Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’irruzione, nel 1789, del popolo come protagonista sulla scena politica è il punto di partenza di una “nuova storia”, ma anche il punto d’arrivo di un percorso durante il quale antiche concezioni sociali e un orgoglio di mestiere si fondono con nuove istanze e nuove paure dettate dalle trasformazioni economiche e sociali che prendono avvio. La società di antico regime fondata su ordine e ceti, definiti da precisi privilegi giuridici e da comportamenti consuetudinari, è infatti minacciata dall’affermazione dell’individualismo economico e sociale che mette in discussione solidarietà e status. Nel contempo l’avanzata, nel pensiero e nelle pratiche, del liberismo e della “mano invisibile del mercato” mette in crisi i vincoli e l’intreccio di doveri e attese che costituiscono l’“economia morale” della società europea tradizionale. Una nuova concezione dello Stato, impegnato nel perseguire idee di ordine ed efficienza, determina una nuova spinta alla costruzione delle strade che modifica i tempi e le modalità degli spostamenti non solo militari, ma anche civili.
“Economia morale”
Londra, XVIII secolo. Una folla disperata, esasperata, affamata e tumultuante assalta un magazzino di grano: è appena arrivata la notizia che il pane subirà un nuovo aumento di prezzo per l’ennesima speculazione. In città è tutto più complicato: non c’è la comunità di villaggio, che incorpora i legami familiari e sociali e produce sostanziali obbligazioni rivendicando a sé e ai suoi corpi sociali il diritto di contrattare soluzioni in situazioni estreme come questa. In città le appartenenze sovente sono lasche, indirizzate al prosciugamento delle tensioni e al loro disciplinamento perché la povertà è un vizio e un pericolo. L’assalto al magazzino pieno di grano sembrerebbe preludere alla furia cieca e volta a distruggere, ad appropriarsi, a demolire: ma, invece, la folla risponde a regole. Ha imparato, dalla comunità come dall’essere corpo sociale, che un magazzino non deve essere distrutto altrimenti non si saprebbe più dove mettere il grano e si morirebbe di fame. C’è un’“economia morale” – dice Edward Palmer Thompson – nel sapere del movimento popolare da poco inurbato: si sa quale è il prezzo del grano perché se ne conosce la fatica di coltivarlo e raccoglierlo; si conoscono le regole che ne fissano il prezzo; è noto che, in carestia, i prezzi dei beni di prima necessità devono rimanere inalterati, nonostante la scarsità, per garantire la sopravvivenza e ricominciare daccapo. La merce, dunque, non viene rubata, né il magazzino distrutto: si lascia in pagamento ciò che è stato fissato dalla tradizione, ossia dagli statuti regi. E, nel richiamarla, la “folla” cristallizza il proprio ruolo politico, solidificandola in obblighi e norme consapevoli vincolati da principi etici: in primo luogo quello di legittimità e fedeltà ai valori comuni condivisi e alla consuetudine, depauperati dei vincoli annonari dai nuovi principi di libertà del prezzo del grano. È storia antica: anche Renzo, nei Promessi sposi , rielabora il sapere dell’economia di sussistenza, secondo il quale “la scarsezza del pane” è “cagionata dagl’incettatori e da’ fornai” e dunque i “magistrati” dovrebbero prendere “provvedimenti” per “far saltar fuori il grano”.
Parigi, maggio 1750. Qua e là scoppiano rivolte perché si sospetta ci siano in città persone che, incaricate da qualche potente, rapiscono i bambini. Qualche anno prima, in seguito all’ondata di vagabondi arrivata in città per la carestia, era stata approvata un’ordinanza di controllo spietato su ogni comportamento considerato pericoloso e, in applicazione di una legge di polizia di inizio Settecento, vengono arrestati anche i ragazzi. La “folla” percepisce e considera i fermi come un rapimento e, nel ribellarsi, insegue e poi bracca in un palazzo un luogotenente. Tuttavia, ci raccontano A. Farge e J. Revel, questi non viene lapidato ma condotto – reclamando giustizia – dal commissario di quartiere, tradizionalmente incaricato di applicare l’ordine. Solo la reazione scomposta e impaurita di quest’ultimo, che viene meno al suo compito e ruolo, provoca la tragedia e lo strazio. Ma la “colpa” non è del movimento popolare, bensì dell’autorità regia che, come Erode, ha tradito sia i propri compiti che il “popolo”, introducendo il controllo di un’autorità esterna alla comunità locale.
In entrambi i casi la comunità, assente o qua e là ormai definitivamente divelta dal “sistema di fabbrica”, non viene rimpianta giacché non viene percepita come appartenente al passato; anzi, continua a produrre regole di comportamento e a individuare i nemici: il mercato, che rompe i tradizionali legami e privilegi in nome di una libertà che è di pochi; la coercizione e i vincoli, subiti e non agiti. In entrambi i casi entra in scena il popolo urbano, affannato e preoccupato ma non inerte, intento a relazionarsi con primi mutamenti prodotti dal nuovo ordine economico che stenta a garantire a tutti sussistenza e lavoro, e che trova la soluzione nel recupero e nell’orgoglioso e “morale” rivendicare un’identità.
Quando, nel 1789, il “popolo” irrompe da protagonista nella scena politica, esso si situa alla fine di un processo di lungo periodo durante cui sono confluite, sia nella stratificazione sociale che nel pensiero politico, sovrapposizioni, rivendicazioni antiche, orgoglio consuetudinario e paura del nuovo che dissolvono – trovando un soggetto che li esprime e rilancia, la borghesia – il vecchio ordine, condensando e sussumendo l’ombra e la paura del cambiamento nella ricerca di un proprio spazio politico per poi cominciare a ridefinirsi. Sin dal Cinquecento, infatti, il “popolo” coincide con il “terzo stato”, ossia la parte produttiva della società, che nel corso delle rivolte e delle rivoluzioni del XVII secolo mostra la propria capacità di progettare e praticare la politica, allontanandosi dall’immagine di unoscoppio violento ed eversivo e rivendicando a sé la sovranità e il diritto di resistenza. Ma, nel corso del Settecento, emerge una distinzione ulteriore che proietta la parte meno ricca in un territorio nuovo: il “quarto stato”.
La più famosa autorappresentazione della società d’ ancien régime, di origine medievale, disegna una divisione di “stati” o “ordini” in oratores, bellatores e laboratores; sostrato ideologico delle forme di rappresentanza politica, espresse da assemblee distinte per ceto, riscontrabili tanto negli Stati monarchici quanto in quelli repubblicani, talora – come nel caso inglese – è invece di tipo binario, giacché oppone i titolari delle giurisdizioni feudali – laici o ecclesiastici che siano – ai rappresentanti di città e terre del regio demanio identificati genericamente come “popolo”: un termine questo che, conservando l’eco dell’organizzazione politica della Repubblica romana, ha avuto larga fortuna nella costruzione dell’identità dei ceti non nobiliari per tutta l’epoca moderna.
Ma mentre sul piano politico-rappresentativo il termine “popolo” (così come quello di “terzo stato” in Francia, ossia coloro che non sono né nel primo, né nel secondo) mantiene dunque un significato preciso, su quello dell’identificazione sociale esso appare indeterminato, quasi spazio intermedio a sua volta tra diversi gruppi sociali: il “popolo”, che mantiene un’autonomia dall’universo aristocratico e – per costrizione o per scelta – non si nobilita, e la “plebe”, talora semanticamente contrapposta a questo con significativo peggiorativo: se il popolo “onorato” è infatti considerato un necessario pilastro dell’ordine sociale, la plebe è vista come il ricettacolo delle passioni più elementari, fonte di insubordinazione e di turbamento della tranquillità collettiva specie quando diventa “folla”.
Il prevalere nella società d’ ancien régime dell’identità ascrittiva per nascita e di una strutturale diseguaglianza giuridica fa sì che anche il popolo, inteso come realtà sociale, si distingua a partire dal privilegio e cioè da quel principio che regola l’inclusione o l’esclusione dalle risorse: al suo interno si può così individuare una società privilegiata, organizzata in corpi collettivi come le associazioni di mestiere, e una società esclusa, formata da marginali talvolta senza fissa dimora e che sovente possiedono soltanto la propria bocca e quella dei propri figli. Ogni area di privilegio è peraltro strutturata attraverso una particolare giurisdizione che procura ai suoi componenti una difesa giuridica, attraverso legislazioni particolari – le privatae leges – e soprattutto offre ai suoi membri un ruolo sociale dotato di un forte senso di appartenenza. Il rapporto tra la società corporata e quella non garantita è apparentemente determinato dal contrasto di interessi che oppone chi ha il lavoro a chi non ce l’ha, almeno stabilmente: il lavoro è, dunque, in primo luogo ciò che permette la partecipazione alla vita sociale. In realtà si osserva un ambiguo rapporto di sfruttamento e di protezione da parte delle arti nei confronti della plebe: le arti, infatti, esercitano una sorta di diritto di rappresentanza rispetto ai poveri e lo usano come potere contrattuale con le autorità, agitando lo spettro della furia della plebe; e, nel situarsi in una zona di contrattazione, riescono a mantenere i privilegi dei propri membri.
Nel corso del Settecento la rappresentanza sociale si colloca dunque, e si autoregola, come uno spazio complesso, funzionale all’organizzazione economica e soggetto a un equilibrio perennemente instabile e manipolato in modo finalistico e prepotente: d’altra parte, la violenza sregolata di chi non ha ma vorrebbe avere e ha con sé la forza dei numeri è uno spettro dotato di fascinazione. E la “plebe” può crescere di numero, si può scivolare, declassandosi ancor più: a volte basta un raccolto andato male, troppi figli, una malattia, una guerra, un’epidemia, la fine di norme o diritti consuetudinari e, per fame, si è costretti a muoversi, a mendicare, a vagabondare in cerca di sopravvivenza allontanandosi dalla comunità; nonostante gli sforzi delle autorità per limitare il pauperismo, questo appare infatti endemico e costringe gli apparati ad approntare soluzioni per scongiurare pericoli e garantire l’ordine perché è davvero pericoloso. Nel corso dei secoli, laddove la solidarietà di residenza o parentale è sfinita, e le capacità di mediazione e soluzione delle élite locali esaurite, intervengono da sempre le organizzazioni caritatevoli e le istituzioni volte, entrambe, non tanto a limitare le condotte antisociali ma – principalmente – a scongiurarle dando pane e assistenza. D’altra parte – e fino agli inizi del XVIII secolo – perdura infatti la consapevolezza che la povertà sia un male necessario e una condizione adatta per sfuggire alle tentazioni della mondanità: sono indispensabili, però, interventi e legislazioni adeguate per salvare i “poveri meritevoli” e “operosi” permettendo loro di mangiare, di essere curati e di istruirsi onde scongiurare comportamenti oziosi o devianti grazie a una costante opera di carità che denota e delinea un atteggiamento culturale complesso verso la povertà.
La contabilità del progresso, tuttavia, non permette una elargizione senza vincoli di ritorno: nel corso del secolo, dunque, cresce l’indignazione morale verso chi è incapace a procacciar da sé i mezzi per una dignitosa sopravvivenza procurando alla collettività uno spreco economico; i poveri vagabondi rinchiusi negli istituti di reclusione, le vedove in quelli di beghinaggio, gli orfani, gli handicappati, le prostitute o i carcerati per reati comuni vengono dunque avviati al lavoro coatto in veri e propri opifici.
Sarà la Costituente francese, con i suoi sconvolgenti principi, a realizzare la fusione tra il sogno di una società senza affamati e il bisogno di uno stato senza pericoli, istituendo, nel 1790, un Comité pour l’extinction de la mendicité che così delibera: “Avendo ogni uomo diritto a sopravvivere, la società deve provvedere al mantenimento di tutti coloro tra i suoi membri che ne fossero privi, e tale soccorrevole assistenza non deve essere considerata atto di assistenza; essa esprime, certamente, l’esigenza di un cuore sensibile e umano, l’augurio di ogni essere pensante; ma è altresì lo stretto, indispensabile dovere di tutti coloro che non siano essi stessi nello stato di miseria; dovere che non deve essere affatto avvilito né col nome, né col carattere dell’elemosina; infine, esso è per la società un debito inviolabile e sacro”.
Mano invisibile e classi pericolose
“La povertà – sostiene Braudel – conduce per mano spesso la protoindustria” e accende, poi, la necessità di contare solo su se stessi per trovare il modo per procacciarsi il pane: prima qua e là, nei lunghi mesi invernali, quando i campi sono fermi e si tesse a domicilio per integrare le entrate; poi, e meno sporadicamente, nella creazione di manifatture istituzionali coatte; ma soprattutto quando le idee di libertà e antivincolistiche producono un attacco ai due cardini della struttura corporata delle arti – il controllo del lavoro e il prezzo amministrato del pane – e bisogna trovare una soluzione per mangiare. Con la fine del controllo sul mercato del lavoro esercitata nei secoli dalle corporazioni, la maggiore concorrenza prodotta determina infatti un impoverimento delle maestranze, mentre il prezzo del pane tende a crescere sulla spinta della liberalizzazione dei mercati e della crescente domanda; infine, l’innovazione tecnologica rende precaria la condizione degli occupati. Ciò dà luogo a una serie di proteste: in tutte le rivolte urbane settecentesche e primo-ottocentesche gli artigiani sono alla testa delle insurrezioni popolari e la loro abitudine alla disciplina gerarchica e alla solidarietà corporata ne rende l’azione particolarmente efficace e temuta.
Nel diffondersi dell’idea che ciascuno possa lavorare liberamente e il prezzo del grano debba oscillare secondo il gioco della domanda e dell’offerta, si innesca infatti un processo che scardina un universo di pratiche e di rapporti sociali consolidati, di soluzioni istituzionali e di beneficenza che li sorvegliavano e custodivano e che, salvo casi eccezionali, trovava al proprio interno un equilibrio. Con la nascita del sistema di fabbrica, con il mercato regolato e controllato dalla “mano invisibile” si apre irreversibilmente, invece, la strada a una modificazione profonda dell’universo popolare e della sua “economia morale”, che viene messa in discussione: non tanto perché il richiamarsi a essa sia “prepolitico” quanto piuttosto perché i legami cui afferisce e riferisce si frantumano e vengono cancellati e le soluzioni tradizionali al pauperismo non sono più sufficienti e vengono anch’esse scardinate: inInghilterra il dibattito che ne segue – cui partecipano filantropi, politici ed economisti – nel 1795 porta al cosiddetto sistema di Speenhamland che prevede forme di sussidio pubblico all’indigenza; ma i teorici del liberismo aboliscono in breve tempo, insieme alle leggi sul controllo del commercio dei grani, anche questa ultima legislazione sociale diancien régime. E la richiesta di un ritorno all’“economia morale” non basta più: nel 1799 un artigiano, Nedd Ludd, distrugge – subito imitato da molti – il telaio colpevole della sua fame, mentre in Francia i sanculotti sono una folla di diseredati guidata dagli artigiani.
Nel sistema di fabbrica e nel lavoro seriale, nell’esperienza rivoluzionaria e nel concetto di cittadinanza fondato sul principio dell’eguaglianza, nella lotta al privilegio aristocratico diventata lotta contro tutte le forme di privilegio, nella consapevolezza dei diversi interessi della borghesia e dei lavoratori c’è però l’addensarsi di un gruppo sociale nuovo e pericoloso, quel “quarto stato”, che parla un linguaggio di classe e trasforma anche le rivolte: non più “sputare in aria” per difendere l’esistente, non più rivendicazione di antichi diritti ma crescita della coscienza di chi è stretto nella morsa tra una remunerazione che non permette neanche di sfamarsi e la minaccia di una disoccupazione irrimediabile.