ZAMBELLI, Damiano
– Nacque da Antoniolo dei Zambelli (Alce, 1991; ove non diversamente indicato, si rimanda al medesimo testo per il regesto documentario) e da madre ignota a una data sconosciuta, che la critica colloca perlopiù verso il 1480. La famiglia era originaria di Endenna, in Val Brembana, ma nelle sue ‘firme’ Zambelli si definì sempre bergamasco.
Nulla si sa di Damiano prima del suo ingresso nel convento domenicano di S. Stefano a Bergamo in qualità di converso, avvenuto forse tra il 1496 e il 1502 (Mascheretti, 2017-2018, p. 232). Si formò quindi all’arte della tarsia lignea; secondo Marcantonio Michiel, l’apprendistato ebbe luogo «in Venezia» presso l’olivetano fra Sebastiano da Rovigno (Michiel, 1521-1543 circa, 1896, p. 66).
La notizia ha sollevato alcuni dubbi, poiché la traiettoria stilistica di fra Damiano è più vicina alla linea ‘pittorica’ della tarsia lombarda che alla tradizione olivetana di fra Sebastiano e del suo più celebre allievo fra Giovanni da Verona (Ferretti, 1982, p. 555, poi rivisto da Id., 2013, p. 303 nota 23). La testimonianza di Michiel non è insomma sufficiente a spiegare la cultura figurativa del converso (sulla formazione veneziana cfr. da ultimo Mascheretti, 2017-2018, pp. 236-241).
Il primo lavoro noto di Zambelli sono i «banchi» della «capella maggiore» di S. Stefano a Bergamo (Michiel, 1521-1543 circa, 1896, p. 66).
Dopo la distruzione della chiesa, trentuno tarsie vennero reimpiegate nel coro seicentesco dei Ss. Bartolomeo e Stefano. Non vi sono certezze circa la collocazione e la funzione originarie dei mobili, che recano gli stemmi di Alessandro Martinengo Colleoni, detentore dei diritti di patronato sulla cappella maggiore di S. Stefano. Assai dibattuta è la cronologia del cantiere, la cui fase principale dovette verosimilmente snodarsi lungo gli anni Dieci del Cinquecento. Secondo Michiel, i cartoni vennero forniti da Bramantino, da Troso de’ Medici, da Bernardino Zenale «et altri», ma non c’è ancora oggi consenso sulla divisione delle mani, in particolare sul ruolo di Bramantino e dell’inafferrabile Troso.
Nel coro bergamasco emerge chiaramente il particolare linguaggio stilistico di fra Damiano, ove le campiture prospettiche, spesso dilatate su più piani, sono stemperate e allentate dalla pezzatura dei legni, colorati in maniera artificiale sì da ottenere una scala cromatica molto ampia, ‘pittorica’; nella medesima direzione (e in rottura con la tradizione quattrocentesca) punta il primato della scena narrativa, vera protagonista della tarsia di Zambelli.
Il 5 giugno 1520 egli s’impegnò a insegnare per tre anni l’arte della tarsia a Giovanni Maria Marendi, il quale abbandonò tuttavia la sua guida dopo nove mesi. Il 4 marzo 1521 prese con sé Giovan Francesco Capoferri per un anno; si trattò verosimilmente di un perfezionamento più che di un apprendistato. A Bergamo conobbe inoltre Lorenzo Lotto, con il quale i rapporti furono burrascosi: il pittore gli preferì infatti Capoferri per la collaborazione agli stalli intarsiati di S. Maria Maggiore e lamentò poi in una lettera del 18 luglio 1526 «le iniurie havute da l’ignorante et di pocha religione de Cristo frate Damiano» (Cortesi Bosco, 1987, p. 9, n. 6).
Zambelli venne quindi trasferito nel convento di S. Domenico di Bologna, forse sul finire del 1526; il 24 ottobre 1528 vi fu trasfiliato, probabilmente per volontà del priore fra Stefano Foscarari. Emerse subito l’ambizioso disegno di affidargli la creazione di un nuovo coro per i frati: due sedili vennero immediatamente approntati a mo’ di prototipo, ma il cantiere decollò solo molto più tardi.
La centralità della città felsinea permise a fra Damiano di raggiungere un pubblico socialmente e culturalmente raffinato, per esempio in occasione dell’incoronazione di Carlo V (1530); in parallelo crebbe la sua fama, anche al di là delle Alpi, come attestano le fonti cinquecentesche. Poté inoltre intessere rapporti con uomini di lettere quali il frate domenicano Leandro Alberti o Sabba da Castiglione. Quest’ultimo gli commissionò varie opere: il piano di tavolo oggi alla Pinacoteca comunale di Faenza (un tempo recante la data 1543; G.M. Valgimigli, Frate Sabba da Castiglione..., Faenza 1870, p. 12 nota 1), l’elsa intagliata di una perduta daghetta e due ‘quadri’ (v. oltre).
Nel 1528 circa Foscarari incaricò Zambelli di eseguire un dossale intarsiato e intagliato per il presbiterio di S. Domenico, sicuramente completato nel 1530.
Per le intelaiature architettoniche delle scene narrative, Zambelli riutilizzò parte dei cartoni bergamaschi; si è speculato, ma senza fornire confronti serrati, su un ipotetico coinvolgimento di Sebastiano Serlio nel progetto grafico. Lo stile tradisce invece con certezza l’intervento di Girolamo Marchesi da Cotignola per i disegni di alcune figure.
La reputazione di fra Damiano era già ben assestata, come testimoniano due incarichi che valicano le mura bolognesi: nell’agosto e nuovamente sul finire del 1530 fu chiamato verosimilmente a esaminare delle tarsie prodotte per la cattedrale di Genova, mentre tra il 27 aprile e il 2 maggio 1531 è attestato a Parma per stimare gli stalli del coro di S. Giovanni Evangelista, lasciati interrotti da Marcantonio Zucchi (Alce, 1993).
Tra il dicembre del 1530 e l’aprile del 1535 fu nuovamente impegnato per S. Domenico a Bologna, ove eseguì la spalliera intarsiata della cappella del fondatore dell’Ordine.
L’arredo venne smontato durante il riallestimento della cappella; nel 1662-63 sedici dei diciotto pannelli originari furono reimpiegati come sportelli di due armadi della sagrestia, ove oggi si trovano. I documenti precisano che i cartoni furono commissionati da fra Leandro Alberti, probabile responsabile del complesso programma iconografico. L’identità degli artisti coinvolti resta molto problematica: oltre a un poco plausibile intervento di Vignola, si è proposto di assegnare a Baldassarre Peruzzi certe invenzioni architettonicamente aggiornate, e di cercare i modelli di alcune figure nell’ambito di Girolamo da Treviso il Giovane.
Nell’aprile del 1534 il convento bolognese, condannando le ingenti spese generate dai lavori di tarsia e riaffermando un ideale di povertà, decretò di non assegnare nuovi incarichi a Zambelli e lasciò così il terreno libero ad altri impegni. Nello stesso anno fra Damiano creò, su un cartone attribuito correttamente a Vignola sulla scorta di un passo vasariano (Goldsmith Phillips, 1941), un ‘quadro’ di tarsia, firmato e datato, con il Ritrovamento di Mosè per Francesco Guicciardini, allora governatore di Bologna (New York, The Metropolitan Museum of Art).
La natura stessa dell’opera è ulteriore testimonianza della gravitazione della tarsia attorno alla pittura. È ancora difficile stabilire con precisione in quale momento Zambelli avviò la produzione di ‘quadri’ intarsiati, concepita per committenti di alto rango: nel 1536 donò a Paolo III una tavola (o un’«ancona»: Alberti, 1550, 2004, p. 295) con la Conversione di Saulo, perduta; come riporta Giorgio Vasari, Francesco Salviati fornì a Zambelli – verosimilmente verso il 1538 – il cartone per un pannello intarsiato con l’Unzione di David destinato al cardinale Giovanni Salviati, non rintracciato (per due copie del modello, cfr. M. Hirst, in Francesco Salviati (1510-1563) o la Bella Maniera, catal., Roma-Parigi, a cura di C. Monbeig Goguel, Milano 1998, p. 102, n. 11); fra Sabba possedeva inoltre nel proprio studiolo di Faenza «due quadri di due teste, una di santo Paolo e l’altra di santo Giovanni Battista, di mano del mio reverendissimo padre frate Damiano da Bergamo, opere [...] eccellentissime» (da Castiglione, 1546, 1977, p. 2930), dispersi; infine, monsignor Gabriele Lalatta attestava nel 1547 di aver ornato la propria residenza parmense «cum duobus pulcherrimis et pretiosissimis quadris ligneis fabricatis in morem minutissimae tarsiae» da fra Damiano, raffiguranti la Testa di s. Giovanni Battista e l’Incredulità di s. Tommaso (M. Gualandi, Memorie originali italiane risguardanti le belle arti, VI, Bologna 1845, pp. 44 s.).
Sono conservati alcuni ‘quadri’ prodotti da Zambelli o dai collaboratori, testimonianze materiali della fortuna del coro di S. Domenico a Bologna, di cui replicano alcuni cartoni: l’Orazione nell’orto della Pinacoteca di Forlì (Ferretti, 1982, p. 557 nota 6), la Flagellazione già in collezione Nella Longari a Milano (Trionfi Honorati, 2000), o ancora le due Crocifissioni del Museo Davia Bargellini di Bologna e della galleria Longari.
Zambelli eseguì quindi quattro tarsie per la porta del coro di S. Pietro a Perugia, due delle quali recano la data 1536; il lavoro fu saldato il 19 giugno 1537. Con il complesso benedettino egli aveva rapporti almeno dall’ottobre del 1533, quando vi si recò assieme al fratello Stefano, incaricato dell’esecuzione del coro.
Tra il 1537 e il 1538 il convento domenicano di Bologna revocò la decisione presa nel 1534 e chiese a Zambelli di terminare il leggio e di concepire la porta del coro, quest’ultima datata 1538.
Il 12 aprile 1540 Francesco di Lorenzo Zambelli venne incaricato dell’esecuzione del coro della cattedrale di Genova; fra Damiano promise di realizzare i pannelli delle cattedre dell’arcivescovo e del doge. Entro il 1541 riaprì finalmente i lavori del coro di S. Domenico a Bologna, promossi dal priore Foscarari e in parte finanziati dal governo di Bologna. Si trattò di un cantiere monumentale, al quale attese con numerosi collaboratori, tra i quali il fratello Stefano, fra Antonio da Lucca e fra Bernardino da Bologna; questi completarono le opere di tarsia nel 1551, due anni dopo la morte di fra Damiano.
Il coro si trova tuttora in loco, sebbene rimontato dietro all’altarr maggiore. Zambelli riutilizzò anche qui cartoni più antichi, in particolare per i contesti architettonici delle storie. Salviati gli fornì probabilmente i disegni per scene del Nuovo e forse anche del Vecchio Testamento; si sono inoltre ipotizzati, con prudenza, interventi di Prospero Fontana e, in modo problematico, di Vignola.
Fra il 1547 e il 1548 circa fabbricò i pannelli destinati alla cappella della Bâtie d’Urfé (New York, The Metropolitan Museum of Art), su commissione di Claude d’Urfé, ambasciatore del re di Francia al Concilio di Trento.
L’incontro tra i due dovette avvenire a Bologna, ove il Concilio si trasferì nel 1547. La pala d’altare intarsiata, fedele tanto alla traiettoria ‘pittorica’ dell’artista quanto alle funzioni dell’oggetto, raffigura una scena narrativa, L’istituzione dell’Eucaristia; nei pannelli delle pareti, invece, pur reimpiegando cartoni precedenti Zambelli ridusse il primato della storia a vantaggio di aniconiche geometrie, di paesaggi o campi prospettici puri (nature morte, spazi urbani vuoti), atti a sollecitare la meditazione del committente. I cartocci intagliati a bassorilievo del registro inferiore sono di tutt’altra mano, sicuramente francese.
Morì a Bologna il 30 agosto 1549.
Fonti e Bibl.: M. Michiel, Notizia d’opere del disegno (1521-1543 circa), a cura di T. Frimmel, Wien 1896, p. 66; L. Alberti, Historie di Bologna. Libro primo della deca prima, Bologna 1541, pp. [19 s.]; S. da Castiglione, Ricordi..., Bologna 1546, ora in Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, III, Milano-Napoli 1977, pp. 2925 s., 2930; L. Alberti, Descrittione di tutta Italia (1550), ora in G. Petrella, L’officina del geografo, Milano 2004, pp. 284, 294-296; G. Vasari, Le vite (1550 e 1568), a cura di R. Bettarini - P. Barocchi, I, Firenze 1966, p. 157, V, 1984, pp. 517, 570; D. Finocchietti, Della scultura e tarsia in legno dagli antichi tempi ad oggi, Firenze 1873, pp. 105-115; V. Marchese, Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani, II, Bologna 1879, pp. 269-316; J. Goldsmith Phillips, A new Vignola, in Bulletin of the Metropolitan Museum of Art, XXXVI (1941), 5, pp. 116-122; V. Alce, Il coro di San Domenico in Bologna (1969), Bologna 2002; O. Raggio, Vignole, Fra Damiano et Gerolamo Siciolante à la chapelle de la Bastie d’Urfé, in Revue de l’art, 1972, n. 15, pp. 29-52; M. Ferretti, I maestri della prospettiva, in Storia dell’arte italiana, a cura di G. Previtali - F. Zeri, XI, Forme e modelli, Torino 1982, pp. 457-585 (in partic. pp. 554-560); F. Cortesi Bosco, Il coro intarsiato di Lotto e Capoferri per Santa Maria Maggiore in Bergamo. Lettere e documenti, Bergamo 1987, p. 9, n. 6; V. Alce, Fra D. Z. da Bergamo (†1549): regesto dei documenti, in Bergomum, LXXXVI (1991), 3-4, pp. 77-149; Id., Un giudizio arbitrale dell’intarsiatore fra Damiano da Bergamo nell’anno 1531, ibid., LXXXVIII (1993), 3, pp. 39-55; Fra Damiano intarsiatore e l’ordine domenicano a Bergamo, a cura di V. Alce, Bergamo 1995; M. Trionfi Honorati, Una tarsia di Fra Damiano da Bergamo con la “Flagellazione” e la figura di papa Paolo III Farnese, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, XLIII (2000), pp. 639-644; M. Ferretti - A. Colombi Ferretti, Due amici di Fra Sabba: Damiano da Bergamo e Francesco Menzocchi, in Sabba da Castiglione, 1480-1554. Dalle corti rinascimentali alla commenda di Faenza. Atti del Convegno, Faenza... 2000, a cura di A.R. Gentilini, Firenze 2004, pp. 379-436; M. Ferretti, Tarsia e xilografia, Lotto e Capoferri, in Forme del legno. Intagli e tarsie fra Gotico e Rinascimento. Atti del Convegno... 2009, a cura di G. Donati - V.E. Genovese, Pisa 2013, pp. 271-310; L. Mascheretti, Ipotesi sulla formazione veneziana dell’intarsiatore fra D. Z. e alcune considerazioni sui suoi primi anni bergamaschi, in Atti dell’Ateneo di scienze, lettere ed arti di Bergamo, LXXXI (2017-2018), pp. 229-244; Id., Fra D. Z. intarsiatore a Bergamo. “Li banchi de tarsia” per i domenicani di Santo Stefano, in Arte lombarda, 2018, n. 182-183, pp. 20-34; E. Bugini, «...& vous semble estre en un lieu où il n’y a point de sortie...». Le lambris de boiseries d’une chapelle-studiolo, une invention de Claude d’Urfé, in Sacellum mirabile. Nouvelles études sur la chapelle de Claude d’Urfé, a cura di E. Bugini, Rennes 2019, pp. 161-179.