Dalle materie prime rinnovabili ai prodotti
Durante la prima rivoluzione industriale il lavoro fisico, umano e animale, fu gradualmente sostituito dall’impiego delle macchine, in particolare le macchine a vapore. Questa trasformazione determinò una discontinuità irreversibile nella nostra società, aumentando considerevolmente la capacità dell’uomo di sfruttare le risorse energetiche, anche grazie a un formidabile progresso delle conoscenze scientifiche. Il carbone, inizialmente, consentì di sopperire alle crescenti esigenze di energia. Contemporaneamente, esso veniva impiegato in quantità sempre maggiori per la produzione del ferro dai suoi minerali e per la produzione di gas da utilizzare per l’illuminazione stradale e per le cucine domestiche. Quest’uso cospicuo del carbone determinò l’accumulo di sottoprodotti costituiti da miscele di composti chimici, oggetto di intense attività di ricerca per riuscire a separarli, purificarli e utilizzarli in maniera vantaggiosa. Nacque così l’industria chimica come corollario alle crescenti esigenze energetiche, e in particolare la carbochimica, ovverosia l’industria chimica basata su materie prime derivate dal carbone quali, in primo luogo, l’acetilene e il gas di sintesi (miscele di idrogeno e ossido di carbonio). La carbochimica dominerà incontrastata per più di mezzo secolo.
Successivamente, la scoperta di poter sostituire vantaggiosamente il carbone con il petrolio innescò una seconda e più potente rivoluzione industriale. La fase iniziale della petrolchimica comportava la semplice distillazione con frazionamento del petrolio in diversi tagli destinati ai vari impieghi (tab. 1). In seguito, su ogni singolo taglio, furono operate delle trasformazioni chimiche (cracking, reforming, isomerizzazione, alchilazione ecc.) per modificare opportunamente le strutture molecolari degli idrocarburi costituenti il petrolio, onde adattarle in modo ottimale alle funzioni da svolgere nella fase di impiego. Oggi, indipendentemente dal tipo e dalla composizione del greggio posto in lavorazione, è possibile ottenere una ripartizione di prodotti (benzine, diesel, lubrificanti ecc.) esattamente corrispondente alle esigenze di mercato. Questa enorme flessibilità è una caratteristica essenziale della moderna raffineria del petrolio.
Il petrolio, avendo gradualmente sostituito il carbone in un numero crescente di impieghi, ha determinato a sua volta un considerevole accumulo di sottoprodotti che per trovare proficua utilizzazione necessitano di trasformazione chimica. Molti prodotti, che prima derivavano dal carbone, oggi derivano dal petrolio e la carbochimica ha gradualmente ceduto il passo quasi completamente alla petrolchimica ossia la chimica dei derivati del petrolio. Quest’ultima ha ampliato enormemente il ventaglio di prodotti chimici disponibili commercialmente, che sono diventati oltre 100.000 (quelli che danno origine a produzioni superiori a 1 t/anno sono oltre 30.000). Nei Paesi industrializzati si è conseguentemente generalizzata una diffusione del benessere che invece, per molti Paesi sottosviluppati, è tuttora un miraggio. È importante però sottolineare che solo il 4-5% del consumo di petrolio è destinato a soddisfare le esigenze di produzione di prodotti chimici, essendo il resto destinato alla produzione di energia, combustibili e lubrificanti. I consumi di petrolio sono dell’ordine di diversi miliardi di t/anno, fra l’altro in continua crescita anche a causa della progressiva industrializzazione di Paesi con elevata densità di popolazione come Cina e India.
Anche se negli ultimi anni la disponibilità di gas naturale a basso costo, in alcuni settori ha consentito di alleggerire il fabbisogno di petrolio, il prezzo di questa risorsa tende a salire sempre di più e a manifestare instabilità, dando origine a insicurezza circa la sua reperibilità. Ciò ha posto le premesse per un futuro incerto sempre basato sulle risorse fossili. Il settore dei carburanti risente in modo particolare delle instabilità di mercato ed è causa di tensioni sociali. L’aumento del prezzo del petrolio e le turbolenze che ne derivano nei rapporti fra le nazioni sono un segnale che la domanda sta crescendo in modo sproporzionato rispetto all’offerta. Oltre a questi fattori, l’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera con il conseguente effetto serra, che determinerebbe il surriscaldamento del pianeta e un inquinamento sempre più diffuso e pervasivo originato dai giganteschi consumi di petrolio attuali, stanno orientando molti politici e l’opinione pubblica verso un nuovo modello di sviluppo sostenibile basato sull’impiego di risorse rinnovabili. In particolare, il settore politico spinge verso un maggiore utilizzo di risorse rinnovabili per ridurre la dipendenza della propria nazione dal petrolio, per frenare il deterioramento dell’ambiente e per creare nei Paesi a prevalente carattere rurale nuove opportunità di lavoro per la popolazione. Per uno sviluppo sostenibile è necessario, quindi, affiancare alla risorsa fossile petrolio l’impiego di risorse rinnovabili per la produzione di energia, di combustibili, di prodotti chimici e di materiali. Mentre per la produzione di energia si può ricorrere a diverse fonti primarie (vento, sole, acqua, nucleare ecc.), l’ottenimento di combustibili, prodotti chimici e materiali da fonti rinnovabili non può che far ricorso alle biomasse, provenienti in particolare dal mondo vegetale. Queste risorse, in effetti, sono sempre state impiegate in parallelo al petrolio, al carbone e al gas naturale per produzioni particolari ma molto importanti (carta, cellulosa e suoi derivati, amido, destrina, zucchero, furfurolo, acido lattico, acido levulinico, saponi, detergenti, margarina, oli vegetali e grassi animali). Oggi si guarda però alla risorsa costituita dalle biomasse con maggiore attenzione e con l’intento di utilizzarle nel modo più ampio e razionale possibile. Da qui deriva il concetto di bioraffineria, che richiama le proprietà di estrema flessibilità della raffineria di petrolio. La bioraffineria raggrupperebbe l’insieme di operazioni da compiere sui materiali di origine vegetale (biomasse) per ottenere energia, combustibili, prodotti chimici e materiali (fig. 1). In particolare, lo sviluppo di combustibili liquidi per autotrazione, determinante per giustificare la realizzazione delle bioraffinerie, potrebbe coinvolgere diversi comparti economici, come quello agroindustriale, l’industria delle foreste, il settore dei rifiuti urbani e così via.
Le motivazioni politico-strategiche per la realizzazione delle bioraffinerie consistono soprattutto nel miglioramento della qualità dell’ambiente a livello locale (diminuire lo smog), regionale (ridurre le piogge acide) e globale (attenuare il cambiamento del clima per l’eccesso di CO2 introdotto nell’ambiente); nello smaltimento delle eccedenze agricole; nello sviluppo dell’economia rurale. Le biomasse hanno inoltre il pregio di non introdurre CO2 in eccesso nell’ambiente.
Allo scopo di sviluppare con successo le tecnologie industriali delle bioraffinerie e dei prodotti di derivazione biologica occorre aumentare la produzione di materie prime rinnovabili; realizzare impianti dimostrativi sempre più integrati ed efficienti; incrementare la ricerca interdisciplinare (chimica, biotecnologia, ingegneria) con la finalità di migliorare i processi di conversione rinnovabili; sviluppare, infine, un approccio sistematico alle nuove sintesi e tecnologie di interesse per la bioraffineria.
I principali costituenti delle biomasse
Per biomassa s’intende lo scarto della lavorazione del legno, della carta, delle lavorazioni agricole e zootecniche, delle produzioni industriali e dei rifiuti urbani. La biomassa industriale, come il petrolio, ha una composizione complessa, variabile a seconda della fonte: alberi, arbusti, granaglie, paglia, fieno, stoppie, sterpaglie, erba e così via. Possiamo affermare però che le biomasse di origine vegetale sono costituite da prodotti di base abbastanza omogenei per composizione: i carboidrati, la lignina, le proteine, i grassi e, in misura inferiore, altre sostanze come vitamine, essenze aromatiche, coloranti, sapidanti e terpeni. Mediamente, il componente più abbondante (75%) è costituito dai polisaccaridi (zuccheri, amido, cellulosa, emicellulosa), viene poi la lignina (20%), e infine grassi, proteine e altri componenti minori (5%). Ovviamente in alcune parti delle piante si possono concentrare composti particolari, come nel caso dei semi oleaginosi o della barbabietola da zucchero. Nella figura 2 è riportato un esempio particolare di composizione riferita a biomasse ligneo-cellulosiche. Le piante impiegano l’energia solare per combinare CO2 e acqua e produrre carboidrati (CH2O)n e ossigeno (sintesi clorofilliana):
luce
nCO2+nH2O ---→(CH2O)+nO2 [1]
clorofilla
I carboidrati vengono generalmente prodotti in forma polimerica come cellulosa, amido o emicellulosa (polisaccaridi). La maggior parte della biomassa vegetale, abbiamo visto, è costituita da polisaccaridi. Peraltro il legno è stato il primo combustibile utilizzato dall’uomo e ancora oggi costituisce una parte consistente dell’energia utilizzata (circa il 10% nel 2003).
Vediamo ora in maniera più dettagliata la composizione dei più comuni costituenti delle biomasse e i loro possibili impieghi.
Il saccarosio è un disaccaride comunemente chiamato zucchero. Nei Paesi europei viene estratto dalla barbabietola e nel resto del mondo dalla canna da zucchero; si trova anche nella maggior parte dei frutti e dei vegetali. La sua struttura chimica corrisponde a una combinazione di due zuccheri elementari, il glucosio e il fruttosio. Lo zucchero per fermentazione produce etanolo. Attualmente questa è una delle fonti privilegiate per la produzione di bioetanolo.
L’amido è un polisaccaride costituito da unità di glucosio legate tra loro per la maggior parte attraverso legami glucosidici α-1,4. È presente anche un numero non trascurabile di legami glucosidici α-1,6. I legami α, che rendono il polimero amorfo negli animali e negli uomini, sono scissi attraverso specifici sistemi enzimatici per ottenere il glucosio che può essere assimilato. Gli amidi si trovano comunemente nel mondo vegetale (per es., nel mais, riso, grano, nelle patate). Quando sono trattati con acqua calda si separano nei principali costituenti: l’amilosio che è solubile in acqua (10-20% in peso) e l’amilopectina che è insolubile (80-90% in peso). L’amilosio contiene solo legami glucosidici α-1,4, mentre l’amilopectina contiene sia i legami glucosidici α-1,4 che i legami α-1,6 in rapporto approssimativamente di 20 a 1. L’amido può essere facilmente idrolizzato per via enzimatica o in presenza di acidi minerali, dando origine a glucosio che a sua volta può essere trasformato, per fermentazione, in etanolo.
La cellulosa è un polisaccaride lineare con legami β-1,4 glucosidici tra unità di glucosio con la struttura chimica presente nella figura 2. Il grado di polimerizzazione della cellulosa (numero di unità di glucosio) varia a seconda della specie vegetale. Nel legno è circa 10.000 mentre nel cotone si arriva anche a 15.000. I gruppi ossidrilici presenti lungo la catena cellulosica danno luogo a legami a idrogeno intramolecolari e con altre catene fino a formare zone compatte e ordinate (domini cristallini). La cellulosa, contrariamente all’amido, ha una elevata cristallinità (percentuale di cristallinità compresa tra il 50 e il 60%). L’uomo non possiede sistemi enzimatici in grado di rompere i legami β per cui la cellulosa non può essere assimilata come alimento. Molte ricerche sono in atto per estrarre, idrolizzare in modo efficiente la cellulosa e trasformare il prodotto di idrolisi in bioetanolo.
Contrariamente alla cellulosa che è costituita dal solo glucosio, l’emicellulosa è un polimero di cinque zuccheri differenti. Questi sono sia zuccheri a cinque atomi di carbonio (solitamente xilosio e arabinosio) sia zuccheri a sei atomi di carbonio (galattosio, glucosio e mannosio) con la struttura chimica evidenziata nella figura 2. Gli zuccheri più abbondanti sono lo xilosio e l’arabinosio. L’emicellulosa è amorfa a causa della presenza di ramificazioni lungo le catene ed è più facilmente idrolizzabile rispetto alla cellulosa fino ad arrivare ai suoi monomeri. I monomeri sono però inefficaci per la produzione di etanolo e vi è perciò un grande interesse a selezionare o modificare geneticamente dei microrganismi in grado di ottenere etanolo dai diversi zuccheri dell’emicellulosa.
La lignina è un polimero altamente ramificato di monomeri aromatici sostituiti. Le unità monomeriche che costituiscono la lignina sono gli alcoli cumarilico, coniferilico e sinapilico (fig. 2). La lignina dei legni morbidi è costituita principalmente da alcol coniferilico. La lignina del legno duro contiene unità monomeriche di alcol coniferilico e di alcol sinapilico. La lignina dell’erba contiene tutti e tre i monomeri. Da molti anni questo polimero è oggetto di studi per trovarne utili impieghi, poiché costituisce un sottoprodotto importante della produzione della carta. È di per se un ottimo combustibile solido con potere calorifico superiore a quello del legno, ma in prospettiva si può immaginare la lignina come materia prima per produrre gas di sintesi (miscele di ossido di carbonio e idrogeno).
Oli e grassi si trovano sia nel mondo vegetale sia in quello animale: sono sostanze insolubili in acqua formate da esteri della glicerina con acidi grassi (trigliceridi). Essi costituiscono i principali componenti degli oli vegetali (liquidi a temperatura ambiente) e dei grassi animali (solidi a temperatura ambiente). Gli oli si trovano in quantità maggiori in alcuni frutti o semi. Le caratteristiche chimico-fisiche dei diversi oli e dei grassi dipendono dalla composizione della miscela di acidi grassi che naturalmente dipende dall’origine. Si possono avere acidi grassi saturi e insaturi. Gli oli rispetto ai grassi sono caratterizzati dalla presenza di concentrazioni più elevate di acidi grassi insaturi. Nella tabella 2 sono riportate le composizioni degli acidi grassi di alcuni oli vegetali e grassi animali.
Biocarburanti
I biocarburanti sono fattori trainanti nello sviluppo della bioraffineria. I principali sono oggi il bioetanolo e il biodiesel. Il bioetanolo è alcol etilico ricavato dalla fermentazione di amido di mais oppure di zucchero (principalmente zucchero di canna), mentre il biodiesel si ottiene dagli oli vegetali e dai grassi animali per transesterificazione con metanolo. Questi biocarburanti sono detti di prima generazione dal momento che sono stati i primi a essere prodotti su larga scala.
Il bioetanolo da zucchero o da amido
Gli zuccheri possono essere convertiti in etanolo per fermentazione utilizzando un lievito come, per es., il Saccharomyces cerevisiae:
C6O6H12 ---→ 2C2H5OH+2CO2 [2]
Sebbene circa la metà della biomassa venga convertita in CO2, la maggior parte dell’energia degli zuccheri viene conservata dall’etanolo. Il lievito Saccharomyces cerevisiae è in grado di fare fermentare il glucosio, il mannosio, il fruttosio e il galattosio. Fa fermentare anche disaccaridi come, per es., il saccarosio contenuto nella canna da zucchero. Si ottengono in genere rese vicine a quelle teoriche e si producono soltanto piccole quantità di sottoprodotti (glicerina, acido acetico, acido succinico).
Attualmente si usano a livello industriale solo due tipi di biomassa per la produzione di etanolo. La canna da zucchero (soprattutto in Brasile) e il mais (soprattutto negli Stati Uniti).
Il primo stadio nella produzione di etanolo è la conversione della biomassa in zuccheri fermentabili. Nel caso della canna da zucchero, gli zuccheri solubili in acqua sono estratti in acqua ottenendo il succo di canna (30% in peso di zucchero di canna) e, come residuo, una frazione lignocellulosica insolubile (la bagassa di canna da zucchero). La bagassa è bruciata per fornire il calore necessario al processo. Il succo di canna è riscaldato a 105-110 °C per ridurre la contaminazione microbica; si aggiungono poi, come nutrienti, solfato di ammonio e altri sali. La fermentazione è condotta utilizzando una soluzione contenente il 20% di zuccheri, a pH 4-5 e alla temperatura di 30-38 °C. La fermentazione dura tra le 28 e le 40 ore. Le rese in etanolo, rispetto alla canna da zucchero utilizzata, sono comprese tra i 160 e 190 l (per t di canna da zucchero). La miscela è distillata fino al punto di azeotropo (95,5% di etanolo, il resto acqua) e può essere ulteriormente disidratata utilizzando i setacci molecolari.
L’etanolo è prodotto dal mais utilizzando sia processi a secco (dry millings) sia processi a umido (wet millings). La composizione dei chicchi del mais è la seguente: 60-70% di amido, 8-11% di proteine (glutine), 5-7% di olio, 6-7% di emicellulosa, 2-3% di cellulosa, 1% di lignina e 1-2% di ceneri. Il primo stadio negli impianti a secco consiste nella macinazione meccanica per rompere la parete del cereale e rendere disponibile all’idrolisi l’amido contenuto. Il mais macinato viene quindi riscaldato in acqua a 85 °C, con l’aggiunta dell’enzima α-amilasi (enzima che rompe il legami α-glucosidici dell’amido). Si porta quindi il sistema a 105-110 °C per ridurre la carica batterica e per liquefare l’amido. Successivamente si raffredda e si aggiunge altra α-amilasi. Si aggiunge l’enzima glucoamilasi per terminare il processo di idrolisi. L’amilasi agisce sui polimeri di amido idrolizzando i legami 1-4 glucosidici interni dei polisaccaridi contenenti 3 o più legami 1-4; si ottiene una miscela di glucosio e maltosio (dimero del glucosio). L’enzima glucoamilasi idrolizza il maltosio ottenendo così alla fine del processo solo glucosio. Nei processi a umido, l’amido, il glutine e la frazione oleosa sono separati attraverso una serie di macerazioni, macinazioni e stadi di separazione. Vengono ottenuti come prodotti il glutine alimentare (CGM, Corn Gluten Meal) , il glutine per mangimistica (CGF, Corn Gluten Feed), l’olio di mais, l’amido. Quest’ultimo viene quindi trattato con α-amilasi e glucoamilasi come nel caso del processo a secco.
Gli zuccheri ottenuti in entrambi i processi vengono poi fermentati sempre utilizzando lieviti del tipo Saccaromyces cerevisiae, ottenendo una soluzione di etanolo al 10-14% in alcol etilico, che viene poi distillata fino all’azeotropo (95,5%) e ulteriormente disidratata utilizzando i setacci molecolari. La distillazione dell’etanolo ottenuto dai processi a secco fornisce un residuo a elevato contenuto proteico utilizzato in mangimistica: DDGS (Distillers Dried Grains with Solubles) o DDG (Distillers Dried Grains). Le rese in etanolo nei due processi sono equivalenti e più elevate di quelle che si ottengono dalla canna da zucchero (460-490 l per t di mais). Si deve tener conto però che la resa di canna da zucchero per ettaro è decisamente più elevata di quella del mais (73-87 t/ha anno contro 7-8 t/ha anno).
Il bioetanolo viene essenzialmente utilizzato in miscela con la benzina. Le miscele a bassa percentuale di bioetanolo (fino al 10%, E10) possono essere utilizzate dai motori a benzina convenzionali. È possibile, con motori opportunamente modificati, utilizzare etanolo puro anche non anidro (4% di acqua in volume). Utilizzato in forma pura, il bioetanolo evapora con difficoltà alle basse temperature e quindi i veicoli funzionanti con etanolo puro (E100) hanno difficoltà di avviamento nella stagione fredda. Per tale ragione il bioetanolo di solito è miscelato con una piccola percentuale di benzina in modo da migliorarne l’accensione: la E85 (85% di bioetanolo e 15% di benzina) è per questo la miscela più comunemente usata. Uno dei progressi più significativi raggiunti di recente è lo sviluppo di veicoli FFV (Flexible-Fuel Vehicles) che sono in grado di operare con una gamma di miscele di bioetanolo fino alla E85. Un avanzato sistema di controllo individua automaticamente le caratteristiche del combustibile utilizzato e regola il motore di conseguenza.
Il costo di produzione dell’etanolo dipende in larga misura dal prezzo della materia prima. Il costo maggiore del mais rispetto alla canna da zucchero viene parzialmente compensato dalla vendita dei sottoprodotti.
Il biodiesel
Il primo motore diesel, costruito da Rudolf Diesel nell’ultimo decennio del 20° sec., utilizzava come carburante un olio vegetale. Per lunghi periodi tuttavia i motori diesel mostrarono l’insorgere di problemi consistenti, soprattutto nel caso dei motori a iniezione diretta, nell’otturazione degli iniettori, nei depositi carboniosi, nell’indurimento delle guarnizioni, e nell’ispessimento e gelificazione degli oli lubrificanti a causa della contaminazione con oli vegetali. Con la disponibilità di frazioni petrolifere a basso costo che potevano alimentare questo tipo di motore, la tecnologia si è evoluta nell’ottimizzazione dell’uso del carburante di origine fossile. Tuttavia, anche in seguito sono state numerose le sperimentazioni di miscele olio vegetale/petrolio, ottenendo i migliori risultati con miscele contenenti il 20% di olio vegetale; ciò nonostante permangono dei problemi nell’impiego di olio vegetale nei motori. Questi problemi vengono superati utilizzando il biodiesel che consiste in una miscela di esteri alchilici di acidi grassi ottenuti per transesterificazione dei trigliceridi (oli o grassi) con metanolo, secondo la reazione:
O O
ǁ ǁ
CH2OCR′ CH2OH CH3OCR′
O O
ǁ ǁ
CHOCR″+3CH3OH ---→←--- CHOH + CH3OCR″ [3]
O O
ǁ ǁ
CH2CR‴ CH2OH CH3OCR‴
Come sottoprodotto si ricava la glicerina (si ottengono circa 100 kg di glicerina per 1000 kg di biodiesel). Il biodiesel può essere utilizzato al 100% (B100) negli attuali motori diesel operando piccole modifiche, ma in genere viene venduto, in miscela con il diesel, in concentrazioni che variano dal 1 al 20% (B1-B20).
La transesterificazione può essere catalizzata sia dagli acidi sia dalle basi, tuttavia nell’industria si utilizzano essenzialmente i catalizzatori basici poiché questi sono 4000 volte più attivi e causano minori problemi di corrosione. Come catalizzatori basici si utilizzano generalmente idrossidi o alcossidi di sodio o di potassio. La reazione di transesterificazione è una reazione di equilibrio e per spostare la conversione verso rese maggiori del 99% si utilizza un eccesso di alcol. Poiché i trigliceridi hanno una solubilità bassa in metanolo, una buona agitazione della massa di reazione è un fattore molto importante per facilitare il trasferimento di massa tra le due fasi e mantenere perciò elevata la velocità di reazione. L’utilizzo di catalizzatori basici comporta che gli oli e il metanolo da utilizzare debbano essere particolarmente raffinati. Gli oli devono avere un contenuto di acidi grassi liberi inferiore allo 0,5%. Infatti gli acidi grassi liberi reagiscono con il catalizzatore basico formando saponi, secondo la reazione:
R-COOH+NaOH ---→ R-COONa+H2O [4]
La formazione di saponi diminuisce la concentrazione di catalizzatore e inoltre induce notevoli problemi nella fase di separazione della glicerina per la formazione di emulsioni stabili. Anche l’acqua dev’essere in basse concentrazioni in quanto, in presenza di catalizzatori basici, questa può dar luogo alla formazione di acidi grassi liberi per reazione di idrolisi:
R-COOCH3+H2O ---→←--- R-COOH+CH3OH [5]
Nella figura 3 è riportato il diagramma di flusso della produzione di biodiesel. Il primo stadio consiste nella reazione di transesterificazione dell’olio raffinato con metanolo in presenza di un catalizzatore basico a 60 °C e a 1 atm, con un rapporto molare metanolo/olio 6:1 e un’ora di tempo di reazione (t.r.). I prodotti in uscita dal reattore sono in due fasi: una fase ricca in glicerina e una fase ricca in metilesteri. La fase glicerica è costituita da glicerina (circa il 50% in peso), dalla maggior parte del catalizzatore e dai saponi formatisi. Questa fase viene neutralizzata con acidi per allontanare il catalizzatore. Si opera quindi una distillazione per recuperare il metanolo ottenendo glicerina con un grado di purezza dell’85%. La fase esterea che contiene il 2-3% di metanolo, piccole quantità di base e saponi, e una piccola quantità di di- e mono-gliceridi (prodotti della transesterificazione parziale dei trigliceridi), viene anch’essa neutralizzata prima della distillazione del metanolo. Dopo il recupero del metanolo, si effettua un lavaggio con acqua per rimuovere i sali degli acidi grassi formatisi nella reazione di neutralizzazione. Le tracce di acqua residue nel biodiesel sono rimosse per distillazione sottovuoto. Il metanolo proveniente dalla distillazione della fase glicerica ed esterea è distillato per ottenere metanolo anidro da riutilizzare in reazione. La produzione di biodiesel ha avuto finora uno sviluppo esponenziale che verosimilmente proseguirà in futuro (circa 5 Mt/a nel 2006). Oggi la maggior parte del biodiesel è prodotta in Europa (90% della produzione mondiale). I maggiori produttori sono nell’ordine Germania, Francia e Italia. Gli oli più utilizzati derivano dalla colza e dal girasole (in Europa), dalla soia (negli Stati Uniti e in Brasile) e dall’olio di palma (in Asia).
Il costo di produzione del biodiesel è legato soprattutto al costo della materia prima che incide per circa l’80%. Come per l’etanolo da mais, anche per il biodiesel sono in genere necessari incentivi statali per diffonderne l’utilizzo. Nella tabella 3 sono riportate le produttività in olio di alcune colture.
I biocarburanti in concorrenza con il cibo?
L’impiego massiccio dei biocarburanti ha delle controindicazioni di carattere ambientale e sociale. Per valutare correttamente i vantaggi dell’utilizzazione dei biocarburanti è necessaria un’analisi del loro ciclo di vita (life cycle analysis), cioè la valutazione del contenuto energetico di tutti gli input per la coltivazione e la successiva lavorazione della biomassa e il confronto con l’energia fornita dal biocarburante. Da questo punto di vista, per es., il biodiesel è decisamente più vantaggioso del bioetanolo da mais. Una recente valutazione mette in evidenza che l’energia fornita dal bioetanolo da mais è di poco superiore a quella utilizzata per la sua produzione (25%) mentre, da questo punto di vista, il biodiesel (93%) è assolutamente più vantaggioso. Questo si traduce in un maggior beneficio nella riduzione di CO2, rispetto ai carburanti di origine fossile per unità di energia equivalente, nel caso del biodiesel (41%) rispetto al bioetanolo (12%). Inoltre, le coltivazioni di mais richiedono quantità maggiori di fertilizzanti e pesticidi rispetto alla soia utilizzata per la produzione di biodiesel. Un aspetto da non sottovalutare è che attualmente, per la produzione di biocarburanti, si utilizzano materie prime che costituiscono una parte importante dell’alimentazione umana: i cereali e i grassi. Basare un’economia di crescita industriale su materie prime che, con una popolazione mondiale in forte aumento, potrebbero diventare sempre più preziose per l’alimentazione, non rappresenta una soluzione adeguata a uno sviluppo sostenibile.
Ormai da alcuni anni il valore dei prodotti agricoli è influenzato più dal mercato dell’energia che da quello dell’alimentazione o mangimistico. Lester R. Brown, autorevole economista statunitense e fondatore del Worldwatch institute e dell’Earth policy institute, ha dichiarato, a questo proposito, che in passato si potevano distinguere un’economia alimentare e un’economia energetica; ora non possiamo più separarle. Per es., la domanda di mais per cibo e mangimi cresce mediamente dell’1% annuo (proporzionalmente all’aumento della popolazione mondiale), mentre quella per il bioetanolo cresce del 20% annuo. La conseguenza è un’impennata del costo del mais che si riflette anche sui prezzi dei prodotti alimentari. La questione è diventata talmente rilevante che Jean Ziegler (relatore speciale all’ONU sul diritto all’alimentazione) ha chiesto, in occasione dell’assemblea generale di Ginevra nel 2007, una moratoria di cinque anni sulla produzione di biocarburanti, per valutare meglio il loro impatto economico e ambientale e favorire gli investimenti in tecnologie di seconda generazione per risolvere i problemi che stanno emergendo.
Soluzioni alle questioni sopra esposte si possono trovare pianificando la produzione di biocarburanti da materiali di scarto e incentivando la coltivazione di specie a elevata resa che siano in grado di crescere in condizioni ambientali sfavorevoli (climi semiaridi) e che siano resistenti agli agenti patogeni. Attualmente sono allo studio diverse specie vegetali, tra le più promettenti vi è la Jatropha curcas che fornisce semi oleosi con alta resa (tab. 3) ed è in grado di crescere su terreni semiaridi. Per la produzione di biodiesel appare particolarmente interessante lo sviluppo della coltivazione delle microalghe. Vi sono infatti specie con contenuto in olio compreso tra il 30 e il 70% in peso, e che consentono elevate rese per superficie coltivata (tab. 3). La limitazione attuale all’utilizzo delle microalghe è data dal costo elevato della loro coltivazione. La soluzione ai problemi connessi all’utilizzo di materie prime costose e legate all’alimentazione potrebbe venire soprattutto attraverso la messa a punto di tecnologie in grado di utilizzare il composto che costituisce la maggior parte della biomassa: la cellulosa.
Per evitare gli inconvenienti menzionati le biomasse da trattare dovrebbero avere un’origine più umile e meno costosa. Stanno aumentando considerevolmente, per es., i rifiuti solidi urbani di natura organica e il loro riutilizzo rappresenta una risorsa promettente. I residui delle lavorazioni agricole sono una risorsa poco sfruttata che generalmente è parecchio più abbondante del raccolto. Alberi a rapida crescita rappresentano una prospettiva interessante per aumentare il volume di produzione delle biomasse, come anche l’erba per il foraggio, la paglia, il fieno ma sopratutto le erbe infestanti. Le ragioni che spingono verso l’utilizzo di queste biomasse del futuro sono legate alla disponibilità a basso costo delle materie prime e a un vantaggioso comportamento ambientale.
Le prime operazioni che dovranno caratterizzare una bioraffineria, pertanto, sono le separazioni preliminari per isolare sostanze affini fra loro come la cellulosa, l’amido e gli zuccheri (75%); la lignina (20%); i grassi, le proteine e gli altri componenti minori che tutti insieme non superano il 5%. Le sostanze ottenute si possono definire precursori. La capacità di separazione è stata discretamente affinata nel tempo allo scopo di recuperare cellulosa, emicellulosa e lignina dal legno per la produzione della carta, così come si separa bene lo zucchero per alimentazione dalla canna da zucchero e dalla barbabietola, l’amido dai cereali e l’olio da molti semi. Ulteriori e più raffinate separazioni sono però ancora in uno stadio iniziale. Oltre alle operazioni di separazione dei precursori, come carboidrati (amido, destrina, cellulosa ed emicellulosa e zuccheri), lignina, lipidi e proteine, altre operazioni importanti possono essere condotte in una bioraffineria: la gassificazione a gas di sintesi della biomassa, la pirolisi, l’idrolisi enzimatica o acida dei carboidrati a zuccheri e la successiva fermentazione degli zuccheri a etanolo o altri prodotti e reazioni che portano all’ottenimento di una serie di composti (fig. 1). Uno studio dettagliato ha individuato più di 300 composti chimici ottenibili dai precursori menzionati. Un’adeguata selezione ha ridotto a dodici i composti di interesse come potenziali building blocks. Tali composti potrebbero diventare i capostipiti di numerosissimi altri prodotti e materiali. Si tratta di molecole con diversi gruppi funzionali che hanno la prerogativa di poter essere facilmente trasformati in nuove famiglie di molecole utili. I dodici composti selezionati, derivati dagli zuccheri, sono: 1,4 diacidi (come l’acido succinico, fumarico e malico), l’acido 2,5 furandicarbossilico, l’acido 3-idrossipropionico, gli acidi aspartico, glucarico, glutammico, itaconico, levulinico, il 3-idrossibutirrolattone, il glicerolo, il sorbitolo e lo xilitolo. Questo numero di possibili building blocks potrebbe chiaramente aumentare tenendo conto di altri eventuali candidati come gli acidi gluconico, lattico, malonico, propionico, citrico, il furfurolo e così via.
Le bioraffinerie, generalità e classificazioni
Possiamo identificare concettualmente raffinerie di prima, seconda e terza generazione. Le bioraffinerie di prima generazione sono, per es., quelle adibite alla produzione di etanolo per fermentazione come negli esempi visti in precedenza. Nel processo sono utilizzate, come materia prima, granaglie che vengono macinate a secco e producono una specifica quantità di etanolo; come sottoprodotti si ottengono mangime e anidride carbonica. Il processo non ha alcun tipo di flessibilità. Le bioraffinerie di seconda generazione sono più duttili nella produzione e si adattano alle esigenze del mercato: oltre a produrre etanolo sono in grado di fornire, per es., amido, sciroppi di fruttosio, olio di mais, glutine e farina. Le bioraffinerie di terza generazione non sono state ancora realizzate ma dovrebbero essere quelle più somiglianti alle raffinerie di petrolio per complessità e flessibilità. Queste bioraffinerie dovrebbero utilizzare in modo indifferenziato biomasse agricole, forestali o rifiuti organici per produrre energia, combustibili, prodotti chimici e materiali. Nel primo stadio della trasformazione vengono separati i precursori mediante metodi fisici. I precursori vengono poi trattati con metodi chimici o microbiologici e i prodotti ottenuti vengono utilizzati direttamente o ulteriormente convertiti. Si possono identificare, a questo proposito, quattro diversi tipi di bioraffineria ai quali di norma si dedica la ricerca e lo sviluppo.
La lignocellulosic feedstock biorefinery (LCFB) è la bioraffineria che ha le maggiori probabilità di successo e impiega biomasse e materiali di scarto secchi a prevalente composizione lignina-cellulosa. Le materie prime sono: legno, residui della lavorazione della carta, stoppie, paglia, arbusti e così via. I carboidrati sotto forma di cellulosa ed emicellulosa vengono separati dalla lignina con le stesse modalità utilizzate per la produzione della carta. Una parte di questi prodotti meno pregiati (lignina ed emicellulosa) viene utilizzata per produrre calore ed energia così da sopperire ad altre operazioni. Il resto subisce trasformazioni chimiche o biotecnologiche per ottenere combustibili come l’etanolo, prodotti chimici come il furfurale e l’acido levulinico, materiali come il nylon-6 e il nylon 6,6 e così via. L’emicellulosa per idrolisi dà lo xilosio, un pentoso che in ambiente acido si trasforma in furfurale. La cellulosa, invece, sempre per idrolisi dà glucosio che, per fermentazione, produce l’etanolo oppure, cambiando microrganismi, altri composti. Questa operazione, come già accennato, è oggetto di ricerca per rendere più agevole l’idrolisi della cellulosa. A tutt’oggi, è invece insoddisfacente la trasformazione della lignina in prodotti chimici.
Nel caso della whole-crop biorefinery (WCB), le materie prime sono costituite da cereali come mais, segale, frumento, avena e altri. Si separano innanzitutto i chicchi, che rappresentano circa il 10% della massa, dalle stoppie (oltre il 90%). Paglia e stoppie sono materie prime più adatte alla LCFB e potrebbero essere processate altrove. I chicchi vengono macinati e utilizzati direttamente come farina o impiegati per estrarre amido e derivati (amilosio, amilopectine e così via). In alternativa queste sostanze possono subire trasformazioni biotecnologiche per ottenere glucosio e quindi etanolo o trasformazioni chimiche per ottenere destrine, adesivi, addensanti, appretti. Al solito la lignina o buona parte del materiale cellulosico delle stoppie può essere utilizzato nella cogenerazione di calore ed energia per le esigenze energetiche della bioraffineria. Una variante consiste nella lavorazione a umido dei chicchi di grano immaturi per isolarne il germe da cui ricavare l’olio di mais.
Nella green biorefinery (GB) la materia prima è costituita esclusivamente da piante verdi erbacee e da foglie. Si effettua in questo caso un’operazione tecnologicamente molto semplice consistente in un frazionamento per pressione a umido. Si separano così un succo verde concentrato di nutrienti e una torta di materiale fibroso. Dal materiale di scarto si recupera per cogenerazione calore ed energia per impiego interno mentre per fermentazione anaerobica di parte del succo verde si ottiene biogas. Il succo verde contiene proteine, amminoacidi liberi, acidi organici, pigmenti naturali, enzimi, ormoni, altre sostanze organiche e minerali. La torta contiene invece amido, cellulosa, pigmenti, altri composti organici e una minima quantità di lignina. Il succo verde è un ottimo terreno di coltura per favorire la fermentazione di carboidrati ottenendo prodotti come acido lattico, altri acidi organici ed etanolo. Si possono ottenere anche proteine, amminoacidi, enzimi e così via. La torta di materiale fibroso viene invece essiccata, pellettizzata e utilizzata in particolare come combustibile solido o come materia prima per produrre syngas oppure biogas.
Il sistema two platform concepts biorefinery (TPCB) and syngas è concepito per integrare in modo razionale due diverse piattaforme produttive, una rivolta alla produzione di zuccheri e derivati, l’altra alla produzione di gas di sintesi. Tale produzione raccorderebbe l’uso della biomassa alla petrolchimica per la possibilità di ottenere, attraverso il gas di sintesi, idrocarburi necessari per l’autotrazione e la lubrificazione, alcoli superiori, metanolo, ammoniaca e così via. La materia prima per questa bioraffineria consiste in una biomassa di qualsiasi tipo, ma preferibilmente ligneo-cellulosica, contenente circa il 75% di carboidrati costituenti la base per la piattaforma di produzione degli zuccheri, mentre il resto può essere costituito da lignina e componenti minori. La piattaforma produttiva di zuccheri consiste nell’ottenimento per via chimica o fermentativa di zuccheri semplici dai carboidrati a peso molecolare elevato e successiva conversione per fermentazione a etanolo. La piattaforma syngas consiste, invece, nell’operazione di gassificazione a CO+H2 della biomassa grezza con metodi simili a quelli della produzione di gas di sintesi dal carbone o dai residui della lavorazione del petrolio, cioè un trattamento con vapore acqueo a elevata temperatura. Tali operazioni sono schematizzate nella figura 4.
Per compensare l’endotermicità del processo se ne potrebbe realizzare uno autotermico che preveda la combustione parziale in difetto di ossigeno del materiale da trattare. Un trattamento di pirolisi preliminare, infine, può essere spesso conveniente. Le necessità di calore ed energia possono essere recuperate dal materiale di scarto delle due piattaforme. La produzione di gas di sintesi consente alle biomasse di sopperire, come del resto possono fare il carbone e il gas naturale, ai prodotti più importanti di derivazione petrolifera come la benzina, il diesel e gli oli lubrificanti. Con il processo Fischer-Tropsch, infatti, si possono ottenere idrocarburi a diverso peso molecolare. Dal gas di sintesi si può ottenere anche metanolo che è un building block, importante per ottenere benzine, olefine, composti aromatici, etanolo, dimetiletere e così via.
La gassificazione della biomassa consiste in una sequenza di reazioni interconnesse. Se ne hanno di pirolisi, di ossidazioni parziali, di gassificazione con vapore, di water-gas shift e di metanazione (tab. 4). In realtà lo schema è più complicato di quello riportato nella tabella. Si possono infatti individuare tre stadi. Durante il primo si formano acqua, CO2 e composti gassosi ossigenati e una frazione liquida ossigenata. I composti gassosi ossigenati e la frazione liquida contengono le molecole derivate dalla decomposizione della cellulosa e dell’emicellulosa (come, per es., il levoglucosano, l’idrossiacetaldeide) e i metossifenoli derivati dalla lignina. Non si hanno reazioni tra questi prodotti che vengono quindi sottoposti al succesivo stadio della gassificazione. Il secondo stadio, che consiste nelle reazioni di cracking (500 °C) e ossidazione parziale (700-850 °C), dà origine a olefine gassose, aromatici, CO, CO2, H2, H2O e prodotti condensati secondari come i fenoli e gli aromatici a elevato peso molecolare. Con l’aumento della temperatura (850-1000 °C) si ha il terzo stadio della gassificazione che consiste nella ossidazione dei prodotti secondari con ulteriore produzione di CO, CO2, H2, e H2O. Si ottiene così una frazione gassosa a elevato contenuto energetico composta essenzialmente da CO, CO2, H2, e H2O, una frazione liquida ricca in prodotti aromatici, e una frazione solida composta da prodotti carboniosi e da sali inorganici (ceneri). Il gas di sintesi ottenuto può essere utilizzato direttamente come gas combustibile per generare energia elettrica con turbine a gas oppure per produrre, dopo purificazione, numerosi prodotti chimici come metanolo, etanolo, alcoli superiori, ammoniaca, aldeidi, olefine, idrocarburi paraffinici (diesel), benzine e altri.
Particolarmente interessante per la produzione di biocarburanti è l’ottenimento di idrocarburi. Questi vengono ottenuti dal gas di sintesi utilizzando la reazione di Fischer-Tropsch:
CO+H2 ---→ (1/n)CnHn+H2O [6]
che avviene in presenza di catalizzatori (a base di Co, Fe o Ru) a 250-350 °C, sotto pressione, 20-60 atm. Gli idrocarburi lineari ottenuti sono nell’intervallo compreso tra 1 e 50 atomi di carbonio, con una distribuzione dei prodotti che dipende dal tipo di catalizzatore utilizzato. I processi di produzione di idrocarburi da gas di sintesi che utilizzano la reazione di Fischer-Tropsch sono ormai abbastanza consolidati, nel caso di un prodotto ricavato da fonti di origine fossile. Questa tecnologia è stata sviluppata in Germania durante la Seconda guerra mondiale per produrre carburanti dal gas di sintesi ottenuto dal carbone. In Sudafrica, dopo la fine della guerra, la compagnia Sasol ha continuato a migliorare questa tecnologia per produrre, sempre da questa fonte, derivata dal carbone, benzina e diesel. La Shell ha recentemente messo in esercizio impianti che producono idrocarburi liquidi a partire da gas di sintesi ottenuto da gas naturale (metano). Il problema legato all’ottenimento di idrocarburi alifatici da biomassa non è tanto nella materia prima, che ha costi molto ridotti, ma nel suo trasporto agli impianti di gassificazione. Perché ci sia la convenienza economica nella costruzione di impianti di gassificazione di biomassa per la produzione di idrocarburi, questi devono avere dimensioni rilevanti e quindi richiedono quantità considerevoli di biomassa che spesso il territorio nelle vicinanze dell’impianto non è in grado di fornire. Per ovviare all’inconveniente di dover trasportare grandi quantità di biomasse per lunghe distanze è stato proposto di produrre da queste il bio oil, attraverso un processo di pirolisi, e quindi trasportarlo fino all’impianto di produzione. La pirolisi consiste nel portare a elevate temperature (300-700 °C) la biomassa disidratata in assenza di aria. In questo caso si ha rispettivamente: la formazione di una sostanza carboniosa solida, di una miscela liquida (bio oil) e di gas. La distribuzione dei prodotti dipende dalle condizioni di reazione. Particolarmente interessante si è dimostrata la flash pyrolysis o fast pyrolysis che viene condotta sottoponendo la biomassa a elevate temperature (700 °C) per frazioni di secondo (<1 s). Si ottengono prodotti liquidi a elevato contenuto di ossigeno e di acqua che però hanno un contenuto energetico superiore alla biomassa di partenza (20 GJ/m3 contro 1,5 GJ/m3). Questa trasformazione dovrebbe rendere conveniente il trasporto anche per lunghe distanze fino all’impianto di gassificazione. Per valutare le prestazioni di questa tecnologia sono stati costruiti i primi impianti pilota che ne hanno dimostrato la fattibilità.
Il vantaggio della bioraffineria a piattaforme integrate è quello di utilizzare tecnologie che sono già abbastanza note, consolidate e relativamente semplici per ottenere dalle biomasse energia, combustibili e prodotti simili a quelli derivati dal petrolio. Tuttavia, è opportuno precisare che, allo stato attuale, la produzione di syngas dalle biomasse non è ancora economicamente conveniente.
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