Dalle macchine semplici alla meccanica newtoniana
L’invenzione e l’uso di particolari accorgimenti tecnici per spostare e sollevare grandi pesi dovettero sorgere molto presto nelle grandi civiltà del passato, ma purtroppo assai scarse sono le rappresentazioni di tali strumenti che ci sono state tramandate. Non diversa sarebbe la situazione per il mondo greco-romano, se non fosse per la disponibilità di alcune opere giunte fino a noi, che non solo ci attestano l’utilizzazione di macchine più o meno complesse per compiere i suddetti lavori, ma addirittura ci testimoniano l’esistenza di una vera e propria disciplina scientifica che si occupava di spiegare le cause del loro funzionamento.
Con i Problemi meccanici (3° sec. a.C. ca.), riconosciuti oggi come opera non attribuibile ad Aristotele, ma sicuramente proveniente dalla scuola peripatetica, abbiamo il primo tentativo di ricondurre a un principio di carattere matematico unitario il funzionamento delle macchine semplici (leva, argano, sistemi di carrucole, cuneo). Punto di partenza della riflessione sulle macchine nel pensiero antico, questo testo non sembra però avere esercitato un grande influsso nel corso delle epoche successive, perlomeno fino al 16° secolo. Fu infatti in seguito al grande lavoro di recupero delle opere dell’antichità messo in opera durante il Rinascimento, che esso divenne oggetto di studio approfondito soprattutto nella penisola italiana, dove si trasformò in uno degli elementi portanti della rinascita della ‘meccanica’ antica.
Risultato finale di tale processo di recupero fu la nuova sistemazione teorica della disciplina operata da Guidobaldo Dal Monte (1545-1607) nel Mechanicorum liber (1577), una sistemazione che passava attraverso uno studio approfondito dei testi di Archimede, una critica dettagliata della teoria dell’equilibrio nelle bilance proposta nella scientia de ponderibus di Giordano Nemorario (13° sec.), e infine attraverso la valorizzazione del contenuto del libro VIII delle Collezioni matematiche di Pappo di Alessandria (3° sec. d.C.), libro che ingloba alcuni lunghi frammenti della Meccanica di Erone, un’opera trasmessaci solo in arabo e recuperata soltanto alla fine del 19° secolo. In quest’ultimo testo si trova, tra l’altro, la trattazione più articolata dell’ultima macchina semplice individuata dagli antichi: la vite.
L’impostazione archimedea esemplificata nel Mechanicorum liber tendeva però a escludere dall’analisi teorica uno degli aspetti essenziali presenti nei Problemi meccanici, vale a dire la riflessione sul movimento e sulle diverse ‘velocità’ riscontrabili nelle singole componenti delle macchine semplici. Pur rimanendo un elemento importante per la comprensione del modo di operare di tali macchine, il moto di fatto non rappresentava più il punto di riferimento fondamentale con cui affrontare la spiegazione del loro funzionamento. Di fronte a tale indirizzo di ricerca, Galileo Galilei (1564-1642) e gli altri autori italiani del 17° sec. cercheranno invece di trovare una nuova forma di collegamento tra la ‘scienza del moto’, allora fondata su nuove basi, e la teoria dell’equilibrio di derivazione archimedea. Vennero così a imporsi nuovi concetti, alcuni più chiaramente definiti, per es. il concetto di ‘momento statico’, altri ancora non pienamente analizzati in tutte le loro implicazioni: si pensi all’idea di ‘velocità virtuale’, che diverrà nel Settecento uno dei principi fondamentali della meccanica.
Alla fine di questo lungo processo storico lo studio del funzionamento delle macchine semplici aveva quindi di fatto perso parte della sua importanza a livello teorico, ma rimaneva comunque propedeutico a ogni ulteriore ricerca in campo meccanico. Dal punto di vista della storia della scienza e della tecnica esso resta invece ancora fondamentale per comprendere la formazione, non solo della scienza moderna, ma anche del problematico rapporto tra sapere tecnico dei ‘pratici’ e sapere scientifico dei filosofi naturali.
Le pagine che seguono cercheranno dunque di mettere in evidenza le difficoltà e la molteplicità dei problemi affrontati in tal senso, analizzando molte delle riflessioni svolte dai più importanti autori italiani del 16° e 17° sec. su tre di queste macchine semplici (leva, argano e cuneo). Per motivi di spazio non verranno presi in considerazione i sistemi di carrucole e la vite, ma va comunque ricordato che fu proprio dalla riflessione sui sistemi di carrucole che emerse con chiarezza per la prima volta un aspetto essenziale del modo di operare di tali macchine, espresso allora più o meno in questi termini: ciò che viene guadagnato nella facilità di muovere un peso per un dato spazio, si perde nel tempo impiegato per portare a termine il detto movimento.
Prima di procedere va però brevemente ricordato che tutte queste ricerche condivisero per lungo tempo un’idea fondamentale, che postulava la necessità di una riduzione della teoria della leva a quella della bilancia, con il conseguente problema di definire una soddisfacente teoria dell’equilibrio. Qui, però, ci si asterrà dall’entrare nel merito di tale questione, che causò accese polemiche tra fautori delle posizioni archimedee e seguaci della scientia de ponderibus medievale. Una trattazione della teoria della bilancia, propedeutica a quella della leva, fu comunque pienamente attuata già nei Problemi meccanici dove, fin dalla prima questione, si procedeva a un raffronto tra bilance di dimensioni differenti, anche se in questo caso non si parlava di equilibrio, ma si svolgeva un’analisi dei movimenti dei bracci delle bilance per riallacciarsi immediatamente alla natura ‘meravigliosa’ della figura circolare, posta dall’autore del testo come principio di tutte le macchine. La questione, dunque, serviva soprattutto a mostrare le potenzialità esplicative del principio sviluppato e dimostrato all’inizio dell’opera, e cioè che ogni punto su un raggio in rotazione si muove con velocità diverse perché in possesso di due componenti di moto, una naturale in linea retta verso il basso, e una contronatura laterale verso il centro fisso, componente quest’ultima che rallenta sempre di più la prima, quanto più ci si avvicina al centro.
La leva
Nei Problemi meccanici pseudoaristotelici, la potenzialità operativa della leva non rappresenta solo una delle tante ‘questioni meccaniche’ da risolvere e spiegare, ma assume fin dalle frasi iniziali del testo un ruolo paradigmatico: essa evidenzia il valore e l’utilità del sapere tecnico, che permette all’uomo di superare in qualche modo alcuni dei limiti impostigli dalla natura. La leva diviene così il primo esempio di macchina che suscita la ‘meraviglia’, cioè quello stato particolare proprio del soggetto indagatore che si pone a ricercare le cause dei fenomeni naturali. Vera e propria chiave di volta di tutta la successiva trattazione, la ‘meraviglia’ nasce all’inizio non tanto dalla non conoscenza della causa che rende possibile l’operazione, quanto, piuttosto, dal risultato stesso dell’uso della macchina. L’uomo con la leva riesce a sollevare grandi pesi, pesi che senza lo strumento non sarebbe stato in grado di muovere, e, cosa ancora più stupefacente, «oltretutto con un peso in aggiunta: infatti quel medesimo peso che non potrebbe essere mosso senza leva, più agevolmente lo si muove con la leva, pur aggiungendosi anche il peso della leva stessa» ([Pseudo] Aristotele, Problemi meccanici, a cura di M.E. Bottecchia Dehò, 2000, p. 55). Era questo un evidente sovvertimento della relazione sforzo-peso solitamente percepita nell’esperienza, nella quale invece si rilevava come le cose di peso ‘minore’ fossero più facili da muovere rispetto a quelle di peso ‘maggiore’.
Questo particolare approccio alla riflessione sulla leva, che caratterizza anche la formulazione testuale della questione dedicata a questa macchina, non implica però un allontanamento dal principio esplicativo individuato per risolvere i problemi meccanici raccolti in quest’opera, vale a dire la figura circolare già utilizzata per spiegare le prime due questioni del testo relative alle bilance. Sennonché in questo caso l’autore non si limita a considerare le due parti della leva (fulcro-peso e fulcro-potenza movente) come raggi di cerchi di diversa dimensione, e a rilevare che «per effetto di un uguale peso si muove più velocemente il punto sul raggio che più dista dal centro» ([Pseudo] Aristotele, Problemi meccanici, cit., p. 77), ma cerca nello stesso tempo di stabilire un qualche rapporto tra il peso, la potenza necessaria a muoverlo e le loro rispettive distanze dal fulcro. È questo un elemento completamente nuovo, che non trova applicazione nelle successive questioni dell’opera, e che va quindi attentamente analizzato se si vuole pervenire a una corretta ricostruzione dello sviluppo storico della meccanica antica. Il termine greco che indica questo rapporto è ἀντιπέπονθεν, cioè lo stesso termine che Archimede utilizzerà nella sua opera intitolata Επιπέδων ἰσοϱϱοπιῶν (Sui piani equiponderanti), dove nella VI proposizione del I libro dimostra che «le grandezze commensurabili sono in equilibrio se sospese a distanze inversamente proporzionali ai pesi». Come considerare tale coincidenza? Dobbiamo forse inferire che l’autore pseudoaristotelico fosse già in possesso della cosiddetta legge archimedea della leva? Sebbene alcuni interpreti moderni incorrano in tale inferenza nelle loro traduzioni, noi riteniamo che il rapporto qui individuato sia assai meno determinato, e che quindi la parte finale della questione relativa alla leva inserita nei Problemi meccanici possa essere così tradotta:
Pertanto il peso che viene mosso sta a quello che muove allo stesso modo che la distanza alla distanza; ma sempre quanto maggiore sarà la distanza dal fulcro tanto più agevole diverrà il movimento. La causa è quella detta precedentemente: ciò che è più distante dal centro descrive un cerchio maggiore; cosicché ciò che muove con la medesima forza si sposterà di più quanto più sarà lontano dal fulcro (per il testo greco si veda [Pseudo] Aristotele, Mechanica, a cura di M.E. Bottecchia Dehò, 1982, pp. 113-14).
Non si può certamente sostenere che qui sia espresso con chiarezza il tipo di rapporto esistente tra il peso, la potenza movente e le loro rispettive distanze dal fulcro. Vi è quindi su questo punto una sostanziale differenza tra quanto sostenuto nei Problemi meccanici e quanto successivamente dimostrato da Archimede. Questa diversità venne in parte riconosciuta dai numerosi autori che studiarono e commentarono le suddette opere nel corso del 16° secolo. Impossibilitati a trovare nella tradizione un qualche legame tra le due posizioni, essi spesso evitarono di approfondire questo aspetto, oppure immaginarono una diretta successione storica, in cui da una prima ancora imprecisa conoscenza della legge della leva, si passava successivamente a una quantificazione rigorosa basata sulla dimostrazione geometrica. È questa di fatto l’interpretazione che diede Guidobaldo Dal Monte, cioè l’autore che apportò il primo reale ampliamento alla teoria della leva tramandataci dai testi dell’antichità. Per dirla con le parole di Bernardino Baldi (1553-1617), che nella biografia di Archimede inserita nelle Vite de’ matematici riprende le posizioni espresse da Guidobaldo nella prefazione alla parafrasi degli Equiponderanti:
ammesso dunque Archimede il principio d’Aristotile, passò oltre; né si contentò che maggiore fosse la forza dalla parte de la leva più lunga, ma determinò quanto ella deve essere, cioè con qual proporzione ella deve rispondere a la parte minore, accioché con la data potenza s’equilibri il dato peso (B. Baldi, Vite inedite di matematici italiani, 1886, pp. 55-56).
Stando così le cose non può quindi stupire che la riflessione sulla leva si sviluppasse in Guidobaldo proprio a partire dall’impostazione archimedea, e che quindi inglobasse al suo interno anche il concetto di centro di gravità essenziale per la dimostrazione della già citata VI proposizione del I libro degli Equiponderanti. Sennonché il matematico pesarese andava immediatamente oltre la tradizionale analisi della leva interfulcrata, la più comune e l’unica presa in considerazione fino ad allora, presentando delle proposizioni riguardanti altre due specie di leva aventi questa volta il fulcro collocato in una delle loro estremità: la prima con il peso posto tra potenza movente e il fulcro, la seconda con la potenza movente posta tra il fulcro e il peso (quest’ultima leva non era naturalmente di alcuna utilità pratica visto che la potenza movente avrebbe dovuto sempre essere superiore al peso da muovere). Come si vede, si tratta di un ampliamento fortemente caratterizzato da ragioni teoriche, che però non resta privo di importanti applicazioni all’ambito pratico. Così, per es., il III corollario alla seconda proposizione, che trattava della leva con il peso posto tra fulcro e potenza movente (leva di II specie), avrebbe permesso di risolvere in modo assai rigoroso un problema già preso in considerazione nella questione XXIX dell’opera pseudoaristotelica, quella cioè in cui si domandava:
Perché quando due uomini trasportano il medesimo peso con un legno, o con qualcosa di simile, non sono ugualmente gravati a meno che il peso non sia nel mezzo, ma viene ad essere maggiormente gravato il portatore che è più vicino al peso? ([Pseudo] Aristotele, Problemi meccanici, cit., p. 119).
Precedentemente affrontata con riferimento alla leva interfulcrata, la questione aveva infatti posto qualche problema agli interpreti.
Completamente nuovo fu poi lo studio della variazione del rapporto peso-potenza movente in una leva avente diverse inclinazioni e portante un peso non sospeso, ma solidale con il suo corpo. Tale variazione derivava, secondo il matematico pesarese, dal continuo spostamento sulla leva del piede della perpendicolare passante per il centro di gravità, spostamento che cambiava la distanza del peso dal fulcro, e quindi poteva rendere più o meno agevole l’azione della leva operante con una forza data (Guidobaldo Dal Monte, Mechanicorum liber, 1577, pp. 43v-45v, 49r-55v). Particolarmente interessanti, anche in questo caso, erano le applicazioni basate su esempi concreti, fatte questa volta da Baldi, discepolo dello stesso Guidobaldo e del loro comune maestro Federico Commandino (1509-1575):
Da qui dipende anche la ragione delle carriole che sono comunemente in uso, con un duplice manubrio e una sola ruota. […] Si riduce infatti allo stesso genere di leva, nel quale il peso è tra il fulcro e la potenza. Quanto dunque sarà minore il rapporto della parte della leva che va dal centro di gravità allo stesso fulcro, a tutta la leva, tanto più facilmente il peso sarà elevato (B. Baldi, In Mecanica Aristotelis problemata exercitationes, a cura di E. Nenci, 2010, p. 339).
Non altrettanto risolutiva era invece la distinzione tra le due specie di leva allorché si affrontava la questione IV dei Problemi meccanici, in cui si equiparava il remo a una leva avente il fulcro nello scalmo e il peso da muovere nel mare. È questo un caso assai interessante, che fu oggetto di discussione fino all’inizio del secolo scorso (Micheli 2011, pp. 237-38). Con la teorizzazione della leva della seconda specie fu infatti abbastanza usuale ridurre a essa il funzionamento del remo, rimarcando come piuttosto fosse il mare a fungere da fulcro, mentre lo scalmo, cioè la nave in cui esso era collocato, rappresentava il vero e proprio peso da muovere. Non tutti però furono convinti della necessità di una spiegazione basata su di una leva di specie diversa, e soprattutto alcuni autori incominciarono a riflettere sulla complessità dell’azione messa in atto dal vogatore, in cui era assai difficile individuare un qualche punto che potesse fare le funzioni del fulcro immobile, visto che di fatto, sia la nave sia l’acqua del mare si muovevano durante la voga.
Galilei fu uno di questi autori. Su richiesta nel 1593 da parte del provveditore dell’Arsenale di Venezia, Giacomo Contarini, di valutare quale fosse la collocazione migliore dello scalmo per ottenere la voga più efficace, il matematico pisano rispose rifacendosi alla teoria generale della leva, sostenendo che ciò dipendeva dalla divisione del remo, ovvero dal rapporto tra potenza movente, fulcro e peso. Al variare di tale divisione il remo di fatto avrebbe agito con modalità diverse, o come una leva di seconda specie, o come una di prima:
Et perché quando il sostegno è immobile, tutta la forza si applica a muover la resistenza, se si accomoderà il remo tanto che l’aqqua venga quasi che immobile, all’hora la forza si impiegherà quasi tutta a muovere il vassello; et per il contrario, se il remo sarà talmente situato che l’aqqua venga facilmente mossa dalla palmula, all’hora non si potrà far forza in muovere la barca (G. Galilei, Le opere, 10° vol., 1900, p. 56).
Se in questa risposta Galilei sembra ancora muoversi in un contesto non molto distante da quello impostato da Guidobaldo nel Mechanicorum liber, assai diversa si mostra la sua trattazione della leva nelle Meccaniche, un testo mai pubblicato in italiano durante la sua vita, ma composto probabilmente già durante il periodo dell’insegnamento padovano. Fortemente polemico nei confronti di coloro che ritenevano in qualche modo potersi creare forza con le macchine, sovvertendo così l’ordine della natura, Galilei prende qui in considerazione la leva in modo affatto differente, non partendo dalle considerazioni relative alla bilancia, ma reinserendo nella sua analisi la velocità come elemento essenziale per la spiegazione del funzionamento di essa. Conforme al principio naturale che nessuna resistenza possa essere superata se non da una forza più potente di essa, Galilei determina in primo luogo quattro cose che devono essere prese in considerazione in questo tipo di questioni: «il peso da trasferirsi da luogo a luogo, […] la forza o potenza che deve muoverlo, […] la distanza tra l’uno e l’altro termine del moto, […] il tempo nel quale tal mutazione deve essere fatta» (G. Galilei, Le opere, 2° vol., 1891, p. 156). Tenendo presenti questi elementi, lo scienziato pisano mostra poi come in ogni macchina, e in modo particolare nella leva, allorché si vorrà svolgere con successo l’operazione, la velocità della forza dovrà essere di tante volte superiore alla resistenza del peso, quanto il detto peso si trovi a essere superiore alla forza a disposizione. Impostato in questo modo il problema, Galilei riuscì quindi a recuperare un elemento importante dell’approccio teorico presente nei Problemi meccanici, ma nello stesso momento fu capace di offrire una quantificazione precisa, nella forma della legge della leva archimedea, del rapporto tra le grandezze qui prese in considerazione. Facendo ciò egli rese possibile un incontro tra le due diverse impostazioni d’indagine provenienti dall’antichità, che trovarono una specie di sintesi nel concetto di ‘momento’, definito come «la propensione di andare al basso cagionata, non tanto dalla gravità del mobile, quanto dalla disposizione che abbino tra di loro diversi corpi gravi» (G. Galilei, Le opere, 2° vol., cit., p. 159). Tale propensione in una bilancia a bracci disuguali (equiparabile di fatto a una leva), con appesi pesi uguali, spiegava poi non solo la rottura dell’equilibrio dalla parte del peso dotato di maggiore ‘momento’, ma poteva anche rendere ragione della maggiore velocità di spostamento di esso, che veniva a percorrere nello stesso tempo uno spazio maggiore rispetto al peso opposto portato verso l’alto. Alla velocità del moto si connetteva infatti un aumento del ‘momento’ del corpo mobile, che veniva a crescere con la stessa proporzione con cui aumentava la detta velocità.
Il lettore moderno è naturalmente portato a vedere in questi passi un implicito uso del principio delle velocità virtuali, ma Galilei dovette avere ancora qualche dubbio rispetto a un’eventuale generalizzazione dell’uso dell’idea di velocità in connessione con quella di momento: per es., nel caso di bilance che si trovassero in stato di equilibrio. Come risulta da alcuni frammenti connessi con i Discorsi e dimostrazioni (1638), ancora non sembrava possibile superare completamente in questo caso la contrapposizione quiete-movimento, poiché sarebbe stato assai duro il convincersi, come diceva Sagredo, che posti due gravi in quiete, cioè «dove non sia pur moto, non che velocità maggiore di un’altra, quella maggioranza che non è, ma ancora ha da essere, possa produrre un effetto presente» (G. Galilei, Le opere, 8° vol., 1898, p. 438).
Lo studio del funzionamento della leva aveva quindi ormai portato a riflettere su questioni fondamentali per lo sviluppo della scienza meccanica. Questi non furono però i soli effetti benefici derivanti dall’indagine approfondita dedicata a questa macchina; con la trattazione della cosiddetta leva angolare nascerà infatti in questi stessi anni un campo di ricerca teorica e pratica interamente originale, una vera e propria ‘nuova scienza’, quella della resistenza dei materiali, di cui si parlerà al termine del saggio.
La teoria della leva permise di affrontare in modo rigoroso molti dei problemi relativi allo spostamento e sollevamento di grossi carichi, prendendo come esempio un’altra macchina semplice studiata fino dall’antichità: l’axis in peritrochio, ovvero l’asse nella ruota.
L’asse nella ruota
Volendo osservare un certo rigore nella presentazione delle varie spiegazioni relative al funzionamento di questo strumento, si deve in primo luogo mettere in chiaro che tale macchina semplice è distintamente descritta in tutte le sue parti solo all’interno del libro VIII delle Collezioni matematiche di Pappo. Secondo tale descrizione, esso è formato da una trave quadrata di legno con le parti finali arrotondate e ricoperte di metallo; queste fungono da perni che vanno inseriti in due fori, rivestiti anch’essi di metallo, situati in due sostegni verticali fissati su una piattaforma. Tale ‘asse’, collocato in posizione parallela all’orizzonte, ha poi da una parte una ruota (disco) di legno perfettamente solidale con esso, sulla circonferenza della quale, in numerosi fori, si inseriscono delle aste. Per quanto riguarda il suo funzionamento, lo stesso autore rilevava come la fune sostenente il peso andasse avvolta intorno al suddetto ‘asse’, e la potenza movente dovesse essere applicata all’estremità delle aste innestate nella circonferenza della ruota. Questo strumento meccanico permetteva dunque di sollevare grandi pesi con una piccola forza, e non agiva in modo diverso dalla leva. Ma quali erano le parti della macchina da prendere in considerazione per operare la sua riduzione alla leva?
Una prima ipotesi di lavoro era già presente nella questione XIII dei Problemi meccanici, in cui si chiedeva perché fosse più facile causare la rotazione di un ‘asse cilindrico’ attraversato da aste, usando aste lunghe, piuttosto che corte; e analogamente perché una medesima potenza movente fosse in grado di muovere più facilmente i verricelli aventi ‘assi’ piccoli, piuttosto che grandi. Come si vede, qui ci troviamo di fronte a strumenti molto simili all’asse nella ruota, strumenti che vengono analizzati in due delle loro componenti essenziali: in una macchina con asse cilindrico dato, la maggiore o minore distanza dal centro di rotazione del punto di applicazione della forza; in una macchina con asta di lunghezza data, la variazione del rapporto esistente tra questa e la maggiore o minore grandezza del diametro dell’asse del verricello. La spiegazione offerta nel testo pseudoaristotelico non giunge, tuttavia, a rapportare alla leva queste due componenti dello strumento, ma si accontenta di ricondurle al principio generale dell’opera: in entrambi i casi si ha una maggiore facilità d’impiego, perché i punti di applicazione della potenza movente si trovano a muoversi più velocemente, per essere più distanti dal centro di rotazione. Ciò è evidente nel primo caso, mentre nel secondo diventa tale se si considera che, tanto è minore il diametro del verricello, tanto maggiore è la parte dell’asta che sporgerà da esso.
La riduzione rigorosa della teoria dell’asse nella ruota a quella della leva fu ancora una volta opera di Guidobaldo, che nel Mechanicorum liber immaginò lo strumento come una bilancia a bracci ineguali, equiparando così la potenza movente posta nell’estremità dell’asta a un peso, e dimostrando che questo stava con il carico da sollevare in rapporto inverso alle rispettive distanze dal centro della bilancia (centro di rotazione della macchina). Su queste basi diventava assai facile mostrare come una maggiorazione del diametro dell’asse corrispondesse a un allontanamento del carico dal centro della bilancia, e rendesse quindi necessario, per il mantenimento dell’equilibrio, un corrispondente aumento del peso (potenza movente) posto all’altra estremità. Dal punto di vista geometrico tale dimostrazione era ineccepibile, ma poco aveva a che fare con il reale modo di utilizzo della macchina, che in genere vedeva l’operatore applicare la propria forza non all’asta posta sul piano parallelo all’orizzonte, quanto piuttosto su quelle collocate al di sopra di essa, aste che venivano afferrate, abbassate, sfruttando magari lo stesso peso corporeo di colui che le muoveva, e infine lasciate proprio quando si trovavano poco al di sotto della posizione immaginata da Guidobaldo.
Conscio di ciò, il matematico pesarese si pose ad analizzare questi casi. Cosa sarebbe accaduto quando il peso (potenza movente) si fosse trovato collocato in una di queste posizioni? Se si fosse continuato a equiparare la potenza movente a un peso pendente, è chiaro che l’equilibrio sarebbe stato alterato e si sarebbe riottenuto solo aumentando questo peso di una certa quantità: quantità che Guidobaldo, mancando del concetto di ‘momento’, fu in grado di determinare solo attraverso una dimostrazione geometrica. Se invece la potenza movente avesse potuto agire lungo la linea tangente passante per il suo punto di applicazione, non ci sarebbe stato alcun problema, venendosi in questo caso nuovamente a verificare la stessa situazione della leva collocata in un piano parallelo all’orizzonte.
Il cuneo
Questa macchina semplice ha sempre creato notevoli difficoltà agli scrittori di meccanica. A causa dell’effettiva diversità del suo modo di operare, essa è infatti difficilmente adattabile ai principi esplicativi utilizzati in precedenza, sia quando si tenti di ridurla alla leva, come fa l’autore dei Problemi meccanici, sia quando si cerchi di spiegarne il funzionamento in altro modo. Tale stato di cose risulta particolarmente evidente nel caso della meccanica antica. Se si prende infatti in considerazione la trattazione di questo strumento all’interno dell’opera più articolata tramandataci dall’antichità, vale a dire la Meccanica di Erone, non si può fare a meno di notare come l’autore sia costretto in qualche modo a separare in due gruppi le macchine, leva, asse nella ruota, sistemi di carrucole da una parte, cuneo e vite dall’altra, e questo ancora prima di introdurre la legge archimedea della leva.
In effetti, nel caso del cuneo, come anche per la vite, è assai complicato individuare i termini da porre in rapporto proporzionale, per cui ci si accontentò di stabilire delle connessioni tra la maggiore o minore acutezza dell’angolo inserito nel corpo da scindere, la quantità della percossa e il tempo impiegato a compiere l’operazione, tralasciando quindi qualsiasi tentativo di determinare, anche approssimativamente, il valore del peso da spostare. D’altra parte, tale compito era tutt’altro che semplice e avrebbe implicato un inizio di studio della resistenza dei materiali difficilmente ipotizzabile per quell’epoca. Stando così le cose non ci si deve perciò meravigliare se nel caso del cuneo non si riuscisse a impostare il problema nella forma canonica del muovere un dato peso con una data potenza. Ci si limitò così ad affermare, che quanto più acuto diventava l’angolo del cuneo, tanto più la forza della percossa risultava diminuita in rapporto a quella sostenuta dal cuneo nella sua interezza (Hero Alexandrinus, Mechanik und Katoptrik, 1900, p. 134).
Tuttavia, Erone non fu certo il primo autore a concentrarsi sulla forza della percossa. È infatti possibile trovare importanti accenni all’argomento già nella trattazione del cuneo inserita nella questione XVII dei Problemi meccanici, dove però essa non è considerata sufficiente per spiegare esaustivamente il modo di operare della macchina. La percossa non gioca qui un ruolo esclusivo, ma pare piuttosto essere concepita come causa amplificante l’azione delle due leve interfulcrate contrapposte formanti il cuneo. Certo non manca nel testo, accanto alla riduzione alla leva, anche un’altra importante constatazione: la capacità di operare del cuneo va messa in rapporto con il colpo inferto, che è in qualche modo responsabile dell’incremento della velocità di spostamento del peso, e questo sulla base del principio che, se si muove qualcosa che è già in movimento, questa si muoverà più velocemente. Si tratta di una spiegazione assai sintetica che però sembrerebbe legare la meraviglia causata dalle operazioni effettuate con il cuneo al fatto che queste sono in definitiva rese possibili tramite la semplice unione di due leve apparentemente invariabili nella loro divisione, e di piccole dimensioni, che però agiscono con tale velocità, grazie alla forza della percossa, che con esse si possono facilmente scindere corpi assai duri. Veniva così operato un implicito collegamento tra resistenza dei materiali e teoria della leva, che però, a causa delle difficoltà di misurazione delle grandezze in gioco, avrebbe reso alquanto ardua la costruzione di un’analisi di tipo quantitativo.
Brevemente toccata in relazione al cuneo, la forza della percossa diventa invece oggetto di un ampio approfondimento nel problema XIX, in cui si ricerca la causa dell’efficacia dell’azione della scure usata per spaccare la legna. Partendo dallo stupore provocato da una semplice costatazione, l’autore si chiedeva:
Perché, se si pone una grande scure sopra un ceppo di legno ed un grosso peso su di essa, la scure non spezza il legno in modo considerevole, ma se si alza la scure, e con essa lo si colpisce, il legno si spacca a metà, anche nel caso che la scure che percuote abbia un peso molto inferiore rispetto ad un peso che sia posto sopra e faccia pressione su di essa? ([Pseudo] Aristotele, Problemi meccanici, cit., p. 95).
La risposta a tale domanda passa naturalmente da una ripresa dell’analisi svolta in precedenza sull’aumento della velocità, ma questa volta la ricerca risulta essere maggiormente indirizzata alla formazione dell’incremento di velocità, che in questo caso è dovuto al peso e all’azione violenta di colui che usa la scure. Considerazioni che però qui vengono sviluppate e articolate senza nessun riferimento alla leva, e che quindi non sono di grande utilità per chiarire ulteriormente il testo della questione XVII.
Per il momento non ci si addentrerà nell’analisi di questa spiegazione, ma preme rilevare come le questioni relative alla forza della percossa tenderanno sempre più a prevalere nell’analisi del funzionamento del cuneo, a scapito naturalmente di ogni tentativo di ridurre anche tale macchina alla teoria della leva.
Come si è visto nei Problemi meccanici, il cuneo era stato concepito come una coppia di leve interfulcrate contrapposte e unite in una loro estremità; l’azione di queste leve però non era semplice da stabilire. Nessun problema si poneva nell’individuare il luogo di applicazione della potenza movente, ma come avveniva poi lo spostamento del peso, vale a dire delle parti del corpo sottoposto alla scissione? E inoltre, potevano considerarsi come veri fulcri i punti in cui il cuneo innestato nel corpo veniva a contatto con la superficie esterna di questo? Le posizioni espresse nell’opera
pseudoaristotelica erano a questo riguardo non prive di problemi. In effetti, nel primo caso l’autore, dopo avere considerate le due leve come unite, sembra poi spiegare la loro azione singolarmente, cosicché ognuna di esse veniva a spostare il peso collocato dalla parte opposta, ossia la faccia-leva destra del cuneo avrebbe dovuto spingere la parte sinistra del corpo, e, viceversa, la faccia-leva sinistra avrebbe dovuto spingere quella destra. Ma, come fece notare già Guidobaldo, ciò non sarebbe potuto avvenire, perché le estremità delle due leve, operando tra di loro in modo contrario, avrebbero di fatto annullato le loro reciproche azioni. Inoltre, si mise in evidenza come fosse chiaro per esperienza «che le parti della materia che sono state scisse, separandosi l’una dall’altra nell’atto stesso della scissione, non vengono minimamente toccate dal vertice del cuneo» (B. Baldi, In mechanica Aristotelis, cit., p. 255).
Se questa era la situazione relativamente alla prima difficoltà esplicativa segnalata in precedenza, non meno problematica era la questione riguardante la fissità del fulcro, dato che con l’avanzare del cuneo all’interno del corpo da scindere esso avrebbe continuato a mutare posizione. Certamente l’enorme ruolo svolto dalla percossa avrebbe potuto fare passare in secondo piano la continua mutazione dei rapporti delle distanze dal fulcro di peso e potenza movente all’interno della leva, ma oltre al movimento lungo la leva vi era anche un moto di divaricazione. Va qui notato che si sarebbe potuto spiegare l’aumento della velocità di spostamento del peso proprio attraverso la variazione della posizione del fulcro causata dall’avanzamento del cuneo nel corpo, avanzamento che, di volta in volta, avrebbe fatto aumentare la distanza fulcro-peso e diminuire quella fulcro-potenza movente; ma è assai difficile derivare una tale interpretazione dal testo pseudoaristotelico.
Troppi erano dunque gli elementi che imponevano l’abbandono della posizione sostenuta nei Problemi meccanici. Le cose sarebbero forse migliorate se si fosse ridotto il cuneo a una leva di seconda specie?
Guidobaldo tentò questa strada, ma dovette ben presto rendersi conto che anch’essa faceva sorgere qualche problema. Posto infatti il cuneo come l’unione di due leve di seconda specie con il fulcro in comune, si poteva più correttamente considerare il peso da muovere come collocato là dove il cuneo veniva a contatto con la superficie esterna del corpo da scindere. Il matematico pesarese riusciva così a risolvere il problema della molteplicità dei movimenti del fulcro presente nel testo pseudoaristotelico, ma era comunque costretto a concedere allo stesso fulcro un moto in avanti lungo la perpendicolare passante per la linea di taglio. Oppure, conservando la fissità del fulcro, era obbligato a immaginare una divaricazione delle due leve che nella realtà non aveva luogo, restando in effetti il cuneo sempre uguale a se stesso.
Accanto a queste soluzioni, Guidobaldo propose però anche una nuova modalità di interpretazione del funzionamento del cuneo attraverso una sua riduzione al piano inclinato. In questo caso il cuneo, penetrando nel corpo da scindere, sarebbe stato equiparabile a un piano inclinato posto su un piano parallelo all’orizzonte che, fatto scivolare sotto un peso impossibilitato a spostarsi lungo la stessa direzione, lo costringeva di fatto a muoversi sopra il detto piano inclinato. Sennonché anche per questa nuova via la questione giungeva poi alla teoria della bilancia e della leva, rischiando tra l’altro di invischiarsi nell’errata soluzione del problema della determinazione della forza necessaria a spostare un peso lungo un piano inclinato proposta da Pappo. Pur citando tale fonte antica il matematico pesarese non si servì di essa nella sua analisi, preferendo piuttosto individuare una relazione tra angolo di elevazione del piano inclinato e angolo di utilizzo di una leva di seconda specie. Ciò gli permetterà di dare una spiegazione di carattere geometrico della maggiore o minore facilità di utilizzo dei cunei, che risulterà così essere inversamente proporzionale all’ampiezza dei rispettivi angoli.
Ma qual era il ruolo della percossa nelle operazioni svolte con il cuneo? Su questo punto Guidobaldo, conforme alla sua impostazione generale, non aveva quasi nulla da dire, e si accontentava di ripetere sbrigativamente quanto già contenuto nei Problemi meccanici. Eppure era proprio questo l’aspetto più misterioso della questione, un aspetto ineludibile per gli autori che affrontavano la teoria delle macchine semplici partendo dallo studio del movimento.
Tornando alla questione XIX dei Problemi meccanici, secondo l’autore di questo testo il colpo vibrato con la scure risultava così efficace perché generato da un moto applicato a un corpo già in movimento. La scure, cadendo liberamente, senza l’intervento dell’utilizzatore, sarebbe già stata in grado di sviluppare un effetto maggiore rispetto a quella appoggiata, e ciò in conseguenza del suo moto naturale, che sembrava in grado di incrementare grandemente la gravità della stessa scure. Se poi a questo aumento si aggiungeva l’azione violenta svolta da colui che vibrava il colpo, allora si sarebbe facilmente potuto comprendere il perché della grande potenza della forza della percossa. Come si vede, la soluzione della questione chiamava direttamente in causa le proprietà del moto di caduta dei gravi, un elemento che rimarrà essenziale per lo studio di questo problema durante tutto il corso del 17° secolo.
La necessità di chiarire il rapporto tra moto di caduta di un corpo e suo peso divenne così una delle prime preoccupazioni per gli autori che si posero a studiare questo tema. Come fece notare uno degli ultimi commentatori del testo pseudoaristotelico, Giovanni de Guevara (m. 1641), volendo qui parlare con rigore, ciò che si incrementa durante il moto di caduta non è propriamente la gravità del corpo, quanto piuttosto un certo ‘impeto’ prodotto dalla stessa gravità del corpo che cade, ‘impeto’ non diverso da quello che viene comunicato al corpo violentemente lanciato (G. de Guevara, In Aristotelis mechanica commentarii, 1627, p. 179). Il concetto di impetus, che tanta fortuna aveva avuto tra i commentatori della Fisica aristotelica nella prima metà del 14° sec., torna qui a essere utile per meglio chiarire la natura del moto uniformemente accelerato e le ragioni dell’efficacia dell’azione della percossa.
Sebbene la connessione tra lo studio del moto dei gravi in caduta e la questione della forza della percossa potesse considerarsi come un dato acquisito nel momento in cui Galilei incominciò ad affrontare tali argomenti, nelle già citate Meccaniche lo scienziato pisano preferì però lasciare da parte ogni riferimento al moto uniformemente accelerato. Forte del principio che nelle macchine la velocità della forza deve essere tante volte superiore alla resistenza del peso quanto il detto peso si trova a essere superiore alla forza a disposizione, lo scienziato pisano non provava alcuna meraviglia se «per lo converso […] quella potenza, che moverà per grande intervallo una picciola resistenza, ne spingerà una cento volte maggiore per la centesima parte di detto intervallo» (G. Galilei, Le opere, 2° vol., cit., p. 189). La resistenza del corpo percosso entrava così nel novero delle grandezze quantificabili, e la velocità del corpo che esercitava la percossa sarebbe potuta diventare l’unità di misura della forza della percossa.
Avendo presenti queste riflessioni, diventano ora più comprensibili sia alcune delle modalità usate da Galilei per affrontare lo studio del moto di caduta dei gravi nella terza giornata dei Discorsi, sia soprattutto l’ampia trattazione dedicata alla percossa provocata da proietti inserita nella quarta giornata della stessa opera. Qui si riaffermava la necessità di prendere in considerazione non solo la velocità del proietto, ma anche la resistenza potenziale di ciò che viene percosso, resistenza che a sua volta dipendeva sia dalla qualità e durezza delle materie coinvolte nell’urto, sia dalla maggiore o minore angolazione di esso rispetto alla direzione perpendicolare.
Riconducendo la forza della percossa all’interno della teoria generale delle macchine, Galilei di fatto confermava ancora una volta l’impossibilità di creare forza tramite gli strumenti meccanici. Per provare definitivamente questa verità bisognava però trovare il modo di misurare la forza della percossa, cosa non semplice che richiedeva la predisposizione di esperimenti assai accurati. Le grandi capacità d’immaginazione e realizzazione di ogni tipo di prova sperimentale sarebbero state come sempre decisive per lo scienziato pisano, ma questa volta, invece di confermare l’assunto teorico, i risultati ottenuti mostrarono una cosa totalmente inaspettata: l’infinità, o per lo meno l’indeterminabilità, della suddetta forza.
Il testo contenente la descrizione degli esperimenti tentati per misurare la forza della percossa vide la luce solo nell’edizione delle opere di Galilei edita a Firenze nel 1718. Probabilmente pensate come ampliamento dei Discorsi, queste pagine, o perlomeno le idee in esse contenute, erano però circolate tra i suoi discepoli e all’interno della cerchia delle persone a lui vicine. Non descriveremo qui nei particolari tali esperimenti, ma ci basterà rilevare i diversi apparati pensati da Galilei per determinare la grandezza ricercata: una bilancia avente a un’estremità un peso e all’altra due secchi posti verticalmente uno sopra l’altro alla distanza di circa due braccia, con il secchio superiore pieno d’acqua e dotato di un foro apribile; una macchina per conficcare i pali nel terreno, chiamata volgarmente berta battipalo; una serie di archi con corde tirate a tensioni crescenti, nel mezzo delle quali si legava un’ulteriore corda della lunghezza di circa un braccio collegata a una palla di piombo.
L’esperimento con gli archi non si trova nel testo sopracitato, ma è descritto da Evangelista Torricelli (1608-1647) nella terza delle sue Lezioni accademiche (1715), dove si riportava anche una nuova formulazione dell’esperienza della berta battipalo che veniva esemplificata tramite un martello fatto cadere su una palla di piombo. I risultati ottenuti con questi esperimenti portavano comunque alle medesime conclusioni, e mostravano le difficoltà apparentemente insormontabili che sorgono allorché si considerino i ‘momenti’ delle forze nella percossa alla stregua dei ‘momenti’ della gravità nelle macchine (Caverni 1898, p. 127). Si trattava dunque di abbandonare tale impostazione teorica e di affrontare la questione su nuove basi.
Variando il punto di partenza del problema, Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679) nel suo De vi percussionis (1667) passò invece a occuparsi del rapporto esistente tra le forze delle percosse fatte in un corpo del tutto stabile e inamovibile. Definita la percossa come una forza premente del corpo percuotente, che viene acquisita e frenata dal corpo percosso, egli evidenziò come questa non dipendesse dal solo «impeto o grado di velocità» (De vi percussionis liber, 1667, p. 63). Nel corso della sua opera Borelli dimostrò quindi la necessità di prendere in considerazione anche un’altra grandezza, la ‘mole corporea’, ovvero la massa del corpo che esercita la percossa. Questo importante allargamento dell’indagine gli permise poi di quantificare la forza della percossa tramite il prodotto della massa per la velocità, sancendo così di fatto l’impossibilità di ogni misurazione della forza della percossa tentata tramite un confronto di essa con la forza esercitata da un peso immobile, cosa che invece Galilei aveva sempre cercato di fare. Con i risultati espressi nel De vi percussionis si aveva finalmente una soluzione convincente del problema relativo alla forza della percossa posto nella XIX questione dei Problemi meccanici, ma tale soluzione si poneva ora al di fuori della teoria delle macchine semplici in cui si era in precedenza cercato di ricondurla.
La leva angolare e la resistenza dei materiali
Tutti i vari tentativi di riduzione del cuneo alla teoria della leva si erano di fatto concentrati su due aspetti della questione: l’individuazione della specie di leva coinvolta in tale strumento e la misurazione della forza della percossa. La determinazione della resistenza da vincere nel corpo sottoposto a scissione non aveva invece attirato l’attenzione degli autori del 16° e 17° sec., forse per l’evidente superiorità della forza della percossa rispetto alla resistenza, che di conseguenza non sembrava avere bisogno di misurazioni precise. D’altra parte, la principale caratteristica del cuneo non era forse rappresentata proprio dalla grandissima velocità di azione delle due leve contrapposte che lo formavano? Una volta posto in questi termini, il problema diventava oggettivamente molto difficile da quantificare e portava, come si è visto, verso valori non calcolabili.
Non mancavano, comunque, all’interno dei Problemi meccanici altri spunti importanti relativi a questo tema, per es. nella questione XIV ove ci si chiede come mai se si rompe un legno con un ginocchio, o con un piede, ciò avviene più facilmente quando lo si afferra più lontano dal ginocchio, o dal piede. La spiegazione viene data utilizzando ancora una volta il principio della maggiore velocità, su un raggio in rotazione, dei punti situati più lontani dal centro, in questo caso identificato con il ginocchio, o con il piede. In altre parole, si spiega come la resistenza del legno viene vinta più facilmente quando la velocità d’azione della forza esercitata con le mani diventa maggiore, e questo avviene ogniqualvolta si aumenta la distanza delle mani dal punto in cui si vuole provocare la rottura.
La velocità della potenza movente parrebbe qui agevolmente quantificabile e le prospettive per lo studio della resistenza dei materiali sembrerebbero ora fondate su basi più promettenti. Ma anche in questo caso ci si trova di fronte a una notevole difficoltà. Come mettere in relazione la velocità con la resistenza? Mancando nella tradizione un qualsiasi tentativo di ridurre il problema proposto alla leva, la cosa non sarebbe stata semplice. L’autore che per primo riuscì a individuare la strada per realizzare questa riduzione fu Bernardino Baldi (1553-1617), e lo strumento teorico che gli permise di raggiungere tale risultato fu la leva angolare. Nelle sue Exercitationes (1621) egli fece vedere come la parte di legno compresa tra la mano e il ginocchio fosse da considerarsi come la distanza tra potenza movente e fulcro, mentre lo ‘spessore’ del legno nel punto di opposizione come quella tra fulcro e resistenza. La possibilità di ridurre la questione della resistenza dei materiali al modello della leva permise immediatamente a Baldi di impostare su nuove basi la riflessione relativa ad alcune pratiche costruttive utilizzate dagli architetti. In una lunga digressione, inserita a commento della questione XVI dell’opera pseudoaristotelica, egli fu infatti in grado d’individuare con grande precisione quali fossero gli elementi necessari alla determinazione del carico statico di una trave, offrendo nel contempo una soddisfacente spiegazione degli accorgimenti utilizzati dai costruttori per rinforzarne la capacità di resistenza, per es. nelle travature dei tetti per mezzo di canteri.
L’importanza di queste ricerche per la storia della meccanica è evidente, ed esse ci mostrano come già prima di Galilei non fossero mancate indagini relative alla resistenza dei materiali. L’immagine del sapere dei ‘pratici’ trasmessa dal testo di Baldi è però notevolmente diversa da quella offerta dallo scienziato pisano. Se per il primo le conoscenze dei tecnici sembrano risultare saldamente fondate su un’esperienza che trova una definitiva fondazione nella teoria, per Galilei invece la ‘nuova scienza’ non può fare a meno di rilevare l’erroneità di alcune convinzioni diffuse nel mondo dei ‘pratici’. È infatti da una critica rivolta ad alcune spiegazioni offerte da un proto dell’Arsenale di Venezia, critica inserita all’inizio della prima giornata dei Discorsi, che parte l’indagine sulla ‘nuova scienza’ dedicata alla resistenza dei corpi solidi. La differente valutazione è conseguenza di un approccio al problema sostanzialmente diverso. Galilei non si accontenta di mostrare le ragioni di alcune pratiche costruttive, ma prende in considerazione un presunto principio generale utilizzato dai ‘pratici’, vale a dire l’impossibilità di mantenere la proporzione delle dimensioni nel passaggio da piccolo a grande, perché «molte invenzioni di machine riescono in piccolo, che in grande poi non sussistono» (G. Galilei, Le opere, 8° vol., cit., p. 50). Questo principio in genere sfociava nella regola di aumentare maggiormente le dimensioni delle parti formanti le strutture più grandi, ottenendo così esattamente l’effetto contrario a quello ricercato, poiché per quanto riguarda la resistenza, come spiegava lo stesso scienziato pisano, tanto più esse saranno grandi, tanto più in proporzione esse saranno deboli. Una verità, quest’ultima, che diviene immediatamente evidente proprio tramite l’applicazione della teoria della leva angolare a una trave conficcata nel muro. Applicazione che Galilei farà nella seconda giornata dei Discorsi, e che sulla base della nuova impostazione della teoria della leva da lui ritrovata, si presenterà ora nei termini della proporzione esistente tra il momento della gravità della suddetta trave e la sua resistenza all’essere spezzata, momento che fu trovato andare «crescendo in duplicata proporzione di quella dell’allungamento» (G. Galilei, Le opere, 8° vol., cit., p. 158).
Opere
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Archimede, Guidiubaldi e marchionibus Montis in duos Archimedis aequeponderantium libros paraphrasis scholiis illustrata, Pesaro 1588.
G. de Guevara, In Aristotelis mechanica commentarii, Roma 1627.
G.A. Borelli, De vi percussionis liber, Bologna 1667.
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Si veda inoltre:
http://www.academia.edu/1229024/Mecanique_et_mathematiques_a_Alexandrie_le_cas_de_Heron (29 agosto 2013).