutere se valesse la pena di andare avanti, o se non fosse ormai preferibile arrivare senz'altro alla stipulazione di un accordo di pace. Andrea Valier aveva tenuto a sottolineare nella sua storia la gravità del momento contrapponendo i discorsi che allora erano stati considerati emblematici delle due diverse posizioni, quello del doge Bertucci Valier, per la pace, e quello del savio del consiglio Giovanni Pesaro.
Non aveva più senso continuare la guerra, sosteneva il doge. I dodici anni di conflitto avevano consumato gli erari, stremato di gravezze i sudditi, distrutto il commercio, "ridotte le nostre galere in numero così ristretto, che fa orrore il nominarlo". Buona parte dell'isola intanto continuava a restare in mani turche. Era una guerra che non si poteva più vincere, troppo forte essendo la superiorità del Turco, troppo vantaggiosa la vicinanza delle sue basi, così che il trascorrere ulteriore del tempo non poteva che favorire i suoi disegni, laddove esso gravava sempre più pesantemente su quelli dei Veneziani. Erano argomenti che il Pesaro non trovava per nulla convincenti, o quanto meno adeguati all'oggetto di questa guerra, che non era un'isola qualsiasi, ma un "regno", l'isola che collocava la Repubblica "tra le corone d'Europa", "nella prima sfera de' principi". Considerazione che era da anteporre ad ogni altra. A parte questo, per il Pesaro risorse con cui continuare la guerra non ne mancavano. Anzitutto l'armamento c'era, a Candia si trovavano artiglierie, armi, munizioni per molti anni. Quanto ai soldi se ne sarebbero trovati, sia a Venezia, città ricchissima, sia in altre città doviziose dello Stato. Sul doge l'argomento del "regno" non faceva alcuna presa. Perché, oltre a dover tener presente che la "città di Venezia" bastava da sola a far "regina la Repubblica", egli era convinto che a star dietro a illusioni come questa del "regno" si correva il rischio di perdere qualcosa di ancor più importante, la propria libertà. Ma c'era di più: "l'isola di Candia tutta, mentre era da noi pacificamente posseduta, ci portava aggravio considerabile all'erario, ed era semplicemente uno stato d'apparenza", diceva Bertucci Valier, anche senza di essa la Repubblica sarebbe rimasta con le medesime forze. Il doge non si fermava qui, andava più a fondo, metteva in dubbio che persistessero le ragioni ideali che avevano spinto ad intraprendere questa guerra. Perché ora, a tanto tempo dal suo inizio, essa aveva perduto il suo significato morale: non si può magnificare, egli ammoniva coraggiosamente, "la giustizia della causa della Repubblica, perché adesso non combatte la causa giusta con l'ingiusta, ma la forza con la forza [...]". Ossia, si trattava ormai di una guerra come le altre, anzi, di una guerra per giunta sbagliata. A vedere di Bertucci Valier - ed erano parole pesantissime in bocca al doge, che aveva nel suo ruolo prerogative religiose accanto a quelle politiche - la Repubblica non poteva neppure confidare nell'intervento divino, perché Iddio, che "ha concesso la prudenza agli uomini", vuole che se ne servano "nel conoscere se stessi", cioè, in questo caso, nel decidere la cosa più saggia, la stipulazione della pace. Per il Pesaro un simile discorso era assolutamente inaccettabile. La guerra che la Serenissima Signoria stava combattendo era una guerra di religione. Un conflitto che avrebbe finito pertanto col vedere il concorso della cristianità. Giovanni Pesaro era stato tra coloro che avevano sostenuto come solo una politica di intransigente fermezza nei confronti della Santa Sede avrebbe garantito l'indipendenza della Repubblica. Ma allorché si era discusso in senato se per avere un efficace sostegno pontificio nella guerra fosse necessario riammettere nel Dominio la Compagnia di Gesù che ne era stata espulsa nel 1606, egli aveva detto di sì, che era un prezzo che si poteva e doveva pagare. Non spaventava il Pesaro la prospettiva di una crociata che avrebbe avuto il pontefice, non più la Serenissima Signoria, alla sua testa. "A tutto ci dobbiamo appigliare, perché tutte le cose sono oneste quando si tratta di ritenere il Dominio", gli faceva dire il Valier, ad esprimere lo sconvolgimento provocato dalla guerra. Il senato aveva optato per il Pesaro, la guerra doveva andare avanti: un senato, commentava nella sua storia Andrea Valier, "il quale per le condizioni di questa guerra era ridotto in testa della gioventù": si faceva cioè dirigere dalla passionalità dei giovani, non dalla saggezza dei vecchi (59).
Andrea Valier concordava con il doge. Ma a lui, storico della guerra, le ragioni addotte dal principe non bastavano. C'era da dire ben di più, chiarire come e perché una guerra come quella di Candia, decisa, combattuta da una Repubblica che aveva appena dietro di sé un periodo difficile, di politica fallita, di crisi dell'economia, di irrequietudine serpeggiante nello Stato di Terraferma, di conflitti in seno all'aristocrazia veneziana, una guerra contro un nemico potente, sicurissimo di sé, dalle risorse che parevano senza limiti, finisse dunque per turbare, sino ad alterarlo, l'intero ordinamento della Repubblica, nelle sue strutture costituzionali, nel tessuto sociale su cui si reggevano.
Il quadro che presentava il Valier era cupo, e metteva in evidenza le contraddizioni create da una situazione di emergenza come quella bellica. Da una parte la sofferenza di chi subiva i contraccolpi della guerra, la perdita di persone care nei combattimenti, il forte incremento dell'onere fiscale e del debito pubblico, l'aumento dei prezzi; dall'altra le ostentazioni di un lusso smodato da parte di coloro che della guerra avevano approfittato per arricchirsi, e non erano pochi (60). L'erario è spogliato, non i privati, ci sono persone che "coll'industria e fatica del mestiere del mare, più che colle armi, si sono notabilmente arricchite", scriveva l'anonimo autore di una relazione su Venezia verso la fine della guerra di Candia. All'incirca in quel tempo l'ambasciatore di Francia vescovo di Béziers, ostile ai Veneziani, in una lettera a Parigi non esitava ad insinuare con paradossale sarcasmo che il senato era diviso tra chi aveva già fatto soldi con la guerra e chi sperava di cominciare a farli. La divisione tra chi voleva continuare la guerra e chi voleva la pace, in altre parole. A sua volta il Valier accennava alle speculazioni monetarie che si facevano a Candia (61). La crescita della spesa pubblica aveva costretto la Signoria a procurarsi con misure pesanti, rischiose, quello che prima otteneva semplicemente in virtù della sua organizzazione: ora per far fronte alle necessità si era deliberato addirittura di vendere i beni comunali dello Stato di Terraferma, che era, secondo il Valier, "un colpo inferto a quella povera gente delle ville", che non sarebbe guarito neppure "con la benedizione della pace" (62). Peggiori erano le ripercussioni di provvedimenti che toccavano, come si è detto, le strutture costituzionali. Il più clamoroso di essi era la concessione della nobiltà veneta a chi avesse fatto grossissime offerte di danaro all'erario: "indecorosa", aveva detto il Valier della prima proposta che era stata fatta a tale riguardo; per aggiungere poi, riferendo come la legge regolatrice di tale questione fosse passata per pochi voti, che il corso successivo delle cose doveva dimostrare l'esattezza delle iniziali previsioni negative (63). Ma non solo la nobiltà, anche la giustizia si era pensato di vendere, quando si era stabilito che i banditi potessero affrancarsi dalla propria pena versando pur loro danaro all'erario (64). Al Valier premeva richiamare l'attenzione su una questione di non minor rilevanza per la Repubblica, l'attribuzione di onori e di grazie a nobili che si fossero distinti in qualche famoso evento bellico. Era il caso di Lorenzo Marcello, capitano generale da mar: siccome era caduto in combattimento, la ricompensa la ricevevano i suoi fratelli e nipoti sotto forma di privilegi. Cose, commentava il Valier, che creavano "grande confusione nella distribuzione delle cariche". Perché, "essendosi disfatte le antiche costituzioni" appunto a causa della guerra, le "abilità", ossia le capacità delle persone, erano valutate arbitrariamente (65). Secondo il Valier la lunga emergenza bellica aveva sollevato altri problemi delicatissimi. Per cominciare, lo sdegnava profondamente la revoca dell'espulsione della Compagnia di Gesù, ottenuta superando le gravi difficoltà legislative che vi si opponevano in virtù di espedienti legislativi suscettibili di costituire un precedente pericoloso, revoca che minacciava di incrinare il senso gelosamente orgoglioso di difesa del proprio passato - secondo l'autore del suo medaglione biografico il Valier, che era allora avogadore di comun, la carica che doveva garantire la legittimità di leggi e decreti, si era sdegnato a tal punto che i parenti temevano che le sue proteste potessero provocarne la cacciata dallo Stato veneto (66). Non meno assillante, il problema dei giovani nobiluomini. Si era consentito, poco dopo l'inizio delle ostilità, che i giovani patrizi di diciotto anni che sborsassero una certa somma di denaro potessero entrare in maggior consiglio, e che con una somma un po' più alta fossero in grado di ottenere degli uffici. Ciò significava svilire le cariche pubbliche, e sottrarre i giovani all'autorità paterna, agli studi, all'educazione - la diseducazione, l'ignoranza, nonché l'arroganza proterva, colpivano i forestieri, e Andrea Valier era uno dei non molti nobiluomini veneziani che convenisse sulla gravità della carenza di studi e di educazione in chi era destinato al governo della Repubblica (67). Le difficoltà che il governo incontrava nel condurre la guerra come lo esigevano gli interessi della patria, nell'evitare o nel rimediare ai guasti morali che essa generava, nell'affrontare i rapporti con gli altri prìncipi dipendevano dalla pletoricità del consesso cui spettava di prendere le decisioni, cioè il senato. Era necessario che a decidere fosse un organismo ristretto, composto solo di ventiquattro membri, e se ne era infatti proposta l'istituzione. Ma in senato l'opposizione era stata forte: il Valier riserbava parole severe a un membro della quarantìa, Andrea Trevisan, che col suo discorso, in cui evocava lo spettro dell'oligarchia, aveva fatto cadere la legge (68).
Su un punto Giovanni Pesaro, che morirà presto, alla fine di settembre del 1659, lasciando il dogado a Domenico Morosini, che lo terrà invece a lungo, sino al 1675, su un punto aveva ragione: che ci fossero nella Repubblica risorse politiche, umane, materiali, tali da farle reggere ancora a lungo lo sforzo della guerra. Anzi, il senato, scriverà Andrea Valier, teneva a "far comparire in faccia del mondo e principalmente dell'inimico" che gli era perfino agevole trovarle: lo sfoggio di ricchezza era uno strumento antico di propaganda da parte della Serenissima, così come il sottolineare che la si metteva a disposizione della cristianità, non solo di se stessa (69). Anche se queste risorse da sole non bastavano a vincere, bisognava saperle utilizzare, su un piano strategico e su un piano politico: e ottenere, esigenza che il trascorrere del tempo renderà sempre più forte, che un simile onere bellico fosse condiviso con prìncipi saldamente, durevolmente collegati.
Nel periodo che seguiva al 1657 la guerra sembrava offrire alla Repubblica occasioni favorevoli per imprimere maggiore incisività alla sua azione. L'attenzione dell'Europa si volgeva verso le terre a nord della penisola balcanica, dall'Ungheria asburgica alla Transilvania. Sulla scia della tradizione guerriera di suoi predecessori, come Mihai Viteazul, o Michele il Bravo, Istvàn Bocskai, Gabor Bethlen, l'attuale, ambiziosissimo principe di Transilvania, Giorgio II Ragoczi, nel 1657 aveva preso le armi attaccando la Polonia. Malgrado le loro ambizioni di indipendenza i prìncipi transilvani erano pur sempre tributari della Porta ottomana. Quest'attacco mosso autonomamente da Ragoczi suonava minacciosamente eversivo per la politica turca. Contro il Ragoczi si era mosso addirittura il sultano Maometto IV Koprulu, che aveva inviato una spedizione di Tatari; il Ragoczi era stato travolto - morirà nel 1661 -, la Transilvania devastata. Era un baluardo dell'Europa centrale che cadeva, le forze guidate con grande risolutezza da Ahmed Koprulu, il gran visir cui il sultano aveva affidato il comando delle operazioni, avrebbero potuto volgersi verso l'Austria o verso la Dalmazia veneta; l'imperatore e la Repubblica di Venezia assistevano con grande apprensione (70). Neppure la Francia, che nel 1658 aveva dovuto subire dalla Porta ottomana l'oltraggio riserbato a Venezia giusto all'inizio della guerra, l'arresto del suo ambasciatore a Costantinopoli, poteva restare indifferente. Il trattato di pace cosiddetto dei Pirenei, con il quale concludeva un'ulteriore guerra combattuta contro la Spagna, la lasciava libera di muoversi. Nel 1658 essa aveva fatto avere ufficiosamente alla Serenissima un contributo di 100.000 scudi. Nel 1660 faceva partire per Candia una spedizione forte di tremilacinquecento soldati, cui il cardinale Mazzarino, artefice della politica francese e promotore di questa iniziativa, aveva preposto il duca Almerico d'Este (erano truppe messe a disposizione del papa, si diceva ufficialmente, per evitare di assumere un impegno ufficiale). Le navi del duca d'Este si incontravano nel luglio del 1660 con le squadre pontificia, toscana e maltese, oltre che con la flotta veneziana agli ordini del capitano generale da mar Francesco Morosini, appena reduce da un'ardita impresa nel sempre sognato regno di Morea, fallita per il mancato aiuto insurrezionale degli abitanti del braccio di Maina. Insieme proseguivano verso Candia, per sbarcare a Suda e cercare di riconquistare Canea. Neppur questo tentativo andrà a buon fine. Il duca d'Este moriva nell'isola di Paro; e moriva in Francia colui che gli aveva affidato quella missione in Levante, e che si era adoperato per dare alla Repubblica il sostegno francese, il cardinal Mazzarino (71).
Bene andava invece l'operazione navale che compiva nel 1661 Giorgio Morosini, fratello di Francesco, nelle acque di Milo: si era scontrato con i Turchi, li aveva sconfitti, catturando venti loro navi. La Serenissima Signoria controllava tutte le Cicladi (72).
Vicende, comunque, che non avevano ripercussioni sull'andamento della guerra ormai in corso tra l'Impero asburgico e l'Impero ottomano tra Danubio e Drava. Diventava sempre più chiaro che il gran visir Ahmed Koprulu intendeva spingere il suo esercito al di là dell'Ungheria, oltre la Croazia, verso Vienna. L'imperatore Leopoldo aveva opposto le sue truppe, alla cui testa era un italiano, Raimondo Montecuccoli. La battaglia decisiva avverrà a San Gottardo, sul fiume Raab, non lungi da Graz, il 31 luglio del 1664. La vittoria aveva arriso finalmente al Montecuccoli. La pace tra i due Imperi sarà firmata nel 1665 a Vasvar, e ratificata con lo scambio di due grandi ambascerie. La Serenissima Signoria aveva preferito tenersi in disparte. Aveva scelto, dopo il primo interessamento iniziale per la situazione transilvana, di tenersi fuori da quel fronte; non poteva essere coinvolta nella pace. Restava in armi in Dalmazia, a Creta, sul mare. Mentre a Costantinopoli restava a condurre i negoziati di pace un intelligente segretario, Giovanbattista Ballarin - il bailo, Giovanni Cappello, era morto nel 1662. Il Ballarin aveva tentato vanamente di convincere il sultano a porre fine alla guerra accettando che l'isola di Creta fosse divisa in due, una parte ai Turchi, l'altra ai Veneziani. Lo stesso Ballarin aveva però insistito, pur invano, con il senato nel 1663 e nel 1664 che quello era il momento di presentarsi decisamente nell'Egeo con le forze collegate della Repubblica, della Sede Apostolica, del granduca di Toscana, della Sicilia e di Malta per aggredire la flotta turca e sbarcare massicciamente su Creta. Il senato gli aveva scritto poco, e con ambiguità, incerto sulla linea da seguire, mirando a tener aperte tutte le opzioni. Ma Venezia vuole veramente vincere la guerra, e in tal caso val proprio la pena di mandarle aiuti, si chiedevano a Parigi e nella stessa Roma (73)?
Nella primavera del 1667 la guerra entrava nella sua fase conclusiva. Il gran visir Ahmed Koprulu, che aveva fatto trasferire nell'isola settantamila soldati, sferrava un vigoroso attacco alla fortezza di Candia tuttora assediata. Francesco Morosini, cui era stata affidata di nuovo la carica di capitano generale da mar, aveva risposto con una sortita che gli era costata un elevato numero di perdite, ma aveva permesso di alleggerire la pressione nemica. Era chiaro comunque che con le truppe falcidiate, con i mezzi di cui ancora disponeva, non si sarebbe stati in grado di reggere al secondo attacco, che era previsto per la primavera del 1668. L'intervento di altri prìncipi era indispensabile. La Serenissima Signoria aveva pertanto chiesto loro aiuto. All'inizio di marzo del 1668 il senato aveva però deciso di fare un ulteriore tentativo di pace, mandando a Costantinopoli un nobiluomo per conferire maggior autorevolezza alle trattative. La scelta era caduta su una personalità ormai ben nota, che praticamente era già per strada, perché si trovava nello Ionio quale provveditore generale delle tre isole, Corfù, Zante, Cefalonia: Andrea Valier, proprio il futuro storico della guerra. Un nome che doveva aver colpito, tanto che a Smirne il console della compagnia inglese del Levante Paul Rycaut ne era a conoscenza quando a Venezia si stava ancora mettendo a punto la commissione cui l'ambasciatore avrebbe dovuto attenersi. Andrea Valier non aveva accettato, spiegando in una lettera urgente alla Signoria - si era ormai ai primi di agosto - di esser stato colpito da una gravissima malattia. Il senato non aveva perso ulteriore tempo, e aveva nominato un sostituto, il nobiluomo Alvise da Molin, cavaliere di San Marco, il quale era subito partito - perché gli era stato concesso il "sopimento di liti civili per via straordinaria e il grado senatorio ad uno dei figli", insinuava malignamente il Valier nella sua storia (74).
Il rifiuto di Andrea Valier non poteva non provocar scalpore. Proprio lui, che faceva il Catone, e che criticava chi guidava la guerra in patria, chi la conduceva in Levante... Egli stesso, nel riferire l'episodio nella sua storia, appare imbarazzato, e le scarne giustificazioni che adduce, al di là della malattia - la quale gli era già passata nell'ottobre del 1668 -, non riescono convincenti: a veder suo, il rimettere a un nobiluomo la mansione che era stata di un segretario, era un indebolire la trattativa in partenza, privarla dell'autorevolezza necessaria a condurla efficacemente, o, in altre parole, era un insistere in quell'ambiguità che era stata tanto criticata. Da aggiungere che, a differenza del Molin, che aveva esperienza diplomatica alle spalle, come provava il titolo di cavaliere di San Marco di cui si fregiava, lui, Andrea Valier, non ne aveva alcuna: e avrebbe dovuto cominciare dalla sede più scottante, Costantinopoli, e con un negoziato di pace, mentre il suo governo stava insieme adoperandosi per continuare la guerra e riuscire finalmente a vincerla.
La causa veneziana in Levante stava attirando in Europa una più fattiva solidarietà. Quell'immagine dell'antica Repubblica che si ostinava a tener duro nella lontana isola del Mediterraneo malgrado la strapotenza del suo nemico aveva finito per colpire importanti settori della società europea; e c'erano insieme l'accentuarsi della preoccupazione per la minaccia che il Turco intendeva portare sempre più al cuore dell'Europa, così come la considerazione delle conseguenze che avrebbe portato la caduta di Candia, ossia un accendersi esasperato dell'orgoglio e dell'aggressività ottomana, e l'ombra di mortificazione e di vergogna che si sarebbe proiettata sulla cristianità. Fatto sì è che spiriti avventurosi e generosi si offrivano volontariamente di militare a Candia al servizio o a fianco della Serenissima Signoria in nome di un'idealità religiosa. Candia, scriveva da Parigi nell'agosto del 1668 Marc'Antonio Giustinian, era considerata "il vero theatro ove si possono rappresentare heroiche attioni", la nobiltà francese vi si sentiva chiamata (75).
Anche i prìncipi si erano mossi. L'imperatore Leopoldo I si era bensì limitato ad autorizzare la Repubblica ad arruolare truppe nei suoi territori, ma dei prìncipi dell'Impero solo quelli ecclesiastici ed altri cattolici si eran detti favorevoli a mandare truppe. I Cavalieri di Malta avevano messo a disposizione sessantatré cavalieri e trecentotrentasette armati. Il duca di Savoia, sancendo la fine della disputa che lo aveva a lungo diviso dalla Repubblica a causa del titolo di re di Cipro che si contendevano tra loro, mandava a Candia un buon contingente di truppe, al comando del marchese Gianfrancesco Villa. Luigi XIV, re di Francia, offriva da un lato una grossa somma di danaro, dall'altro autorizzava ad ingaggiare volontari nel suo regno: se ne presenteranno seicento, tra cui dei nomi famosi, a cominciare dal duca de la Feuillade, maresciallo di campo e luogotenente generale delle armate del re. Luigi XIV teneva comunque a far sapere che egli non sosteneva direttamente la Repubblica, ma la Santa Sede, seppur per il tramite di essa. Era un modo per negoziare col papa e ottenerne benefici personali, come la nomina a cardinale del duca d'Albret, ambitissima dal re (76). Il massimo impegno in favore della Serenissima Signoria era pur sempre quello del papa attuale, Clemente IX. Egli avrebbe voluto che per meritarselo la Signoria di Venezia avesse finalmente accondisceso a revocare quelle famose leggi del 1605, le leggi che per la Sede Apostolica restavano a simboleggiare l'atteggiamento di proterva fierezza da essa assunto all'inizio del secolo. La Serenissima Signoria non cederà neppure questa volta. Ma quella di Candia era ormai una guerra della cristianità, ed il pontefice, che ne era il capo, si arrogava il dovere di promuoverla e di guidarla. Egli aveva concesso alla Repubblica 500.000 scudi sul tesoro dello Stato pontificio, e aveva sciolto altre tre congregazioni religiose, autorizzando la Repubblica a venderne i beni: la Repubblica aveva anche potuto arruolare settecento uomini nello Stato della Chiesa. Clemente IX aveva fatto inoltre giungere a Candia materiali e uomini, nonché una flotta di ben cinque grosse navi, affidandone il comando al nipote Vincenzo Rospigliosi, balì dell'ordine di Malta. Un impegno, quello di Clemente IX, che, trasformando la guerra in una crociata, comportava inevitabilmente che il comando di tutte le forze cristiane fosse attribuito a Vincenzo Rospigliosi, con il titolo di "generalissimo di Santa Romana Chiesa". Luigi XIV aveva accettato, ricevendo però in cambio che il posto di vicecomandante toccasse al duca de la Feuillade.
Anche la Repubblica aveva accettato. Era però evidente che, perdendo la primazia nella guerra che aveva a lungo combattuto, anche il senso della guerra stava mutando. Se, malgrado gli aiuti, la guerra si fosse perduta, le conseguenze negative sarebbero state tutte per la Repubblica. Ma se si fosse vinto, chi ne avrebbe tratto il vantaggio?
Alla fine la guerra era stata perduta. Gli aiuti avevano bensì dato qualche respiro, e acceso qualche speranza. Sul mare, la flotta veneto-pontificia aveva riportato nel luglio del 1668 un lusinghiero successo, sconfiggendo la flotta turca e causando perdite di una qualche entità (a detta di uno storico militare, Bigge, il merito andava ai Veneziani). Per terra, i Francesi avevano modo di dimostrare nelle sortite tutto il loro valore, e rimproveravano nel contempo ai Veneziani di non fare tutto quello che avrebbero potuto per appoggiare la loro azione e consentire di ricavare tutti i vantaggi possibili. Si trattava di una guerra che il Turco continuava a condurre con determinazione, cui si rispondeva con imprese sanguinose e isolate, senza una visione unitaria, comunque, e logorati piuttosto dall'avvampare di rivalità e di polemiche tra Francesi e Veneziani, di accuse reciproche di precipitazione irresponsabile - da parte dei Veneziani - e di viltà o addirittura di tradimento - da parte dei Francesi. Nel corso di un consiglio di guerra i Francesi oseranno tacciare di malafede il capitano generale da mar Francesco Morosini. Ma un tradimento c'era effettivamente stato nel campo della Repubblica - Giuseppe Gullino ne ha messo in rilievo tutta la gravità -, da parte di un ingegnere, veneto di origine ma residente nell'isola, il quale proprio nel 1668 aveva fornito ai Turchi la pianta della città assediata (77).
Si giungeva all'estate del 1669, la situazione per i cristiani era pessima, le speranze si erano spente. Nell'agosto partivano da Candia i Francesi e i Maltesi. Il 27 agosto Francesco Morosini comunicava al consiglio di guerra che Candia, esausta per l'assedio, doveva capitolare. C'era stata una protesta da parte di Vincenzo Rospigliosi, ma era evidente che a quel punto non restava altra possibilità che la resa. Una resa avviata col Turco ancor prima di informarne la Serenissima Signoria e il senato. A Creta si trovava fin da marzo Alvise Molin, il nobiluomo che aveva sostituito Andrea Valier quale inviato straordinario alla Porta. Le negoziazioni, sancite da un trattato di pace concluso il 6 settembre 1669, erano state condotte dal Morosini, sua ne era la responsabilità. "Tenuto conto della situazione", ha scritto Ekkehard Eickhoff, "i Veneziani ottennero condizioni molto favorevoli e onorevoli. La piazzaforte di Candia sarebbe stata consegnata entro dodici giorni; la guarnigione e gli abitanti avrebbero potuto partire liberamente con le armi e a bandiere spiegate, portando con sé i beni mobili, parte dell'artiglieria (una concessione con la quale il Gran Visir riconosceva l'eccezionale resistenza), l'arredamento delle chiese e le reliquie. Sarebbe stata sgombrata anche l'isola di Standia. La Repubblica avrebbe mantenuto sull'isola le tre piazzeforti portuali di Suda, Grabusa e Spinalonga [...]. In tal modo l'isola era almeno libera come tappa di rifornimento e di sosta per il commercio marittimo. Sarebbero restate a Venezia Cerigo e Tino, ma soprattutto le conquiste in Dalmazia, Bosnia e Albania con il forte di Clissa. Nessuna delle due parti avrebbe richiesto riparazioni in danaro" (78). Una resa, per finire, che provocava a Venezia la reazione esasperata di chi - tra la nobiltà, nella opinione pubblica, senza il cui sostegno sarebbe stato ben difficile il proseguimento così lungo della guerra - riteneva che Candia avrebbe potuto resistere ancora, e attribuiva a Francesco Morosini l'insuccesso finale di una guerra che era costata alla Repubblica trentamila morti, di cui duecentottanta nobiluomini, cioè circa un quarto del maggior consiglio. Il Morosini veniva infatti processato, ma assolto, e poi riabilitato (79).
Negli ultimi centotrent'anni la Serenissima Signoria aveva combattuto tre volte contro l'Impero ottomano. La prima dal 1537 al 1540, segnata da una sconfitta, alla Prevesa, la seconda dal 1570 al 1573, illuminata da una grande vittoria, la famosa battaglia di Lepanto del 1572. La pace in entrambi i casi era stata fatta rapidamente, e in entrambi i casi la Signoria era stata costretta a importanti cessioni territoriali. Nel 1540 aveva perso i gloriosi possessi della Morea orientale, Napoli di Romània e Malvasia (o Monemvasia), nel 1573 addirittura l'isola di Cipro. Nella guerra di Candia, lo si è testé visto, si era combattuto per ventiquattro anni prima di decidersi a rinunciare all'isola. E contro la pace si erano levate polemiche e proteste che non c'erano state, almeno così accese, nel 1540 e nel 1573. L'elemento fondamentale è che quelle due paci cinquecentesche erano state concluse da un organismo ristretto, elitistico, il consiglio dei dieci con la sua zonta, ad insaputa del senato. Vien spontaneo di considerare che il mito di gloria e di grandezza, l'ambizione di dominio, e l'inclinazione alla guerra, fossero patrimonio soprattutto della nobiltà di medie o basse fortune, quella che aveva voce in senato, e che una visione più riduttiva, meno imperiale, più propensa alla pace, fosse prerogativa della nobiltà più ricca, quella cosiddetta dei "prìncipi", che entrava nel consiglio dei dieci. Ci si chiede allora se quell'immissione nel maggior consiglio di nobili nuovi e facoltosi, taluni facoltosissimi, nel maggior consiglio la nobiltà più alta non l'avesse voluta anche nella speranza, o nell'illusione, di poter aver degli alleati contro la nobiltà di medie e basse fortune, anche di fronte alle grandi scelte politiche che si fossero proposte alla Serenissima Signoria (80).
Non c'era stata tregua nell'attività diplomatica di Alvise di Tommaso Contarini, iniziata in Olanda nel 1623 quando era appena ventiseienne, conclusa non molto dopo il suo ritorno da Münster - morirà a Venezia nel gennaio del 1651. Era uomo di grande intelligenza, che conosceva l'Europa, in tutti i suoi problemi, in tutte le sue difficoltà, in tutte le sue lacerazioni, nei suoi rapporti di forza: chi era potente, di una potenza antica o nuova, chi era debole, debolezza di sempre, o debolezza recente, impossibilità o incapacità di reggere al passo dei più forti e di trasformarsi secondo l'urgere del tempo. Il senato vedeva in Alvise Contarini il proprio uomo migliore, colui che laddove fosse necessario era in grado di offrire il volto di una Serenissima Signoria ancora risoluta e intraprendente, tale da poter stare in buone relazioni con prìncipi emergenti come l'Inghilterra e le Province Unite d'Olanda, o di rievocare e tutelare la sua antica fama di saggezza e prudenza di fronte a prìncipi di antica autorità come il regno di Francia e la Santa Sede. Nel 1626, al termine del suo soggiorno olandese si era dovuto trasferire a Londra, e da lì nel 1629 a Parigi, per assolvervi il compito impossibile di placare il cardinale Mazzarino, che era in procinto di esprimere tutta la sua ostilità verso la Repubblica emarginandola dalle trattative di pace di Ratisbona e di Cherasco. Non più agevole la missione che dovrà svolgere subito dopo a Roma, ove giungerà nella primavera del 1632: riaggiustare i rapporti tra la Sede Apostolica e la Serenissima Signoria che stavano toccando in quel periodo uno dei punti più bassi. Per entrare nel vivo della storia veneta della prima metà del Seicento ci sembra pertanto utile valerci della guida di Alvise di Tommaso Contarini, degli ammonimenti e degli incitamenti che egli rivolgeva alla Serenissima Signoria su problemi che egli considerava nodali come i rapporti tra la Repubblica di Venezia e la Sede Apostolica (81).
Negoziare a Roma con la Sede Apostolica non era impresa da poco. La corte di Roma era quello che era. Nella relazione che presenterà al senato nel 1635, a compimento della sua missione, Alvise di Tommaso Contarini ne traccerà un quadro spietato: "Quivi l'adulatione si veste d'honestà; l'inganno di accortezza. Ogni vitio insomma mascherato apparisce: tutto honesto, tutto honorevole, tutto necessario quello che conduce all'utile, unica Deità che si adora". Tenendo per di più ben presente che le questioni ("le occorrenze") che vi si dovevano trattare erano, a vedere dell'ambasciatore, "di due sorta, l'une spirituali e l'altre politiche. Per rimediare a tutte in un colpo ottimo sarebbe che Roma fosse da noi disgiuntissima. Ma perché questo non è in poter nostro, sarebbero desiderabili gli accordati, come tiene la Francia, e procura la Spagna". Ma di "accordati", o concordati, la Repubblica non ne aveva. Al rappresentante della Repubblica di Venezia a Roma toccava inoltre di aver a che fare con difficoltà che non c'erano per gli altri prìncipi, grandi o piccoli che fossero. Alvise Contarini spiegava il perché. Se erano "re grandi", nei loro riguardi i papi avevano "sempre bisogno o timori o dipendenze". Se erano di rango inferiore, essi ottenevano "per gratia" ciò che sarebbe dovuto spettar loro "per giustitia". Soltanto la Repubblica, spiegava Alvise Contarini, "è quella che tratta del pari: parità così acerba tra la politica ecclesiastica e la secolare, che non bisogna trattar alcun negotio senza il patto armato". Tutto poi era più difficile nella congiuntura attuale. Perché era papa Urbano VIII, un fiorentino di casa Barberini ostilissimo a Venezia: il Contarini traccerà di lui, nella sua relazione, un ritratto al vetriolo, riconoscendo comunque che il pontefice aveva buon gioco nel manifestare la sua ostilità alla Repubblica perché approfittava dei vizi del suo governo, "hora debole, hora confuso, hora disunito". Vizi che si erano manifestati anche di recente, nella gestione di un incidente occorso fra Taddeo Barberini, potente nipote di Urbano VIII, e l'ambasciatore della Serenissima Signoria Giovanni Pesaro - questi, offeso dal Barberini, era stato richiamato in patria per protesta, e Alvise Contarini era stato appunto mandato a sostituirlo (82).
Alvise Contarini era un erede di quel gruppo di patrizi - erano i "buoni cittadini", per fra Fulgenzio Micanzio, i "mal affetti", per il nunzio apostolico Berlinghiero Gessi - che avevano condiviso e sostenuto la politica estera di un fra Paolo Sarpi e di un Nicolò Contarini. Lo si avverte dall'entusiasmo con cui parlava dell'Olanda nella sua prima relazione. Lo si capisce anche dalle righe che nella relazione romana dedica al governo pontificio:
Il governo hoggidì dei Papi, così spirituale, come temporale, si può dire assolutamente monarchico: ancorché nelle prime sue institutioni, e nel progresso di molti secoli, aristocratico fosse, di maniera che dipartendosi da suoi primi principi, se non cade, perché forse ῾Dominus supponit manum suam', almeno visibilmente declina.
Era però uno dei "buoni cittadini" che, senza rinnegare i princìpi che avevano ispirato la controversia con la Sede Apostolica, si rendeva conto dell'impossibilità di riproporli a base dell'azione politica della Repubblica. Non ci si poteva più muovere con la Chiesa come si era fatto in occasione dell'interdetto del 1606-1607. Anche se era scontato che le questioni relative alla giurisdizione ecclesiastica avrebbero sempre costituito materia di "vessazione" nei confronti della Repubblica. Alvise Contarini doveva riferirsi al fatto che, quando aveva iniziato la sua attività, la tensione tra Venezia e Roma era così forte che il nunzio apostolico nella città lagunare temeva che lo si volesse attaccare nella sua dimora; e certo la decisione di Urbano VIII di cancellare la famosa iscrizione da sotto il dipinto celebrativo di una gloria veneziana non era fatta per placare gli animi... (83). Finché durerà Roma ci sarà da travagliare, ammoniva il Contarini; per poi chiedersi retoricamente: "Ma che dico Roma? Fin che i papi non vorranno contentarsi del foro spirituale da niuno contesoli, senza pretender sopra il temporale, che procurerà sempre di difendersi" (84).
Il predecessore del Contarini aveva tenuto a serbare nella sua relazione un qualche tono intimidatorio riecheggiante il passato: "Si può dunque sperare che, favorendo le congiunture, e non ritornando [...] li preti a quello che una volta gli ha valuto di discapito, che muteranno stile [...]". Alvise Contarini preferiva invece invitare alla prudenza:
E per lo spirituale e per lo temporale stima grande debba farsi dei Papi. In ordine dello spirituale prima perché haveranno sempre molta autorità con i Principi, come dichiarano gli esempi [...]. Secondo, perché sono padroni delle coscienze, con che, se non a tutti, almeno alla più parte de cattolici comandano, e questo è un nemico occulto, che ben spesso inappellabilmente nel proprio seno si nutrisce.
Senza dimenticare poi un elemento fondamentale. Una contesa condotta ancora sulla base della contrapposizione tra le rispettive concezioni ecclesiali avrebbe attirato sulla Repubblica non soltanto l'odio del papa, ma anche quello dei prìncipi, che aborrivano tutto quello che poteva aver sentore di eversione e di eresia. Nel 1648, quando si era ormai nel vivo della guerra di Candia, un altro ambasciatore a Roma di casa Contarini, Alvise di Nicolò, ribadiva le stesse considerazioni con una chiarezza scevra dagli scrupoli ideali che Alvise di Tommaso nutriva:
Il fuggir anco quanto si può di contender nelle materie ecclesiastiche stimarei ottimo consiglio, havendo con mio sommo dispiacere rimarcato che sino li cardinali e prelati più ben intenzionati a quella corte tengono pessima opinione in tal proposito dell'eccellenze vostre [...]. Non dirò già che si debbano abbandonare le sue leggi ed instituti, ma camminar di sopravvia, imitando in ciò la prudenza di Filippo II, il qual con Pio V già mai volse contender (85).
Suggerimenti dai quali si doveva dedurre che la vicenda dell'interdetto aveva comportato conseguenze negative tuttora pesanti sul piano interno ed esterno, e che occorreva eliminarle, perché il volger dei tempi dimostrava sempre più che della Sede Apostolica si aveva bisogno...
Bisogno nei confronti del Turco, ed era la cosa più pressante, tutti potevano ormai constatarlo; bisogno per mantenere l'equilibrio in Italia, che poggiava essenzialmente sull'intesa veneto-pontificia.
Né era da dimenticare che senza un'intesa con il pontefice era impossibile avere all'interno del Dominio veneto una struttura ecclesiale compatta, che integrasse l'azione di governo dell'autorità secolare, facilitasse, e magari rafforzasse, il legame tra questa autorità e i sudditi. Dipendeva dal papa l'avere dei vescovi graditi nelle diocesi che più importavano alla Serenissima Signoria, ed erano molte, nel Dominio di terra come in quello da mar.
C'era poi la questione dei cardinali. Ne aveva già parlato con la sua autorevolezza Alvise di Tommaso Contarini. Di cardinali veneti ce n'era uno solo, Federico Corner, e per di più in pessimi rapporti con la Serenissima Signoria. Non si poteva continuare così. Bisognava avere cardinali veneti; da solo, senza la collaborazione di prìncipi della Chiesa che fossero legati alla Serenissima Signoria, l'ambasciatore non riusciva a fare ciò che era necessario. Ma per aver garanzia che quei prìncipi della Chiesa fossero veramente legati alla Signoria, bisognava che fosse essa stessa a proporre i loro nomi. Non importava che poi fossero "nobili o cittadini o sudditi": la cosa essenziale, afferma Alvise di Tommaso Contarini, è che arrivino a quella altissima dignità in virtù della Repubblica, ossia "che la porta della gratia pubblica, e non d'altri, sia quella che conduca i nostri alla porpora". Dopo di che gli interessi veneti sarebbero effettivamente sostenuti; e sapendo a chi dovevano la loro ascesa, resterebbero "sopite insieme le mal misurate pretensioni dei cardinali di parità col Serenissimo Principe" (86). Il Contarini doveva senz'altro riferirsi a un incidente clamoroso occorso proprio sul finire del Cinquecento, quando il patriarca Lorenzo Priuli dopo la sua ascesa al cardinalato si era rifiutato di prestare i debiti segni di omaggio al doge Marin Grimani (87). Alvise di Tommaso Contarini era convinto che il Levante continuasse ad essere di primario interesse per la Repubblica veneta, e lamentava che la miopia degli attuali governanti non lo tenesse nella dovuta considerazione né sul piano commerciale né su quello religioso, piani tra i quali esisteva una stretta connessione, come stavano appunto a dimostrare le iniziative che prendeva allora laggiù il re di Francia. Bisognava ad esempio far in modo che un cardinale veneto sedesse nella congregazione de Propaganda Fide: solo così si poteva evitare che la presenza cattolica in Levante fosse esclusivamente in mani francesi, si identificasse con la Francia. Forse in virtù del suo incitamento un cardinale veneto, Federico Corner, entrerà in quella congregazione (88).
Nel 1648, quando presentava la sua relazione al senato l'ambasciatore Alvise di Nicolò Contarini, la situazione era mutata, anche se di poco: nel 1641 era stato eletto al cardinalato il nobiluomo Marc'Antonio Barbarigo, vescovo di Vicenza. L'ambasciatore ribadiva l'esigenza di aver a Roma qualcosa di più, un cardinale "protettore", come avevano gli altri prìncipi, per poter incidere efficacemente sull'assegnazione dei benefici ecclesiastici. Esigenza che sembrerà soddisfatta quando, come vedremo, il cappello cardinalizio sarà conferito a Pietro Ottoboni (89).
Punto nodale, quello dei benefici ecclesiastici nel Dominio veneto del Seicento, lo ha messo bene in evidenza Antonio Menniti Ippolito nel suo libro Politica e carriere ecclesiastiche, lo ribadisce nel suo contributo a questo volume: lo fa sentire con particolare incisività nell'esperienza vissuta dalla ambiziosissima famiglia veneziana degli Ottoboni (90). Il beneficio ecclesiastico garantiva una rendita, uno status sociale perlomeno dignitoso, e la tranquillità, cosa importante non solo per chi lo riceveva, anche per la sua famiglia. Soprattutto nell'ambito della nobiltà veneta, dacché il commercio e le attività finanziarie e gli investimenti agricoli richiedevano che chi vi si impegnava disponesse di mezzi adeguati, e la strada più aperta e battuta, quella delle cariche pubbliche, molto spesso retribuiva poco, e magari non copriva le spese che comportavano.
Se si voleva far breccia nell'aristocrazia veneta, scriveva l'ambasciatore spagnolo a Venezia marchese di Bedmar nel 1619, momento in cui le difficoltà di quei nobili e le lacerazioni che li dividevano si facevano sempre più evidenti, bisognava allettare con il danaro i malcontenti, onde aizzarli contro chi deteneva il potere. La Chiesa disponeva di uno strumento adeguato, i benefici ecclesiastici, e il nunzio consigliava di usarli, e non solo per dar animo agli oppositori della politica attuale antipontificia e antispagnola, ma per blandire e placare chi la sosteneva, e che non si sarebbe certamente fatto scrupolo di accettare le offerte (91). A giudicare dalla relazione romana di Alvise di Tommaso Contarini, quello strumento aveva già prodotto dei risultati meritevoli di considerazione. Il numero dei nobili "papalisti", di chi aveva in famiglia parenti che avevano assunto legami con la Chiesa, era diventato molto grande, tale, avvertiva l'ambasciatore, "che hormai abbraccia la metà di questo Eccellentissimo Senato, che va ogni giorno maggiormente serpendo, con le conseguenze di quei gravissimi pregiuditii [...] ben noti". Se si voleva uscire da questa strettoia, bisognava trovare un'alternativa, qualcosa come dei benefici laici, messi a disposizione dalla stessa Repubblica (92). Discorso paradossale, provocatorio. Che serviva al Contarini per riconfermare la sua convinzione, che non fosse possibile affrontare una nuova lotta con la Chiesa - oltre a tutto, non esitava a riconoscerlo, non c'erano più nemmeno gli uomini in grado di sostenerla.
Alvise di Tommaso Contarini si era guardato bene dall'accennare nella sua relazione a una questione che pur a Venezia non doveva esser caduta nel dimenticatoio, l'espulsione dei gesuiti dal Dominio veneto, e la possibilità che vi fossero riammessi - anzi, quando aveva parlato della necessità di disporre di strutture che consentissero di fornire ai giovani nobili quell'educazione adeguata che loro mancava, l'ambasciatore aveva raccomandato che, qualora le si fossero finalmente create, si badasse bene ad evitare che finissero in mano ai gesuiti. Non riterrà conveniente farne menzione neppure il suo successore e omonimo Alvise di Nicolò. Se c'era però a Venezia chi riteneva che la Compagnia di Gesù non dovesse assolutamente rientrare non solo per rispetto della legge che ne aveva stabilito l'espulsione, ma per l'insuperabile incompatibilità esistente tra le concezioni che la stessa Compagnia aveva della Chiesa, dei suoi rapporti con i poteri secolari, dei criteri educativi e della prassi devozionale, e le concezioni che avevano ispirato la politica della Serenissima Signoria; se c'era chi, pur non credendo più a quella contrapposizione, perlomeno con l'intransigenza e la passionalità con cui era stata vissuta a suo tempo, riteneva doveroso o opportuno non lasciar intravvedere segni di mutamento, non mancava d'altro canto chi, pur avendo condiviso apertamente le ragioni della Repubblica nella contesa dell'interdetto, apprezzava la spiritualità dei gesuiti, o, dopo la loro partenza, ne aveva meglio compreso i pregi e l'importanza nella vita ecclesiale veneziana. Era il caso di Giovanni Tiepolo, amico di Sarpi, Micanzio e Nicolò Contarini, già battagliero primicerio, poi patriarca di Venezia (93). C'era infine chi apparteneva a famiglie che il provvedimento contro i gesuiti non lo avevano mai approvato, che i gesuiti li avevano sempre stimati, e poi rimpianti, convinti sempre della loro importanza per la vita religiosa della città e per la formazione morale e culturale dei giovani: ed essi non potevano che ritener logico che la Chiesa non si rassegnasse a subire ulteriormente l'affronto di veder tuttora esclusi dal Dominio veneto proprio coloro che più l'avevano difesa tra 1606 e 1607 (94).
Sarà la guerra di Candia, con l'urgere dei problemi militari e finanziari, con il bisogno di trovare chi desse un valido contributo a risolverli, sarà dunque la guerra a spingere verso la soluzione della questione dei gesuiti e quella, sostanzialmente collegata, di avere a Roma dei cardinali veneti, fidati, su cui poter contare. Le avvisaglie di uno spianarsi dei rapporti tra Venezia e Roma si erano avute nel 1652 in occasione della vacanza della carica importante di auditore di Rota, occupata fino ad allora da un altro prelato veneziano, Pietro Ottoboni, appartenente a famiglia cooptata recentemente per largizione di danaro nella nobiltà veneta: la scelta pontificia era caduta su un nobiluomo veneto, Girolamo Priuli, che pur era il meno meritevole dei candidati, in virtù dell'appoggio del suo predecessore; quanto all'Ottoboni, aveva ottenuto qualcosa di più, il cappello cardinalizio. E Pietro Ottoboni aveva la tempra e le capacità per adempiere a un ruolo di cardinale "protettore" (95).
A propiziare la riammissione dei gesuiti a Venezia forse era valso anche qualcosa d'altro, la presenza a Venezia proprio dal 1652 di un uomo con fama di santità, assai vicino ai gesuiti, Giacomo Filippo Casolo, che era riuscito a raggruppare intorno a sé ferventi devoti. Certo, per indurre il senato a compiere il passo assai grave di revocare il bando del 1606 - una decisione che solo l'autorevolezza di uomini come Giovan Battista Nani e Giovanni Pesaro, di parte non "papalina", poteva proporre - determinante era stato il convincimento che l'attuale papa Alessandro VII fosse un convinto sostenitore della causa veneta a Candia e che l'aiuto che egli prometteva fosse veramente rilevante. L'espediente procedurale usato era stato di abrogare la legge di espulsione del 14 giugno 1607 mediante un provvedimento eccezionale, di salute pubblica. Dopo di che la riammissione passava, ottenendo in senato centosedici voti a favore, quanto bastava; ma saranno ancora cinquantatré i contrari. Cui si potevano probabilmente aggiungere i diciannove che, incerti o timidi, avevano scelto di dichiararsi "non sinceri", o astenuti, come diremmo noi (96).
"Ritorno che può annoverarsi tra le più considerevoli novità, che cagionava la guerra presente", commenterà nella sua Storia Andrea Valier, uno dei pervicaci oppositori. Ma ci si rifiuterà di revocare, come avrebbe voluto il papa, le famose leggi dell'interdetto - una richiesta, dice ancora il Valier, che sarà reiterata quasi alla fine della guerra, in uno dei momenti più drammatici, dunque. Così come nel 1658 si respingerà anche la richiesta di sopprimere il divieto di vendere nello Stato veneto la Istoria del Concilio tridentino del cardinale Sforza Pallavicino emanato allora dalla magistratura dei riformatori allo Studio di Padova perché, essi spiegavano, "vi erano sparsi concetti contro il publico servitio e contro la persona del già Padre Maestro Paolo Servita" (97).
A Venezia la Compagnia di Gesù non poteva tornare in tono dimesso. Dato che la sua vecchia sede presso il ponte dell'Umiltà, in fondo alle Zattere, a pochi passi da dove stava sorgendo la chiesa votiva della Salute, era stata assegnata a monache benedettine trasferitesi dall'isola di San Servolo, le si riserberà la chiesa di Santa Maria Assunta, con l'annesso convento, già appartenente al soppresso ordine dei crociferi, sito dalla parte opposta della città, quasi a ridosso delle Fondamenta Nuove: la chiesa verrà poi ricostruita con sontuosità barocca all'inizio del Settecento, soprattutto in virtù del mecenatismo di una facoltosissima famiglia friulana, entrata di recente a far parte della nobiltà veneta, i Manin, i quali vi vorranno avere anche la loro sepoltura.
Se si giudica dalle case che vi verranno aperte dalla Compagnia - nel 1657 a Padova, Brescia, Verona e Vicenza, nel 1670, ma solo per pochi anni, a Treviso, nel 1669-1670 a Belluno, nel 1711 a Feltre e a Bergamo - si darà un'importanza particolare al Dominio di Terraferma, dove non c'erano dubbi che la Compagnia sarebbe stata ben accolta. Venezia avrà una casa professa con collegio per esterni - si aggiungeranno una congregazione dei nobili e una accademia dei cosmografi, per le quali il promotore, padre Maurizio Vota, ricaverà all'interno del convento una sistemazione adeguata alle esigenze di raffinatezza della città. La Compagnia si era mossa con cautela. Le cose comunque sembravano andare bene anche a Venezia se nel 1716 l'allora preposito della casa poteva scrivere al generale della Compagnia: "Le obligationi nostre verso la Serenissima Republica si vanno ogni giorno indicibilmente accrescendo per i contrassegni continui e tanto considerabili della stima che si compiace di avere verso il nostr'Ordine" (98). Dodici anni dopo, ossia nel 1728, di passaggio a Venezia nel corso di un viaggio attraverso l'Europa, Charles de Montesquieu ne trarrà la conclusione che i gesuiti fossero nuovamente riusciti a far breccia nelle fila della nobiltà veneta: "Les Jésuites ont rendus les sénateurs dévots; de façon qu'ils font tout ce qu'ils veulent à Venise. O tempora o mores" (99).
Sarà senz'altro superata pure la crisi dei cardinali veneti. Dopo Marc'Antonio Bragadin, vescovo di Vicenza, dopo Pietro Ottoboni, vescovo di Brescia, un prelato che continuava ad emergere, il cappello cardinalizio veniva conferito nel 1660 a Gregorio Barbarigo, vescovo di Bergamo, poi di Padova, la personalità più alta della spiritualità veneta del Seicento. Nel 1673 era elevato al cardinalato un noto uomo di governo, Pietro Basadonna, cavaliere e procuratore di San Marco, che era stato ambasciatore a Roma una decina di anni prima. Era stata un'usurpazione, quella nomina, diceva stizzosamente un antipapalista quale Pietro Mocenigo, che era stato in quegli anni ambasciatore a Roma, in quanto il Basadonna si era autocandidato, e aveva fatto per di più metter da parte dei prelati che pur concorrevano all'altissima dignità. Il Mocenigo doveva però riconoscere che come cardinale il Basadonna riusciva utile alla Serenissima Signoria (100). Ma dal 1679 al 1683 doveva verificarsi qualcosa che pochi decenni prima sarebbe stato ritenuto impossibile: mancando un ambasciatore ordinario presso la Sede Apostolica, a causa di incidenti occorsi tra il papa e l'ambasciatore Girolamo Zeno, la rappresentanza di fatto della Repubblica sarà tenuta dai tre cardinali "nazionali", Basadonna, Barbarigo e Ottoboni. Il senato intratterrà una normale corrispondenza con loro (il più fattivo e continuo sarà l'Ottoboni) (101). Si rivolgerà a loro anche la più gelosa delle magistrature veneziane, quella degli inquisitori di Stato. Il Basadonna, per la verità, risponderà seccamente a una richiesta del segretario degli inquisitori, e non risulta che la sua collaborazione sia proseguita. I cardinali Barbarigo e Ottoboni si diranno invece a disposizione e il loro carteggio con gli inquisitori - quello dell'Ottoboni soprattutto - continuerà, seppur senza contenere, a quanto pare, importanti segnalazioni (102).
Si arriverà perfino a quella che Leonardo Donà, Paolo Sarpi e gli altri "mal affetti" avevano paventato come una somma iattura, l'elevazione al pontificato di un cardinale veneto (103). Nel 1648, parlando del cardinale Federico Corner, Alvise di Nicolò Contarini escludeva che potesse diventar papa malgrado appartenesse alla famiglia più "papalista" di tutta la Repubblica, "l'esser gentilhuomo di questa Patria li fa oppositione et repugnanza". Nel 1651 l'ambasciatore Giovanni Giustinian era meno pessimista, gli sembrava che qualche possibilità potesse averla il cardinale Marc'Antonio Bragadin, "persona molto scientifica et curiosa". Finalmente il 6 ottobre 1689 il soglio di san Pietro si schiudeva al cardinale Pietro Ottoboni: dopo più di duecento anni un papa veneziano, Alessandro VIII. Pareva addirittura che alla sua morte, avvenuta il 29 luglio 1691, fosse per succedergli un altro veneziano, Gregorio Barbarigo (104).
L'elevazione al pontificato di Alessandro VIII era stata accolta in patria con grande entusiasmo, la Serenissima Signoria aveva voluto inviare ben otto ambasciatori a rallegrarsi con lui. In realtà il papato di Alessandro VIII doveva rappresentare la contrapposizione più netta a quell'ideale di Chiesa che, per convinzione o per convenzione, gli ambasciatori veneti evocavano nelle loro relazioni al ritorno da Roma - una Chiesa che si riconoscesse nell'altezza suprema della sua spiritualità, non del suo potere terreno. Non tanto per il suo nepotismo, che gli meriterà la qualifica di ultimo pontefice nepotista. Piuttosto perché con lui si affermava l'orientamento mirante a riaffermare il "ruolo egemonico della Chiesa di Roma attraverso lo strumento repressivo dell'Inquisizione" - come cardinale l'Ottoboni aveva volto lo strumento inquisitoriale contro i quietisti, che godevano delle simpatie del suo predecessore, il papa Innocenzo XI. Alessandro VIII si adopererà a ribadire la centralità della Chiesa di Roma, intesa integralisticamente, come un organismo teologico-giuridico immutabile, saldamente impiantato su un corpo di dottrine e di diritti da difendere, senza il "minimo cedimento" (105). A buona ragione, dunque, Giovanni Lando, che nella sua qualità di rappresentante ufficioso, poi di ambasciatore straordinario della Repubblica a Roma aveva seguito la vicenda pontificia di Alessandro VIII, nella sua relazione non si limiterà ai tradizionali rimpianti per gli antichi valori spirituali perduti, spiegherà storicamente perché questo era avvenuto, o meglio, perché la Sede Apostolica avesse posto a propria base un principato ecclesiastico: principato ecclesiastico che era espressione del volere divino. Ancor più emblematica era la conclusione che il Lando traeva sui doveri della Serenissima Signoria nei riguardi della Sede Apostolica, a garanzia dell'unione che aveva da essere tra loro. Anzitutto, il senato doveva rimettere ai nunzi apostolici, oppure ai giudici ecclesiastici dello Stato, le controversie di giurisdizione spirituale, sottraendole ai magistrati secolari. In secondo luogo, bisognava sopprimere i privilegi di cui godeva a Venezia la Chiesa greca, separata bensì quanto ai riti, ma anche, si sospettava, su punti dogmatici. Infine, la questione annosissima del "Golfo": dove la Repubblica avrebbe potuto continuare a difendere i suoi diritti, ma "in modo placido e moderato". Che, ad esser chiari, era un incitamento a difenderli il meno possibile (106).
L'elevazione al pontificato di Alessandro VIII aveva conseguenze particolari sul mondo veneto. Anzitutto, si riusciva finalmente ad ottenere che il beato Lorenzo Giustiniani, primo patriarca di Venezia, fosse dichiarato santo. Il processo di canonizzazione era stato avviato da tempo, ma non era riuscito ad arrivare alla conclusione anche se nel frattempo un riconoscimento di santità era avvenuto di fatto dalla devozione popolare veneta, che aveva individuato nel Giustiniani un valido intercessore contro il flagello della peste. Le riluttanze venivano dal seno della nobiltà, dove probabilmente una parte temeva che la canonizzazione del primo patriarca di Venezia finisse per accentuare l'autorità patriarcale a scapito di quella dogale. La creazione del patriarcato di Venezia, ottenuto nel 1451 in virtù della unificazione del soppresso patriarcato di Grado con la diocesi di Castello, e la nomina di Lorenzo Giustiniani a primo patriarca della città lagunare, erano frutto di una decisione pontificia, presa scavalcando il senato. La canonizzazione di Lorenzo Giustiniani era stata patrocinata alla fine del Cinquecento da un patriarca geloso del proprio potere nei confronti di quello del doge come il cardinale Lorenzo Priuli. Poco dopo la canonizzazione del Giustiniani troverà un fautore autorevolissimo proprio nel papa Paolo V: non era iniziativa che potesse entusiasmare in quel momento il senato veneto, e fra Paolo Sarpi, che era stato interpellato a questo proposito, aveva suggerito di muoversi con molta cautela: in buona sostanza, che non si facesse niente (107). L'elevazione di Lorenzo Giustiniani alla gloria degli altari costituiva il primo passo di un'azione politica mirante a spianare completamente i rapporti tra la Chiesa veneta e la Sede Apostolica, a vantaggio di questa anzitutto. Il secondo passo Alessandro VIII lo compirà nell'aprile del 1690, mediante le grandi concessioni fatte al primicerio della cappella ducale di San Marco di cui si avrà occasione di parlare tra breve.
Che i timori espressi al loro tempo da un Leonardo Donà e dal Sarpi sullo sconcerto che avrebbe provocato in seno alla Repubblica l'avere un papa veneziano non fossero infondati lo dimostrava il comportamento del senato veneto. Esso aveva voluto strafare anche nei riguardi della famiglia del papa. Il nipote Antonio Ottoboni era stato creato cavaliere di San Marco, "con perpetua discendenza nei legittimi primogeniti della sua casa", e inoltre, essendo completo il numero dei procuratori di San Marco, gli si era concesso un altro privilegio eccezionale, ottenere la carica come "supernumerario". C'erano poi cariche ed onori romani, che si aggiungevano ai veneti: primeggiava tra tutte la carica di generale di Santa Romana Chiesa. Non era stato da meno Pietro, il figlio di Antonio. Lo zio, dal quale egli traeva il nome, non aveva quasi fatto in tempo a sedersi sulla cattedra di san Pietro che - si era nel novembre del 1689 - nominava il nipote cardinale; ma seguivano altre nomine, ad amministratore generale di tutto il dominio ecclesiastico, legato di Avignone e vicecancelliere. La famiglia Ottoboni era così posta al di sopra o al di fuori delle leggi della Repubblica. Dei senatori grideranno la loro protesta, ma solo dopo la morte di Alessandro VIII: si chiederà allora in senato che fosse revocata ad Antonio la procuratìa di San Marco, in quanto concessa indebitamente. Si decreterà infatti la revoca del provvedimento. La questione comunque si trascinerà a lungo. Nel 1701, a seguito del ricorso di Antonio, appoggiato da senatori influentissimi, la carica gli verrà restituita (108).
Era la dimostrazione che i princìpi fondamentali del diritto ecclesiastico veneto erano sempre vitali. Potevano venire momentaneamente trascurati, o messi da parte, in nome di esigenze politiche, di considerazioni di opportunità; non erano più sostenuti con gli spiriti accesi o con l'intransigenza dei primi decenni del secolo: costituivano però parte qualificante, irrinunciabile, di una cultura di governo.
Ne erano istituzionalmente depositari i consultori in iure, un ufficio antico, che aveva avuto definizione precisa di compiti e soprattutto continuità con fra Paolo Sarpi. Dopo la morte di fra Paolo, nel 1623, l'ufficio aveva un animatore nel discepolo e confratello del grande servita, fra Fulgenzio Micanzio. La situazione in cui doveva operare il Micanzio era in fondo più difficile di quella del suo grande predecessore, egli non poteva contare come lui sul consenso convinto, fedele di un gruppo di nobili, né aveva la sua stessa autorità politica e culturale. Peggiore del maestro, era definito dagli avversari il Micanzio. E si diceva che fosse attratto dalla Chiesa greca, che la considerasse non solo "più vicina all'idealizzata istituzione [ecclesiale] primitiva, ma alla più autentica tradizione veneziana". Con il Micanzio aveva collaborato a lungo, soprattutto come specialista in materia feudale e sulle questioni che richiedevano una specifica preparazione nel diritto comune (in quello romano così come in quello canonico), don Gasparo Lonigo, pur lui protagonista della "guerra delle scritture" nel periodo dell'interdetto, e rimasto sempre rigoroso assertore della sovranità della Serenissima Signoria nei confronti sia dell'Impero e della Chiesa, sia di feudatari secolari o ecclesiastici. Una divergenza, e non piccola, era emersa tra di loro nei riguardi della comunità ebraica veneziana, cui il Micanzio riconosceva il diritto ad una certa autonomia giurisdizionale, laddove il Lonigo pretendeva che le si applicasse rigorosamente, senza alcuna concessione, la sovranità della Repubblica (109). Dopo la metà del secolo, scomparsi il Lonigo e il Micanzio - quest'ultimo morirà nel 1654 - il livello dei consultori e della loro opera si appiattirà: il consulto, ha scritto Antonella Barzazi, tenderà "a perdere lo stretto rapporto con l'attualità e la vivace proiezione nella pratica tipici della sua struttura originale, e ad assumere invece un aspetto di relazione storico-erudita più tradizionale e prolissa, raramente frutto di nuove ricerche, spesso priva di legami con fatti specifici" (110). Un risveglio della qualità dei consultori e dei consulti si avrà a partire dal 1684, quando l'ufficio sarà affidato a Giovanni Maria Bertolli, un avvocato vicentino, e poi nuovamente a un frate dei servi di Maria, Paolo Celotti. Il punto di riferimento resterà sempre l'insegnamento sarpiano; ed è indubbio che i consulti, redatti per risolvere problemi proposti da ogni angolo del Dominio veneto, siano stati uno strumento efficace per la diffusione capillare ed unitaria del diritto ecclesiastico veneto (111).
La persistenza dell'insegnamento sarpiano aveva dovuto riconoscerla anche un osservatore altezzoso e sprezzante della Repubblica di Venezia come Abraham-Nicolas Amelot de la Houssaie, che era stato per tre anni nella città lagunare quale employé dell'ambasciata di Francia. Nel 1676, appena rientrato a Parigi, egli vi pubblicava una Histoire du gouvernement de Venise, cui non mancavano certo i crismi di una quasi ufficialità: l'aveva stampato l'"imprimeur ordinaire du Roy et du clergé de France", "avec le privilège du Roy". Se il giudizio dell'autore sugli ordinamenti della Repubblica, sugli uomini che la reggevano, sui suoi modi di governo e sugli orientamenti della sua politica era, lo si vedrà meglio più avanti, dei più severi che si potessero immaginare, la politica ecclesiastica della Repubblica otteneva una valutazione positiva: essa era, l'ex employé dell'ambasciata lo riconosceva, la politica ecclesiastica più dignitosa condotta da un principe italiano. Egli apprezzava il fatto che pur essendo quanto mai sollecita del rispetto dovuto al culto e alle manifestazioni devozionali e caritative, la Serenissima Signoria escludesse gli uomini di Chiesa dalla partecipazione al governo. Altra cosa positiva era che la Signoria si attenesse al principio di immischiarsi poco nelle elezioni papali, e non avesse pertanto bisogno di avere a Roma un "pensionario" o prelato incaricato di rappresentarla in seno alla Curia; d'altronde, aggiungeva l'Amelot, i cardinali veneti non erano completamente dipendenti dalla Signoria, perché si limitava a raccomandarli al papa, lasciando poi loro libertà d'azione. In particolare l'Amelot ricordava con grandissima ammirazione il modo in cui la Repubblica si era comportata durante la contesa dell'interdetto. Per di più, pubblicava in appendice alla sua Histoire un Suplément nel quale, utilizzando principalmente scritti di fra Paolo Sarpi, offriva ai lettori un'ampia informazione su quel "fameuse affaire" che aveva appassionato settant'anni prima i maggiori prìncipi d'Europa. Apprezzamenti che, così come d'altronde i rimproveri, avevano una finalità ben precisa: far rilevare che era per rispetto di se stessa, del proprio passato, che la Repubblica ora doveva schierarsi al fianco di Luigi XIV nella lotta intrapresa contro il papato per rivendicare i diritti della Chiesa di Francia. Se Abraham-Nicolas Amelot de la Houssaie sperava che rimproveri ed elogi potessero indurre i senatori veneti a scendere di nuovo in campo contro la Sede Apostolica si sbagliava di grosso. La Serenissima Signoria aveva fatto propri gli orientamenti raccomandati da Alvise di Tommaso Contarini, conservare la propria tradizione, senza scendere in campo per fare di quella tutela una battaglia ideale. Aveva aggiunto un orientamento che il Contarini non condivideva, e che l'Amelot faceva oggetto del suo disprezzo, la scelta definitiva della politica di neutralità (112).
Quasi a non lasciare all'Amelot e alla Francia la prerogativa di richiamare la memoria gloriosa di fra Paolo Sarpi, nel 1677, certo in virtù di un avallo delle autorità, il notissimo stampatore veneziano Roberto Meietti faceva un'edizione delle sue Opere. Nel 1673, a giudicare dalla data apposta sul frontespizio, sarebbero state già pronte, con netto anticipo quindi nei confronti dell'Amelot, scritti fondamentali del servita come le Considerazioni sopra le censure della Santità di Paolo V contra la Serenissima Republica di Venetia, mentre la sua Apologia per le oppositioni fatte dall'illustrissimo cardinale Bellarmino e il Trattato e risoluzione sopra la validità delle scomuniche, che era del celebre teologo quattrocentesco francese Jean Gerson, ma che il Sarpi aveva "adottato" facendolo pubblicare a sostegno delle ragioni venete durante l'interdetto, recavano come data il 1675; quanto al Trattato delle materie beneficiarie usciva pur per i tipi del Meietti nel 1676. Ci saranno poi delle ristampe (113).
Non si recederà dalla difesa della tradizione neppure riguardo alla questione del giuspatronato del doge sulla basilica di San Marco (la cappella ducale) e su chiese e istituzioni monastiche o caritative che ne dipendevano: che era questione essenziale per l'identità politico-religiosa della Serenissima Signoria di Venezia (114). Sul giuspatronato dogale si erano accesi contrasti vivacissimi sul finire del Cinquecento, suscitati dai procuratori di San Marco de supra e dal patriarca di Venezia cardinale Lorenzo Priuli. I procuratori de supra, solitamente senatori molto legati alla Chiesa, temevano che le prerogative sacrali connesse al suo ruolo di massima autorità della cappella marciana, e delle chiese, esaltassero pericolosamente l'autorità della carica dogale, e cercavano pertanto di limitare quel giuspatronato sostenendo che in parte esso spettava anche a loro. Il patriarca vedeva con apprensione che la Basilica e le chiese e le istituzioni marciane costituivano una vera enclave inserita in seno alla sua diocesi e sottratta completamente alla propria giurisdizione.
Il più intransigente sostenitore delle prerogative del doge e del primicerio, soprattutto nei confronti dei procuratori di San Marco de supra che ambivano condividere col doge le sue prerogative sulla Basilica e i suoi poteri sul primicerio e sul clero di San Marco, era stato Giovanni Tiepolo, nel lungo periodo in cui aveva retto la carica primiceriale - vi era stato nominato nel 1603 dal doge Leonardo Donà, di cui lo si diceva pupillo, la terrà sino al 1619, quando verrà eletto patriarca di Venezia, l'arco di tempo dei rapporti più incandescenti tra la Repubblica e la Sede Apostolica. Giovanni Tiepolo aveva un senso altissimo dell'autorità dogale su San Marco, e ancor più della carica primiceriale. Sembra plausibile ritenere che tra le ragioni che avevano mosso Paolo V a chiudere la contesa dell'interdetto ci sia stata la preoccupazione che un doge dalla personalità carismatica (e dalle ambizioni autoritarie, sottolineava il patriarca di Aquileia Francesco Barbaro) di un Leonardo Donà e un primicerio dal forte sentire patriottico-religioso di un Giovanni Tiepolo mirassero a rafforzare ulteriormente l'autonomia della Chiesa veneta, prendendo a modello la Chiesa greca - non mancherà in quel tempo chi definirà già "scismatiche" le chiese veneziane che dipendevano dal doge e primicerio (115). Strenuo difensore della giurisdizione dogale e primiceriale, Giovanni Tiepolo: egli contesterà animosamente le pretese vantate dai procuratori di San Marco de supra, scontrandosi in particolare con Federico Contarini, il più aggressivo tra i procuratori, e uomo di punta tra i "papalini" veneti. Il Tiepolo non esiterà neppure a richiamare un doge come Leonardo Donà a non cedere in alcun modo nei confronti dei procuratori e a ricordare il legame indissolubile esistente tra la carica dogale e quella primiceriale - era stato il doge a creare il primicerio, sino dall'anno 829, e dal doge, "non da altri", questi aveva avuto l'autorità di reggere la chiesa di San Marco. Sarebbe "detrimento del publico interesse", ammoniva il Tiepolo, sminuire la "preminenza" primiceriale, "poiché il Primiceriato per la spiritualità sua annessa alla superiorità del Prencipe viene a consolidare maggiormente gli atti et prerogative di quella". Severissimo sarà ancora il Tiepolo con i successori del Donà, Marc'Antonio Memmo e Giovanni Bembo, dogi di polso assai men fermo del Donà: al punto che gli toccherà di ricevere i rimbrotti non solo del Bembo, ma di fra Paolo Sarpi, il quale in un suo consulto dirà al doge che spettava a lui, non al primicerio, esercitare l'autorità giurisdizionale. Eppure c'è qualcosa che stupisce nella vicenda primiceriale di Giovanni Tiepolo: il fatto che lui, convinto sostenitore, come il suo predecessore Alvise Diedo, della facoltà del primicerio di concedere ai chierici di San Marco le cosiddette "lettere dimissorie" - l'aveva infatti esercitata per vari anni, sino al 1611 - dopo di allora non ne concedesse più. Neppure fra Fulgenzio Micanzio, il quale pur poteva essere considerato tra le persone vicine al Tiepolo, sapeva, o voleva, fornire una spiegazione a tale proposito.
Forse, è lecito supporre, l'emergere di dubbi, un ripensamento sulla liceità di esercitare quel diritto che lui e il suo predecessore si erano arrogati (116).
Comunque, quando, nell'ottobre del 1619, alla morte del cardinale Francesco Vendramin restava vacante la cattedra patriarcale, era monsignor Giovanni Tiepolo ad esservi eletto. Passava poco più di un mese, e il senato conferiva la carica di primicerio a Marc'Antonio Corner, figlio di Giovanni, il potente, ricchissimo senatore che diventerà doge il 5 gennaio del 1625 (117). Un doge "papalino" era concepibile, vicini al suo orientamento erano stati anche il Memmo e il Bembo: primicerio "papalino" era quasi una contraddizione in termini; la Curia per di più aveva voluto sottolineare la propensione "romana" del Corner conferendogli una particolare dignità, quella di poter usare a Roma l'abito paonazzo - propensione che era di tutta quella famiglia Corner, la quale si farà infatti erigere a Roma da Lorenzo Bernini, in una cappella della chiesa di Santa Maria della Vittoria che si intitolerà poi Corner (o, in stile romano, Cornaro), un monumento funebre che avrà il fulcro del suo splendore nella bellissima statua di santa Teresa. Il patriarca Tiepolo aveva preso le sue contromisure, nominando subito auditore patriarcale don Gasparo Lonigo, che gli era stato al fianco già durante il primiceriato. Sarà il Lonigo, che diventerà poi, come si è detto, consultore in iure, a fornire al Tiepolo l'arma del suo sapere giuridico allorché il patriarca si troverà impegnato in una lunga, insidiosa controversia col nunzio apostolico a Venezia riguardo i limiti della giurisdizione patriarcale sulle parrocchie veneziane e il diritto di patronato che vi esercitavano i parrocchiani (per un momento il patriarca Tiepolo, attestato su posizioni di intransigenza, si troverà a divergere dallo stesso fra Paolo Sarpi rivelatosi allora più moderato di lui) (118).
Un ecclesiastico, Giovanni Tiepolo, che non si può certo circoscrivere nei limiti dell'azione fiera, vigorosa, appassionata, con cui ha sostenuto le prerogative delle sue cariche di primicerio di San Marco e di patriarca della Chiesa veneta. La sua grandezza, la grandezza che fa di lui una personalità esemplare della vita religiosa della Venezia seicentesca, è nella sua capacità di illuminare la sua opera pastorale con la luce di una grande ricchezza spirituale e dottrinale, e con la coerenza di un impegno vissuto nell'intensità di una fede che sapeva esprimersi non solo secondo le vie della devozione tradizionale, ma in quelle difficili verso cui l'avviava la libertà della sua coscienza. I procuratori di San Marco de supra, suoi antagonisti per una diversità di concezione ecclesiale della quale la questione marciana era solo un aspetto, si sdegnavano al vedere il primicerio Tiepolo che si permetteva di visitare e di criticare il seminario di San Marco, o seminario "gregoriano", che essi avevano creato per formare il clero destinato alla cappella marciana, e magari - era stata la loro speranza iniziale - alla stessa diocesi castellana, onde dargli un'impronta di assoluta soggezione alla Chiesa romana e di consonanza con gli ideali e lo spirito della controriforma: ne avevano infatti affidato la direzione dapprima ai gesuiti, poi ai somaschi. In una lettera al doge, Giovanni Tiepolo aveva immediatamente affermato i suoi diritti di visitare il seminario, e non aveva lesinato biasimi ai somaschi per come lo gestivano (119).
Eppure il Tiepolo ha lasciato opere di dottrina eucaristica, pubblicate nel corso del suo primiceriato come il Delle considerationi del Santissimo Sacramento del corpo di Cristo e i Discorsi et considerationi sopra il Santissimo Sacramento dell'altare, in cui, ha scritto il maggior studioso del Tiepolo, Antonio Niero, si coglie "la linea di forza del suo pensiero, dominato da uno spiccato senso della miseria umana, nel più puro gesuitismo": una comprova, egli aggiunge, dell'influsso che la Compagnia in Venezia aveva esercitato già prima dell'interdetto sulla classe dirigente veneta. Ci sono comunque altri nessi, sottili ma di indubbio interesse, che si possono individuare tra la spiritualità del Tiepolo e quella affiorante in terre di grande rigoglio spirituale come la Francia del primo Seicento (120). Antonio Niero si sofferma anche sui contributi recati dal Tiepolo, come primicerio e come patriarca, alla pietà veneziana. L'attenzione da lui dedicata al culto mariano; a quello dei santi; alla partecipazione quotidiana all'eucarestia; ai pellegrinaggi; al problema delle donne costrette nei monasteri contro la loro volontà, e prescindendo dalla loro vocazione... Un'azione che, condotta sempre sia tramite gli scritti che la prassi pastorale, troverà la sua espressione più alta negli anni terribili della peste. "Eroico e severo", il comportamento del patriarca Giovanni Tiepolo, nel soccorrere gli infermi e nel tentare di placare quella che egli sentiva come manifestazione inesorabile dell'ira divina. A quell'"ira divina", ai "flagelli" e alle "calamità che per essa vengono al mondo" il Tiepolo dedicava il suo ultimo trattato, "a forte venatura escatologica", uscito postumo nel 1632: esso, ha scritto con suggestiva incisività Fulvio Salimbeni, "costituisce un momento fondamentale di svolta nella vita religiosa veneziana da ogni punto di vista, favorendo culti nuovi, rafforzandone gli esistenti, stimolando la creazione di confraternite, determinando la costruzione di una chiesa simbolo politico ed ecclesiastico nel contempo quale la chiesa della Salute, vero pantheon della classe dirigente veneziana dopo la svolta tridentina" (121).
Merito di Antonio Niero è di aver compreso il senso profondo che Giovanni Tiepolo aveva inteso dare ai compiti da lui svolti come primicerio di San Marco e patriarca di Venezia. Non solo realizzare l'unità ideale della Chiesa veneta, stringendo finalmente in unità i doveri del doge con quelli dei prelati che l'affiancavano, primicerio e patriarca: qualcosa di più, realizzare una Chiesa veneziana autonoma, ma non antagonista, piuttosto complementare di quella romana (122). Una Chiesa capace di far suo l'empito di pietà, di una pietà intensa anche se poteva essere giudicata anomala, che aveva acceso gli spiriti di molti degli uomini, come un Nicolò Contarini per limitarci ad un nome, che contro le pretese e le condanne pontificie avevano difeso una loro idea della Chiesa e la peculiarità del sentire religioso veneto.
Non si era ancora placata del tutto la peste quando, si era al 7 di maggio, moriva Giovanni Tiepolo, seguendo di poco più di un mese il doge Nicolò Contarini col quale si può dire avesse condiviso una vita, e certo la passione civile, l'impegno religioso, la profonda dedizione alla Repubblica di Venezia. Una scomparsa che non poteva recare che "gran beneficio" a Venezia, commentava invece il nunzio pontificio a Venezia monsignor Giovanni Battista Agucchia, ribadendo la profondità del divario tuttora esistente tra le due differenti concezioni ecclesiali. A succedergli era stato eletto il cardinale Federico Corner, contestato vescovo di Padova (123), figlio del doge Giovanni. Non era stata un'elezione facile - basti osservare i voti, ottantasei favorevoli contro cinquantaquattro contrari. Perché Federico Corner era stato in anni recentissimi al centro della grande polemica accesasi in senato sulle cariche conferite dalla Curia romana ai figli del doge, indebitamente sostenevano molti, ossia contro quanto stabilivano le leggi. Perché era sostenuto calorosamente da Urbano VIII, un pontefice che, come si sa, non amava affatto Venezia, e non ne era amato. Perché molti nel senato erano convinti che l'elezione al patriarcato di Federico Corner avrebbe rappresentato il rifiuto dell'esperienza ecclesiale condotta a Venezia dalla fine del Cinquecento sino ad allora, e che questa fosse la vera ragione del sostegno che Urbano VIII accordava a quella candidatura. Se malgrado questo il senato l'aveva votato, spiegava un diarista, era perché aveva voluto "apportar pace et unione fra la Santità sua et la Repubblica, che fu il solo oggetto della pubblica volontà, essendosi trascurato nel resto disordini di non poco rilievo" (124).
Federico Corner, pur con l'autorità che gli derivava dal cappello cardinalizio, pur con le amicizie e i tanti rapporti che poteva vantare nel mondo di Curia da lui così ben conosciuto, pur con quei solidi legami che gli avevano consentito di superare in patria situazioni assai difficili, non riuscirà mai ad integrarsi nel mondo veneto. A giudicare da quanto scrivono di lui gli storici della Chiesa veneta del Seicento il suo sarà un patriarcato opaco, che non lascerà tracce sul piano spirituale, e modeste anche su quello pastorale (125). Com'era prevedibile non tarderanno ad insorgere tra patriarca e Serenissima Signoria dissidi riguardanti la cappella ducale. Il primo caso riguardava un canonico di San Marco, tal Gerolamo Melchiori, che era nel contempo piovano della chiesa parrocchiale di Santa Fosca, compresa nella diocesi di Castello, e giurisdizione pertanto del patriarca.
Siccome il Melchiori aveva fama pessima sul piano morale - relazione con una donna, che suscitava scandalo particolarmente tra le suore di cui egli era confessore - Federico Corner gli aveva inviato un monitorio con cui gli interdiceva non solo di confessare le suore, ma di frequentare il monastero. A sua volta il Melchiori aveva risposto che non poteva prendere in considerazione quel monitorio, perché essendo canonico di San Marco non era soggetto alla giurisdizione patriarcale. In fondo era quanto il Corner desiderava: perché gli consentiva di riportare a galla il contenzioso antico dei rapporti tra la cappella ducale e la diocesi. Era ben vero, egli diceva, che la cappella era giuspatronato ducale: ma giuspatronato ducale era anche il patriarcato. Pertanto il doge era tenuto a salvaguardare non solo diritti e prerogative della cappella, ma pure diritti e prerogative del patriarca: a cominciare dalla responsabilità che egli aveva sul buon ordine della vita ecclesiale di Venezia.
L'argomento faceva presa, e il Corner aveva pertanto voluto che il monitorio fosse affisso sulla porta della chiesa di Santa Fosca. Non solo. Egli aveva colto l'occasione per sollevare una questione di fondo, l'illiceità della concessione di "lettere dimissorie" da parte del primicerio di San Marco. Anche se la Serenissima Signoria aveva rimesso la questione delle "dimissorie" ai suoi due valenti consultori Micanzio e Lonigo, che avevano ribadito la loro liceità, quasi fosse cosa ovvia e scontata, pure l'abilità del Corner e dei suoi consulenti portava a risolvere la controversia sostanzialmente a proprio favore. Mandava infatti una lettera al doge, Francesco Erizzo, in cui prometteva che sarebbe andato egli stesso in collegio "per agiustare intieramente con la publica sodisfattione" la controversia circa il modo di governare quella parte del clero che officiava nella sua diocesi. Il doge aveva preferito non accorgersi dell'insidia contenuta in quel far rientrare nel "suo clero" - nel clero soggetto alla giurisdizione patriarcale - preti che erano sottoposti "anco" alla cappella ducale. Aveva semplicemente ringraziato il cardinale, conforme all'ormai ben radicato convincimento che dispute di principio non era prudente sollevarne, per di più con un interlocutore come il cardinale Federico Corner (126).
Contrario alla concessione delle "lettere dimissorie" era pure Giovan Francesco Morosini, succeduto a Federico Corner sulla cattedra patriarcale quando questi se ne era dimesso nel febbraio del 1644 per trasferirsi a Roma, dove morirà e sarà sepolto (127). E pure il Morosini avrà divergenze con la Serenissima Signoria riguardo ai rapporti tra cappella ducale e patriarcato, e i limiti delle rispettive giurisdizioni. Non erano passati due anni dalla sua elezione che il Morosini, probabilmente sulla scia di quanto aveva fatto il suo predecessore, sollevava un caso ben più grosso di quello del prete Melchiori. Un giovane prete, Marco Zanetti, appartenente al coro della basilica di San Marco, aveva ottenuto un beneficio nella diocesi di Treviso, abusivamente, a vedere del patriarca e del suo auditore. Convocato dal patriarca, lo Zanetti aveva rifiutato di presentarsi, eccependo che il patriarca non aveva giurisdizione su di lui, membro della cappella ducale. I consultori in iure Fulgenzio Micanzio e Gasparo Lonigo, interpellati dalla Serenissima Signoria, avevano risposto con un tal insieme di stupore e di sdegno da parer quasi sgomenti. "La Chiesa di San Marco ha contenuto sempre la sua giuridittione nelli proprii limiti, ma quella di Castello ha procurato sempre dilatarla [...]", affermavano i consultori. In altre parole, la chiesa di Castello era irriducibile, non poteva rassegnarsi alla convivenza con la cappella ducale e, pur perdendo delle battaglie, si ostinava a combattere la guerra per avere la preminenza ecclesiale sulla città. La Serenissima Signoria sapeva però bene che Giovan Francesco Morosini non era un avversario della tempra di Federico Corner. Meno accorto di lui, meno potente di lui per amicizie a Venezia, infinitamente meno spalleggiato di lui a Roma. Il senato aveva ritenuto di poter procedere alla maniera forte, definendo il decreto emanato dal patriarca contro lo Zanetti "nullo, irrito et di nessun valore", privo di "legittimo fondamento di iurisditione". Si era trovato l'espediente di scaricarne la responsabilità sull'auditore del Morosini. Ma il patriarca aveva preferito prender su di sé le responsabilità, accettando di revocare il decreto incriminato, e offrendo di sopprimere tutti i relativi documenti, in modo che in patriarcato non ne restasse traccia.
Una conclusione che colpisce per la sua remissività: ma la lettera di Giovan Francesco Morosini, specie laddove egli partecipa al doge Francesco Molin i suoi crucci di patriarca che si sente impedito nell'adempimento di un dovere pastorale cui è stato chiamato da Dio, ha una vibrazione spirituale che non si ritrova nei monitori di Federico Corner (128).
In fondo, gli aspetti della personalità di Giovan Francesco Morosini che trapelano da questa vicenda trovano riscontro nella sua attività pastorale. Un patriarca portato alla mitezza: che richiedeva bensì da un clero difficile come quello veneziano una certa disciplina, e decoro nei comportamenti e nel vestire, ma che era alieno dall'usare nei suoi confronti misure punitive come le scomuniche e le censure. Un patriarca che per primo cercherà di attuare nella sua diocesi la riforma tridentina secondo un piano organico, e vi riuscirà, scrive Antonio Niero, agendo efficacemente con i suoi sinodi (129). Lo stesso Niero ha inoltre ravvisato nel Morosini una spiritualità sensibile, come già il Tiepolo, a suggestioni stimolanti di intonazione gesuitica, nella concezione sacramentaria, e giansenistica, invece, nella sensibilità liturgica (130). C'è qualcosa d'altro che consente di tratteggiare meglio la figura di questo patriarca: l'ostilità che gli riserba il nunzio apostolico a Venezia Giacomo Altoviti, uomo che aveva avuto un'"esperienza tempestosa" di rapporti con la Serenissima e aveva cercato di riattizzare il conflitto tra essa e la Curia romana. Per lui, Morosini era espressione della Venezia di cui diffidava (131).
Alla morte del Morosini il senato eleggerà a succedergli Alvise Sagredo, un nobile che aveva servito la Repubblica soprattutto come diplomatico, presso il duca di Savoia e presso il re di Francia. Dopo il Sagredo si tornerà ad affidare il patriarcato a primiceri di San Marco, in modo da garantire quella compattezza tra le due massime istituzioni ecclesiali veneziane di cui Giovanni Tiepolo aveva dimostrato l'importanza. Così sarà dunque per Giovanni Badoer, che reggerà la carica patriarcale dal 1688 al 1706, quando il papa Clemente XI, promuovendolo al cardinalato, lo nominerà vescovo di Brescia; così per Pietro Barbarigo, che la sosterrà sino al 1725. Saranno entrambe personalità che non verranno meno alla fiducia in loro riposta. Giovanni Badoer, in particolare, successore del Morosini sulla cattedra patriarcale, ispirerà la sua opera di presule all'alto esempio pastorale offerto dal suo grande concittadino Gregorio Barbarigo, ad esempio nel rilievo dato alla pratica degli esercizi spirituali (132).
La questione così travagliata del giuspatronato del doge sulla basilica di San Marco riceveva una soluzione imprevista quando saliva al soglio di san Pietro un cardinale veneziano, Pietro Ottoboni, che prenderà il nome di Alessandro VIII. L'8 aprile 1690 il pontefice emanava una bolla interamente dedicata "all'insigne chiesa collegiata di San Marco". Chiesa, si spiegava, che essendo esente dalla giurisdizione del vescovo locale, era soggetta immediatamente alla Sede Apostolica. Dopo aver riconfermato tutti i privilegi concessi in passato dai pontefici, Alessandro passava ad elencare le sue nuove concessioni: i primiceri, a cominciare dall'attuale, avevano facoltà di conferire a coloro che ne fossero idonei sia la prima tonsura che i quattro ordini minori; potevano poi autorizzare i chierici della chiesa a ricevere confessioni sacramentali a San Marco e nelle chiese dipendenti, perfino dare le lettere "dimissoriales ad clericalem caratherem et ad omnes etiam sacros ac presbiteratus ordines". Erano certo i privilegi per cui si era tanto lottato e discusso, quelli che confermavano nel primicerio l'autorità di cui si riteneva depositario. A ben guardare, con quei privilegi il papa veneziano rovesciava completamente il principio fondamentale su cui, a detta di un Giovanni Tiepolo e degli altri membri di quel gruppo che possiamo definire sarpiano, si fondava il giuspatronato dogale sulla basilica marciana, che esso fosse nato spontaneamente, al momento stesso in cui si era deciso di erigere una basilica laddove Dio aveva voluto fossero portate le spoglie del suo evangelista Marco (133).
La bolla di Alessandro VIII doveva avere un esito paradossale. Nel 1712 era il primicerio di San Marco allora in carica, Alvise Michiel, a rifiutarsi di dare le lettere "dimissorie", in quanto riteneva di non averne il diritto, e proprio a norma del Concilio tridentino. Una posizione rigida, quella del Michiel, fino all'intransigenza. Tale da provocare lo sdegno furibondo della Serenissima Signoria: il primicerio doveva rassegnarsi "prontamente" al rispetto delle "consuetudini e prerogative" conservate dai suoi predecessori (si badi: non si faceva menzione di concessioni pontificie), e, si ingiungeva, ritrattare le "novità" che egli aveva introdotto. Ciò che il primicerio Alvise Michiel si guardava dal fare. Egli veniva subito rimosso dalla sua carica (134).
C'è una personalità che emerge nella vita religiosa veneta del secondo Seicento, quella di Gregorio di Zanfrancesco Barbarigo, appartenente a importante famiglia della nobiltà veneta, nato a Venezia nel 1625: a lui la Chiesa riconoscerà infatti la virtù eroica necessaria per esser assunto nel novero dei santi.
Per cogliere meglio quanto significhi questo grande uomo di Chiesa per la storia della Venezia seicentesca, e per cercare di comprendere con un esempio pregnante l'evolversi della società veneziana nell'arco del secolo, e i contrasti e la complessità che ne fanno la ricchezza, è bene tener presente, quasi a contrappunto, la personalità di suo nonno, pur lui Gregorio di Zanfrancesco - si indicheranno per distinguerli rispettivamente come senior e iunior. Gregorio Barbarigo senior era stato uno dei giovani emergenti della politica veneta proprio nel periodo incandescente tra il primo e il secondo decennio del secolo. Era arrivato prestissimo, a meno di trent'anni, all'apice del governo come savio di Terraferma. Era passato però subito alla diplomazia. Anzitutto ambasciatore a Torino presso il duca di Savoia; indi lo si era destinato in Inghilterra presso Giacomo I. Prima di raggiungere la nuova sede, si era trattenuto a lungo in Svizzera, con l'incarico di concludere una lega tra la Repubblica e i cantoni di Zurigo e di Berna, e di ottenere il passaggio attraverso i Grigioni delle truppe che la Repubblica fosse riuscita a reclutare in quelle terre. A Londra giungerà solo nel settembre del 1615, e vi morirà dopo meno di un anno, nel giugno del 1616. Ma questo diplomatico brillante, lettore di Machiavelli e di Guicciardini, di Calvino e di Giacomo I d'Inghilterra, buon conoscitore del gallicanesimo francese, era stato stretto collaboratore di fra Paolo Sarpi per la realizzazione della politica estera di contrapposizione della Repubblica al blocco cattolico-asburgico e di intesa con prìncipi protestanti quali l'Inghilterra e le Province Unite d'Olanda. Come lasciano capire le lettere superstiti della sua corrispondenza con il Sarpi, ne condivideva l'ostilità nei confronti della Compagnia di Gesù; e insieme al servita e agli altri "mal affetti" mirava a realizzare nella Repubblica - ripetiamo da Boris Ulianich - conforme all'"esempio di altri Stati cattolici, una situazione in cui fosse tolta al papa ogni possibilità di ingerenza nei fatti interni della Repubblica". Il documento che meglio offre una testimonianza di vita su Gregorio Barbarigo senior è una lettera da lui scritta al Sarpi da Zurigo del 17 ottobre 1614 nella quale racconta l'esecuzione capitale di "un martire [...] ferventissimo anabatista", condannato per essersi rifiutato di ottemperare all'ordine di lasciare il cantone e non tornarvi più: il Barbarigo è stupito, o ancor più ammirato, sia dalla forza morale dell'uomo, e dalla serenità che gli imprime la fede mentre affronta l'ultimo supplizio, sia dalla preoccupazione degli Zurighesi che l'ambasciatore potesse pensare che lo si fosse giustiziato "per causa di religione", mentre, assicuravano, era "per la disobedienza". "Una delle più tranquille anime che abbia non solo Venezia, ma forse Italia", scriveva Sarpi del suo giovane amico (135).
Anche per Gregorio Barbarigo iunior si era schiusa presto la strada della diplomazia veneta. L'avevano mandato addirittura a fare il suo apprendistato quinquennale a Münster, presso il più celebre degli ambasciatori veneti, quell'Alvise di Tommaso Contarini di cui si è tanto parlato, costituendo con lui uno straordinario sodalizio, intellettuale ed umano (136). Non aveva mancato, dopo il suo ritorno a Venezia, di fare il suo debutto nel governo ottenendo l'elezione a savio agli ordini, che era di consueto il primo passo di chi si avviava verso brillanti carriere. Era rimasto poco, comunque, aveva preferito volgere la sua vita per un'altra via, quella del sacerdozio e della Chiesa, e si era trasferito a Roma. Si era distinto presto anche lì, per la generosità e le capacità dimostrate in occasione della peste che aveva colpito Roma. Nel 1657 era nominato vescovo di Bergamo.
Eletto cardinale nel 1660, quattro anni dopo, nel 1664, era stato trasferito alla prestigiosa diocesi di Padova (137). La Compagnia di Gesù aveva avuto un ruolo importante nella formazione sacerdotale e nella vita spirituale di Gregorio Barbarigo iunior: non c'erano solo le sottili connessioni dottrinali che sono state individuate per Giovanni Tiepolo e Giovan Francesco Morosini. Il direttore spirituale che il Barbarigo aveva scelto era un gesuita, il padre Giovan Battista Visconti. Era stato il Visconti ad indurlo ad accettare la nomina a vescovo di Bergamo: e prima di assumere la carica il Barbarigo aveva voluto fissare i suoi sentimenti in un Soliloquio "denso di spiritualità ignaziana"; si sa già d'altronde l'importanza che il Barbarigo riconnetteva agli esercizi spirituali nell'ambito della sua attività pastorale (138). Il padre Visconti, e con lui un altro gesuita, il padre Alessandro Fieschi, avevano fatto conoscere al Barbarigo il movimento spirituale detto di Santa Pelagia, sorto a Milano alla metà del secolo intorno a quel Giacomo Casolo di cui si è già menzionata la venuta a Venezia. Il movimento finirà con l'essere accusato di connivenze con il quietismo, e l'ombra di queste accuse si proietterà anche sul Barbarigo. Il Barbarigo aveva pure conosciuto persone viventi nelle terre del suo magistero pastorale che avevano aderito con grande fervore a quel movimento, e sulle quali si appuntavano dei sospetti, come don Pietro Zanone, parroco di Alano di Piave, e Cecilia Ferrazzi, donna cui si attribuivano qualità di santa. Gli studi recenti di Pierantonio Gios hanno comunque chiarito le cose. È indubbio, egli ha sottolineato, che Gregorio Barbarigo abbia avuto simpatia verso questi protagonisti del movimento di Santa Pelagia: altrettanto certo è però che egli abbia combattuto il pelaginismo quando, dal 1680, si rese conto che esso stava confluendo nel quietismo, che ormai preoccupava la Chiesa, tanto che il papa Innocenzo XI si era deciso a condannare i suoi massimi fautori, Pier Matteo Petrucci, che pur gli era amico, e Michele Molinos (139). Questa divaricazione già così radicale nei confronti del sentire religioso del nonno si compirà sul finire della vita di Gregorio Barbarigo, quando egli condannerà il gallicanesimo, l'organizzazione dei rapporti tra Stato e Chiesa in cui Gregorio Barbarigo senior aveva intravvisto un modello per la Repubblica di Venezia (140).
In fondo, nell'arco di tre generazioni della famiglia Barbarigo si compendia nelle sue espressioni salienti la vita religiosa della Venezia seicentesca: un cattolicesimo elitistico, inquieto, fortemente critico, con profonde aspirazioni di rinnovamento, attento alle manifestazioni religiose d'Oltralpe, un cattolicesimo che considerava la contrapposizione tra Venezia e Roma come conseguenza di una diversa idea della Chiesa; un cattolicesimo che aveva ricomposto almeno un po' delle divergenze accesesi ai tempi dell'interdetto, e insieme ridotto quel diaframma tra Venezia e il Dominio di Terraferma approfonditosi ai tempi dell'interdetto, un cattolicesimo ben integrato sotto la guida della Curia romana, rispettoso della sua suprema autorità pur nella orgogliosa consapevolezza delle prerogative della Repubblica, modulato dalle peculiarità devozionali della Chiesa veneta, dalla lunga consuetudine di convivenza con diverse confessioni religiose e da una tolleranza che lasciava qualche spazio ad isole di libertinismo intellettuale e, ancor più, a libertinismo di costume.
Già il 1629 era stato un anno pesante per la salute dei Veneziani e si era lasciato alle spalle grosse perdite. Era sopraggiunta subito dopo la peste, che tra 1630 e 1631 si era portata via poco meno di quarantaseimilacinquecento persone. Una città sconvolta, famiglie scomparse, vuoti in attività lavorative, con conseguenze a catena nell'economia e nelle finanze della città. Venezia era però riuscita a riprendersi meglio e più rapidamente di altre grandi città italiane che avevano subito la sua stessa sorte, come Firenze e Milano. Dai centoduemiladuecentoquarantatré abitanti del 1633 si era passati ai centoventimilatrecentosette del 1642, indi ai centotrentottomilasessantasette del 1696 (141).
Cifre che colpiscono sono quelle riguardanti la crescita numerica dei religiosi. Se nel 1586 i preti erano cinquecentotrentasei, nel 1642 se ne contavano settecentosette (le parrocchie cittadine erano settantadue). Una progressione che continuerà, tanto che nel 1766 si arriverà a duemilaseicentodieci preti, e che sarà ancor più forte per i frati, o religiosi regolari, che diminuiti da milleduecentotrentotto nel 1586 a millecentoquarantaquattro nel 1642, saliranno a duemilaseicentodieci nel 1766 (erano ripartiti in trentanove case). Mentre le monache, che erano milleseicentonovantaquattro nel 1586, passeranno a duemilanovecentocinque nel 1642 (un'altra fonte parla di duemilacinquecentootto nel 1656), per diminuire a millesettecentotrentadue nel 1766 (142). Troppi, vien proprio fatto di dire, troppi a scapito della qualità. Il giudizio che se ne dava non si discostava infatti da quello formulato dopo l'interdetto dall'anonimo autore di una relazione su Venezia, gli uni erano peggio degli altri, anche se poi i peggiori venivano individuati nei frati (143). C'è un altro dato da tener presente, che accomuna le tre condizioni di religiosi di cui si è detto: tra 1562 e 1691 ben centoundici di loro, tra preti, frati e monache, vengono processati a Venezia per disordini riguardanti monasteri femminili (144).
Non solo frati e suore incriminati presso la magistratura dei provveditori sopra i monasteri. Di preti e frati è agevole trovarne nelle carte delle due magistrature che a Venezia avevano giurisdizione sui crimini riguardanti la religione. Anzitutto il Sant'Uffizio, che era un tribunale ecclesiastico dipendente dalla omonima congregazione cardinalizia romana, la validità dei cui atti esigeva però, dal 1547, che fossero compiuti in presenza di una magistratura di laici allora istituita dalla Serenissima Signoria, i savi sopra l'eresia (che non era tanto un modo di "garantire ogni informazione al governo su quel che emergeva dall'attività di quei tribunali", quanto di affermare che i problemi religiosi avevano una tal rilevanza anche per l'autorità secolare da non poter esser rimessi solo all'autorità ecclesiastica). Il Sant'Uffizio aveva giurisdizione su quanto concernesse la purezza della Fede, la salvaguardia della dottrina. Gli esecutori contro la bestemmia, che erano organo della giustizia secolare veneta, avevano competenza sui crimini che costituissero oltraggio alla religione, al suo culto, ai luoghi sacri o che derivassero da comportamenti contrari all'ordine e alla moralità pubblica.
C'è una svolta nell'attività del Sant'Uffizio veneziano: la si può collocare intorno al 1580. Fino ad allora, l'attività del tribunale era praticamente assorbita dalla repressione delle eresie comparse nel corso del secolo, il luteranesimo, il calvinismo, l'anabattismo.
Dopo di allora, per tutto il corso del Seicento, che pur vedrà il Sant'Uffizio ancora impegnatissimo (Claudio Madricardo parla di ben millequattrocentoottanta procedimenti), i processi riguardanti la riforma protestante si ridurranno al 3%, mentre il 9% avrà a protagonisti dei forestieri protestanti; il 10% concernerà bestemmie e "proposizioni" ereticali, che erano cioè espressione consapevole di miscredenza, il 13% le cosiddette sollecitazioni in confessionale, per concludere con le pratiche occulte quali magia, fattucchieria, uso di sortilegi che costituiranno il 44%. Manca la stregoneria vera e propria, che avrà invece i suoi epicentri nei territori montani e pedemontani del Dominio, come il Bresciano, il Bergamasco, il Friuli, e che evidentemente non si attagliava alla mentalità veneziana. Ma magia e fattucchieria a non finire: con filtri, rituali misteriosi d'amore, uso di particole consacrate, celebrazione di messe, pratiche utilizzate assai spesso per propiziare vittorie al gioco o nelle scommesse (come in quelle per le elezioni dei nobili alle varie cariche), mescolanze insomma di sacro e profano: e, componente quasi inevitabile, la sensualità, una delle dimensioni fondamentali della vita seicentesca. Ci saranno inoltre tre casi di "finzione di santità", ossia di donne che pretendevano di essere in contatto con esseri celesti, di aver avuto rivelazioni sul futuro, di poter rinunciare al cibo, paghe di nutrirsi della sola particola sacramentale; che sono pur essi casi assai interessanti per comprendere la particolare temperie spirituale dell'età barocca (145).
Un crimine colpisce, la sollecitazione in confessionale o ad turpia: lo commetteva chi, come confessore o come penitente, approfittasse di quel sacramento per commettere o indurre (sollecitare) a commettere atti contro la castità. Un crimine che avrà la sua definizione precisa con la bolla Universi del 1622, ma che si trova perseguito processualmente già dalla seconda metà del Cinquecento. Sarà dalla metà del Seicento che le carte del Sant'Uffizio (e non solo di Venezia) registreranno un forte aumento dei casi: da sedici tra la metà del Cinquecento e il 1647, a cinquantasette dal 1648 al 1702. La domanda che ci si è posta è se ci sia un rapporto tra l'aumento dei casi di sollecitazione e la fortuna che avrà in quel periodo il quietismo. Venezia era centro importante per la diffusione del quietismo: nella seconda metà del secolo, e quasi sempre per i tipi dello stesso stampatore, Gio. Giacomo Hertz, vi usciranno i testi capitali del quietismo, quelli del prete spagnolo Michele Molinos, che ne è considerato l'antesignano, e del cardinale Pier Matteo Petrucci; a Venezia viveva il prete Michele Cicogna, "titolato della parrocchiale e collegiata chiesa di Sant'Agostin", come recita la copertina di qualche suo libro, che, a vedere di don Giuseppe De Luca, costituisce con la sua opera di scrittore e di poeta "uno degli episodi più misteriosi del quietismo". Quietismo, è bene definirlo con le parole di uno studioso dalla straordinaria capacità evocativa quale era il De Luca, che voleva dire "abdicazione totale e perpetua a una intelligenza propria, a una volontà propria e alla persona propria, tramite la contemplazione che ci annienta e fa naufragare in una indefinita divinità contemplata. [...] Si vive non in proprio, ma succubi del divino, passivi di Dio [...]" (146). Il ricorso alla contemplazione, all'annullamento della propria volontà per raggiungere la mistica elevazione al divino, non poteva essere nel confessionale qualcosa d'altro, uno strumento per esprimere, e per realizzare, nel confessionale o altrove, la propria sessualità?
Non ci sono "contrassegni dottrinali particolari", ha osservato Claudio Madricardo dei processi conservati al Sant'Uffizio veneziano, ma aspetti di una sensibilità su cui avevano influito "tematiche quietiste o proto-quietiste": solo nella vicenda di don Giacomo Ladicosa, iniziata nell'aprile del 1693, è "ravvisabile una palese influenza delle teorie quietiste sulla pratica della sollecitazione"; e difatti sarà il caso in cui verrà irrogata all'imputato la condanna più severa, dieci anni di carcere (147).
Un mutamento, di criteri di giudizio, di valutazione dei reati, lo si avverte anche nel corso dell'attività degli esecutori contro la bestemmia, con qualche ritardo nei confronti del Sant'Uffizio, ossia a Seicento iniziato, per accentuarsi sempre più col trascorrere del secolo.
Il tribunale era stato creato nel 1537, ad affermare l'interesse che anche l'autorità secolare aveva alla repressione di quanto potesse ledere un elemento fondamentale per il buon governo quale il rispetto per la religione, per i luoghi sacri, per l'esercizio del culto; e lo poteva ledere sia direttamente che indirettamente, ossia col pregiudicare quel buon ordine familiare e sociale che era premessa di un buon vivere religioso - era il caso del gioco, in particolare, coi dissesti morali e finanziari che causava. Ovviamente era la bestemmia il maggior obbiettivo: la bestemmia, che era un'offesa a Dio, grave, capace di turbarlo, di suscitarne l'ira, di provocarne il risentimento attraverso le sconfitte nelle guerre, le pestilenze, le grandi calamità naturali.
Ciò che caratterizza l'attività giudiziaria degli esecutori nel Seicento è che essi non perseguono quasi più la semplice bestemmia, l'imprecazione rivolta, con la parola o con un fatto (ad esempio, la lacerazione di un'immagine o la percossa ad una statua), contro Dio, la Vergine e i santi, bensì tutto un atteggiamento che sapeva di blasfemo: quello di chi intimoriva, scandalizzava, turbava la quiete pubblica con le sue invettive, con la protervia del suo agire, con le minacce rivolte a destra e a sinistra.
Una quiete cui si contrapponeva la violenza serpeggiante. Omicidi, risse, faide, prevaricazioni, minacce, i "bravi" dilaganti nella città, le guerre dei pugni, o "battagliole", che costituivano il divertimento preferito, e che accendevano fino all'esasperazione la passionalità collettiva... (148).
Il demone della violenza filtra anche negli atti degli esecutori contro la bestemmia, come nelle carte dei notai che redigono i proclami d'accusa o le sentenze di condanna, e che evidentemente si compiacciono di intingere la loro penna nell'inchiostro più scuro, quasi di colpire con una prosa gonfia, roboante, terrificante l'immaginazione di chi leggerà o ascolterà. Una società contraddittoria, magari. Che si rileva sempre più tollerante verso il reato che nel secolo precedente era represso con estrema severità, la sodomia, o "vitio nefando", come si soleva definirla (149). Una società che ha d'altro canto un senso ossessivo, quasi paradossale dell'osceno: se ne inorridisce, se ne compiace, vi affonda. L'oscenità è presente in quasi tutti i capi d'accusa. Circolano libri osceni. E si recitano commedie oscene. E l'oscenità è spesso accompagnata dalla "rilasciatezza", termine che ha allora grande fortuna, ad indicare un vivere senza controllo, preda di ogni tentazione indifferente ai doveri morali e sociali. Ne sono particolare preda donne datesi al malvivere, frati e preti assolutamente dimentichi della loro condizione, "mangiamaroni" (o sfruttatori di prostitute)... Ma in fondo questa umanità "perversa" ha una sua funzione positiva, permette ai notai degli esecutori di contrapporre nei proclami e nelle sentenze alle loro esistenze degeneri l'ideale civile e sociale di donne timorate e rassegnate, di uomini probi e dediti al lavoro, o, emblematicamente, del "buon botteghiere", che nel suo bisogno di ordine e di rispetto per la sua roba è un po' il simbolo del buon suddito veneziano (150).
Al di là dei risultati sanciti dal trattato di pace concluso con la Porta ottomana, la guerra di Candia aveva prodotto due conseguenze fondamentali per il futuro politico della Repubblica di Venezia. Una, la sua progressiva emarginazione dalla scena italiana; l'altra, il volgersi della stessa Repubblica verso il Levante, quasi spinta da un'attrazione che pareva più che mai irresistibile (151). Cosa paradossale, almeno a prima vista, perché la constatazione della superpotenza turca, e dei propri limiti, avrebbe dovuto insegnare alla Serenissima Signoria a rimanere negli ambiti più angusti dei domini adriatici e di Terraferma. In realtà il Levante continuerà a rappresentare per tanta parte dei nobiluomini veneti il mito non solo di una nuova grandezza, ma di uno spazio in cui si potevano trovare occasioni per imprese che avrebbero consentito di far rifulgere il proprio valor militare e la propria intraprendenza, e magari, lo speravano i più ottimisti, dove le virtù antiche avrebbero avuto modo di ritemprarsi e di riassurgere al passato splendore. Laddove nella penisola ci si sentiva soffocati, o costretti a un impegno politico, e insieme militare, non congeniale alla Repubblica...
Sarà la Francia a condizionare più pesantemente la politica veneta dopo la guerra di Candia. In realtà la politica francese guardava soprattutto verso nord-ovest, verso le Fiandre, l'Hainaut, che erano appartenute all'Austria, per finire poi alla Spagna quando Carlo V aveva diviso il suo dominio, e più in là verso la valle del Reno, cuore d'Europa, dove erano attestate le giovani, vigorosissime Province Unite d'Olanda. Un'espansione ambiziosissima, sostenuta da un solido apparato militare e finanziario, guidata da un'azione di governo risoluta e spregiudicata, che preoccupava i maggiori prìncipi di Europa, a cominciare ovviamente dalla Spagna e dall'Impero. Nel 1668 - si era dunque nel periodo conclusivo della guerra di Candia - per fermare la Francia si era costituita una triplice alleanza comprendente l'Olanda, l'Inghilterra, la Svezia, e in quello stesso anno Luigi XIV era stato costretto a concludere la pace di Aquisgrana (152).
Chi costituiva la minaccia più grave all'espansione francese era l'imperatore d'Austria, Leopoldo I. Il rimedio che il re di Francia aveva a disposizione contro di lui era antico, provato ampiamente nel corso delle cinquecentesche guerre d'Italia: l'intesa con l'Impero ottomano affinché tenesse impegnato l'imperatore a est, nella pianura danubiana. Luigi XIV non esiterà certo ad usarlo nelle occasioni che gli si presenteranno. Il re sapeva che un ostacolo notevole al perseguimento della sua politica renana gli veniva anche dalla penisola italiana. I soccorsi di uomini e di materiali di cui il re di Spagna e l'imperatore avevano bisogno provenivano da lì. La Repubblica di Genova era tradizionalmente in ottimi rapporti con la Spagna, e le offriva con il suo porto l'accesso più comodo nel nord Italia. A un passo da lì, lungo la valle del Po, c'era lo Stato di Milano, feudo imperiale, ma soggetto alla sovranità del re di Spagna: ne partiva una strada importante per raggiungere, attraverso la Valtellina, l'Austria e la Germania. Altra via di collegamento era quella che passava per il territorio della Repubblica di Venezia, lungo la valle dell'Adige. Non si sottovalutava certo la presenza in Italia del papato: il quale aveva sotto di sé uno Stato territorialmente ben consolidato, che divideva in due la penisola, e che aveva soprattutto ricuperato l'autorità spirituale, già incrinata dalla crisi cinquecentesca, che le consentiva di svolgere un ruolo di prim'ordine anche nell'agone politico. Per avere in mano la situazione italiana non bastava dunque l'avere sotto controllo un principe per altro così prezioso come il duca di Savoia: bisognava contare sulla collaborazione della Repubblica di Venezia, il più prestigioso, il più autorevole dei prìncipi italiani.
Luigi XIV non aveva creduto durante la guerra di Candia, tanto meno lo farà dopo a guerra finita, alla necessità, o peggio all'importanza, di una presenza veneziana nel Mediterraneo orientale, arroccata ai lembi di un Dominio ormai fatiscente; né credeva alle motivazioni religiose che la Serenissima dava alla difesa che essa ne stava facendo (153). A tutelare la cristianità alla frontiera ottomana bastava la Francia, che riusciva a farsi riconoscere quel ruolo dalla stessa Porta: un ruolo corroborato dalla rete di interessi commerciali che la Francia aveva creato laggiù, e che non potevano essere compromessi da scelte antiturche, perché altrimenti a beneficiare del loro fallimento sarebbero state l'Inghilterra e le Province Unite, cristiane sì, pur loro, ma non certo paladine e portavoce della Chiesa di Roma, ed era questo a fare la differenza - a Parigi non si mancava di ricordare severamente ai Veneziani il loro debole per gli Olandesi (154).
La Serenissima Signoria doveva invece essere presente, e attiva, in Italia: ma in un rango di subordine nei confronti della Francia. Rango che la Signoria non era disposta a svolgere. Ben altro era il suo interesse, che si salvaguardasse la "libertà" d'Italia, ossia una situazione di equilibrio che non permettesse l'esistenza di un principe egemone, né italiano, a cominciare dalla Sede Apostolica, né d'Oltralpe, Francia o Spagna che fosse, in grado di imporvi ad libitum la sua volontà; e si trincerava dietro lo scudo della neutralità, scelta politica che era considerata ormai definitiva (155). "Non era in stato la Repubblica di pensare agli affari d'Italia, come il senato s'era pienamente espresso con la corona di Francia", ricordava nella sua Storia Andrea Valier (156). Luigi XIV e i suoi ministri ritenevano trattarsi della ben nota furberia veneta, in modo da evitare di impegnarsi e di potersi piuttosto spostare di qua e di là secondo che le opportunità contingenti lo consigliassero. Si era addirittura pensato che la Serenissima Signoria si fosse accordata con la Spagna per impedire che la Francia si impadronisse di Casale, una fortezza del Monferrato soggetta al duca di Mantova cui Luigi XIV ambiva enormemente, sita com'era in una posizione tale che avrebbe permesso al re di Francia, qualora l'avesse presa, di stringere come nelle morse di una tenaglia il duca di Savoia, Pinerolo ad ovest, Casale ad est; senza trascurare il fatto che Casale era a ridosso dei confini dello Stato di Milano e che in mano francese avrebbe costituito una potenziale minaccia anche verso di esso (157).
La sua insofferenza sprezzante per la neutralità della Repubblica Luigi XIV l'aveva dimostrata quando aveva trasferito da Venezia in Polonia il suo ambasciatore Beziers, senza pensare a sostituirlo per vari anni. Inutile tenere ambasciatori presso una Repubblica inaffidabile, avevano voluto fare capire i Francesi (158). Lo ripeterà a chiare lettere Abraham-Nicolas Amelot de la Houssaie, in quella sua Histoire du gouvernement de Venise su cui ci si è già soffermati, e che era una critica durissima del modo in cui la Serenissima Signoria governava e una lezione sul modo in cui avrebbe dovuto invece governare, in coerenza con il suo passato e con le sue superstiti ambizioni di grandezza (159).
Il soggiorno veneziano dell'Amelot de la Houssaie era cominciato in un momento importante. Proprio nel 1672 il re di Francia attaccava le Province Unite d'Olanda dalla parte di terra, il re d'Inghilterra lo appoggiava dal mare: a fianco delle Province Unite scendevano in campo l'imperatore e il grande elettore di Brandeburgo, seguiti poco dopo dal re di Spagna. Che Luigi XIV ritenesse molto utile che tra i suoi alleati ci fosse anche Venezia, lo dimostravano sia il fatto di mandare sulle lagune un ambasciatore, sia che per quella carica scegliesse Jean-Antoine d'Avaux, parente di un ambasciatore che era stato a Venezia nel periodo difficile della guerra di Mantova, e aveva lasciato buon ricordo di sé. D'Avaux, si diceva nelle istruzioni che gli venivano rimesse, doveva far sentire alla Serenissima che il re le era amico, così come in passato: e a provarglielo il re le offriva la propria mediazione per la buona soluzione di due controversie che la Repubblica aveva in ballo, l'una col duca di Mantova, per i confini che c'erano tra loro sul fiume Tartaro, l'altra con la Sede Apostolica, provocata dalla decisione pontificia di far aprire nel Ferrarese un canale che i Veneziani ritenevano dannoso per i loro interessi mercantili. L'intento che si proponeva Luigi XIV esigeva queste "marques d'amitié": esso era il più difficile tra quelli che avrebbe potuto proporsi, stanare Venezia dalla sua neutralità. Non si osava in realtà pretendere che la Signoria scendesse apertamente in campo contro le Province Unite, il principe che godeva probabilmente di maggior simpatia nell'ambito del senato veneto, se non altro perché repubblica, come Venezia, e con un destino sul mare, come era stato, come avrebbe dovuto ancora essere per Venezia (il più prestigioso dei diplomatici veneti, Alvise Contarini, aveva sempre sostenuto, dal debutto nella sua attività all'Aia fino al suo epilogo alla pace di Vestfalia, che l'alleanza più preziosa per Venezia era quella con gli Olandesi) (160). La Francia ora si limitava ad auspicare che la Serenissima Signoria non si schierasse in favore delle Province Unite: almeno direttamente. Le ragioni che avevano spinto Luigi XIV a muover guerra contro di loro erano molto chiare, doveva spiegare Jean-Antoine d'Avaux: gli stati generali d'Olanda, cioè il governo delle Province Unite, stavano impedendo alla Francia di dare all'Europa la pace che Luigi XIV avrebbe desiderato. L'alleanza con la Repubblica, insisteva il d'Avaux, era piuttosto indispensabile alla Francia per realizzare un altro dei grandi obbiettivi ideali del re: eliminare in Italia l'egemonia che da tempo vi esercitava la Spagna affiancata dall'imperatore, e sostituirvi quella francese. Luigi XIV lo farà ripetere anche dall'ambasciatore, Jean-François d'Estrades, destinato nel 1675 a prendere il posto del d'Avaux, il suo intento era quello di liberare l'Italia dal giogo spagnolo e di farvi rivivere la grandezza di una corona, quella francese, che vi era stata così importante. Invano. Né il primo né il secondo riusciranno a far breccia sul senato veneto, che insisteva nel preferire la neutralità (161).
L'opera, ormai ben nota, di Abraham-Nicolas Amelot de la Houssaie, mirava a far sapere alla Serenissima Signoria con un crisma di ufficialità ciò che un ambasciatore, e nemmeno un ministro, avrebbero osato dire, almeno con tanta franchezza. Era dedicata al marchese di Louvois, il prodigioso organizzatore delle forze di terra francesi, l'ispiratore ed esecutore della politica di conquista e di insaziabile ricerca di gloria perseguita da Luigi XIV. Sebbene la Repubblica di Venezia oggi sia in declino, essa conserva ancora "de la Majesté", scriveva l'Amelot al Louvois. Declino dovuto a molte ragioni. Tanto per cominciare, all'estensione del suo territorio, che restava troppo ampio malgrado le amputazioni che aveva subìto; poi, alla pletoricità degli organismi cui spettava il prendere le decisioni, e alla lentezza e all'irresolutezza che ne derivavano; indi, alla smania di scegliere sempre nelle situazioni ingarbugliate il giusto mezzo (che era la scelta peggiore, a vedere dell'Amelot); ma soprattutto, all'esasperato amore per la pace, che significava voler restare sempre neutrale, scongiurando a tutti i costi la guerra e trascurando pertanto l'apparato militare. L'Amelot aveva ancora in serbo una frecciata bruciante per la Serenissima Signoria. Essa, egli diceva sarcasticamente, teneva molto allo scambio di ambasciatori con i re, perché giovava a conservare alto il suo credito: invece ai re l'aver ambasciatori a Venezia serviva a poco o a niente, dal momento che l'atteggiamento pregiudiziale di neutralità della Repubblica ne rendeva inutile l'opera. I riconoscimenti riserbati alla politica religiosa non bastavano certamente a sanare le rampogne e le offese disseminate nel resto dell'opera. La Serenissima Signoria si era pertanto sentita in dovere di reagire. Essa aveva protestato ufficialmente a Parigi, e Abraham-Nicolas Amelot de la Houssaie verrà rinchiuso alla Bastiglia. Per breve tempo, comunque. L'Histoire du gouvernement de Venise sarà ristampata già nel 1677, presso lo stesso stampatore, e con la stessa dedica al marchese di Louvois (162).
La lunga guerra d'Olanda procurerà alla Repubblica un altro e ben più grave motivo di frizione con Luigi XIV, giusto in una delle fasi più critiche del conflitto. L'invasione dell'Olanda non era riuscita, gli Olandesi l'avevano bloccata anche al prezzo di rompere le dighe che proteggevano le loro terre dal mare, nel 1674 le truppe francesi erano state costrette a ritirarsi. Lo stesso anno l'Inghilterra aveva abbandonato l'alleanza con la Francia, concludendo una pace separata con le Province Unite. Nel 1674 accadeva qualcosa di molto importante in Sicilia: Messina, seconda città dell'isola, era insorta contro il dominio spagnolo. L'insurrezione era riuscita: bisognava però garantirne il successo impedendo agli Spagnoli di contrattaccare e di riavere il sopravvento. Da soli i Messinesi non potevano reggere. Chi avrebbe potuto aiutarli era il grande nemico degli Spagnoli, ossia il re di Francia, il quale stava già combattendo contro di loro nella zona dei Pirenei. Messina si era offerta a Luigi XIV, e il re aveva accettato, convinto non solo dell'importanza strategica dell'isola, incuneata nel cuore del Mediterraneo, ma dell'opportunità che gli si prospettava di richiamare laggiù forze spagnole, indebolendo nel contempo quelle che si stavano battendo contro la Francia: nel 1675 truppe francesi erano sbarcate nell'isola. Quanto agli Spagnoli, i soccorsi li aspettavano soprattutto dagli alleati, uno tradizionale, l'imperatore, e uno nuovo, le Province Unite d'Olanda. Erano soccorsi marittimi, quelli degli Olandesi, una flotta al comando di un loro celebre ammiraglio, Michiel Adriaanson de Ruyter, e si scontreranno nelle acque della Sicilia con una flotta francese. Sarà a quest'ultima che arriderà la vittoria; l'ammiraglio de Ruyter cadrà durante il combattimento. I soccorsi inviati dall'imperatore dovevano giungere pur essi per via di mare, imbarcandosi su navi spagnole a Trieste e raggiungendo Messina dopo aver percorso in tutta la sua lunghezza l'Adriatico. L'Adriatico, il mare su cui la Serenissima Signoria vantava il suo dominio: gli Spagnoli le avevano chiesto l'autorizzazione ad attraversarlo. Era il riconoscimento di un diritto che pur la Spagna e l'Impero avevano sempre contestato. I Francesi erano intervenuti subito, il loro ambasciatore si era presentato in collegio, e lì, al cospetto della signoria, aveva chiesto solennemente che il passaggio fosse rifiutato. Michele Foscarini, "pubblico storiografo" della Repubblica, spiegherà i motivi di principio che sostenevano il diniego: "Il permetter [...] il passaggio per il Golfo a militia armata, offendeva le ragioni gelosamente guardate dalla Repubblica sopra il mare". In realtà le considerazioni da fare erano altre, meno di principio e più di sostanza. Il re di Francia affermava che avrebbe ritenuto l'autorizzazione al transito un "dichiarato atto di parzialità" a favore di uno dei belligeranti, tale da smentire la "professata indifferenza", o neutralità, che la Serenissima Signoria dichiarava di voler serbare; e si parlava di rappresaglie, da effettuare inviando navi francesi nell'Adriatico, addirittura "fino alla faccia della stessa città di Venezia". Voci di guerra, da parte di un principe che avrebbe voluto essere amico, e si sentiva invece respinto e tradito; voci che si levavano furibonde anche da Madrid. Ma delle due minacce, a Venezia si temevano di più quelle di Luigi XIV, in quel momento il principe più forte, più risoluto d'Europa. La Spagna non aveva ottenuto il permesso di far passare le navi per l'Adriatico.
Un'occasione per vendicarsi la Spagna l'avrà di lì a poco, quando, nel 1676, inizieranno finalmente a Nimega le trattative di pace, destinate a durare fino al 1679. Bisognava indicare un mediatore. Luigi XIV riteneva che, così come trent'anni prima in Vestfalia, quel compito dovesse essere affidato a un diplomatico veneto, e la sua scelta era caduta su Battista Nani, il nobiluomo più famoso che avesse allora la Repubblica. La Spagna si era opposta. La Repubblica di Venezia non era stata affatto imparziale durante la guerra, si sosteneva a Madrid. Convincimento che avevano un po' tutti in Europa, a Londra come a Vienna: si ritiene "che questa Repubblica habbia non solo più particolare inclinatione verso la Francia, che verso dell'imperatore e del re cattolico, ma che habbia ciò contrasegnato con le opere" (163).
Nessun principe italiano ha tanta paura della "puissance" della Francia quanto la Serenissima Signoria di Venezia, scriverà Luigi XIV nella primavera del 1682 al suo ambasciatore nella città lagunare, Michel Amelot de Gournay. Certo, non l'aveva il duca di Savoia, che pure il re di Francia se lo vedeva in casa, a Pinerolo, e che era oggetto del controllo più occhiuto e della pressione più costante da parte del re. Ma a duchi di Savoia come era stato Carlo Emanuele I, come sarà nell'ultimo ventennio del secolo Vittorio Amedeo II, la neutralità passiva, il pacifismo ad oltranza non si confacevano. Vittorio Amedeo II in particolare dovrà subire imposizioni da parte di Luigi XIV: gli toccherà accettare la sposa sceltagli dal re, sarà costretto a fare una politica religiosa di crudelissima persecuzione nei riguardi dei propri sudditi valdesi e protestanti; cercherà di svincolarsi e di ricavarsi, sfruttando la contrapposizione tra Francesi e Spagnoli, uno spazio d'azione che gli consentisse di soddisfare le sue ambizioni di espandersi territorialmente a est, raggiungendo il Ticino, e di ottenere il titolo regio, che lo avrebbe qualificato come il maggior principe italiano (164).
Ambizioni che non garbavano a Luigi XIV, e che non potevano non dar ombra ai Veneti. Esisteva infatti un contenzioso storico-giuridico con la Serenissima Signoria per la pretesa, già sostenuta da Carlo Emanuele I, di aver diritto al titolo di re di Cipro che essa invece rivendicava per sé. Ma considerazioni geo-politiche più solide facevano capire alla Serenissima Signoria che con i duchi di Savoia esistevano interessi comuni che non potevano essere accantonati (165). Una delle sue teste più lucide, l'ambasciatore, e poi doge, Domenico Contarini, aveva scritto che a suo vedere l'ampliarsi dell'insediamento francese in Piemonte ai danni del duca di Savoia sarebbe stata una iattura, per Venezia e per l'Italia. Guai se "i limitari di questa provincia", cioè il territorio ducale, restassero privi del loro "antico custode", egli ammoniva (166). Il Contarini era preoccupato per le mire francesi su Casale Monferrato. Casale finirà davvero alla Francia: nel 1678 il duca di Mantova le cederà la fortezza con un trattato segretissimo concluso a Venezia; il re l'avrà effettivamente nelle sue mani solo nel novembre del 1681. Avvenimento gravido di conseguenze, si temeva a Venezia: anche perché già nel 1675 si era parlato di un possibile colpo di mano di Luigi XIV sul Milanese (167). L'ambasciatore di Francia a Venezia, Michel Amelot de Gournay, riteneva opportuno informare il re di cosa si pensava a Venezia riguardo a questa eventuale mossa: una volta padrone dello Stato di Milano Luigi XIV avrebbe addirittura fatto valere "les juxtes pretensions que le Milanois a sur une partie de leurs Estats" (168). In altre parole: il re, una volta investitosi della sovranità sullo Stato di Milano, avrebbe fatto suoi i diritti che ad esso spettavano, utilizzando anche lì quel sistema di argomenti storico-giuridici, ben corroborati dalla sua forza militare, con cui nel nord della Francia procedeva alla integrazione nel proprio regno di altri territori - si trattava delle cosiddette "réunions", di cui nel 1681 egli aveva fornito un esempio annettendo l'importantissima fortezza di Strasburgo, sul Reno (169).
L'imperatore Leopoldo I, che conosceva queste apprensioni dei Veneti, soffiava sul fuoco. Nel luglio e nell'agosto del 1682 egli richiamava l'attenzione della Serenissima Signoria sui "vasti disegni" che il re di Francia aveva sull'Italia, invitandola ad associarsi ad una "liga a diffesa e preservatione dell'Italia" - nel 1682 Luigi XIV aveva attaccato Genova, che sottoporrà poi a un violento bombardamento, ingiungendole di non collaborare più con la Spagna -, per di più Leopoldo I vedeva che, approfittando del consenso che gli veniva da Luigi XIV, l'Impero ottomano stava avviando, più minaccioso che mai, una nuova offensiva lungo il Danubio, verso Vienna, e sperava di poter contare sull'aiuto veneto (170).
L'atteggiamento della Serenissima Signoria importava moltissimo anche a Luigi XIV. Nelle istruzioni che aveva consegnato a Michel Amelot de Gournay al momento in cui si accingeva ad iniziare la sua ambasciata veneziana il re l'aveva invitato a ricordare al governo quale fosse la potenza della Francia e quale la sua capacità di ottenere quanto le fosse dovuto: in seguito inciterà a seguire accuratamente l'evolversi dei rapporti veneto-imperiali, e ad informarsi se la Signoria si fosse accinta a metter a punto il suo apparato militare, esercito, navi, fortezze, cosa che a suo vedere sarebbe stato segnale di propositi di ostilità verso la Francia. La Serenissima Signoria sembra esser più favorevole all'Impero che alla Francia, dubitava ora Luigi XIV (171).
L'Europa era in subbuglio all'inizio degli anni '80. Nel 1683 la Spagna aveva deciso di non tollerare più la politica delle "réunions", che adesso si era volta verso il Lussemburgo - Luigi XIV l'avrà nel 1684 -, era così di nuovo guerra tra il re cattolico di Spagna e il re cristianissimo di Francia. Voleva dire che la Spagna non poteva prestare tutto l'aiuto che avrebbe voluto all'imperatore proprio mentre si trovava a fronteggiare la nuova offensiva ottomana. I Turchi, alla cui testa era il gran visir Kara Mustafà, si sentivano forti, disponevano di un esercito numeroso ed agguerrito. Erano in pace con i Polacchi; nel 1681 avevano stipulato una tregua con i Russi, entrati ormai come protagonisti nelle vicende dell'Europa orientale; e ora avevano soprattutto il sostegno degli Ungheresi, i quali si erano rivoltati contro l'imperatore guidati da Imre Thokoli, che sperava di ottenere dai Turchi il titolo regio, ed era disposto ad affiancarsi a loro nell'offensiva che essi stavano per muovere contro Vienna. Si aggiungevano le carenze militari di Leopoldo I: il rafforzamento del sistema difensivo della capitale era stato intrapreso in ritardo; l'imperatore poteva contare su un esercito più piccolo di quello turco, insidiato dalle divergenze esistenti tra il comandante, Carlo di Lorena, e il margravio Hermann von Baden. Le truppe di Kara Mustafà erano avanzate agevolmente, il 10 luglio 1683 era stato possibile vederne da Vienna l'imponente schieramento. Leopoldo I e la corte avevano ritenuto necessario lasciare Vienna, per riparare verso Linz, poi Passau. La capitale era ormai stretta d'assedio dai soldati ottomani (172).
Bisognava chiedere aiuto, finanziario e militare, ai prìncipi amici, o comunque interessati a salvare Vienna e l'Austria e l'Europa: la Sede Apostolica, la Serenissima Signoria di Venezia, la Polonia, i prìncipi tedeschi... L'aiuto verrà dal papa, che invierà un cospicuo contributo finanziario, dai prìncipi tedeschi, in particolare dalla Polonia. Giovanni Sobieski, il re di Polonia, si era spinto subito con il suo esercito fino alla città assediata, poco prima della metà di settembre esso era schierato contro l'esercito turco. Lo scontro avverrà il 12 settembre, sulle colline di Kahlenberg, e si concluderà con una grandissima vittoria delle forze cristiane. Kara Mustafà si sottraeva core la rotta, i cristiani lo inseguivano, nel novembre essi raggiungevano Esztergom, o Gran, o Strigonia, per dirla con i Veneti (173).
Un successo straordinario, che aveva emozionato la cristianità. Altrettanto grande lo sconcerto dei Turchi. Alla Porta si individuavano e si colpivano i responsabili della disfatta. Un successo che pertanto era indispensabile sfruttare, incalzando subito il nemico, spegnendone definitivamente le inesauste mire di espansione. Per riuscire nell'intento era necessario mettere a punto una solida lega tra prìncipi cristiani, suscitare cioè una crociata, come perorava il papa, Innocenzo XI, da sempre animatore di una riscossa antiturca cui egli avrebbe dato il crisma spirituale (174).
La Serenissima Signoria non aveva risposto alla pressante domanda di aiuto rivoltale da Leopoldo I al momento del pericolo. Poteva esser per la cura di non inimicarsi ulteriormente il re di Francia, poteva essere per la diffidenza antica che essa aveva nei confronti degli Asburgo d'Austria, la cui ambizione di grandezza non riteneva meno preoccupante di quella del Turco. E aveva da temere che se l'Impero ottomano fosse uscito vincitore, non avrebbe esitato a rivolgersi contro di essa, rinfacciandole l'appoggio a Leopoldo I. La Serenissima Signoria si era scusata con l'imperatore, dicendo che purtroppo non era in grado di far nulla, logorata com'era dai grandi dispendi sostenuti per la guerra di Candia. Aveva poi lasciato sperare che in congiunture migliori non avrebbe mancato di dimostrare il suo "zelo a vantaggio della cristianità".
Le congiunture erano di botto migliorate dopo la vittoria di Kahlenberg. Si facevano bensì sentire nel governo veneto uomini che avrebbero preferito continuare a restar fuori dalla grande impresa che si stava avviando. A loro vedere, la Repubblica non era preparata a scendere ancora una volta in campo, le mancavano mezzi materiali e finanziari, soldati, vogatori per le galee. D'altro canto il Turco, essi pensavano, ora non poteva volere che la pace, ed era presumibile che di fronte ad una simile offerta l'imperatore avrebbe accettato, per essere libero di volgersi ad occidente e di porre fine all'annessionismo di Luigi XIV. Voci del genere circolavano. Tanto che il bailo a Costantinopoli, Giovambattista Donà, sicuro di interpretare la volontà della Serenissima Signoria, stipulerà con la Porta un accordo che il senato si rifiuterà di ratificare e che provocherà al Donà, con il richiamo a Venezia, un processo da cui alla fine uscirà assolto (175). Ma in senato c'erano anche uomini che si dichiaravano in favore della partecipazione della Repubblica alla Sacra lega. Con delle differenze, comunque, tra loro. I più cauti consideravano la lega necessaria perché, pur limitandosi ad azioni belliche in Dalmazia, dove la presenza militare veneziana era necessaria data la persistenza di controversie con i Turchi confinanti, essa avrebbe consentito alla Serenissima Signoria di partecipare ai negoziati di pace, evitando di subirne passivamente le conclusioni. I più intraprendenti volevano invece una guerra a tutto campo, combattuta sul mare oltre che in Dalmazia, una guerra pertanto non puramente difensiva ma d'attacco, pronta a sfruttare le possibilità di conquista che si presentassero. Erano, scriveva di loro nella sua Istoria Michele Foscarini, il quale però preferiva la prudenza degli altri, erano uomini di "spirito fervido, e che nella passata guerra havevano sostenuto carichi militari", uomini fiduciosi, sicuri che i mezzi per condurre una simile guerra si sarebbero trovati, e che non sarebbe stato difficile conseguire qualche grosso risultato (176). Finirà col prevalere proprio quest'ultimo orientamento, il quale - almeno così si diceva - beneficiava probabilmente del consenso della città, come di solito era accaduto in circostanze analoghe. Si vorrà dunque che le trattative di lega fossero condotte rapidamente e si solleciterà il negoziatore della Repubblica, l'ambasciatore a Vienna Domenico Contarini, ad ottenere l'assicurazione che gli acquisti territoriali che le forze venete avrebbero fatto sarebbero rimasti alla Serenissima Signoria, compresi quelli fatti in Dalmazia - che era un punto particolarmente delicato, date le aspirazioni che l'imperatore aveva su quelle terre nella sua qualità di re d'Ungheria (177). La Sacra lega, siglata all'inizio di marzo, veniva definitivamente sancita a Linz il 24 maggio 1684 tra i rappresentanti dell'imperatore, del re di Polonia, della Repubblica di Venezia, sotto l'egida del papa Innocenzo XI (178).
Si apriva così la nuova avventura bellica che doveva portare ancora la Repubblica nel Mediterraneo orientale, a farvi, e ancor più a sognarvi, conquiste, a impegnarvi enormi risorse in uomini e mezzi, a dimostrarvi la baldanzosa virtù di qualche suo uomo, e la valentìa organizzativa, ma insieme i limiti politico-militari della sua classe dirigente: un'avventura bellica che sottrarrà la stessa Repubblica alle turbinose vicende che sconvolgeranno l'Europa e l'Italia nei due ultimi decenni del Seicento e all'inizio del Settecento, la grande alleanza di Augusta tra Spagna, Impero, Inghilterra, Olanda contro Luigi XIV, e poi la questione della successione spagnola, vicende che sanzioneranno definitivamente e volutamente il distacco della stessa Repubblica dall'Italia e dall'Europa. Esse offriranno infine l'occasione per emergere definitivamente al duca di Savoia Vittorio Amedeo II, riuscito a districarsi dalla soggezione alla Francia, per concludere poi con Luigi XIV a Torino, nell'agosto del 1696, un trattato con cui ci si impegnava reciprocamente a una pace stabile e sincera (179). Cosa che non impedirà a Vittorio Amedeo II di proporre l'anno dopo a Venezia di attaccare congiuntamente lo Stato di Milano e di spartirselo, sottraendolo alle mire di Luigi XIV. La Serenissima Signoria si guarderà bene dall'accettare un simile coinvolgimento nella più annosa e tormentata questione italiana; e anzi, l'anno dopo il suo ambasciatore a Parigi lascerà trapelare la notizia di quell'offerta e di quel rifiuto, per acquisire meriti alla Serenissima Signoria, e mettere in difficoltà il duca (180).
Atmosfera calma, di una calma un po' sospesa, quella tra la Repubblica di Venezia e la Porta ottomana nel decennio seguìto alla conclusione della guerra di Candia: non di assoluta tranquillità; soprattutto a partire dal 1676, anno della morte del gran visir Ahmed Koprulu e dell'assunzione al gran visirato di Kara Mustafà.
Sussulti si erano avvertiti nei Balcani nel 1670 e nel 1671, quelle scaramucce confinarie in Montenegro di cui si è già fatto cenno. Nel febbraio del 1674 il senato aveva temuto addirittura che i Turchi volessero sbarcare a Corfù, tanto da dare ordine al provveditore generale da mar, Andrea Valier - l'ormai ben noto storico della guerra di Candia - di far grandi lavori di consolidamento della locale fortezza. Il Valier non ne era convinto. Corfù, l'"antemurale" d'Italia, il Valier la conosceva bene, e riteneva che, data la sua esiguità territoriale, non ci si potesse sbarcare se non in pochi, ossia in numero insufficiente per conquistare la fortezza. Ben diversa era la "positura" di Corfù da quella di Candia, egli ricordava alla Serenissima Signoria il 16 marzo 1674. A Candia le truppe sbarcate avevano trovato di che alimentarsi, a Corfù non sarebbe stato assolutamente possibile, perché l'isola di commestibili non ne produceva. A veder suo, comunque, ad impedire lo sbarco più che il riassetto delle fortificazioni bastava che l'armata di mare facesse buona sorveglianza. Il Valier non escludeva comunque che si potesse fare una nuova lega di prìncipi cristiani contro il Turco. In tal caso essa avrebbe dovuto riunire le sue forze tra Brindisi e Otranto, e di lì non le sarebbe stato difficile sbarcare a sua volta in vari punti dell'isola. Timori eccessivi, quelli del senato, che il Valier si permetteva di trattare con ironia. Nel 1675 era invece il provveditore generale succeduto al Valier, Antonio Priuli, a dimostrare l'apprensività che era nell'aria informando con preoccupazione la Serenissima Signoria che navi francesi si aggiravano tra le isole Ionie per rifornirsi di vettovaglie e di vini (181).
Un incidente di rilievo, dovuto alle consuete questioni confinarie, accadrà effettivamente nel 1682 in Dalmazia, nell'entroterra di Zara, tra Morlacchi sudditi veneti e Turchi: incendi di case, gente uccisa, qualcosa insomma di cui si era fatto molto rumore alla Porta. Sarà anche per le reazioni provocate da questo incidente tra le autorità turche che il bailo Donà, male interpretando i sentimenti delle autorità venete, farà quell'offerta di danaro alla Porta che gli costerà, lo si è già detto, la perdita della carica (182).
Riecheggiando l'accusa che Alvise di Tommaso Contarini aveva rivolto nel 1641 alla Signoria al suo ritorno dalla Turchia, nel 1676 un altro ballo a Costantinopoli, Giacomo Querini, esprimerà un analogo convincimento: in Levante era il cuore degli interessi della Signoria, e lì essa doveva cercare di restare, modificando a tal fine la qualità e l'organizzazione del suo commercio, rendendo sicura la propria navigazione, adeguando alla nuova realtà locale le sue strutture ecclesiastiche e gli uomini che eran loro preposti. Si aggiungevano ora nell'opinione pubblica veneziana la nostalgia per l'impero marittimo perduto, e quel revanscismo intriso di spiriti ardentemente bellicosi che era eredità della guerra di Candia e delle pagine di gloria che, con altre assai meno gloriose, molti gentiluomini veneti vi avevano scritto. Idee, sentimenti, risentimenti che avevano contribuito a far decidere dal senato l'ingresso nella Sacra lega, per riprendere a combattere contro la Porta ottomana. Non era certo cosa nuova per la Repubblica di Venezia il decidersi di affrontare il Turco. Nuovo era il modo con cui avveniva l'apertura delle ostilità; non de facto, essa era accompagnata da atti formali, la dichiarazione di guerra e il richiamo dell'ambasciatore (183).
L'ambasciatore di Francia a Venezia Amelot de Gournay era sconcertato davanti alle decisioni che la Serenissima Signoria prendeva nel giugno del 1684. Non gli pareva possibile che la Signoria osasse schierarsi così intrepidamente a fianco di un principe come l'imperatore, a lungo nemico comune del re di Francia e suo. Si stupiva della oltracotante fiducia con cui a Venezia si parlava di occasione per riconquistare i tre regni perduti, Negroponte, Cipro, Candia, che erano sulla bocca e nel cuore di tutti. E non capiva come la Serenissima Signoria potesse illudersi di aver i mezzi finanziari per arruolare nel suo esercito tanti soldati d'Oltralpe e per metter a punto un apparato militare di cui egli aveva già rilevato la fragilità. Quando era andato in udienza dogale per congratularsi della lega e formulare auguri per il buon successo dell'impresa, l'Amelot de Gournay non aveva rinunciato a insinuare una punta di sarcasmo: "Se li miei voti saranno esauditi" egli diceva al doge "il corso d'una sola delle loro campagne restituirà sotto le loro leggi tre regni che tutta la potenza degl'infedeli non ha potuto levarvi che apena nel corso di tre secoli" (184).
L'Amelot de Gournay sbagliava, l'adesione veneta alla Sacra lega destava grande apprensione alla Porta. "Il ne pouvait leur arriver de plus facheux que d'avoir les Vénitiens pour ennemis", scriverà un cronista francese (185). La stessa opinione aveva espresso l'ambasciatore inglese lord James Chandos che, in un ampio rapporto inviato al suo governo da Pera di Costantinopoli il 18 settembre 1684, quindi giusto all'avviarsi delle ostilità, i Turchi erano così deboli per mare ("so contemptibly weake by sea") e che i Veneziani con la potenza della loro flotta ("with their powerful armada") potevano mostrare al mondo la condizione rovinosa di quella ottomana: così che i Veneziani erano padroni del mare, in grado di far tentativi su tutte le isole che volevano ("so that the Venetians are patrones of the sea and at liberty to attempt what islands they please"). Lord Chandos concludeva che a veder suo il Turco avrebbe cercato in tutti i modi di ripristinare la pace con i cristiani (186).
Non era facile ottenere la pace da nemici che avevano preso il sopravvento e che ritenevano che questa fosse l'occasione propizia per infliggere alla Porta ottomana una sconfitta che avrebbe dovuto per lo meno sconsigliarla di ripetere in futuro altre imprese nel cuore d'Europa. Né bastavano gli approcci subito tentati con Luigi XIV per ottenerne un valido aiuto impegnando alle spalle l'imperatore. All'ambasciatore francese a Costantinopoli era stata riconosciuta una particolare dignità, il cosiddetto "onore del sofà" quando era ricevuto dal gran visir, oltre a un privilegio sostanziale, l'esenzione da tributi doganali; si erano presi provvedimenti per tutelare i Francesi dai corsari barbareschi; si era attribuita inoltre a Luigi XIV la qualifica di protettore dei luoghi sacri in Palestina, che non era riconoscimento da poco, in un momento in cui il re era in pieno conflitto con la Sede Apostolica a causa dei quattro decreti gallicani da lui emanati e che il pontefice riteneva limitativi della sua autorità - la qualifica di protettore era il coronamento della politica religiosa di cui gli ex baili veneziani avevano parlato con invidiosa ammirazione (187). A questo punto Leopoldo I aveva preferito coprirsi le spalle, sottoscrivendo con Luigi XIV il 6 agosto 1684 a Ratisbona una tregua. Né d'altro canto Luigi XIV poteva correre il rischio di attirare su di sé la taccia di nemico della cristianità, contrastando apertamente l'offensiva che altri grandi prìncipi cristiani avevano scatenato contro il Turco, nemico per antonomasia della cristianità (188).
L'offensiva stava procedendo per di più assai bene. Nell'agosto del 1686 l'esercito imperiale, sempre guidato da Carlo di Lorena, dopo aver conquistato Strigonia, prendeva Nové Zamsky; mentre nel 1686 era la volta di Buda, città cardine per l'Impero ottomano, nel 1688 di Székesfehérvàr, o Stuhlweissenburg, l'antica Alba Regia. Ormai si era penetrati nel cuore dell'Ungheria. Il 6 settembre di quell'anno anche Belgrado finiva nelle mani degli Imperiali (189).
C'era, in questi successi imperiali, qualcosa che non poteva non destare preoccupazioni in seno alla Repubblica, ossia le ripercussioni che essi avrebbero avuto sulla Dalmazia. La Repubblica di Ragusa, tributaria degli Ottomani, grande rivale ab antiquo dei Veneziani, si era avvicinata all'imperatore quando ne aveva visto le vittorie, e ne era stata ricambiata con l'invio a Ragusa di un ministro residente. Alla caduta di Buda (lo ricorderà alla conclusione della pace Carlo Ruzzini, evocando un momento della guerra che aveva visto divergere gli interessi degli alleati), Ragusa aveva accettato di versare all'imperatore i 1.500 ongari all'anno che essa soleva versare al re d'Ungheria. Non era un buon segno. E lo era ancor meno quanto l'imperatore aveva ottenuto dagli Ungheresi sul finire del 1687, che la corona d'Ungheria divenisse ereditaria nella linea maschile primogenita della casa degli Asburgo d'Austria e che fosse subito incoronato re l'arciduca Giuseppe, suo figlio (190).
A parte queste ombre, le sorti della guerra volgevano bene anche per i Veneziani. Certo, spese grandissime, soprattutto per ingaggiare truppe d'Oltralpe con i loro comandanti, e dispute in senato tra chi aveva voluto la guerra, ed ora si lamentava, e chi, non avendola voluta, si sentiva adesso in condizione di deplorare l'imprevidenza e l'ignoranza della realtà veneziana da parte dei pacifisti. "Militia, navi, armi munitioni sono voragini, che assorbono immensi tesori. Sino all'ultimo Settentrione si arollano le militie sotto le publiche insegne [...]. Non può far guerra la nostra Republica, che non vi chiami a parte quasi tutte le nationi d'Europa", avrebbe detto in un suo discorso Michele Foscarini, con allusione all'ingaggio di Maximilian Wilhelm, figlio di Ernst August, duca di Brunswick-Lüneburg, principe di Osnabrück, tedesco, e del conte Otto Wilhelm von Königsmarck, svedese. Nel 1685 erano state infatti prese due decisioni sofferte: concedere nuovamente a chi versasse le grandi somme di danaro richieste sia l'aggregazione al patriziato veneto sia la prestigiosa carica di procuratore di San Marco (191). Ma le soddisfazioni erano venute presto. Se in Dalmazia ci si era limitati a contenere il nemico e a realizzare qualche progresso territoriale, soprattutto in virtù del contributo dei Morlacchi, che riuscivano ad attaccare a fondo in territorio turco e ad infliggere gravi perdite, nello Ionio i successi erano stati notevoli (192). Il capitano generale da mar Francesco Morosini, l'eroe della guerra di Candia, che aveva poi concluso la pace cedendo l'isola al Turco, aveva preso l'isola fortificata di Santa Maura, o Leucade, sita tra Cefalonia e Corfù, non lungi dalla costa dell'Acarnania; era stata indi la volta della Prevesa, città poco più a nord, sulla costa. Conforme a quanto aveva pronosticato lord James Chandos, isole dell'importanza di Candia, Negroponte, Chios sarebbero state a portata di mano. Francesco Morosini aveva invece preferito volgersi subito verso la Morea, più vicina a Venezia, a ridosso delle isole Ionie, e base, qualora si fosse riusciti a conquistarla, per proseguire poi verso Atene. Le cose erano andate per il verso giusto. I due soldati venuti dal nord erano stati collaboratori preziosi per il Morosini: nel 1686 l'esercito della Repubblica, alla guida del conte Königsmarck aveva messo le mani su Navarino, Modone, Napoli di Romània, o Nauplia. I Turchi avrebbero voluto la pace, i Veneziani avevano preferito continuare. Nel 1687 cadevano una dopo l'altra Patrasso, Mistrà, Corinto, da dove, superando l'omonimo stretto, si arrivava proprio a ridosso di Atene. In breve si finirà col completare la conquista della Morea (193).
Prosegue l'offensiva veneta in Grecia: la conquista di Atene (e il bombardamento del Partenone), il tentativo su Negroponte, le prime ombre sull'impresa che si era cercato di rianimare eleggendo al dogado il capitano generale da mar Francesco Morosini
C'erano opinioni diverse al comando delle forze venete, spingersi verso Atene, o tentare di far cadere prima Negroponte, che, situata un po' a nord-est, copriva le spalle di Atene, sbarrando il passaggio a rinforzi che le fossero inviati dal mare e accerchiandola: i Turchi sarebbero stati costretti ad abbandonare Attica, Beozia e Megara per evitare di trovarsi senza via d'uscita. Problemi esistevano per entrambe le soluzioni, dato che si richiedevano altre truppe, e danari per pagarle. C'era stata qualche divergenza tra Otto Wilhelm von Königsmarck, braccio destro del Morosini, che riteneva "la bella impresa di Negroponte" più difficile e le truppe a disposizione inadeguate, e lo stesso Morosini. Dopo qualche indecisione, quest'ultimo aveva optato per Atene (194).
Kenneth M. Setton, in uno studio cui si è qui fatto frequente riferimento, ha raccontato con estrema accuratezza e sulla scorta di documenti prima quasi sconosciuti le vicende della presa di Atene nel settembre del 1687. Il momento culminante era stato l'attacco alla famosa fortezza, l'Acropolis, dopo che la città era già in mani veneziane. I Turchi che vi erano insediati non volevano arrendersi, si era cominciato perciò a bombardare, sotto la direzione del comandante delle artiglierie, Antonio Mutoni, conte di San Felice, uomo inviso al conte di Königsmarck. Proprio quando il Mutoni stava per esser sostituito, da un mortaio - riprendiamo da una Relatione che par scritta da persona ben informata - "una bomba getata a capricio e senza regola andò a cadere sul tempio di Palade dentro alla Fortezza, e diede il fuoco a molta polvere che per giornaliero deposito tenevano in quel locco. Il danno fu molto, e fu grande anco il pericolo che prendesse fuoco anche il gran deposito ch'era pocco distante, e grandissimo fu il timore degl'habitanti [...]". Il 29 settembre l'Acropolis si arrendeva (195).
Restava ora Negroponte. Ma la stagione cattiva incalzava, le truppe erano stanche, il loro numero insufficiente, l'isola era per di più difesa da una fortezza, von Königsmarck insomma non riteneva prudente fare adesso il tentativo. Francesco Morosini si era rassegnato, anche se poi rimpiangerà l'occasione allora perduta. L'azione su Negroponte era stata rimandata.
Alla fine dell'inverno, quando si avvicinava la ripresa delle operazioni, la vita del capitano generale, già così ricca di eventi, ne conosceva uno nuovo, veramente straordinario. Il 23 marzo 1688 era morto il doge Marc'Antonio Giustinian; il 3 aprile verrà eletto a succedergli, all'unanimità, senza concorrenti, proprio Francesco Morosini. Gli si chiedeva di restare in Levante, per continuare la condotta della guerra. Una decisione anomala nella storia della Repubblica, che per tradizione aveva sempre tenuto a distinguere il potere civile da quello militare: conseguenza di quello sconcerto costituzionale avvenuto a metà secolo su cui si è tanto insistito. Una decisione che, malgrado le apparenze, aveva avuto dei critici autorevoli, come Michele Foscarini, che non avevano potuto contrapporsi all'ondata di entusiasmo di tutta una città, nobiluomini e popolo insieme. Essa significava che dal Morosini ci si attendeva il coronamento dei suoi trionfi con la riconquista di Negroponte (196).
La fortezza di Chalcis, cui era affidata la protezione dell'isola, era stata posta sotto assedio. Le difficoltà previste da von Königsmarck si erano fatte sentire, durissime, ancor più di quanto si potesse immaginare: la peste serpeggiava tra le truppe; lo stesso von Königsmarck si ammalava, e moriva nell'agosto. Con lui se ne andavano le speranze di conquistare l'Eubea. Nell'autunno del 1688 Francesco Morosini doveva riconoscere il fallimento. "Qui siamo al termine della campagna non coronata dalle solite glorie, anzi resa funesta nella vanità dell'impresa, in cui si sono logorate forze poderose e consumate senza frutto sino le munizioni e l'artigliarie delle galere e delle navi medesime con pubblico infinito dispendio [...]", narrava tristemente, il 4 novembre 1688, la lettera di un anonimo protagonista della vicenda.
Alla fine del 1688 la Porta ottomana offriva la pace, all'imperatore Leopoldo I come alla Repubblica di Venezia. La pace, ma a condizioni onorevoli. Quelle che i rappresentanti dell'Impero ponevano verso la metà di marzo pretendevano l'Ungheria con le sue dipendenze (gli Imperiali si aspettavano qualcosa di più, che il Turco se ne andasse anche dalla Transilvania), restituzione dei territori che i Tatari avevano occupato in Moldavia, libertà di commercio: e che fosse rimessa all'Impero la custodia del Santo Sepolcro di Gerusalemme, togliendolo così al suo grande rivale, il re di Francia. Quanto ai Veneziani, volevano non solo il riconoscimento delle conquiste già fatte, ma anche di quelle che non erano riusciti a fare, cioè Negroponte, isola e fortezza comprese. C'era poi il retroterra dalmata. La Serenissima Signoria voleva nella Krajina tutto il territorio tra Obrovac e il fiume Bojana, fino alle montagne di Bosnia e Erzegovina, cui si dovevano aggiungere Antivari e Dulcigno; e la Signoria avrebbe smesso di pagare al Turco il tributo, invero mortificante, che gli versava per il possesso dell'isola di Zante - oltre al farsi restituire i soldi che il suo ex bailo Giovambattista Donà aveva dato incautamente a Kara Mustafà pascià. Ma c'era anche la Polonia di Giovanni Sobieski ad accampare dei diritti: indennizzo per i danni inferti da Tatari e Cosacchi, insieme al ritiro dei primi dalla Crimea e da altre zone; si pretendeva inoltre la restituzione dei luoghi santi, e in particolare del Santo Sepolcro ai francescani. Per concludere, la Porta ritirava le sue offerte di pace. Perché non chiedete anche Costantinopoli?, avrebbe domandato il rappresentante turco al suo omologo imperiale. Il sultano Solimano II aveva deciso di continuare la guerra, e di parteciparvi personalmente (197).
Non erano solo le condizioni poco onorevoli avanzate dai nemici a spingere il sultano alla ripresa delle ostilità. Sulla scena europea era intervenuto qualcosa che lo faceva sperare nell'appoggio, indiretto ma sempre prezioso, di Luigi XIV. Nel 1688 il re di Francia invadeva il Palatinato. Era finita dunque la tregua di Ratisbona, che pure avrebbe dovuto durare vent'anni; né c'era più da illudersi che quel re avrebbe restituito le "riunioni" territoriali già fatte. Lo stesso imperatore Leopoldo I aveva deliberato di scendere in guerra contro di lui, stringendo nuovamente gli avversari della Francia in una lega, che sarà detta di Augusta - si era nel luglio del 1686. Ne facevano parte, con l'imperatore, il re di Spagna, il re di Svezia, l'elettore di Baviera e altri prìncipi dell'Impero. Il membro più potente della lega, quello che era in grado di suscitare le maggiori preoccupazioni nei Francesi, si assocerà solo tre anni dopo, nel maggio del 1689: sarà il re di Gran Bretagna, Guglielmo III d'Orange (finirà con unirsi a loro, come si è già accennato, pure Vittorio Amedeo II di Savoia). Su Luigi XIV continuava a gravare l'ostilità della Chiesa di Roma, cui era da aggiungere dal 1685 quella del mondo protestante, ferito dalla revoca dell'editto di Nantes con il quale, a fine Cinquecento, era stata concessa la tolleranza ai protestanti francesi. Ma Luigi XIV non rinunciava certo a battersi, e questo garantiva al sultano che non era isolato nella sua lotta contro la Sacra lega (198).
1690. Riprende l'offensiva: nei Balcani, dopo un iniziale successo turco, gli Imperiali si riprendono ottenendo nel 1697 a Zenta la vittoria decisiva; i Veneti, malgrado qualche superstite e deludente ambizione di conquista, trascinano stancamente le operazioni in Dalmazia
Nel 1690 l'esercito turco aveva ripreso l'iniziativa nei Balcani, Belgrado era subito caduta, e le forze cristiane erano poi state cacciate da Serbia, Bulgaria, Transilvania. Successo di breve durata. Nel 1691 i Turchi venivano sconfitti da Ludovico di Baviera a Slankamen, sul Danubio, nel nord della Serbia: battaglia dall'esito rovinoso per i Turchi - lo stesso gran visir Mustafà Koprulu vi trovava la morte in battaglia - e di fondamentale importanza per gli Imperiali, che si assicuravano il possesso dell'Ungheria e della Transilvania. Lo scontro decisivo avverrà sei anni dopo. I Turchi, veramente indomiti, stavano preparando una grande controffensiva, sempre sul Danubio. La si sentiva incombere verso il 1697, quando erano in corso rivolte in Ungheria, e si era diffusa tra i cristiani una paura che ricordava quella di quindici anni prima, mentre i Turchi erano sotto le mura di Vienna. I due eserciti si affronteranno a Zenta, l'11 settembre 1697. La vittoria toccava ancora all'esercito imperiale, che aveva trovato nel principe Eugenio di Savoia un formidabile comandante. In breve, rievocherà l'ambasciatore veneziano Carlo Ruzzini, si era passati dal "maggior timore" al "maggior trionfo", proprio come a Vienna nel 1683 (199).
Anche la Repubblica di Venezia aveva continuato a portare avanti la sua guerra in Levante: ma con ben altro entusiasmo, con ben altri risultati che nel periodo precedente. Poteva dipendere dal cambiamento di guida. Francesco Morosini era rientrato a Venezia, per adempiere accanto alle altre autorità di governo ai suoi doveri di doge. La carica di capitano generale da mar era passata a Domenico Mocenigo. Che non era un comandante della stoffa del predecessore, e neppure di Giacomo Corner, il provveditore generale in Morea che nel 1690 era riuscito a prendere la fortezza di Monemvasia: gli mancavano la sicurezza di decisione, la risolutezza nell'esecuzione e la fiducia nelle forze di cui disponeva. Doveva dimostrarlo ai primordi della sua attività con le azioni con le quali tenterà di prendere Valona, un porto dell'Albania, e Knin, una fortezza della Krajina dalmata: finirà con il lasciare entrambi i luoghi ai Turchi. Contrario ad altri tentativi di espansione nella terraferma dove, egli lo prevedeva profeticamente, erano da aspettarsi contrattacchi degli Ottomani, Domenico Mocenigo aveva preferito volgersi pur lui verso le isole. L'alternativa era tra Candia, o Creta, e Chios, o Scio, come dicevano i Veneziani, importantissima isola dell'Egeo, già colonia dei Genovesi. Ci sarebbero state anche Negroponte, Mytilene, Tenedos, Lemnos, Stanchiò, spiegava il Mocenigo al consiglio di guerra. Meglio le prime due, e anzitutto Candia. Le truppe della Repubblica infatti vi sbarcavano, cercando di prendere in primo luogo Canea, così come avevano fatto a suo tempo i Turchi. Il risultato era proprio l'opposto, il successo dei Turchi, cui avrebbero contribuito, direttamente o indirettamente, dei Francesi - lo scriveva il rappresentante diplomatico inglese alla Porta Thomas Coke. Fatto si è che i Veneziani erano stati costretti a lasciare ancora una volta l'isola, e che delusione e mortificazione erano state grandi. Tanto che a Venezia si era deciso di far riassumere il comando delle forze venete allo stesso doge Francesco Morosini, malgrado la sua riluttanza. In senato coloro che avevano espresso voto contrario erano stati molti. Le cose erano andate ben diversamente in maggior consiglio: degli ottocentoquarantasette nobiluomini presenti, settecentonovantasette avevano votato per il Morosini; ciò che stava a significare come l'entusiasmo per la guerra fosse sempre più forte tra la nobiltà di medie e basse fortune, e come ad essa probabilmente si affiancassero anche le famiglie recentemente aggregate alla nobiltà. Il doge aveva però davanti a sé solo il tempo per prender provvedimenti in favore del rafforzamento di certe fortezze della Morea, in particolare di Corinto. Egli moriva il 6 gennaio 1694: lo stesso anno scomparirà anche Domenico Mocenigo, il capitano generale defenestrato (200).
Si tenterà ugualmente alla fine del 1694 l'impresa di Chios, affidandola al comando di Antonio Zeno. Un fallimento ancora più grosso del precedente, il tempo per sbarcarvi e subito reimbarcarsi, già alla fine di febbraio del 1695, portandosi dietro in Morea abitanti di Chios che temevano rappresaglie ottomane. "Vergognoso abbandono", lo definiva sprezzantemente il console inglese a Smirne. In Levante la reputazione della Serenissima Signoria stava precipitando (201).
A guardar bene, la piega cattiva non la prendeva solo la condotta della guerra, ma anche il governo della Morea. Come se le energie politiche si fossero via via consumate insieme ai mezzi materiali, e le grandi aspettative incrinate: e come se la fiducia riposta in se stessi, nelle proprie forze, nelle proprie tradizioni si stesse vanificando...
Chi esprimeva vibrantemente l'animo dei conquistatori della Morea era Giacomo Corner - subordinato ma rivale di Francesco Morosini -, nel 1687, nel suo ruolo di provveditore generale in Morea:
Gemma risplendente del regio diadema, pupilla del governo [...]. Non può negarsi che l'acquisto della Morea sia per ogni rispetto pretiosissimo, mentre e per la vastità del suo giro, e per li molti preggi, che fruisce della natura nella fecondità del terreno, nella moltiplicità de raccolti, nella temperie dell'aria, per lo più placida e serena non ha egli che invidiare alle provintie più ubertose e felici. La commodità del sito opportuno invitò sempre alle sue scale le merci della Grecia vicina, e a Vostra Serenità porta una giusta confidenza di veder col tempo risorta la negotiatione col Levante (202).
Ci si era messi subito al lavoro per rivitalizzare economicamente e demograficamente la Morea, e per darle, con una nuova legislazione, un nuovo assetto istituzionale-amministrativo. La massima autorità era appunto il provveditore generale dell'armi in Morea, dipendente direttamente da Venezia, precisamente dal collegio, il quale doveva essere affiancato da due provveditori nel regno, sei nobili per altre mansioni, e da tre sindaci catasticatori con l'incarico di sovraintendere all'amministrazione (un compito particolare era, come dice il loro titolo, quello di far redigere un catasto di tutto il territorio, ed essi vi si accingeranno subito, affidandone l'esecuzione a tecnici di vaglia). Quanto all'organizzazione del territorio ci si atterrà al modello applicato in passato nel resto del Dominio veneto da terra e da mar. Alle città si concederanno privilegi secondo le loro richieste, badando soprattutto a che vi si creasse un ceto patrizio che avrebbe dovuto costituire la cerniera tra i ceti popolari e le autorità venete. In ogni città la Serenissima Signoria mandava a rappresentarla propri nobiluomini con i loro rispettivi "ministri", o burocrati (203).
Come nel resto del Dominio, anche in Morea dovevano vigere anzitutto, città per città, gli Statuti municipali, integrati dallo Statuto veneto, che vigeva ovunque. Alla Morea il senato intendeva riserbare una peculiarità, uno Statuto redatto appositamente per essa. Se ne era discusso all'inizio di settembre del 1687. C'era chi sconsigliava di prendere frettolosamente decisioni così impegnative. Tra gli altri, Michele Foscarini, di cui ormai si conoscono prudenza e scetticismo: il quale ammoniva che le fondamenta del nuovo ordine veneto in Morea dovevano esser poste con ponderatezza perché a far qualche errore iniziale, ad esempio in sede legislativa, si sarebbe innescata una serie senza fine di conseguenze negative. C'era chi sosteneva che non si dovessero invece frapporre indugi, come il savio del consiglio Francesco Foscari. Perché la Morea non era un paese che passasse da un principe cristiano ad un altro, non era un popolo che portasse seco "antichi privilegi e leggi naturali alla sua inclinazione", ma una terra e un popolo oppressi per secoli da una tirannide che lasciava dietro di sé solo confusione e miseria; era necessario pertanto "innovar, redimer, quasi crear", ed emanare "le leggi che sian proprie del principe benefico che le dà e adatade insieme al temperamento di quel suddito che le riceve" - il Foscari esagerava, evidentemente, perché la Chiesa greco-ortodossa era rimasta depositaria di una tradizione giuridica che si rifaceva al diritto romano-bizantino. Avevano finito col prevalere le ragioni del Foscari. Anche in questo caso il compito era stato rimesso ai sindaci catasticatori, ed anche in questo caso il lavoro era stato avviato di ottima lena, con la collaborazione preziosa del dottor Renato Serra, avvocato fiscale alla camera di Zante, che si era accollato la parte più onerosa del lavoro. Gli Statuti e leggi municipali per il Regno di Morea erano pronti all'inizio di settembre del 1689, potevano esser mandati a Venezia per esser sottoposti al vaglio del senato (204).
Gli Statuti per il Regno di Morea erano arrivati a Venezia, il 21 gennaio 1690 il senato ne dava notizia ai sindaci catasticatori. Dopo di questo nulla, nessuna traccia del giudizio che avrebbero dovuto dare di essi i magistrati cui era stata assegnata quell'incombenza, i compilatori alle leggi e due ex avogadori di comun: silenzio che non significa probabilmente un rifiuto senza appello, bensì l'intenzione di rimandare la valutazione a tempi più maturi, ossia a quando, secondo l'opinione di Michele Foscarini, la Serenissima Signoria esercitasse saldamente la sua autorità su tutto il territorio, fosse già stato operato il riassetto della proprietà fondiaria, e regnasse la pace, con i nemici esterni e con quelli interni (205). Nel frattempo ci si sarebbe limitati a regolare con decreti, o "terminazioni", e sentenze le materie che lo richiedessero. Non era affatto sufficiente, faceva notare nella sua relazione conclusiva, del 1701, Francesco Grimani, che aveva retto con grandissimo impegno la carica di provveditore generale del regno di Morea dal 1698:
Manca il Regno di Statuto, e servono li giuditii quasi di norma al giudicare. Erano [i Greci] avezzi a vedere anche sotto i Turchi risolte con summaria decisione le differenze loro, e mal soffrono il dispendio e le lunghezze nel terminarle. Saria di loro molto piacevole che vi fosse uno Statuto ridotto alla magior brevità, con il metodo più facile e con le tariffe sopra ogni atto. Lo accenno a Vostra Serenità per scarico del mio dovere; anzi parmi che al magistrato eccellentissimo dei conservatori [sopra le leggi] vi sia union di lumi trasmessi dagli eccellentissimi sindici catasticatori. Se non vi fusse saria agevole il farlo, raccogliendo le terminazioni e sentenze dell'eccellentissimi sindici stessi e d'ogni altra carica superiore o subordinata ch'additar potessero la qualità de' casi et emergenti.
I "lumi", per usare l'espressione piuttosto ellittica del Grimani, erano gli Statuti, di cui una copia era a Venezia, presso i conservatori sopra le leggi, un'altra certamente in Morea presso i sindaci catasticatori. Disponibili erano "terminazioni e sentenze". Si poteva senz'altro accogliere il consiglio dell'ex provveditore generale. Il nuovo corpo normativo, costituito dagli Statuti del 1689, ripuliti nella forma, così da renderli più agili e chiari, rimaneggiati nel contenuto, eliminando talune parti pletoriche e modificandone altre, integrati con l'aggiunta delle più importanti "terminazioni" e sentenze prese dall'inizio della conquista, entrava in vigore nel 1704 per decisione dei sindaci allora in carica: esso recava un titolo scevro dalla passata magniloquenza, Alcune leggi e terminazioni per Morea (206). In ogni caso: bastavano le leggi per risolvere i problemi che il governo della Morea presentava sempre più gravi, per rimediare agli errori che si erano fatti all'inizio, quando il potere era nelle mani di entusiasti come Giacomo Corner? A veder del provveditore generale Grimani, che pur velava le sue critiche di una sapiente cautela, avevano avuto cattivo esito il gran largheggiare di privilegi alle città, le iniziative per incrementare la popolazione, e quelle per vitalizzare il commercio. Il Grimani salvava quanto si era fatto per l'agricoltura. Angelo Emo, che avrà la stessa carica dal 1705 al 1708, salverà invece la politica ecclesiastica. Per il resto, un disastro: compresa la catasticazione dei terreni, ancora incompiuta e anzi lungi dalla conclusione (quel che ne rimane è in realtà assai bello ed interessante), e la concessione a privati di terre già appartenenti ai Turchi, e l'aver cercato di imporre l'ordine con leggi e sistemi giudiziari sconosciuti; per non parlare dell'aver riversato sulla Morea troppi nobiluomini veneziani col ruolo di pubblici rappresentanti, ciascuno col suo seguito di piccoli burocrati. Errati i princìpi informatori dell'azione di governo. Come il proposito di sollevare una popolazione rimasta per secoli schiacciata sotto un dominio livellatore quale il Turco, favorendo l'affermarsi di ceti ricchi e influenti sull'indiscriminata povertà altrui, suscitando così ambizione e protervia negli uni, mortificazione e risentimento negli altri, errato il proiettare su un paese che non lo attendeva, e che non lo richiedeva, usi e mentalità di una civiltà evoluta, ed involuta, come la veneziana (207).
L'ultimo sussulto di guerra lo si avrà il 20 settembre 1698 sul mare di Metelino (Lesbo), presso i Dardanelli, tra flotta turca e flotta veneta. "Un combatto [...] breve, vicino e feroce, e perciò sanguinoso", lo definiva con un empito di ridondante fierezza il comandante veneto, Daniele Dolfin. Un "combatto" ad alterne fortune, che comunque per il Dolfin costituiva un grande successo, perché laddove alla fine i Veneti erano riusciti a tenere il mare, i Turchi avevano preferito riparare sotto costa. Il senato non si era discostato dall'euforia del Dolfin, e aveva voluto dare notizia dello scontro a tutte le corti, affinché non ci si scordasse che sul mare la Repubblica di Venezia era all'altezza delle sue più splendide tradizioni. Decisioni sbagliate, tanto quelle del Dolfin che aveva voluto affrontare il Turco, quanto, e ancor più, quella del senato, che aveva voluto dare al fatto simile pubblicità, osservava con molta franchezza un diplomatico autorevole come Carlo Ruzzini: perché così si giustificavano le voci malevole, diffuse dai Turchi, raccolte dagli Imperiali, che la Repubblica continuava a pensare alla guerra, non alla pace, proprio mentre si stava trattando la pace, e lui, Carlo Ruzzini, era al tavolo delle trattative, impegnato a strappare dai nemici, e da amici ancor più insidiosi dei nemici, le migliori condizioni per la Serenissima Signoria (208).
Sembrava di respirare qualche aura di pace. La guerra tra Luigi XIV e la lega d'Augusta era giunta al termine. Già nell'ottobre del 1696, quando Vittorio Amedeo II si era impegnato con Luigi XIV alla neutralità, si era stabilita anche con gli Spagnoli una sospensione d'armi in Italia. Saranno tre i trattati di pace che si firmeranno a Ryswyck, un castello nei pressi dell'Aia. Il 20 settembre 1697 sarà la volta di quello tra il re di Francia e le Province Unite d'Olanda e dell'altro tra lo stesso re e Guglielmo III di Gran Bretagna. Il 20 ottobre toccherà al trattato che si prospettava più complesso, quello tra Luigi XIV e l'imperatore Leopoldo I d'Asburgo: il punto nodale consisteva nella rinuncia francese alle "riunioni" effettuate, eccetto quelle in Alsazia, mentre Leopoldo I doveva cedere al re Strasburgo. Una guerra senza vincitori né vinti, è stato detto: una pace in attesa che la successione al trono spagnolo rimettesse sul tappeto le sorti d'Europa, e dell'Italia in particolare (209).
La pace di Ryswyck non poteva che spianare la strada alla conclusione della guerra tra la Sacra lega e la Porta ottomana: conclusione che avverrà infatti agli inizi del 1699 in virtù della pace di Carlowitz, cittadina della Slavonia, sulla sponda orientale del Danubio.
A Carlowitz il grande trionfatore sarà l'Impero asburgico, potenza ormai dispiegata tra Europa centrale ed orientale. Sua l'Ungheria, sua la Transilvania già in suo possesso, sue Croazia e Slavonia. L'Impero sapeva che sarebbe uscito così bene dalla guerra, che l'imperatore Leopoldo I, pur di mettervi presto fine, aveva lasciato al sultano Mustafà II il banato di Temesvar, la città di Belgrado, e altro (210). Oltre a concedere terre, e ad abbattere boschi, scriveva da Carlowitz il plenipotenziario veneto Ruzzini, Leopoldo I aveva autorizzato la distruzione di "molti luochi, che circondavano da vicino la piazza di Temesvar, e custodivano anco le frontiere della Croatia e della Bossina". Altrettanto avevano fatto due degli alleati, lo zar di Russia e il re di Polonia - a quest'ultimo i Turchi avevano riconosciuto il diritto sulla Podolia e sull'Ucraina occidentale (211).
Precedenti imbarazzanti per Venezia, che non era disposta a fare altrettanto. Gli Ottomani dicevano di non contestare la conquista della Morea e dell'isola di Leucade, o Santa Maura. Pretendevano però che il confine del Dominio veneto in Morea fosse costituito dalle vestigia dell'antica muraglia detta dell'Essamiglio, affinché restassero a loro i monti che separavano la penisola moreota dalla Megaride. Richieste cui se ne aggiungevano altre di pari rilevanza, che fosse evacuata dalla Repubblica la fortezza di Lepanto, e che si distruggessero la fortezza di Prevesa e il castello di Rumelia. In sostanza, la Serenissima avrebbe dovuto rinunciare ai luoghi che le garantivano la difesa della più preziosa delle sue conquiste, la Morea. I Turchi ponevano l'accettazione di dette richieste come condizione per continuare i negoziati: essi potevano irrigidirsi, in quanto capivano che Imperiali e Polacchi avevano fretta di concludere, e preferivano a questo punto dimostrarsi accondiscendenti con i Turchi piuttosto che solidali con i Veneziani. La dimostrazione essi la davano sottoscrivendo sollecitamente il loro trattato di pace con la Porta il 26 gennaio 1699. Né si erano limitati a questo, riferiva amareggiato il plenipotenziario veneziano Carlo Ruzzini: i "Cesarei", ossia i rappresentanti dell'Impero, "et il Polacco s'arrogarono la facoltà e l'incombenza di firmar in quell'istesso giorno l'istromento dei 16 articoli", cioè la bozza di pace tra la Signoria e Impero ottomano, prima che fosse giunta da Venezia la definitiva approvazione. La ratifica da parte del doge avveniva infatti solo più di dieci giorni dopo, il 7 febbraio. A Carlowitz il trattato era sottoscritto da Carlo Ruzzini il 21 di quello stesso mese.
Il trattato di Carlowitz riconosceva alla Serenissima Signoria la Morea, le sette isole Ionie compresa Santa Maura, le due fortezze cretesi di Suda e Spinalonga, Butrinto e Parga sulla costa epirota, Cattaro, Castelnuovo e Risano su quella dalmata, e nell'entroterra dalmata, le fortezze di Knin, Sign, Cithuk, Gabelli: nonché le isole di Egina e Tinos nell'Egeo (212). Importante in particolare il rafforzamento nella Dalmazia; perché questo bilanciava in qualche modo il rafforzamento ancora più grande che aveva ottenuto alla sommità dei Balcani l'Impero asburgico, con il contributo proprio di quella Repubblica di Venezia che per secoli aveva auspicato che la sua espansione fosse fermata da prìncipi locali, con l'appoggio degli stessi Turchi (213). Era andata bene per Venezia, ha commentato Kenneth M. Setton: tenuto conto che - egli l'aveva osservato in precedenza - il successo veneto in Morea era dovuto in buona parte ("very largely") ai ben più grossi successi che nella guerra avevano conseguito gli Imperiali, i quali avevano impegnato in Ungheria e in Transilvania le migliori truppe turche (214). Giudizio che troverà conferma nelle vicende successive della Morea, quando la Serenissima Signoria si troverà da sola a sostenere il contrattacco ottomano.
"Se uno spirito di carità non regola le menti di chi governa quel paese nello stato in cui si trova non v'è per esso luogo a salute", scriveva lugubremente l'ex provveditore generale in Morea Angelo Emo, quasi sul finire della sua relazione (215). Si era nel gennaio del 1709. Non erano passati cinque anni che la previsione si verificava, i nodi degli errori di governo e della debolezza militare da parte veneta, della volontà di rivincita da parte turca venivano al pettine.
La Serenissima Signoria conosceva bene il Turco, e sentiva che il contrattacco era nell'aria. Il casus belli i Turchi lo troveranno a sud della Dalmazia, in Montenegro, il fronte che sembrava esser rimasto un po' in ombra nelle precedenti guerre della Repubblica col Turco, ma la cui importanza era emersa chiaramente dopo la pace di Carlowitz. Lo ricordava con grande chiarezza Alvise Mocenigo, che era stato provveditore generale di Dalmazia e Albania dal 1696 al 1703. La Dalmazia, egli scriveva,
quantunque ristretta al solo littorale fu sempre considerata antemurale della libertà, fondamento al dominio del mare; poiché se l'Italia opposta non stende nell'acque che spiagge, e più di pericolo che di ricovero, apre questa frequentisimi i porti della navigazione, assicura il commercio, signoreggia il golfo. Al presente, che con l'estensione di nuovi acquisti si avvicina ai monti, e che con la benedizione di lunga pace può riempirsi di sudditi cresce in preggio, e se le può giustamente dar loco fra le più preziose gioie della Reggia Corona di vostra Serenità, e viene rimirata con invidiose puppille dalle Potenze confinanti.
Il Mocenigo non si nascondeva i problemi che gravavano su tutto quel territorio. Le ambizioni espansionistiche degli Imperiali; l'aggressività sempre incombente dei Turchi; l'irrequietudine della repubblica di Ragusa, sorta di longa manus turca, insinuata tra Dalmazia e Montenegro... (216). Ma qualche anno dopo si farà sentire una presenza nuova, destinata ad avere d'ora in poi un ruolo primario nei Balcani, a causa dei legami religiosi che l'accomunavano a gran parte della popolazione - la religione greco-ortodossa - e degli interessi geo-politici di cui tali legami erano strumento, ossia la presenza russa. Nel 1710 lo zar Pietro il Grande aveva mosso guerra alla Porta ottomana. "Evento significativo nella storia del Sud-est europeo", lo definisce Domenico Caccamo. Non tanto di per sé - la guerra si concluderà nel 1711 con la sconfitta russa - quanto perché essa coinvolgeva anche le popolazioni greco-ortodosse dei Balcani. Erano state loro ad invocare la protezione dello zar: lo zar ne aveva accolto l'invocazione, mandando al vescovo Danilo del Montenegro un proclama con cui si invitavano i cristiani (ma evidentemente ci si rivolgeva in particolare ai greco-ortodossi) a sollevarsi contro l'Islam. Per avere possibilità di riuscita l'insurrezione avrebbe dovuto essere appoggiata dalla Repubblica di Venezia. Cosa di cui a Venezia vedevano tutti i rischi: la popolazione dei propri territori contagiata da quella vena di ribellione; e i Turchi che avrebbero tratto dall'intesa della Repubblica con lo zar il motivo per attaccarla (217). Non c'era stata intesa, piuttosto un atteggiamento ambiguo, tra la connivenza e il diniego. Ma ai Turchi sarebbe bastato ugualmente per prendere l'iniziativa di attaccare.
Nel 1714 uno dei capi della rivolta antiturca del Montenegro, il vladika Gikan, aveva cercato riparo dalla reazione turca rifugiandosi a Cattaro, sotto la protezione della Repubblica. Era una violazione delle promesse fatte alla Porta di non dar rifugio ai ribelli, accusavano subito i Turchi. Tra questo fatto e altre offese recate ai Turchi sul mare da vascelli veneti ce n'era abbastanza per dichiarare guerra alla Serenissima Signoria il 14 dicembre 1714 (218).
Secondo quanto scriveva nell'ottobre del 1711 l'ambasciatore inglese alla Porta sir Robert Sutton, la Serenissima Signoria aveva cercato di concertare con la Francia qualche accorgimento, o qualche mossa, capace di riattizzare il conflitto tra la Porta e l'Impero asburgico, e di distrarre l'attenzione del Turco dalla Morea (219). Ma i Turchi volevano proprio la Morea, sapevano che non sarebbe stato difficile. Il primo successo il Turco lo otteneva nell'Egeo, conquistando nel giugno del 1715 l'isola di Tinos, che la Repubblica aveva ricevuto dalla pace di Carlowitz: non c'era praticamente lotta, il provveditore veneto Teodoro Balbi si arrendeva subito. Quasi contemporaneamente l'esercito ottomano penetrava in Morea. Cadevano uno dopo l'altra Corinto, Argos, Nauplia. Nell'agosto era la volta del castello della Morea, indi delle fortezze di Navarino e di Modone, e poi di Monemvasia. A sud della Morea venivano prese le isole di Cerigo e di Cerigotto, e, nell'isola di Creta, i luoghi di Suda e Spinalonga. Erano bastati poco più di cento giorni per chiudere i conti con la Morea veneta (220).
La rapidità con cui i Turchi facevano cadere la Morea spaventava l'Europa. Non ci si preoccupava solo a Vienna, dove, alla corte dell'imperatore Carlo VI, ci si era domandato - era la primavera del 1 715 - se non fosse opportuno placare la Porta offrendo la propria mediazione tra essa e la Serenissima Signoria. Nel giugno del 1715 l'ambasciatore inglese a Costantinopoli sir Robert Sutton tentava, d'intesa con l'ambasciatore delle Province Unite Giacomo Colyer, di fare al Turco un'analoga proposta. Tutto inutile, scriverà a Londra, i Turchi non recedevano dalla loro intenzione di ricuperare tutto quello che avevano ceduto ai prìncipi cristiani (221).
Era il papa Clemente XI ad intervenire, nella forma tradizionale alla Sede Apostolica, cioè richiamando i soliti grandi sovrani, il re di Francia (Luigi XIV moriva nel 1715, gli succedeva il nipote Luigi XV, sotto la reggenza, data la sua età infantile, di Filippo d'Orléans), il re di Spagna Filippo V e l'imperatore Carlo VI d'Asburgo, a ritrovare la loro unità di prìncipi cristiani per affrontare il nemico ottomano, che stava dimostrando ancora la sua potenza e la sua incontenibile volontà di espansione. Non era un compito facile. La guerra di successione spagnola aveva lasciato divisioni profonde. Le paci di Utrecht e di Rastadt, rispettivamente del 1713 e del 1714, con cui essa si era conclusa, le avevano sancite, anziché ricomporle: il trono di Spagna, già degli Asburgo, era passato a un principe di casa Borbone, Filippo d'Angiò, nipote di Luigi XIV, seppure con l'impegno di rinunziare definitivamente alla successione nel regno di Francia, ossia alla possibilità di unire le due corone su un'unica testa. Gli Asburgo dell'Impero ottenevano in Italia territori già sotto dominio spagnolo come i regni di Sardegna e di Napoli e il ducato di Milano, ingrandito con il ducato di Mantova, nonché a nord-ovest i Paesi Bassi spagnoli. Una novità il trattato di Utrecht la riserbava all'infaticabile e accortissimo Vittorio Amedeo II di Savoia: gli si assegnava la Sicilia con il tanto sognato titolo regio (222). Mentre per la Repubblica, che non riusciva neppure ad ottenere il risarcimento dei danni che aveva patito a causa delle ostilità, Utrecht costituiva una ulteriore prova della sua emarginazione (223).
Compito difficile, dunque, organizzare una nuova, grande lega, in cui, sotto l'egida pontificia, grandi prìncipi si sarebbero uniti ai minori per difendere la cristianità. Clemente XI aveva ottenuto anzitutto che i grandi si dessero reciproche garanzie: in sostanza il re di Francia e il re di Spagna non avrebbero approfittato del fatto che l'Impero stava fronteggiando ad oriente il Turco per attaccarlo in Italia. Da una simile lega la Repubblica di Venezia, che ne sarebbe stata l'immediata beneficiaria, non poteva ovviamente restar fuori: essa assicurava l'imperatore Carlo VI che sarebbe corsa a difendere Napoli qualora fosse stata attaccata o dal re di Spagna o dal Turco (224).
Eugenio di Savoia, il vincitore di Zenta, non perdeva tempo, mandava subito alla Porta un ultimatum: se non avesse assunto immediatamente formale impegno a rispettare quanto disponeva la pace di Carlowitz e a restituire alla Repubblica di Venezia i territori che le aveva appena tolto, l'esercito asburgico da lui comandato sarebbe passato all'offensiva. Cosa che avverrà puntualmente nel luglio del 1716. I due eserciti, l'asburgico e l'ottomano, si scontreranno ai primi di agosto a Petervaradino, poco a nord del Danubio. Eugenio di Savoia avrà il sopravvento, con una grande vittoria che gli aprirà la strada per la conquista di Temesvar, o Timisoara, tra le alpi transilvane e il Danubio, poi di Belgrado, dove entrerà il 22 agosto 1717.
La risposta del Turco era arrivata di fatto, quasi contestualmente. Nel luglio del 1716 la Porta ordinava al pascià Djanum Khoja Mehemed di sbarcare a Corfù. Se le fosse riuscito di prendere l'"antemurale" d'Italia, le porte dell'Adriatico e della penisola gli si sarebbero schiuse, permettendole di prendere poi l'Impero asburgico di spalle. Così, quanto aveva scritto nel 1674 Andrea Valier alla Signoria veniva smentito: le truppe turche erano numerose, eppure riuscivano ad assestarsi nell'isola, per muovere all'attacco della fortezza che appariva negletta da qualche tempo. Si era riproposta l'urgente necessità di danari, e Venezia tornava a ricorrere al metodo ormai consueto, la concessione dell'aggregazione alla propria nobiltà in virtù del versamento di una grande somma di danaro alle casse del veneto erario (225). Questa volta a sostegno della Repubblica c'era effettivamente quel po' di lega che Clemente XI era riuscito a metter insieme: le sue navi dovevano riunirsi anziché a Brindisi e Otranto, come ipotizzava a suo tempo il Valier, dalla parte opposta della penisola, a Civitavecchia; ed erano in ritardo. La situazione sarà salvata dal conte Matthias Johannes von Schulenburg, un generale sassone entrato al servizio della Serenissima Signoria. Le truppe turche sbarcate venivano respinte in mare: lo Schulenburg, con la collaborazione del capitano generale da mar Andrea Pisani che, dopo un cattivo debutto, stava dando prove del suo valore, giungerà a prendere, o riprendere, Santa Maura e Butrinto, poi Prevesa e Vonitza (226).
Il legame antiturco sembrerà spezzarsi quando si diffonderà la voce che Filippo V di Spagna, anziché congiungere la sua flotta con le altre della lega per andare contro il Turco, meditasse di volgersi verso l'Italia per attaccare l'Impero. A Londra, ai primi di agosto del 1718, si era formata contro di lui una "quadruplice" alleanza, con la partecipazione di Carlo VI d'Asburgo, Luigi XV di Francia e Giorgio I d'Inghilterra (il quarto collegato, le Province Unite d'Olanda, avrà una parte trascurabile). L'alleanza doveva intervenire quando Filippo V di Spagna mandava la sua flotta a riprendere la Sicilia. Si era nel giugno del 1718: nell'agosto del 1720 Filippo V era costretto a ritirarla. Anche la Sicilia passerà all'Impero asburgico. Il duca di Savoia avrà il regno di Sardegna in luogo di quello di Sicilia (227).
Minaccioso rioscurarsi della situazione europea. Si conclude la guerra antiturca con la pace di Passarowitz del 1718. Grandi vantaggi per l'Impero asburgico. La Morea al Turco. Limite definitivo dell'espansione veneta. Il duca di Savoia, divenuto re di Sicilia, succede alla Repubblica come principe italiano
Era stato necessario che Impero asburgico e Repubblica di Venezia ponessero fine alla guerra contro l'Impero ottomano, dimenticandosi di Carlowitz e dell'ultimatum inviato da Eugenio di Savoia ai Turchi. Il trattato di pace sarà firmato a Passarowitz il 21 luglio 1718. L'Impero asburgico riceveva il banato di Temesvar, con i territori occidentali di Valacchia e Serbia, compresa Belgrado, e inoltre buona parte della Bosnia. Quanto alla Repubblica, conservava i luoghi della Dalmazia già detenuti sulla base dell'uti possidetis e, nello Ionio, Santa Maura con le roccaforti costiere di Butrinto e Parga, Prevesa e Vonitza. Perdute le isole di Tinos e Egina, perduta la Morea (228). Perdita dolorosa e mortificante, quest'ultima: non solo perché segnava la fine di un sogno antico (sulla Morea ci si illuderà ancora nella seconda metà del secolo, sperando di riaverla non già per conquista, bensì in virtù di una favorevole congiuntura politico-diplomatica), ma per il modo con cui la si era perduta, rivelatore della profonda crisi di strutture militari e di governo venete, e il conseguente fallimento del rapporto con la popolazione greca che aveva preferito il ritorno del Turco (229).
Carlo Ruzzini era stato ambasciatore della Repubblica a Carlowitz, Utrecht e Passarowitz. Il compito più difficile l'aveva svolto a Utrecht, dalle cui trattative la Repubblica era rimasta esclusa, proprio mentre vi si decidevano le sorti d'Italia. La relazione che il Ruzzini presentava alla fine era una critica severa, amara, della politica seguita dal 1630 in poi. La politica della neutralità; la politica timida e ambigua, dettata dal timore della Francia; la politica che tanto aveva criticato Alvise di Tommaso Contarini all'epoca della pace di Vestfalia... A Venezia, tutti concentrati sul Levante, si era sottovalutata l'importanza dell'Italia, e il fatto che la Repubblica era un principe italiano. L'antico equilibrio su cui si reggeva la penisola era stato sconvolto, e non ci si poteva nascondere, insisteva il Ruzzini, quali conseguenze ne discendessero:
Che l'Imperatore e la Casa Austriaca di Germania [...] sia nel possesso dei due pretiosissimi stati, Napoli e Milano, e che nello stesso tempo un altro principe naturale della Provincia, come il duca di Savoia, cresca in dignità et potenza con l'ampliatione de molti altri stati, sono due novità grandi in se stesse ed alle quali possono forse succedere nuove congiunture per renderle maggiori.
Gli altri prìncipi italiani ne erano ben consapevoli, ed erano preoccupati per l'emarginazione in cui si era collocata la Repubblica. Lo avevano dichiarato al Ruzzini i loro rappresentanti a Utrecht, "rammemorando le antiche glorie ed impegni per la libertà universale" della Serenissima Signoria, insieme alla stima che continuavano a serbare nei suoi confronti, per la sua prudenza, per il suo potere. Il Ruzzini ne prendeva lo spunto per impartire ai senatori veneti una lezione di politica:
Riflettevano ch'ogn'uno amonito et eccitato dall'esperienza dovrebbe troncar le consuete riserve, pensar sotto titoli modesti, giusti e necessari, senza direttamente offender alcuna potenza, a quelle intelligenze ed unioni, che potrebbero meter in miglior rispetto e riputatione li prìncipi italiani. Non dover finalmente mancar né volontà, né coraggio, né modo, quando si tratta della grandezza e della libertà; ch'il dissimular o il coltivar non giova per moderar i passi di chi si sente gl'impulsi dell'avidità di sempre maggior dominio [...].
Era un nuovo riferimento, eloquente, al duca di Savoia, ora re di Sicilia: indiscutibilmente il primo tra i prìncipi italiani (230).
A Venezia la conclusione di questo lungo periodo di travagli bellici coincideva con il venir meno dello spettacolo che più aveva appassionato la città, e che era emblematico della violenza che l'aveva caratterizzata per tutto il secolo: finivano cioè le guerre dei pugni, o "battagliole", che avevano visto i rappresentanti delle grandi fazioni in cui essa si divideva, i "Castellani" e i "Nicolotti", lottare accanitamente per conquistare la sommità dei ponti posti in palio - il consiglio dei dieci riusciva finalmente a decretarne la fine, cosa che aveva tentato vanamente nel secolo passato (231). Anche la piaga dei "bravi", che aveva non poche connessioni con le guerre dei pugni, dato che molti dei lottatori erano reclutati tra le loro fila, andava via via riducendosi (232). Procedevano ormai in armonia le relazioni tra lo Stato e la Chiesa, di lì a non molto un altro papa veneziano, Carlo Rezzonico, si sarebbe insediato sul soglio di Pietro col nome di Clemente XIII (233).
Un secolo era trascorso anche da quando il movimento dei nobili poveri guidato da Renier Zeno aveva innescato la crisi dell'aristocrazia veneta. La situazione ora sembrava ricomposta, seppure in un equilibrio incerto, con le solite sacche di nobiluomini immobilizzati in una povertà cui non si aprivano altri spiragli che la rassegnazione e l'assistenza pubblica, e con i nuovi nobili che si erano aggiunti numerosi, fiduciosamente fieri di appartenere a un'aristocrazia che invece riluttava ad inserirli da pari a pari nel proprio ambito. Essi costituivano pur sempre un'anomalia, cui molti dei vecchi nobiluomini stentavano a rassegnarsi. Le aggregazioni, lamentava nel 1720 uno autorevole quale Piero Garzoni, erano state "un infrangimento delle sacre porte del maggior consiglio" (234).
In realtà, con il fallimento dell'impresa di Morea era venuta allo scoperto più brutalmente che mai quella crisi del rapporto tra le istituzioni e l'aristocrazia, e insieme della antica, gloriosa, ma ormai inadeguata cultura di governo, di cui abbiam detto all'inizio. Chi scriverà d'ora in avanti non saranno solo descrittori delle difficoltà della Repubblica, come gli autori della cosiddetta letteratura dell'"antimito", ma nobiluomini di grande esperienza, come un Nicolò Donato o un Giacomo Nani, i quali cercheranno altresì di proporre delle riforme (235).
1. Lo scrittore contemporaneo è Ludovico Zuccolo, Dialoghi [...] ne' quali con varietà d'eruditione si scoprono nuovi e vaghi pensieri filosofici, morali e politici, Venezia 1625, pp. 146 ss. La definizione di "secolo di ferro" si deve a Henry Kamen, The Iron Century. Social Change in Europe 1550-1660, London 1971 (trad. it. Il secolo di ferro 1550/1660, Roma-Bari 1977), il quale si pone il problema della crisi alle pp. 307-330. L'opera base sulla crisi è Crisis in Europe 1560-1660, a cura di Trevor Aston, con introduzione di Christopher Hill, London 1965 (trad. it. Crisi in Europa, Napoli 1968); successivamente è uscita un'altra raccolta di saggi, The General Crisis of the Seventeenth Century, a cura di Geoffrey Parker-Leslie M. Smith, London 1978 (trad. it. La crisi generale del XVII secolo, Genova 1988). Saggi apparsi in Crisis in Europe sono stati pubblicati in traduzione italiana in Le origini dell'Europa moderna. Rivoluzione e continuità, a cura di Mario Rosa, che vi ha premesso un'ampia introduzione, Bari 1977. L'opera di José A. Maravall è La cultura del barroco. Analisis de una estructura historica, Barcelona 1975 (trad. it. La cultura del Barocco. Analisi di una struttura storica, Bologna 1985): cf. in partic. p. 285, sulla valenza eversiva della vendita dei titoli nobiliari; quella di Lucien Febvre è Notes et documents sur la Réforme et l'Inquisition en Franche-Comté, Paris 1912, p. 152 (l'altra opera del Febvre cui Si fa riferimento è Le problème de l'incroyance au XVIe siècle. La religion de Rabelais, Paris 1942 [trad. it. Il problema dell'incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais, Torino 1978]).
2. Hugh Trevor-Roper ha ripubblicato il suo saggio già edito in Crisis in Europe nel suo volume The Crisis of the Seventeenth Century. Religion, Reformation and Social Change, London 1968 (trad. it. Protestantesimo e trasformazione sociale, Roma-Bari 1975); Alexandra D. Lublinskaya, French Absolutism: the Crucial Phase 1620-1629, Cambridge 1968, pp. 4-102. Cf. poi John H. Elliott, Rivoluzione e continuità agli albori dell'Europa moderna, in Le origini dell'Europa moderna. Rivoluzione e continuità, a cura di Mario Rosa, Bari 1977, p. 33 (pp. 33-62); Rosario Villari, Rivolte e coscienza rivoluzionaria nel secolo XVII, "Studi Storici", 12, 1971, pp. 235-264, in partic. pp. 231 ss., 237, 242-249; Christopher Hill, Intellectual Origins of the English Revolution, Oxford 1965 (trad. it. Le origini intellettuali della rivoluzione inglese, Bologna 1976), in partic. pp. 11-13; M. Rosa, introduzione a Le origini, p. 18. Gran parte della storiografia "politica", ha osservato M. Rosa, "ha contribuito a dissolvere il dibattito sulla ῾crisi generale del '600' in quello ben più lato [...] delle ῾precondizioni' o ῾cause' della rivoluzione".
3. Cf. i contributi di Gino Benzoni, Carmelo Alberti, Giovanni Morelli, Lionello Puppi - Ruggero Rugolo, Marino Zorzi, Ivo Mattozzi, Luciano Pezzolo, Ugo Tucci in questo volume.
4. Sulla partecipazione del Sarpi alla rivoluzione scientifica di questo periodo è fondamentale il recentissimo volume Paolo Sarpi. Pensieri naturali, metafisici e matematici, ediz. critica integrale commentata a cura di Luisa Cozzi - Libero Sosio, Milano 1996. Sull'attività di Galileo Galilei tra Venezia e Padova, cf. Gaetano Cozzi, Paolo Sarpi, Galileo Galilei e la società veneziana, Torino 1979, e per la storia di questo periodo, cf. Id., Venezia dal Rinascimento all'Età barocca, nel vol. VI di questa Storia di Venezia, pp. 12-16, 34-36, 52-54, 58, 112 (pp. 3-125). Ma si v. poi Antonio Menniti Ippolito, "Sudditi d'un altro Stato"? Gli ecclesiastici veneziani, in questo stesso volume e, dello stesso, Politica e carriere ecclesiastiche nel secolo XVII I vescovi veneti fra Roma e Venezia, Bologna 1993.
5. Cf. la bibl. indicata nel contributo di Laura Megna in questo stesso volume.
6. V. di Sergio Zamperetti, oltre al contributo a questo volume, I piccoli principi. Signorie locali, feudi e comunità soggette nello Stato regionale veneto dall'espansione territoriale ai primi decenni del '600, Venezia 1991.
7. Su corruzione, concussione, "intacchi", ecc. cf. Gaetano Cozzi, Giustizia "contaminata". Vicende giudiziarie di nobili ed ebrei nella Venezia del Seicento, Venezia 1996, pp. 58 ss.
8. Andrea Da Mosto, I bravi di Venezia, Milano 1950, pp. 62, 96, 109; Gaetano Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 182-183.
9. G. Cozzi, Repubblica di Venezia, p. 169.
10. Id., Venezia barocca. Conflitto di uomini e idee nella crisi del Seicento veneziano, Venezia 1995, pp. 185 ss. Delle vicende del terzo decennio del Seicento si fa cenno pure in Id., Venezia dal Rinascimento, pp. 110-111.
11. Su Zuan Antonio Venier e la sua opera, tuttora inedita, e sulla lettera di Isaac Wake a George Conway, cf. Id., Venezia barocca, pp. 185 n. e 211 n. Sull'uso del termine "rivoluzione" cf. quanto scrive, alla voce corrispondente, Salvatore Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, XVI, Torino 1992, pp. 1087-1088 (pp. 1087-1091): tra i contemporanei del Venier viene citato l'uso di "rivoluzione" fatto da Sarpi. Cf. pure quanto scrive a proposito dell'uso di "rivoluzioni" in questa accezione politica il professor Karl Griewank, cit. dal J.H. Elliott, Rivoluzione e continuità, pp. 40-41. Sulla gravità della frattura tra ricchi e poveri all'interno dell'aristocrazia veneta, è da vedere quanto scriveranno Nicolò Donato, Rivolgimenti politici, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2586, c. 22; e Giacomo Nani, Discorsi sul governo della Repubblica di Venezia, in Padova, Museo Civico, ms. C.M. 125, c. 125, discorso nr. XXVI sui "danni che derivano dalla cattiva distribuzione della ricchezza nella Repubblica" (cf. Piero Del Negro, Giacomo Nani. Appunti biografici, "Bollettino del Museo Civico di Padova", 60, 1971, pp. 115-122).
12. G. Cozzi, Venezia barocca, pp. 381-402. Sul prorompere di grandi personalità sullo scenario politico veneto cf. il contributo a questo volume di Piero Del Negro, e Guido Candiani, Conflitti di intenti e di ragioni politiche, di ambizioni e di interessi nel patriziato veneto durante la guerra di Candia, in corso di stampa per "Studi Veneziani". Sono emblematici i medaglioni a tutto sbalzo raccolti da Pompeo G. Molmenti, Curiosità di storia veneziana, Bologna 1919.
13. G. Cozzi, Giustizia "contaminata", pp. 17-26 e 125-128.
14. Oltre al contributo di Donatella Calabi a questo volume, si v. G. Cozzi, Giustizia "contaminata", pp. 75-76.
15. G. Cozzi, Giustizia "contaminata", pp. 68-71. Quanto alle "maniche larghe", Giulio Bistort, Il magistrato alle pompe nella Repubblica di Venezia. Studio storico, Venezia 1912, pp. 125-126, si limita a un rapido cenno sui risvolti suntuari delle maniche "larghe" e "a comeo", senza dir nulla del grado di distinzione politica di cui erano simbolo, né della vicenda del 1636.
16. Le leggi sulle "correzioni" sono in Novissimorum Statutorum a venetarum legum, Venetiis 1729, pp. 183-220.
17. G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 194-195.
18. Id., Giustizia "contaminata", pp. 17-24.
19. Ibid., premessa e pp. 125-128; la storia delle "correzioni" dal 1640 al 1677 è stata da me narrata in Repubblica di Venezia, pp. 193-216. Mi sia consentito fare un unico rinvio a quel lavoro cui mi atterrò nelle pagine che seguono.
20. Id., Repubblica di Venezia, p. 195.
21. Ibid., la traduzione è mia.
22. Sul Sagredo, cf. G. Candiani, Conflitti di intenti.
23. Su Valier, ibid.
24. G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 208-216.
25. Id., Giustizia "contaminata", p. 128.
26. Id., Repubblica di Venezia, pp. 334-339.
27. Cf. il contributo di Alberto Tenenti in questo volume.
28. James C. Davis, The Decline of the Venetian Nobility as a Ruling Class, Baltimore 1962, pp. 107-108. V. di Piero Del Negro, oltre al suo contributo a questo volume, Forme e istituzioni del discorso politico veneziano, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 426-427 (pp. 407-436). Sulle difficoltà di inserimento delle famiglie neo-aggregate nella vita politica cf. Roberto Sabbadini, L'acquisto della tradizione. Tradizione aristocratica e nuova nobiltà a Venezia, Udine 1995, pp. 33 ss.
29. Andrea Zannini, Burocrazia e burocrati a Venezia in età moderna: i cittadini originari (sec. XVI-XVIII), Venezia 1993, pp. 285-287. V. il contributo dello stesso a questo volume. Sul "modello borghese" cf. Gaetano Cozzi, Note su Carlo Goldoni, la società veneziana e il suo diritto, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", classe di scienze morali, lettere ed arti, 137, 1978-1979, pp. 147-149 (pp. 141-157). Giudizi aspramente negativi sullo stato della cancelleria inferiore sono formulati dal capo di tutta la cancelleria, il cancellier grande Giovan Battista Padavin, nel corso di un processo celebrato presso l'inquisizione di stato nel terzo decennio del Seicento (Id., Giustizia "contaminata", pp. 111-112, e in partic. A.S.V., Inquisitori di Stato, 1053, V, cc. 180-183).
30. V. il contributo a questo volume di Matteo Casini, il quale ha anche pubblicato I gesti del principe. La festa politica a Firenze e Venezia in età rinascimentale, Venezia 1996.
31. Franco Gaeta, Venezia da "stato misto" ad aristocrazia "esemplare", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, p. 451 (pp. 437-494); cf. poi Marco Foscarini, Della letteratura veneziana, Venezia 1854, pp. 346-347.
32. John P. Cooper, La caduta della monarchia Stuart, e Ernst H. Kossmann, I Paesi Bassi, in Storia del mondo moderno, IV, La decadenza della Spagna e la Guerra dei Trent'anni 1610-1648, a cura di John P. Cooper, Milano 1971, rispettivamente pp. 642 ss. (pp. 619-685) e pp. 418 ss. (pp. 418-449), nonché Id., La Repubblica olandese, in Storia del mondo moderno, V, La supremazia della Francia 1648-1688, a cura di Francis P. Carsten, Milano 1968, pp. 348 ss. (pp. 348-380).
33. Sull'attribuzione dello Squitinio al gesuita Markus Welser cf. Gaetano Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, Torino 1979, pp. 201-204.
34. F. Gaeta, Venezia da "stato misto", pp. 483-486.
35. P. Del Negro, Forme e istituzioni, pp. 411-420.
36. Ibid., pp. 411-421; Marco Zanetto, Encomi, sotterfugi, silenzi. Un ῾Discorso aristocratico' nella Venezia del secondo Seicento, "Studi Veneziani", n. ser., 14, 1987, pp. 323-341.
37. P. Del Negro, Forme e istituzioni, pp. 422-424.
38. Gaetano Cozzi-Michael Knapton, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dalla guerra di Chioggia al 1517, Torino 1986 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII, 1), pp. 54-60; G. Candiani, Conflitti di intenti, in partic. per il confronto tra il Valier e Battista Nani, "pubblico storiografo" della Repubblica.
39. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 54-60.
40. Stefano Andretta, La diplomazia veneziana e la pace di Vestfalia (1643-1648), "Annuario dell'Istituto Storico Italiano per l'Età Moderna e Contemporanea", 27-28, 1975-1976, pp. 91-93 (pp. 5-128).
41. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 197-198. Cf. poi infra, par. 3.
42. Romolo Quazza, Storia politica d'Italia. Preponderanze straniere, Milano 1938, pp. 200-205.
43. Ekkehard Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi. Bufera nel sud-est europeo 1645-1700, Milano 1991, pp. 45-46.
44. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 204 ss.
45. La citazione dall'Istoria di Giovan Battista Nani è in Gianvittorio Signorotto, Il rientro dei gesuiti a Venezia: trattativa (1606-1657), in I Gesuiti e Venezia. Momenti e problemi di storia veneziana della Compagnia di Gesù, a cura di Mario Zanardi, Padova 1994, p. 411 (pp. 385-419).
46. Giuseppe Gullino, Il rientro dei gesuiti a Venezia nel 1657: le ragioni della politica e dell'economia, ibid., pp. 421-422 (pp. 421-431).
47. E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, p. 90; Gaetano Cozzi-Michael Knapton-Giovanni Scarabello, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica, Torino 1992 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII, 2), pp. 119-120; Andrea Valier, Storia della guerra di Candia, I-II, Trieste 1859: I, pp. 75, 85, 99.
48. G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, pp. 386-388.
49. E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, pp. 41-42.
50. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Criminal, reg. 53, cc. 76-78. Consigliere di Candia era Vettor Badoer, duca di Candia addirittura il celeberrimo Lazzaro Mocenigo.
51. E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, pp. 46-50.
52. Ibid., pp. 32 ss.
53. A. Valier, Storia della guerra, I, p. 72.
54. S. Andretta, La diplomazia veneziana, pp. 49-50.
55. A. Valier, Storia della guerra, I, pp. 90, 94.
56. Su Nicolò Contarini, cf. G. Cozzi, Venezia barocca, passim. I giudizi sul Valier sono tratti da due medaglioni biografici: il primo scritto nel 1664, quando il Valier aveva 49 anni (era nato nel 1615), dall'anonimo autore di una relazione su Venezia pubblicata da P.G. Molmenti, Curiosità, pp. 382-384 e 443; il secondo, posteriore, esistente a Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 1702, cc. 75-77.
57. A. Valier, Storia della guerra, I, pp. 42, 43; E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, pp. 140-147.
58. A. Valier, Storia della guerra, I, pp. 249-252, 268-269; E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, p. 141; Giuseppe Gullino, L'opera del nunzio Carafa per il ritorno dei gesuiti nella Serenissima (1655-1657), "Studi Romani", 24, 1976, pp. 162-180. Ma cf. pure infra, par. 3.
59. A. Valier, Storia della guerra, II, pp. 89-98. Cf. l'importante lavoro di G. Candiani, Conflitti di intenti.
60. A. Valier, Storia della guerra, I, p. 233.
61. Ibid., p. 241. G. Candiani, Conflitti di intenti, dice che il vescovo era il fiorentino Piero Bonsi.
62. A. Valier, Storia della guerra, I, p. 40.
63. Ibid., I, p. 55; II, pp. 229-230.
64. Ibid., I, pp. 103-104.
65. Ibid., II, p. 49.
66. P.G. Molmenti, Curiosità, p. 443.
67. A. Valier, Storia della guerra, I, pp. 144-145; Alexandre de Saint-Didier, La ville et la république de Venise, Paris 1680, pp. 334-339.
68. A. Valier, Storia della guerra, I, pp. 126-128.
69. Ibid., pp. 229-230.
70. G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, pp. 83-86; E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, pp. 207 ss.
71. E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, pp. 170-172.
72. Ibid., p. 171.
73. Ibid., pp. 183-184 e 232-233; v. G. Candiani, Conflitti di intenti.
74. Kenneth M. Setton, Venice, Austria, and the Turks in the Seventeenth Century, Philadelphia 1991, pp. 207-209.
75. Guido Candiani, Francia, Papato e Venezia nella fase finale della guerra di Candia, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", classe di scienze morali, lettere ed arti, 152, 1993-1994, p. 842 (pp. 829-872).
76. R. Quazza, Storia politica, p. 233; G. Candiani, Francia, Papato e Spagna, p. 854.
77. Giuseppe Gullino, Tradimento e ragion di Stato nella caduta di Candia, in AA.VV., Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia, 1570-1670, Venezia 1986, p. 146.
78. E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, pp. 273-275.
79. Le drammatiche fasi conclusive della guerra oltre che ibid., pp. 206-243, sono narrate con la consueta accuratezza da K.M. Setton, Venice, Austria, and the Turks, pp. 206-243, che offre notizie sinora sconosciute sulla missione di Alvise Molin.
80. Sulle due guerre cinquecentesche cf. G. Cozzi, Venezia dal Rinascimento, pp. 28-36 e 46-54.
81. Cf. la splendida biografia del Contarini scritta da Gino Benzoni per il Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 82-91.
82. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 56 n., 166 n., 193, 199 n.
83. Ibid., p. 194.
84. Le Relazioni degli Stati Europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti nel secolo decimosettimo, a cura di Nicolò Barozzi-Guglielmo Berchet, ser. III, Italia, Relazioni di Roma, I-II, Venezia 1877-1879: I, in ordine di citazione pp. 403, 354, 386, 397.
85. Ibid., II.
86. Ibid., p. 390.
87. Gaetano Cozzi, Giuspatronato del doge e prerogative del primicerio sulla cappella ducale di San Marco (secoli XVI-XVIII). Controversie con i procuratori di San Marco de supra e i patriarchi di Venezia, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", classe di scienze morali, lettere ed arti, 151, 1992-1993, pp. 40-42 (pp. 1-69).
88. Le Relazioni degli Stati Europei [...] Roma, I. Parlando di Federico Corner Giuseppe De Luca scrive che la sua attività fu "non senza gloria", Della pietà veneziana nel Seicento e d'un prete veneziano quietista, in AA.VV., La civiltà veneziana nell'età barocca, Firenze 1959, pp. 215-234: sarebbe indubbiamente assai utile una ricerca dettagliata a questo proposito negli archivi della congregazione.
89. Le Relazioni degli Stati Europei [...] Roma, II, pp. 63-82; Relazioni degli ambasciatori veneti al senato, Turchia I, Venezia 1871, pp. 383 ss.
90. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, in partic. pp. 151-152. V. il contributo dello stesso in questo volume.
91. La relazione di Alonso de la Cueva, marchese di Bedmar, è edita in Italo Raulich, La congiura spagnola contro Venezia. Contributo di documenti inediti, "Nuovo Archivio Veneto", 3, 1893, nr. 6, pp. 5-86: sulla nobiltà povera cf. p. 5.
92. Le Relazioni degli Stati Europei [...] Roma, II. Cf. J.C. Davis, The Decline, p. 67.
93. Antonio Niero, Spiritualità popolare e dotta, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992, pp. 262-263 e 267 (pp. 253-290); Gaetano Cozzi, Note su Giovanni Tiepolo, primicerio di San Marco e patriarca di Venezia. L'unità ideale della Chiesa veneta, in Chiesa Società e Stato a Venezia. Miscellanea di studi in onore di Silvio Tramontin nel suo settantacinquesimo anno di età, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1994, pp. 121-150; ma v. infra.
94. G. Signorotto, Il rientro dei gesuiti.
95. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 176-177.
96. G. Gullino, L'opera del nunzio Carafa, pp. 162-180, e Id., Il rientro, pp. 421-431; G. Signorotto, Il rientro dei gesuiti, pp. 389-417.
97. A. Valier, Storia della guerra, II; Alfonso M. Casoli, Il cardinale Sforza Pallavicino e la Repubblica di Venezia, "La civiltà Cattolica", 11, 1909, pp. 530-540 e, in partic., 12, 1910, p. 27.
98. Mario Zanardi, I "domicilia" o centri operativi della Compagnia di Gesù nello Stato veneto (1542-1773), in I Gesuiti e Venezia. Momenti e problemi di storia veneziana della Compagnia di Gesù, a cura di Id., Padova 1994, pp. 93, 95, 115 e n., 123, 154, 156 (pp. 89-179). Sui lavori fatti eseguire dai Manin per la chiesa di Santa Maria Assunta, cf. l'opera recentissima di Martina Frank, Virtù e fortuna. Il mecenatismo e le committente artistiche della famiglia Manin tra Friuli e Venezia nel XVII e XVIII secolo, Venezia 1996, pp. 104-127.
99. Charles de Montesquieu, Oeuvres complètes, a cura di Daniel Oster, Paris 1964, p. 220.
100. Su Pietro Basadonna cf. la voce redatta da Gino Benzoni per il Dizionario Biografico degli Italiani, VII, Roma 1965, pp. 51-53. Cf. poi G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, p. 163.
101. A.S.V., Senato Secreta, Dispacci degli ambasciatori da Roma, filze 192-196.
102. Ivi, Inquisitori di Stato, filza 520.
103. G. Cozzi, Venezia barocca, pp. 91-92 n., 256-257.
104. Id.-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, p. 163; A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 247-248.
105. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 111, 236-237; Vincenzo Ferrone, Scienza natura religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli 1982, p. 10; Claudio Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche (1675-1760), in Storia d'Italia. Annali, 9, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all'età contemporanea, a cura di Giorgio Chittolini-Giovanni Miccoli, Torino 1986, p. 733 (pp. 721-766).
106. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, p. 244.
107. Antonio Niero, Pietà popolare e interessi nel culto di San Lorenzo Giustiniani, "Archivio Veneto", ser. V, 152, 1981, pp. 201-212; sulla decisione del papa Eugenio IV, veneziano, di istituire il patriarcato di Venezia cf. G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, pp. 243-244.
108. A.S.V., Consultori in jure, filza 452, c. 38: la storia di questa vicenda è raccontata dagli avogadori di comun Leonardo Diedo e Angelo Malipiero in una scrittura del 10 settembre 1709, in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII (= 8630). Ma cf. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 248-250, e Id., Fortuna e sfortune di una famiglia veneziana nel Seicento. Gli Ottoboni al tempo dell'aggregazione al patriziato, Venezia 1996.
109. Antonella Barzazi, Consultori "in iure" e feudalità nella prima metà del Seicento, in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (secc. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, II, Roma 1985, pp. 221-251; Ead., I consultori "in iure", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 182-190 (pp. 179-199); G. Cozzi, Giustizia "contaminata", pp. 80-81.
110. A. Barzazi, I consultori "in iure", p. 191 .
111. Ibid., pp. 192-194; G. Cozzi, Repubblica di Venezia, p. 335.
112. G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, pp. 128-129. Quanto al contesto politico in cui usciva l'opera di Amelot de la Houssaie, cf. infra, par. 4.
113. Ibid., p. 159: il Trattato delle materie beneficiarie veniva pubblicato anche ad Amsterdam in una versione francese fatta e corredata di note dall'Amelot de la Houssaie.
114. Bianca Betto, La Chiesa ducale, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992, pp. 125-171; G. Cozzi, Giuspatronato del doge, pp. 1-69, e Id., Il giuspatronato del doge su San Marco: diritto originario o concessione pontificia?, in San Marco: aspetti storici e agiografici, a cura di Antonio Niero, Venezia 1996, pp. 727-742.
115. G. Cozzi, Il giuspatronato del doge su San Marco, pp. 55-58; Id., Venezia barocca, pp. 52-53; Id., Donà, Leonardo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XL, Roma 1991, pp. 757-771. Sull'opera dottrinale del Tiepolo, cf. la voce su di lui redatta da Antonio Niero in Dictionnaire de spiritualité, ascétique et mystique, Paris 1991.
116. Le "dimissorie" erano lettere che un vescovo concedeva ai propri chierici quando dovevano ricevere gli ordini sacri da un altro vescovo. Cf. G. Cozzi, Giuspatronato del doge, p. 37, e Id., Note su Giovanni Tiepolo, pp. 121-130, in partic. pp. 126 ss.
117. Raimondo Morozzo della Rocca-Maria Francesca Tiepolo, Cronologia veneziana del Seicento, in AA.VV., La civiltà veneziana nell'età barocca, Firenze 1959, pp. 274-275 (pp. 257-315); Gaetano Cozzi, Stato e Chiesa: vicende di un conflitto secolare, in AA.VV., Venezia e la Roma dei papi, Milano 1987, pp. 42-46 (pp. 11-56).
118. G. Cozzi, Note su Giovanni Tiepolo, pp. 133-149.
119. Ibid., pp. 123-124 e 147.
120. Antonio Niero, I sinodi del secolo, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992, pp. 91-123, e Id., Spiritualità popolare e dotta, pp. 101, 262-269, 382-383.
121. Giovanni Tiepolo, Del'ira di Dio e de' flagelli e calamità che per essa vengono al mondo, Venezia 1632; Fulvio Salimbeni, La Chiesa veneziana nel Seicento, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992, pp. 40-41 (pp. 19-54); A. Niero, I sinodi, e Id., Spiritualità popolare e dotta, pp. 101, 254, 262, 267; Giovanni Spinelli, I religiosi e le religiose, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992, pp. 173-209. Sui provvedimenti presi dal Tiepolo per far fronte alla peste, cf. Paolo Ulvioni, Il gran castigo di Dio. Carestia ed epidemie a Venezia e nella Terraferma 1628-1632, Milano 1989, pp. 109-111. Cf. poi sulla chiesa della Salute Massimo Gemin, La chiesa di Santa Maria della Salute e la cabala di Paolo Sarpi, Abano Terme 1982.
122. Il primo giudizio è di G. Cozzi, Note su Giovanni Tiepolo; l'altro è di A. Niero, Spiritualità popolare e dotta, p. 273; cf. poi Silvio Tramontin, La diocesi nelle relazioni dei patriarchi alla Santa Sede, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992, p. 81 (pp. 55-90).
123. Federico Corner era stato destinato dal papa alla sede vescovile padovana nel 1629, ma l'autorità veneziana, per i motivi detti sopra, rifiutò di votargli il "possesso temporale" della diocesi, ovvero di riconoscere quella nomina. Il Corner, pertanto, non s'insediò mai in quella sede, che rimase così sguarnita per più di due anni: v., sulla vicenda, A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 114-115.
124. P. Ulvioni, Il gran castigo di Dio, pp. 71-72; G. Cozzi, Venezia barocca, pp. 194-195.
125. S. Tramontin, La diocesi, pp. 69-71; Antonio Niero, I patriarchi di Venezia. Da Lorenzo Giustiniani ai nostri giorni, Venezia 1961, pp. 121-126.
126. G. Cozzi, Giuspatronato del doge, pp. 60-63.
127. A. Niero, I patriarchi di Venezia, pp. 127-130; B. Betto, La Chiesa ducale, pp. 150-151, 160.
128. G. Cozzi, Giuspatronato del doge, pp. 62-64.
129. A. Niero, I patriarchi di Venezia, pp. 127-130.
130. F. Salimbeni, La Chiesa veneziana; A. Niero, I sinodi, pp. 36, 94-95, 105, 108-109.
131. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche, pp. 215-220.
132. A. Niero, I patriarchi di Venezia, pp. 131-138: Giovanni Badoer morirà in odore di santità. Cf. Giuseppe Mellinato, Gli esercizi spirituali nell'Italia del Seicento, "Rassegna di Ascetica e Mistica", 26, 1975, p. 172.
133. G. Cozzi, Il giuspatronato del doge su San Marco, pp. 727-742.
134. Ibid.
135. Boris Ulianich, ad vocem, Dizionario Biografico degli Italiani, VI, Roma 1964, pp. 69-72. Le quattro lettere superstiti del carteggio del Barbarigo senior con Sarpi sono in A.S.V., Consultori in jure, filza 453, cc. 86-120 (ma la numerazione è quanto mai confusa). Sui rapporti tra i gesuiti e il gallicanesimo, cf. Vittorio Frajese, Il mito del gesuita tra Venezia e i gallicani, in I Gesuiti e Venezia. Momenti e problemi di storia veneziana della Compagnia di Gesù, a cura di Mario Zanardi, Padova 1994, pp. 289-345.
136. Cf. quanto scriverà di lui e del suo giovane amico Pietro Duodo l'ambasciatore nella sua relazione: "soggetti ambendue di così alte condizioni, che posso nominar con titoli di angeli più che d'uomini", cit. in Sebastiano Serena, S. Gregorio Barbarigo e la vita spirituale e culturale nel suo seminario di Padova, I, Padova 1963, pp. 79-80.
137. Ibid., pp. 99 ss.; Liliana Billanovich, Gregorio Barbarigo vescovo e patrizio veneziano: proposte di lettura, "Ricerche di Storia Sociale e Religiosa", 33, 1988, pp. 86-90 (pp. 79-105).
138. Pierantomo Gios, Gli inizi della carriera ecclesiastica di Gregorio Barbarigo: dalle lettere ai familiari (1655-1657), "Studia Patavina", 40, 1993, nr. 2, p. 85 (pp. 39-102), e Id., La promozione di Gregorio Barbarigo al cardinalato. Una lettura introspettiva, ibid., 42, 1995, nr. 1, pp. 253-277; Liliana Billanovich, Fra centro e periferia. Vicari foranei e governo diocesano di Gregorio Barbarigo vescovo di Padova (1664-1697), Padova 1993, passim, e Ead., Intorno al governo pastorale di Gregorio Barbarigo, "Ricerche di Storia Sociale e Religiosa", 46, 1994, pp. 77-94; G. Mellinato, Gli esercizi spirituali, p. 172.
139. G. De Luca, Della pietà veneziana nel Seicento, p. 222; Pierantonio Gios, Gregorio Barbarigo e gli "spirituali", "Ricerche di Storia Sociale e Religiosa", 45, 1994, pp. 7-35; Antonio Niero, Lettere del P. Paolo Segneri a S. Gregorio Barbarigo, "Studia Patavina", 9, 1962, nr. 3, pp. 521-523 (pp. 517-524).
140. Claudio Bellinati, Gregorio Barbarigo. "Un vescovo eroico", Padova 1950, p. 206.
141. P. Ulvioni, Il grande castigo di Dio, pp. 73 ss.
142. Daniele Beltrami, Storia della popolazione di Venezia dalla fine del secolo XVI alla caduta della Repubblica, Padova 1954, pp. 59 e 79.
143. Cf. G. Cozzi, Venezia dal Rinascimento, p. 86.
144. G. Spinelli, I religiosi e le religiose, pp. 177-200. Sul problema della monacazione forzata cf. infra il saggio di Federica Ambrosini.
145. Anne Jacobson Schutte, Donne, inquisizione e pietà, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992, pp. 236 ss. (pp. 235-251); Claudio Madricardo, Sesso e religione nel Seicento a Venezia: la sollecitazione in confessionale, "Studi Veneziani", n. ser., 16, 1988, p. 122 (pp. 121-170); Gaetano Cozzi, Religione, moralità e giustizia a Venezia: vicende della magistratura degli Esecutori contro la bestemmia (secoli XVI-XVIII), "Ateneo Veneto", 178, 1991, p. 42 (pp. 7-95).
146. G. De Luca, Della pietà veneziana nel Seicento, pp. 221, 227-230. Più recentemente Antonio Niero ha richiamato all'attenzione, con due altri sacerdoti veneziani, Giovanni Maria Zilotti e Giovanni Palazzi, le pale d'altare ispirate al quietismo, o all'intento di combatterlo, evidentemente perché era penetrato nella devozione di quel periodo di fine Seicento: cf. Alcuni aspetti del quietismo veneziano, in AA.VV., Problemi di storia della Chiesa nei secoli XVII-XVIII. Atti del V Congresso di aggiornamento di Bologna, 3-7 settembre 1979, Napoli 1982, pp. 223-225, 242-249 (pp. 223-249). Cf. Alberto Vecchi, Correnti religiose nel Sei-Settecento veneto, Venezia-Roma 1962, in partic. pp. 102 ss.
147. C. Madricardo, Sesso e religione, pp. 156-157. Cf. anche le osservazioni di Gianvittorio Signorotto, Inquisitori e mistici nel Seicento italiano. L'eresia di Santa Pelagia, Bologna 1989, p. 235, sull'uso della sollecitazione ad turpia durante la lotta contro i fenomeni di pre-quietismo. Alla "spiritualità" pre-quietista credo possa ricondursi pure la creazione nel 1617 a Venezia, nei pressi della chiesa di San Nicolò dei Mendicoli, della congregazione "della Santa Pugna Spirituale dell'Oratorio", o di San Filippo Neri, considerata appunto "esempio di accesa spiritualità": cf. Roberto Zago, I nicolotti. Storia di una comunità di pescatori a Venezia nell'età moderna, Abano Terme 1982, p. 42.
148. Robert C. Davis, The War of the Fists. Popular Culture and Public Violence in Late Renaissance Venice, New York-Oxford 1994: ma v. supra, par. 1.
149. Gabriele Martini, Il "vitio nefando" nella Venezia del Seicento. Aspetti sociali e repressione di giustizia, Roma 1988, in partic. pp. 39-131; G. Cozzi, Religione, moralità e giustizia a Venezia, pp. 89-91.
150. G. Cozzi, Religione, moralità e giustizia a Venezia, pp. 89-91.
151. Cf. le lucide osservazioni di Ernesto Sestan, La politica veneziana del Seicento, in AA.VV., La civiltà veneziana nell'età barocca, Firenze 1959, pp. 35-66, e di Domenico Caccamo, Venezia e la Lega santa. Disimpegno in Italia ed espansione nel Levante (1682-1686), "Atti e Memorie della Società Dalmata di Storia Patria", 12, 1978, pp. 119 ss.
152. E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, pp. 54-56.
153. G. Candiani, Francia, Papato e Spagna, p. 839.
154. Ibid., pp. 839-840.
155. S. Andretta, La diplomazia veneziana, p. 127.
156. A. Valier, Storia della guerra, I, p. 249.
157. Ibid.
158. G. Candiani, Conflitti di intenti.
159. Cf. supra, par. 3.
160. Relazioni veneziane, Venetiaansche Berichten over de Vereenigde Nederlanden van 1600-1795, a cura di Pieter J. Blok, 's-Gravenhage 1909, pp. 103-193.
161. G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, pp. 129-130.
162. Ibid., pp. 128-129.
163. Ibid., pp. 130-132.
164. Ibid., p 133. Cf. sul ducato di Savoia Pierpaolo Merlin-Claudio Rosso-Geoffrey Symcox-Giuseppe Ricuperati, Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, Torino 1994 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, VIII, 1), p. 223.
165. Sulla questione di Cipro, cf. Giovanni Sforza, I negoziati di Carlo Emanuele I, duca di Savoia, per farsi re di Cipro, "Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino", 54, 1917-1918, p. 200 e n. citato in P. Merlin-C. Rosso-G. Symcox-G. Ricuperati, Il Piemonte sabaudo, p. 225.
166. R. Quazza, Storia politica, pp. 264-269; G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, p. 133.
167. G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, p. 132.
168. Ibid., p. 134.
169. E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, pp. 354-364.
170. Ibid., pp. 377 ss.; R. Quazza, Storia politica, p. 261.
171. G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, p. 134.
172. E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, pp. 377-399; K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, pp. 260-263.
173. E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, pp. 420-428; K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, p. 268.
174. E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, pp. 374-377.
175. K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, p. 273.
176. G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, p. 138.
177. Ibid.
178. K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, p. 271.
179. Ibid., p. 296.
180. P. Merlin-C. Rosso-G. Syscox-G. Ricuperati, Il Piemonte sabaudo, pp. 330-331.
181. K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, pp. 252-256. Ringrazio vivamente Giovanni Caniato, dell'Archivio di Stato di Venezia, per la cortese sollecitudine con cui ha svolto per me ricerche sui fondi del senato e dei provveditori da terra e da mar per aiutarmi a risolvere taluni interrogativi suscitati dall'esposizione del Setton.
182. Dores Levi-Weiss, Le relazioni tra Venezia e la Turchia dal 1670 al 1684 e la formazione della Sacra lega, "Archivio Veneto-Tridentino", 7, 1925, pp. 37-40 (pp. 1-46).
183. G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, p. 135; D. Levi-Weiss, Le relazioni fra Venezia e i Turchi, p. 46; D. Caccamo, Venezia e la Lega santa, pp. 119-142.
184. G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, p. 139.
185. Ibid.
186. K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, pp. 274-276.
187. Ibid., p. 277.
188. G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, p. 141.
189. K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, pp. 276-278 e 389.
190. D. Caccamo, Venezia e la Lega santa, pp. 135-136; G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, p. 142.
191. G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, p. 140; R. Sabbadini, L'acquisto della tradizione, p. 13.
192. Per la Dalmazia cf. Rita Tolomeo, La Dalmazia veneta agli inizi del XVIII secolo, in Studi balcanici, a cura di Francesco Guida-Luisa Valmarin, Roma 1989 (Quaderni di Clio, 8), pp. 87 ss.
193. K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, pp. 310-311; E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, pp. 452-453.
194. K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, pp. 307-309.
195. Ibid., pp. 310-311: il Setton solleva qualche perplessità sul fatto che lì vi fossero effettivamente polvere e deposito di munizioni.
196. Ibid., pp. 315-360.
197. Ibid., pp. 368-369.
198. Ibid., p. 390; Gaston Zeller, Diplomazia e politica estera francese, in Storia del mondo moderno, V, La supremazia della Francia 1648-1688, a cura di Francis L. Carsten, Milano 1968, p. 280 (pp. 252-281).
199. K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, pp. 390, 401; G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, p. 143.
200. K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, pp. 373-388.
201. Ibid., p. 395.
202. Citato da Paola Soncin, L'amministrazione della Repubblica di Venezia nel Regno di Morea (1687-1715), tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1994-1995, p. 25.
203. A.S.V., Compilazione leggi, b. 293, c. 210; Pietro Garzoni, Istoria della Repubblica di Venezia, Venezia 1712, p. 213; Francesco Guida, L'ultima esperienza "imperiale" di Venezia. La Morea dopo la pace di Carlowitz, in Studi balcanici, a cura di Francesco Guida-Luisa Valmarin, Roma 1989 (Quaderni di Clio, 8), pp. 107-136; P. Soncin, L'amministrazione, pp. 63-67.
204. Steven Runciman, The Great Church in Captivity. A Study of the Patriarcate of Constantinople from the Eve of the Turkish Conquest to the Greek War of Indipendence, Cambridge 1968, pp. 174-175; Alexandre Embiricos, Vie et institutions du peuple grec sous la domination ottomane, Paris 1975, pp. 35 ss.; C. Papachristos, La réception des droits privés comme phénomène de sociologie juridique, Paris 1975, p. 35; Gaetano Cozzi, La Repubblica di Venezia in Morea: un diritto per il nuovo Regno (1687-1715), in AA.VV., L'età dei lumi. Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi, II, Napoli 1985, pp. 742-753 (pp. 739-789).
205. Correggo l'opinione da me espressa nel saggio testé citato La Repubblica di Venezia in Morea, pp. 781-782.
206. Ibid., pp. 785-789, e Id., La politica del diritto della Repubblica di Venezia nel regno di Morea (1687-1715), in Centro tedesco di Studi Veneziani. Quaderni 31, Vanezia 1985, pp. 159-160 (pp. 155-181).
207. P. Soncin, L'amministrazione, pp. 46, 50, 68, 70; G. Cozzi, La Repubblica di Venezia in Morea, pp. 739-740.
208. G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, p. 145.
209. K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, pp. 387-398.
210. Ibid., pp. 411-412.
211. G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, p. 146; K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, p. 412.
212. K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, p. 375; G. Cozzi-M. Knapton-G. Scarabello, La Repubblica di Venezia, pp. 146-147.
213. R. Toloivieo, La Dalmazia veneta, p. 87.
214. K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, pp. 362, 411.
215. G. Cozzi, La Repubblica di Venezia in Morea, p. 741.
216. R. Tolomeo, La Dalmazia veneta, pp. 88-105.
217. Domenico Caccamo, Venezia, Pietro il grande e i Balcani, in Studi balcanici, a cura di Francesco Guida-Luisa Valmarin, Roma 1989 (Quaderni di Clio, 8), pp. 61 ss.
218. K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, pp. 426-427.
219. Ibid., p. 428.
220. Ibid., pp. 426-433.
221. Ibid., p. 428.
222. Andrew Lossky, Le relazioni internazionali, in Storia del mondo moderno, VI, L'ascesa della Gran Bretagna e della Russia 1688-1713, a cura di J.S. Bomley, Milano 1971, p. 187 (pp. 181-229).
223. Sergio Perini, Venezia e la pace di Utrecht, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", classe di scienze morali, lettere ed arti, 154, 1995-1996, pp. 53, 91.
224. K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, p. 434.
225. R. Sabbadini, L'acquisto della tradizione, p. 23.
226. K. M. Setton, Venice, Austria and the Turks, p. 440.
227. Ibid., pp. 446-448.
228. Ibid., pp. 449-450.
229. Alfredo Viggiano, Critica delle istituzioni e progetti politici. Giacomo Nani, le isole Ionie e la Morea nel Settecento, in Levante veneziano. Aspetti di storia delle Isole Ionie al tempo della Serenissima, a cura di Massimo Costantini-Aliki Nikiforu, Roma 1996, pp. 123-147.
230. Relazioni veneziane, pp. 341-370.
231. R. C. Davis, The War of the Fists.
232. A. Da Mosto, I bravi di Venezia, p. 16.
233. Clemente XIII, papa dal 1758 al 1769, apparteneva a famiglia originaria di Como, ascritta al patriziato veneto nel 1687, durante la guerra di Morea: i Rezzonico, commercianti in metalli, ottennero dall'Impero anche il titolo di baroni imperiali (R. Sabbadini, L'acquisto della tradizione, p. 45).
234. Ibid., pp. 97-98.
235. Nicolò Donato (o Donà), Ragionamenti politici intorno il governo della Repubblica di Vinegia, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2586, e Giacomo Nani, Principi di un'amministrazione ordinata e tranquilla, in Padova, Museo Civico, ms. C.M. 125: su entrambi cf. Piero Del Negro, Proposte illuminate e conservazione nel dibattito sulla teoria e la prassi dello Stato, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 132-135 e 140-143 (pp. 123-145). Sulla necessità di mutare radicalmente i criteri di gestione del Dominio da mar cf. Alfredo Viggiano, Venezia e le isole del Levante. Cultura politica e incombenze amministrative nel Dominio da mar del XVIII secolo, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti", classe di scienze morali, lettere ed arti, 151, 1992-1993, pp. 753-795 e Id., Critica delle istituzioni e progetti politici, pp. 121-147.